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ARTICOLO n. 32 / 2024

VIVA L’ITALIA ANTIFASCISTA

Fa molto strano parlare di antifascismo, uno dei principi cardine – se non IL principio cardine – della nostra Costituzione, in questo 25 aprile 2024.

Fa strano perché “antifascismo” negli ultimi due anni è diventata una parola-jolly, alle volte insulto, alle volte scomoda, alle volte arma, usata da sempre più persone per indicare qualcosa di quasi anacronistico, una paranoia démodé. 

Quando di scomodo questo termine non dovrebbe avere niente, a meno che non si sia, per l’appunto, fascisti.

L’uso smodato e quasi sempre improprio del termine mi fa comprendere con non poco rammarico che la nostra classe politica ha una fottuta paura del significato della parola “antifascismo”. Sulle prime per me era piuttosto imbarazzante avere degli esponenti di Governo che non solo non la pronunciano mai, ma pensano che antifascismo sia il termine gemello di anticomunismo. Poi ho compreso che questo silenzio sulla nostra purtroppo recente storia – durata un Ventennio, e che è piaciuto moltissimo ai partiti-satellite di questa maggioranza e al presidente del Senato, che ne conserva i cimeli in casa propria – aveva e ha uno scopo ben preciso.

Già, perché se i fenomeni non li nominiamo, questi non esistono. 

E nessuno al Governo ha a quanto pare intenzione di pronunciare quelle dodici lettere che formano il fondamento della nostra costituzione. Perché pronunciarle vorrebbe dire dover dare fin troppe risposte a quesiti – quelli sì – divisivi per la maggioranza e i grandi supporter di Meloni.

Da due anni, davanti ai nostri occhi sta infatti avvenendo quello che potremmo chiamare il teatro dell’assurdo meloniano: pur di non arrendersi all’inevitabilità dell’antifascismo come principio fondativo della nostra Repubblica, gli esponenti di Governo stanno facendo dei numeri di prestigio che Houdini a confronto era un principiante un po’ goffo.

È dai primi mesi di questa legislatura che le domande su talune vicinanze tra Ministri, presidenti, parlamentari con ambienti fascisti e neofascisti affollano i (tele)giornali italiani.

Il primo rappresentante dello Stato – la seconda carica di questo paese – a cui è stato chiesto da alcuni giornalisti di dichiararsi antifascista è Ignazio La Russa.

Complici forse quel saluto romano in Parlamento, il busto del Duce in cucina, i cimeli del colonialismo fascista in Africa, la camicia nera esposta in casa sua, il suo secondo nome dal sapore retrò (Benito) e la vicinanza in gioventù all’MSI, i dubbi su una sua possibile affiliazione – se non più partitica quantomeno di cuore – agli ideali fascisti sono sorti piuttosto spontaneamente. 

Riuscito quasi sempre a tergiversare e a lanciare deliziose e fantasiose supercazzole (tra cui: «siamo tutti eredi del Duce, se intendi eredi di quell’Italia dei nostri padri, nonni e bisnonni» in risposta a Michele Emiliano), non è riuscito a scappare alla redazione di Repubblica, a cui lo scorso aprile ha dichiarato che la nostra Costituzione di riferimenti all’antifascismo non ne fa.

Chissà quale Costituzione ha letto, ma corriamo oltre.

Neanche Lollobrigida è stato particolarmente espansivo nel parlare di antifascismo con i giornali.

Dopo aver travisato Pasolini e aver dichiarato di odiare il “fascismo degli antifascisti”, qualche settimana fa davanti ai cronisti presenti al congresso romano di Fratelli d’Italia ha dichiarato che il concetto di antifascismo non gli piace molto, perché, cito, il concetto di “anti” non lo convincerebbe molto. Preferisce la preposizione propria “per” (per fascismo? Freud lo chiamerebbe un lapsus). Subito dopo ha ricordato con affetto i tempi dell’MSI e ha aggiunto anche che Mussolini andrebbe storicizzato.

Valditara sembrava promettere meglio a parole: nel 2023 aveva perfino pronunciato la parola antifascismo senza aver conati o rash cutanei improvvisi. Poi però si è lanciato in una brutta, violenta, prepotente accusa alla preside Savino che, in una circolare scolastica destinata al suo istituto fiorentino in seguito alle aggressioni da parte dei movimenti studenteschi neofascisti agli studenti del Michelangiolo, aveva difeso proprio i valori dell’antifascismo.

Sangiuliano a gennaio invece ha deciso di rispondere alla domanda di un cronista dell’Ansa, che gli chiedeva se si dichiarasse apertamente antifascista, strappandogli il microfono dalle mani e chiedendogli con brutalità se lui – il cronista – fosse pronto a dichiararsi anticomunista.

Piantedosi si è allineato alla linea di Governo e, alle domande di un’intervista di un paio di mesi fa, ha risposto di essere fermamente antifascista. Così come è anticomunista e antitotalitarista. Insomma, sembra che tra i vari Ministeri sia passata una circolare con la formula standard da usare in caso di emergenza. 

Salvini è un maestro nell’arte dell’escapismo sul tema: per anni – soprattutto nel periodo in cui era appassionato sostenitore e frequentatore di CasaPound – si è sempre dichiarato lontano dall’antifascismo. Solo recentemente, a “Belve”, il programma di Francesca Fagnani, si sarebbe dichiarato antifascista. E subito dopo anticomunista. Per bilanciare, non avesse a venirgli un travaso di bile in studio.

Meloni è come il mostro finale del videogame: farle ammettere di abbracciare i valori antifascisti è difficilissimo. È diventata sempre più scaltra nel rigirare frittate, fingere problemi tecnici, fare finta di nulla davanti alla domanda e passare subito alla successiva.

Ha condannato i nazisti, i lager, il comunismo russo, Mao, ma mai il fascismo. 

A capo del partito – e poi del Governo – che ha raccolto le briciole dell’MSI, con una gioventù in Alleanza Nazionale e una ormai storica dichiarazione del 1996 alla tv francese in onore di Mussolini – “è stato un buon politico, il migliore degli ultimi cinquant’anni” (cit) – Meloni è talmente refrattaria nel voler prendere le distanze dalle proprie radici che qualche giorno fa a Bruxelles, al termine del Consiglio Europeo, alla domanda di un giornalista che le chiedeva se si dichiarasse antifascista non ha risposto, lasciando un silenzio piuttosto eloquente davanti a quei microfoni. 

In questo meraviglioso panorama, che se non fosse preoccupante farebbe anche ridere, il gioco di risemantizzare alcune parole portato avanti dagli esponenti del Governo Meloni sta purtroppo funzionando.

A forza di ripetere che dichiararsi antifascisti sarebbe come dichiararsi anticomunisti – non serve, vero, che vi dica perché in Italia questa frase non solo non abbia senso, ma sia anche un pessimo, ridicolo, puerile artificio retorico? – si è svuotato il termine legato alla liberazione del nostro paese dal regime mussoliniano. 

Continuare a spostare l’attenzione dal tema al suo contorno (la parola, gli altri totalitarismi, la presunta mancanza di complessità, la necessità di apparire sempre come vittime di un complotto della sinistra) sta riuscendo a cancellare la già precaria memoria di un popolo in crisi d’identità.

Unitamente a questa risemantizzazione del termine “antifascismo”, le politiche del Governo Meloni remano nella direzione della censura, ovvero l’alleato più potente di ogni organismo politico con tendenze estremiste.

Prima le nomine Rai, poi l’esodo dalla tv pubblica, poi l’editto – quello “bulgaro” di Berlusconi a confronto fu una passeggiata di salute per la democrazia e il pluralismo di questo paese – con cui sono stati cancellati i palinsesti radio Rai, le voci storiche della televisione di Stato, i programmi scomodi – su tutti quello di Saviano – l’essenza del contraddittorio stesso. Poi la censura del monologo di Nadia Terranova a “Che sarà”, in cui la scrittrice avrebbe voluto parlare delle cariche della polizia a studenti e studentesse durante la manifestazione di Pisa a sostegno del popolo palestinese. Questa censura è passata in sordina rispetto alle altre (sarà perché Terranova è donna? Lancio il dubbio a voi lettori e lettrici, io la mia triste idea la ho già) ma non è meno grave, anzi. Fa ben capire la linea editoriale di Telemeloni. 

Fino ad arrivare alla censura di Scurati, che avrebbe dovuto tenere un monologo a “Che sarà”, il programma condotto da Serena Bortone, e che la dirigenza Rai ha cancellato a poche ore dalla diretta prevista.

Il monologo di Scurati verteva proprio sull’incapacità di questo Governo di prendere le distanze da un passato con il quale il nostro paese non ha mai fatto i conti. 

Il premio Strega, docente universitario, nonché uno dei maggiori conoscitori e studiosi contemporanei del Ventennio fascista, analizzava come l’inedia nel trattare quella parte della nostra storia abbia fomentato movimenti neofascisti e portato a un tentativo di riscrittura del passato.

Incapaci di ripudiare il fascismo, come Costituzione invece prevede, il nostro gruppo dirigente post-fascista (come lo chiama Scurati e a cui io mi accodo con convinzione) sta cercando di confondere le acque di un paese in crisi. Una crisi sociale, economica e culturale che porta facilmente alla nostalgia di un passato che viene – in primis dagli esponenti di questo Governo – troppo spesso glorificato e mai saldamente condannato o quantomeno dipinto per quello che realmente fu: un disastro di morte, distruzione, violenza e carestia che rovinò il nostro paese, portando alla morte di centinaia di migliaia di persone e alla distruzione di una generazione intera. 

Ma questo non è possibile, non è uno scenario contemplabile, perché questo Governo si nutre da sempre del supporto di associazioni, partiti-satellite e movimenti neofascisti.

I resti dell’MSI sono seduti nelle aule del Parlamento, e persone indagate per stragi nere premiate con promozioni (vedasi De Angelis alla comunicazione della Regione Lazio). Casa Pound è stata sorella e alleata di Ministri della Repubblica, Forza Nuova e Casaggì sono i luoghi da cui è partita la militanza del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana: rinnegare il fascismo sarebbe una mossa kamikaze per un organizzazione paragovernativa come questa.

E non solo.

Perché forse queste sono solo tante giustificazioni che mi voglio dare davanti al silenzio e al revisionismo storico portati avanti da questo Governo.

Perché forse la risposta più semplice è anche quella più veritiera e terribile: è infatti impossibile rinnegare il Ventennio per chi è ancora fascista nel 2024.

Alle soglie di questo 25 aprile provo un grosso scontento e una lacerante preoccupazione per quelle che saranno le sorti di questo nostro paese, sempre più vicino al modello ungherese che alle forme virtuose di democrazia.

Mi chiedo cosa direbbe il mio nonno paterno, oggi, vedendo glorificare lo scempio per cui la sua generazione ha dato la vita.

Meloni, Salvini, Valditara, Sangiuliano, Piantedosi e gli altri escapisti di professione non sapranno dire cosa sia davvero l’antifascismo. 

Ma io sì. E come me migliaia, centinaia di migliaia di altre persone, centinaia di altri e altre intellettuali, attiviste e attivisti, giornaliste e giornalisti. 

L’antifascismo fu il movimento più trasversale della nostra storia politica. 

Comunisti, monarchici, cattolici, anarchici, preti, avvocati, contadini, donne, ragazzini, medici, disertori decisero di resistere davanti alla violenza cieca e poco intelligente del fascismo e ci donarono quella che oggi chiamiamo democrazia.

Lo sforzo di un intero paese ci ha regalato con il sangue, e con la Resistenza, lo strumento prezioso che è la nostra Repubblica. Lo stesso strumento con cui questo governo vuole riaffermare ideali e metodologie fasciste.

Ma se Meloni e compari, anziché evitare la storia, l’avessero studiata, saprebbero che nessun popolo davanti all’ingiustizia si fa prendere a lungo per il culo.

E che, di tutte le virtù, quella dell’intelligenza non è tipica dei nostalgici del Ventennio.

Proprio per questo, evidentemente, le voci libere degli intellettuali fanno così paura da meritare la censura.

In questo clima di tensione, un clima in cui si può essere licenziati senza preavviso o censurati per un monologo, sta nascendo per fisiologica risposta un movimento antifascista sempre più eterogeneo e coeso, che ricorda benissimo le radici di questo termine e che non ha mai avuto paura, tantomeno adesso, di urlare a gran voce Viva l’Italia antifascista.

Che questo 25 aprile sia un giorno di festa, di ricordo e di militanza. 

Alla faccia di chi ci vuole insegnare una storia diversa dalla nostra.

ARTICOLO n. 31 / 2024

MI DIMETTO DALLA MIA CLASSE. MA SEI IMPAZZITƏ?

Confini sociali, sessuali, istituzionali e del lavoro

Non si cambia classe sociale come una camicia. Oggi quella camicia è una camicia di forza. Immobilismo, conservazione o declassamento. In questo scenario solo qualcuno si conquista il diritto alla “mobilità sociale”. Cantanti, sportivi o imprenditori, talvolta incarnati nella stessa persona, per esempio. Gli altri sono alle prese con un dilemma: difendere o perdere quel poco, o molto, che i genitori hanno conquistato nell’epoca d’oro degli anni ’60-’70-’80, definiti “gli anni gloriosi”. Il Novecento è una questione di eredità. Patrimoniale. Per i migranti, tranne qualcuno compreso nelle categorie sopra menzionate, nemmeno quella.

Se c’è un discorso sulla questione sociale oggi è quello della promessa tradita dell’“ascensore sociale”, e in particolare delle classi medie “basse” o povere. Al tempo della pretesa “fine delle classi sociali”, quella “media” è ancora legittimata a parlare, anche perché sui suoi valori è costruita buona parte della comunicazione massmediale. Il terrore di tornare indietro, verso mondi arcaici senza nome – da cui i nonni e i padri di quelle classi provenivano – toglie il fiato e aumenta la paura. Anche perché una società come questa non ha pietà per i “falliti”. Chi invece non ha nulla, tranne le catene, è contemplato solo come minaccia, oppure è compatito come “escluso” o “povero”.

L’ascensorista

C’è stata un’epoca che ha atteso un Messia. Quella attuale attende inutilmente il tecnico degli ascensori. L’ascensorista è una metafora che ha trasformato la società in un condominio dove un ascensore sale e scende. Lui è il protagonista del racconto della mobilità sociale. Occupa il ruolo della mano invisibile del mercato, è la forma secolarizzata della provvidenza, è la metafora dell’assunzione in cielo, dell’investitura carismatica, o della predestinazione.

L’ascensore sociale è sempre stato guasto. E, quando ha funzionato, lo ha fatto grazie alla lotta di classe. La “mobilità sociale” non è una metafora del mercato, ma è l’effetto di un attrito con esso, oltre che della manifestazione di una soggettività irriducibile alla logica dello scambio tra una domanda e un’offerta. Eppure a questo è ridotta, a una lotta di classe malintesa e mascherata. Ci si concentra sull’immagine di una società-piramide, non sul problema di chi ha creato la scala, su chi manda il tecnico quando l’ascensore si blocca o sul potere di chi decide che la ricchezza va in un senso e la povertà nell’altro. 

Nella metafora dell’ascensore sociale è sempre entrata solo un’élite che accede alle posizioni superiori. Può essere ampia quanto si vuole, ma non può evidentemente raccogliere tutta la popolazione. Tutti non entrano nella stessa cabina. A turno potrebbero farlo? Forse anche sì, ma se tutti andassero all’ultimo piano l’intero palazzo crollerebbe. La metafora, pur assurda, ha una logica stringente. 

Sebbene le frontiere si siano allargate, al tempo rimpianto dai più dei “trenta gloriosi”, il sociologo Paul Pasquali ha ipotizzato che l’ascesa sociale abbia escluso almeno un terzo della popolazione con un basso livello di istruzione. Questo è accaduto in Francia. è ragionevole pensare che in un paese come l’Italia che ha conosciuto un notevole cambiamento anche grazie alla scuola e all’università “di massa”, gli esclusi siano stati molti di più. Nonostante una relativa redistribuzione della ricchezza, causata dai tentativi spesso drammatici di allargare la base sociale della democrazia, il potere è rimasto lo stesso, indipendentemente dagli esiti che i singoli vissuti, pur valorosi, hanno avuto.

Il cortocircuito è iniziato con l’inarrestabile riduzione delle possibilità (sociali, professionali, relazionali) della classe media. Non è stato dunque l’accesso mancato ai piani alti dei lavoratori con una scarsa istruzione, ma quello di chi ha lottato ed è stato selezionato per ottenere meriti, capacità e riconoscimenti che non si sono tradotti né in posti di lavoro adeguati, né soprattutto con una sicurezza economica che in passato è stata barattata con la rinuncia a cambiare la gerarchia che stabilisce i poteri.

Annie Ernaux 

Annie Ernaux sarebbe stata un caso esemplare di “ascensione sociale”. Lei, figlia di piccoli commercianti provinciali, è diventata scrittrice di successo in Francia e premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno descritto cosa significa emanciparsi in una società dove i ruoli sono fissati e solo agli individui “meritevoli” è permessa la scalata.

Annie Ernaux, protagonista dei suoi romanzi, ha una storia tutt’altro che individuale. Nel suo racconto che ibrida l’autobiografia, il saggio storico e sociologico, la filosofia e il romanzo emerge un’epopea collettiva. Quella di una lotta di classe in cui una società ha sfidato il razzismo “interno” contro il proletariato e la classe media inferiore, mettendo in crisi la divisione sociale dei ruoli.

Dell’Io, protagonista di molta “autofiction” di oggi, Ernaux fa un uso strategico. Per lei l’Io – forma al tempo stesso maschile e femminile – è uno strumento esplorativo per catturare le sensazioni, guida all’autenticità della ricerca e impegno a rompere la solitudine «delle cose sofferte e sepolte», a «pensare in modo diverso a noi stessi». «Quando l’indicibile viene alla luce, è politico». 

«Per quanto mi riguarda, è vero che non riesco a pensare ad altro che alla scrittura. Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di intervenire nel mondo… Non ho mai voluto che i libri fossero qualcosa di personale per me. Non è perché mi sono successe delle cose che le scrivo, ma perché sono successe, quindi non sono uniche… Quando l’indicibile diventa scrittura, è politica. Certo, le cose le vivi personalmente… Ma non devi scriverle in modo che siano solo per te. Devono essere transpersonali, ecco cosa devono essere» (A. Ernaux, Le Vrai Lieu. Entretiens avec Michelle Porte, 2014).

La scrittura come confessione di classe originaria o elettiva è “transpersonale”, nel senso che si connette con coloro che sono invisibili, non sono in grado di scrivere, ma hanno altri codici con i quali hanno tradotto il loro desiderio di emancipazione. La scrittura parla sia con i laureati all’Ecole Normale Supérieure consacrati professori universitari che con gli operai, i borghesi, gli inquieti e i non classificabili che hanno rifiutato di aderire alle aspettative borghesi o aristocratiche dei loro genitori.

Ernaux ha inoltre insistito sulla duplice espressione: “ho tradito la mia razza”, “ho tradito la mia classe”. L’ambivalenza è dovuta sia a un equivoco epistemico e politico diffuso nel movimento operaio alle cui origini, come ha spiegato anche Michel Foucault in Bisogna difendere la società, la “razza” e la “classe” si sovrapponevano e confliggevano.

Ernaux ha scritto che sessant’anni fa l’espressione “Scriverò per vendicare la mia razza” riecheggiava il grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità“. Aveva 22 anni. Studiava letteratura in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali appartenenti alla borghesia locale. 

La “razza” è quella comune degli oppressi al di là del colore della pelle e delle appartenenze sociali e nazionali. La classe “tradita” è quella di nascita. Il suo tradimento è l’effetto di una rivolta diffusa contro i meccanismi che riproducono la società oppressiva così com’è. 

In un libro come L’evento, storia di un’interruzione di gravidanza, è apparso chiaro che la rivolta contro l’oppressione di classe camminava insieme a quella contro lo Stato che condannava le donne ad abortire illegalmente. La scrittura è uno strumento di liberazione sociale e femminista. Vendicare la “razza” significa vendicare sia la “classe” che “il mio sesso”. Sono “la stessa cosa”.

Didier Eribon

La lotta contro la metaforologia neoliberale basata sull’ascensore sociale è stata alimentata anche dal libro di Didier Eribon Ritorno a Reims. Un libro che ha recepito le istanze maturate da Ernaux e ha contribuito a un ricco dibattito letterario e politico al quale ha partecipato un altro scrittore, Edouard Louis con un romanzo come Il caso Eddy Bellegueule.

All’intersezione tra donna, razza e classe sulla quale ha riflettuto Ernaux, Eribon ha aggiunto un altro aspetto: il rapporto tra l’appartenenza di classe e l’omosessualità. Figlio di una famiglia operaia, dunque di una classe più chiaramente schierata nel conflitto di classe, Eribon ha dovuto difendersi dallo stigma omofobo nel suo ambiente di provenienza.

«Per me – ha scritto – fu capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p.91).

Lo studio fu un modo per liberarsi dallo stigma sessuale. Eribon andò a Parigi dove trovò più semplice vivere la sua sessualità. 

«Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sentenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra.  Poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra» (D. Eribon, Ritorno a Reims, pp.196-197).

Per l’emancipazione individuale per realizzare una transizione sociale di successo serve un’“ascesi: un lavoro di sé su di sé. In un doppio senso: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo”.

Ma ciò ancora non bastava. Serviva la sua connessione con la liberazione politica, sociale e sessuale collettiva. Dunque, la coniugazione tra la singolarità e l’universalità nella concretezza dei vissuti collettivi. Nel frattempo qualcosa si era rotto nella politica delle “sinistre”. Quella socialista, dopo il 1983, era diventata sia neoliberale che conservatrice, aveva cioè rinunciato a trasformare il sistema capitalista ed era diventata “neoconservatrice”:

«Voleva rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p. 115). 

Eribon ipotizza che la lotta di classe non sia stata perduta solo dalle trasformazioni produttive del capitale e dall’effettiva tenuta del “blocco conservatore” dopo il maggio ‘68. Fu sabotata dall’interno dai “partiti di sinistra e dai loro intellettuali di partito e di stato che pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati”.

«Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. Fu giustificata la demolizione del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione». 

Il problema di Eribon è comprendere la ragione per cui la classe operaia, a cominciare dalla sua famiglia, ha iniziato a votare l’estrema destra della famiglia Le Pen a cominciare dagli anni Ottanta, proprio in coincidenza della svolta neoliberale della “sinistra”. La diga del partito comunista francese non è servita, è avvenuto uno spostamento. Ad avere contribuito a questo esito sarà stato il razzismo anti-immigrati in quel partito denunciato già all’inizio degli anni Ottanta. Ma, questa è la tesi di Eribon, la trasformazione è stata sia la causa che l’effetto di un cambiamento del “blocco sociale” che ha unito 

«Ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra. Entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente» (pp. 47 e 117).

L’impotenza creata dalla crisi, e dall’incapacità delle sinistre di assemblare un nuovo blocco sociale che unisse la strategia della liberazione che Ernaux ha preso dai soggetti della rivoluzione del ‘68 a quella della classe operaia, è diventata rabbia. La classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, «ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista». 

Un punto di vista che contrappone il “noi” (francesi) a “loro” (immigrati) e sovrappone la lotta di classe a quella razzista. Ciò non basta a riavviare l’ascensore sociale, ma aggrava la separazione tra i subalterni e gli oppressi. In compenso la lotta per salire in una cabina bloccata è feroce. A quarant’anni dall’inizio del processo è ancora difficile uscire da questa trappola:

«Non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita».

Transfugadisertore, di classe

Un disertore di classe è una persona che ha superato le barriere sociali. Questo passaggio può avvenire in direzione dell’ascesa sociale (Ernaux), ma anche in direzione opposta (Eribon). Il disertore è un individuo che partecipa a un processo di massa, oppure un individuo che perde i contatti con tale processo. Quando accade può trovare una comunità globale di appartenenza – è il caso sia di Eribon che di Ernaux, il primo nell’accademia, la seconda nelle lettere. Ciò non toglie che entrambi continuano ancora oggi a voler uscire dalla loro terra di nessuno. 

L’esito della loro lotta non dipende dalla volontà, dal talento, dal merito di un individuo, né dalla forza impersonale di un sistema, ma da un conflitto che si svolge anche dentro chi vuole uscire dai confini sociali, sessuali, istituzionali, capitalistici e del lavoro. Questo conflitto è generato dall’attraversamento dei confini – tanto sociali quanto spaziali – oppure dalla sua “riterritoralizzazione” all’interno di perimetri già dati che formano nuovi territori, anche immaginari. 

Per spiegare il senso di questa lotta la filosofa spinozista Chantal Jaquet ha coniato il fruttuoso neologismo “transclasse” sul modello della parola “transgender” o “transessuale”. A suo avviso, sia Ernaux che Eribon sono un esempio di questa transizione trasformativa. 

La parola transclasse, adattata dal concetto anglosassone di passaggio di classe [class-passing]Passing è il titolo di un romanzo di Nella Larsen del 1929, indica l’azione di fuggire alla segregazione razziale e sessuale di una donna nera nell’America segregazionista. Tale “transizione” può avvenire in entrambi in sensi della linea del colore: il “nero” può fingere di essere bianco, ma anche il bianco può dire di essere “nero” (è raccontato nel 1961 in Black like me dal giornalista John Howard Griffin). Lo stesso può fare una donna che passa per un uomo, e viceversa.  E ancora un gay che “passa” per un “uomo eterosessuale”. 

La “finzione” si rende necessaria perché i transclasse devono affrontare un’ostilità tale che preferiscono mimare le convenzioni vivendo però quello che sono, cercando di sfuggire alla repressione. Il problema è sentito tra le donne che hanno dovuto affrontare la dominazione maschile nella classe operaia che cercava di emanciparsi, ma anche dagli omosessuali e dalle lesbiche, per non parlare dei trans oggi.

Un’interpretazione riduttiva ritiene che lo scontro sia confinato alle singole identità sessuali che legittimamente lo producono oggi. In realtà, proprio in ragione dell’estensione del concetto di “transclasse”, questi soggetti richiamano una potenzialità che risuona a partire dalla propria condizione individuale. Il processo è irriducibile a quello economicistico indicato dall’“ascensore sociale”. È tortuoso, inquietante e irriducibile a una misura unica. Il “passaggio di classe” non avviene solo rispetto alla gerarchia sociale e produttiva, ma anche rispetto alla posizione rispetto all’identità e alla differenza, la memoria e gli affetti, la sessualità e i poteri. 

A differenza della narrazione sulle “classi popolari” usate come mascotte dell’ordine sociale dominante per alimentare l’ideologia del “capitalista umano”, il “passaggio di classe” è un’attività complessa non limitabile a un’ascesa o a una caduta in una scalata. Parliamo di un duplice lavoro: quello su di sé connesso a uno con gli altri. Tale nesso è considerato marginale o vincolato alla trasformazione dell’ordine economico e politico. Oppure è ostacolato, deriso e considerato “pericoloso”. L’idea di fuga, diserzione o tradimento, per di più talvolta legata a una trasformazione sessuale, aggrava le inquietudini in un tempo in cui si cerca di vincolare l’esistenza a un’idea di un ordine “naturale”. Non esiste nulla di peggio che essere considerati rinnegati in un momento in cui bisogna serrare le fila nella guerra guerreggiata, delle identità e dei commerci.

Jacquet è stata criticata perché l’ha limitata alla sfera individuale, mentre si tratterebbe di pensarla in termini collettivi: una soggettività si trasforma quando è connessa alla società, alle tecnologie, all’ambiente e all’economia. A tale proposito, ne Le tre ecologie lo psicoanalista e filosofo Fèlix Guattari parlava della connessione tra l’ecologia mentale, sociale e ambientale. Più che auspicare il passaggio di un individuo da una classe all’altra già formate, si tratterebbe dunque di realizzare una trasformazione di un mondo diviso in classi. Ma è evidente che un movimento non è separabile dall’altro. È la connessione dell’uno con l’altro che ieri, come oggi, è considerata insidiosa e, per questo, va bloccata. Una simile ipotesi manda in tilt le destre al potere, e sorprende sempre più spesso le “sinistre”. In questa impasse il desiderio di dimettersi dalla propria classe, e dal suo mondo, sembra una supposizione priva di fondamento.

ARTICOLO n. 30 / 2024

OPINIONI DIVERGENTI

Arte e intelligenza artificiale

È da tempo che io e Silvio Lorusso ci leggiamo con reciproca stima e notevole disaccordo in merito alle tecnologie di IA generativa, spesso punzecchiandoci sui social rispetto alle nostre opinioni divergenti. In occasione dell’uscita del mio libro La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella Editore non ho resistito alla tentazione di mandargli una copia, e quando Giacomo Giossi mi ha proposto un dialogo con lui attorno al libro sapevo che ne sarebbe nato un confronto interessante. I critici sono sempre preziosi (almeno finché non dicono palesi sciocchezze o millantano minacce) e sebbene in questo dialogo ci siamo fermati dopo cinque pagine, saremmo potuti andare avanti per altre cento. Ovviamente senza trovare un accordo.

Silvio Lorusso: Non mi dispiacerebbe entrare subito nel vivo affrontando le nostre divergenze, ma forse prima di parlare di ciò è importante esplicitare, quanto più precisamente possibile, il nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale come strumento e come ambito e, di conseguenza, il disequilibrio che c’è tra noi due. Mi spiego meglio. Tu hai pubblicato una graphic novel che fa uso di TTI e un saggio su immagini e Intelligenza Artificiale. Tieni regolarmente – mi sembra – corsi e conferenze su questi strumenti, sei stato di recente incluso in una lista delle “500 italiani e italiane che contano nell’Intelligenza Artificiale” secondo Repubblica. Su Facebook pubblichi quotidianamente post e commenti sul tema, discuti informalmente con gente del calibro di Lev Manovich e Luciano Floridi.

Mentre io, be’, mi limito a pubblicare di tanto in tanto qualche appunto a proposito dell’IA sul mio blog. Questo è quanto. Tuttavia sarei insincero se non dicessi anche che il mio understatement non deriva soltanto da un certo snobismo nei confronti di un’intellighenzia culturale in formazione attorno all’IA, che reputo opportunistica, ma anche dal timore di agire entro una cornice di riferimento passeggera e forse già obsoleta, costituita da tecno-entusiasti da un lato, e conservatori “umanisti” dall’altro. Una cornice peraltro incoraggiata in senso propagandistico dalle aziende che offrono servizi a base di IA.

Dunque ti vorrei chiedere, innanzitutto, se ti rivedi nel ritratto professionale che ho abbozzato, e se provi un simile timore.     

Francesco D’Isa: In realtà anch’io non mi sento a mio agio tra tecno-entusiasti e conservatori “umanisti”, come li definisci, perché non mi ritrovo in nessuno dei due gruppi. Il fatto che uso con entusiasmo (quello sì) le IA generative, che sono critico (anche da prima) verso il copyright e che non credo che siano strumenti poco creativi o addirittura dannosi per la creatività mi situa per molti tra i tecno-entusiasti; ma il fatto che critichi le scelte non open source di molte aziende tech, il loro usare un bene che reputo pubblico come i dati per il training a fine di lucro personale senza restituire nulla alla collettività, le preoccupazioni per le IA militari, quella per la chiusura culturale dei dataset, la mia critica ai filtri che mettono molte aziende ai loro software, la mia opinione sulle AGI… non piacciono a tutti i tech bros. E poi ci sono cose che non piacciono a nessuno, come il fatto che credo che le IA ci mettano davanti alla nostra mediocrità e ai nostri bias e difetti.

Per questo non ho paura di far parte di un milieu in scadenza: sono una persona che si occupa di filosofia e arte da tempo, questi strumenti sono (tra le altre cose) una perfetta congiuntura di interesse tra i due ambiti, sia dal punto di vista pratico che teorico. Sono strumenti che faranno parte anche del nostro futuro, questo penso sia assodato, e tutti coloro che ne hanno parlato, in qualunque modo, troveranno in futuro cose di cui si pentiranno e cose che saranno felici di aver detto, noi due inclusi. Se tacessi per paura o per uno snobismo che non mi appartiene penso che verrei meno al mio ruolo negli ambiti in cui lavoro. È un tema sicuramente molto interessante da esplorare, in fondo cosa dovrei temere? Di dire delle sciocchezze? Ma quello mi capita di continuo! Sarà la formazione filosofica ma non è certo una cosa di cui mi preoccupo, perché non implica che il mio contributo sia inutile o di cattiva qualità. Non è che se una teoria filosofica è sbagliata allora è inutile – anche perché è impossibile trovarne una che sia universalmente considerata “giusta”.

Avevo il timore di mettere tutto questo sotto forma di libro, quello sì, ma come hai visto ho cercato di trattare i temi in modo ampio. E soprattutto, come ha detto Sossella, che ha tanto insistito perché io lo scrivessi, è bene far sentire anche voci diverse e mettere un segno di passaggio in questa fase storica.

SL: Però bisogna ammettere che tra un punto di vista accorto ma errato e una sciocchezza plateale c’è una differenza, altrimenti saremmo tutti Spinoza. Ma il vero discrimine non sta tanto nel dire cose giuste o sbagliate, quanto nello scegliere opportunamente le questioni a cui dedicare tempo ed energia. Prendiamo il problema della creatività. Mi pare così male impostato che non credo valga nemmeno la pena discuterlo. Parlare di danno o supporto alla creatività vuol dire rifugiarsi nel trascendentale: se si può creare qualcosa di nuovo con l’urina o Excel non vedo perché non lo si possa fare con Dall-E. La questione si fa invece interessante quando si considera la creatività non come una qualità del soggetto o una categoria estetica bensì come un programma socio-economico. È quello che hanno fatto autori come Angela McRobbie (Be Creative) o Oli Mould (Against Creativity). Tale prospettiva ci mostra che esprimersi sull’alto o basso tasso di creatività dell’IA o del soggetto che ne fa uso vuol dire rimanere intrappolati nella narrazione offerta da diversi attori economici attivi nel campo dell’Intelligenza Artificiale, i quali alimentano l’immagine del creativo professionista per venderla ai consumatori, come Adobe e Apple prima di loro. È per questa ragione che gli utenti vengono nobilitati ricorrendo a formule come “AI artist” o “prompt engineer”.

Detto ciò, il fatto che le IA ci pongono davanti alla nostra mediocrità effettivamente non piace neanche a me, ma non per il suo contenuto bensì perché si tratta di un’affermazione troppo generica. Ti chiederei dunque di precisare il “noi” in questione.

FD: Be’, allora la mia risposta diventa che non credo di aver detto immense sciocchezze né di dedicare il mio tempo a qualcosa di inutile, altrimenti non lo farei. 

Concordo con quanto dici sulla creatività, l’idea del “creativo professionista” è un’immagine che fa comodo alle aziende, e non parlo solo di AI, ma anche di Adobe per intenderci. Si tratta della nobilitazione di una figura che non coincide con quella dell’artista, o almeno non del tutto. I lavori che sono appaltati al “creativo professionista” sono in genere applicazioni commerciali che non hanno molto a che fare con la produzione artistica e spesso nemmeno creativa in senso stretto. Si tratta di figure parallele o di ruoli che vengono svolti per motivi economici.

Pensa a James Harvey, che negli anni Sessanta era un espressionista astratto che per vivere faceva anche lavori grafici, come il logo “Brillo” finito nell’omonima opera di Warhol – fatto curioso, un’opera che Harvey vide al vernissage di Warhol senza risentimenti di sorta. Le TTI non open source sono tarate verso questo tipo di lavori perché sono quelli più redditizi, e questa calibratura del dataset e a volte della programmazione le rende più complesse da usare a fini artistici. Neanche io amo formule come “AI artist” o “prompt engineer”, perché implicano che chi lavora con IA sia una figura nuova, che è falso. Si tratta di alcuni dei vecchi artisti che a un certo punto usano anche le IA, tutto qua. Solo che sono sommersi dalla massa di amatori che le utilizzano autodefinendosi artisti senza esserlo. Anche qui però niente di nuovo: sono la stessa categoria di quegli illustratori, a volte anche celebri, che affollano comunità amatoriali come DeviantArt, piene di opere assolutamente scolastiche, derivative e di maniera. Non c’è niente di male, e possiamo anche definirli artisti se fa loro piacere, ma nella stragrande maggioranza dei casi non si parla di arte, non di quella che poi verrà storicizzata. È ancora una volta una questione statistica: di quelle migliaia di illustrazioni fantasy, anime e sci-fi che affollano quei siti c’è poco che non sia già visto. Questa è la “nostra mediocrità”: adesso una persona che usa benino le IA può produrre delle immagini che, almeno su schermo, sono di media di qualità superiore all’opera di questi artisti – ma né nel caso delle IA né nel caso dei corrispettivi umani trovo corretto parlare di arte se non in senso lato. Prima che si offenda qualcuno, non intendo dire che fumetto, design o illustrazione non siano arte, tutt’altro, ma che nella sterminata produzione contemporanea lo sia solo una piccola parte. Del resto vale lo stesso anche con l’arte da galleria. Quel che intendevo è questo: noi lavoratori nell’ambito della creatività abbiamo prodotto tonnellate di mediocri immagini commerciali a poco prezzo, nobilitati dal pur misero valore reputazionale che vi si aggiungeva con l’idea che erano opere creative se non addirittura artistiche. Nell’imitare alla perfezione questi triti stilemi – ricordiamoci che le IA sono macchine statistiche – ci viene sbattuto in faccia che in genere non eravamo né artisti né particolarmente creativi, o meglio, magari lo eravamo, ma non per merito di questo tipo di lavori.

SL: Mi interessa molto l’aneddoto su Warhol e Harvey. La mia lettura è la seguente: Harvey non si offende perché sa bene che l’opera in questione non è certo la scatola Brillo in sé (anche perché quelle in mostra sono prima dipinte a mano e poi serigrafate), bensì l’operazione concettuale attraverso cui Warhol “iconizza” la società dei consumi ponendoci di fronte a essa senza fare la morale. Essendo lui stesso un fine artist, Harvey riconosce il confine tra commercial art, il suo logo per Brillo, e fine art, la mossa di Warhol. Il problema sorge nel momento in cui questa mossa si rivela irreplicabile, persino per lo stesso Warhol! È quello che notava un suo grande ammiratore, Jean Baudrillard. Dopo Warhol non c’è che lo “stereotipo”, ovvero il kitsch.

Ora, molti fine artist dell’AI dicono: “Guardate, grazie alla mia particolare sensibilità ho colto questo fiore raro nei recessi del dataset (il cosiddetto “spazio latente”, termine tecnico che loro usano in maniera metafisica), ed è una mia “opera”, parte di una “serie”, da esporre in “galleria”…”

Non si rendono conto, però, che in questo modo stanno scimmiottando Warhol, Duchamp, i surrealisti e addirittura i romantici prima di loro. Franco Vaccari aveva notato qualcosa di simile a proposito della fotografia artistica, dominata dalla retorica dell'”istante decisivo” di Cartier-Bresson, ferraglia romantica per eccellenza, in quanto riconferma il ruolo dell’umano, dunque dell’artista, e in ultima istanza del genio individuale. Quindi, delle due l’una: o ci avvinghiamo al mito del genio romantico ricorrendo alla retorica kitsch dell’artista con la A maiuscola (anch’esso “trito stilema”), o accettiamo che la “mediocrità” di DeviantArt è infinitamente meno mediocre di quella del sedicente fine artist doppiamente derivativo (deriva estetica e retorica) che si presenta come un avventuriero di Midjourney, quando in realtà è un utente come tutti gli altri, e in un certo senso meno di tutti gli altri. Ecco perché bisogna essere snob nei confronti degli artisti e i teorici dell’IA che si sbracciano per storicizzare e farsi storicizzare: proprio per non esserlo nei confronti degli utenti di DeviantArt e Tumblr, molto più postumani, “macchinici” e quindi contemporanei dei primi.

FD: La storia di Warhol la leggo come te, con una divergenza nell’interpretazione finale, che pure in parte condivido. È vero che un Brillo è uguale a una Campbell e un orinatoio di Duchamp a una sua ruota, perché veicolano il medesimo senso, ma non è vero che il gesto sia irripetibile. Perché in fondo tutta l’arte concettuale deriva da questi gesti e al netto dei gusti è difficile non riconoscerne la varietà interna – ovvero i modi in cui questo gesto ha generato altre idee. Secondo me quello che viene evidenziato dal punto di vista filosofico non è tanto quanto sia brillante l’idea duchampiana mutuata (e variata, appunto) da Warhol di creare un’opera d’arte solo in virtù di una scelta, ma di evidenziare come sia proprio la scelta una condizione necessaria e spesso sufficiente per fare l’opera d’arte. Non è un caso che Duchamp fosse anche un attento lettore e conoscesse la filosofia Zen.

Non mi ritrovo invece nello sprezzo con cui descrivi il lavoro degli artisti che usano le AI (come altri rifiuto il termine “AI Artist”, perché sembra che si lavori solo con una tecnologia). Nella mia esperienza – ricordiamoci che lo faccio – è una prassi non meno creativa di quelle che ho sperimentato in passato. Concordo però sul fatto che possiamo tranquillamente cestinare l’idea romantica di artista con la A maiuscola, perché messa in crisi da più di un secolo di arte contemporanea e anche perché filosoficamente insostenibile, dato che ogni oggetto d’arte è frutto di un lavoro collettivo – non solo per via dell’innegabile eredità di altri umani da cui questa in parte deriva, ma anche per le agentività non umane all’opera in essa. Però la creatività umana resta in gioco, anche se non da sola, e non scompare di certo con le IA.

È ovvio che non tutti coloro che usano le IA generative sono artisti, si tratta di una minoranza che in genere lo era anche prima. Ma in molti casi gli usi del mezzo sono ben creativi: non vedo alcun argomento a supporto della tua affermazione che siano a priori doppiamente derivativi. Forse ti appelli al cliché del fatto che “fa tutto il computer” perché sono facili da usare? So che è falso per esperienza, esperienza confermata dalla totalità delle classi cui insegno e ho insegnato qualcosa in merito. Le opzioni di Midjourney si moltiplicano a cadenza mensile, le interfacce open source sono così complesse che alcune stento a capirle dopo mesi di utilizzo, le interazioni tra IA diverse, quelle con tecniche tradizionali, tra TTI e LLM, la fusione di modelli, la sottrazione di modelli, il fine-tuning, le referenze di stile… chi considera semplice questo mondo è solo chi lo ha esplorato superficialmente o non ci ha capito molto. Hanno un entry level largo e un top tier stretto, come la fotografia. O forse ti appelli all’idea che il risultato medio di una IA è, appunto, mediocre? È vero, colpa della loro natura statistica e del dataset (dunque anche “nostra”), ma è un motivo in più per lodare chi riesce a ottenere i risultati più rari. Da un punto di vista statistico inoltre la maggioranza degli usi umani di qualunque strumento è un risultato mediocre, perché gli utilizzi più semplici sono sempre i più comuni e i più noiosi.

SL: Ci sarebbe da dire molto – troppo – sulle continuità e discontinuità tra l’orinatoio e la zuppa Campbell, ma ai fini del nostro dialogo vorrei evidenziare un aspetto: mentre le opere di Duchamp sono ammantate di un senso di stranezza, quelle di Warhol paiono atone, e non solo quando raffigurano Liz Taylor, ma anche quando mostrano un incidente stradale. Se in Duchamp si scorge ancora un soggetto che prova inquietudine, in Warhol resta solo un vago stupore infantile e tautologico di fronte alla cosa. Warhol “supera” Duchamp perché mostra l’autonomia della cosa riprodotta in serie: è come se non ci fosse scelta alcuna, perché egli stesso si fa cosa. In tal senso forse Warhol è più Zen di Duchamp. Ora, l’AI Artist (bada: non una persona in carne e ossa ma un costrutto polemico) fa diversi passi indietro quando circonfonde le immagini che genera della sua sensibilità, chiamandole rare, inquietanti, oniriche. Le usa, insomma, per affermare sé stesso, o meglio, un’idea posticcia di sé stesso. È questo l’argomento a supporto della doppia derivatività: da un lato, deriva di una certa estetica weird, dall’altro, deriva di un’idea in ultima istanza sentimentale dell’artista. E invece è molto più weird l’immagine statistica del gattone “carino e soffice” di Dall-E che includi nel libro.

“Fa tutto il computer”: ma magari! È proprio ciò a cui bisognerebbe puntare per produrre un’arte che sappia rispondere a questi sistemi. Sistemi che come dici tu si sviluppano: si moltiplicano le opzioni, le app, i modelli, ecc. E c’è davvero qualcosa di entusiasmante in questo, ma non manca un aspetto deprimente: la top tier di cui parli somiglia molto ai geek della fotografia che acquistano un nuovo modello di fotocamera ogni sei mesi per rimanere aggiornati. Così ricadiamo nel “creativo professionista” che deriva la sua competenza dall’apprendimento enciclopedico del manuale di qualche azienda privata.                

FD: Concordo con quanto dici su Warhol. Penso invece che l’AI artist che generalizzi non esista, il risultato dipende dalla sensibilità di chi le usa. Ogni artista infatti le usa diversamente, mentre la massa le utilizza in modo più o meno analogo, che sì, oscilla tra kitsch e weird. Però il top tier che identifichi, quello del geek fissatone sulla tecnologia, non è affatto quello a cui penso, per me questa figura è sempre nell’entry level.

Ma ripeto, vale per qualunque strumento; come diceva Baudelaire, pur sbagliando sulla possibilità di farci arte, siamo alluvionati da fotografie orrende. E anche da pittura orrenda, sebbene richieda più tempo e dunque ce ne sia meno. La media umana è mediocre, non penso ci sia nulla di sconvolgente nel dirlo, essendo una tautologia – ma siamo noi la causa, non gli strumenti che usiamo.

La cosa affascinante delle IA generative è che anche la loro media è orrenda, ma comunque superiore alla nostra. Tempo fa Ugo Galassi, con cui condivido un dialogo simile al nostro, mi mandò l’immagine di un volantino di un idraulico con un orrendo gattino generato con Midjourney, segnalandomi il problema del gusto. La mia risposta, su cui poi ci siamo ritrovati, è che prima i volantini degli idraulici erano semplicemente ancora più brutti. Intendo questo quando parlo della nostra mediocrità.

Poi certo, ogni artista ha un ego molto invadente, lo vediamo da come pur copiandoci da millenni restiamo attaccati all’idea di autore. Perdere l’ego per me è una necessità spirituale e nello scenario fantascientifico in cui farà tutto il computer, o comunque ci supererà come con gli scacchi, sarà liberatorio fare arte solo per il piacere di farlo (ancora, come con gli scacchi, che non sono certo morti). Il mio punto di vista non è dunque a difesa dell’ego dell’artista che usa AI, anzi, è contro quello di tutti. L’ego va perso in qualunque prassi creativa – anzi, l’ego non esiste, per dirla con Buddha.

ARTICOLO n. 29 / 2024

I MEMBRI DEL GROUP SHOW SI VOGLIONO BENE

una mostra collettiva

Un ‘group show’ d’arte contemporanea può essere compilativo o tematico o, nell’ormai più raro dei casi, architettato su una tesi. Intorno a noi il metodo compilativo è il più comune, perché i rischi sottesi ad altre impostazioni sono spesso percepiti come pruriginosi. Per esempio, permane nel modus operandi più in auge una certa diffidenza verso il dato e il metodo biografici. Seppur talvolta il biografismo fa maldestro capolino sfruttando l’inesausto amore verso il dettaglio feticista, abile a imbellettare le idee più scarne, nella maggior parte dei casi esso soccombe di fronte alla rispettosa e universalista deontologia degli operatori dell’arte, che mostrano il linguaggio dell’artista senza chiedergli di aprire la bocca e tirar fuori la lingua. Proprio perché ho incontrato qualcosa di diverso da tutto ciò in una mostra collettiva per di più presso una galleria privata, mi è venuta voglia di scriverne. 

Alla base di quel che racconto c’è un regista di teatro che da alcuni anni agisce la propria autorialità anche nell’arte contemporanea, vestendo i panni di riattivatore di storie e curatore editoriale: Fabio Cherstich. Cherstich ha trovato anche per questo suo nuovo progetto (che segue quello dedicato a Larry Stanton) la complicità di APALAZZOGALLERY di Brescia, galleria con sede a Palazzo Cigola Fenaroli nota per patrocinare una cultura più sistematica del concetto di mostra collettiva, tra le altre cose impegnandosi a importare anche opere non “in vendita”. La mostra di cui scrivo si intitola ROBERTO JUAREZ 80’S EAST VILLAGE LARGE WORKS ON PAPER + DOWNTOWN AMIGOS Y AMIGAS ed è composta da una parte monografica dedicata all’artista americano di radici messicane e portoricane Roberto Juarez (1952). A questa si aggiunge un’estensione da group show che coinvolge sette “amici”, artisti che appartengono alla stessa comunità di Juarez fiorita nell’East Village negli anni della pandemia di AIDS.

Ora, una domanda che bisognerebbe sempre porsi quando il fare e il visitare mostre ambisce a costruire un programma culturale: perché uno show di questo tipo ha senso oggi? Prima motivazione: in campo pittorico l’Italia ancora non ha chiuso il verboso debito con la Transavanguardia; proporre una mostra in cui pittura prodotta negli anni Ottanta e di stampo neo-espressionista, com’è quella di Juarez, accoglie ibridazioni con un’estetica queer e istanze da émigré aiuta a ricordare che gestualità, istinto, soggettività, indulgenze di vario stampo non devono per forza corrispondere ad antintellettualismo e mancanza di ribellione politicamente definita. Seconda motivazione: leggere l’artista tramite il suo “gruppo” è un’operazione che in anni recenti è stata poco esplorata, e proprio da qui inizia la mia conversazione con Cherstich.

Sofia Silva: Fabio, gli otto artisti hanno intrattenuto tra loro rapporti di varia natura: amicizia, istruzione, condivisione di luoghi, sofferenza e amore. Tu e APALAZZOGALLERY lavorate molto anche su Larry Stanton,il cui soggetto pittorico è stata la comunità stessa: bellissimi ragazzi incontrati nei bar di Manhattan. Presentare l’artista tramite la comunità o, viceversa, veicolare il gruppo tramite un soggetto protagonista non è scontato di questi tempi, in cui spesso si pensa che isolare equivalga a tutelare e che la presentazione monografica dell’artista sia la più meritevole, anzi, la più gentilizia. Tu al contrario stai importando storie corali sotto forma di mostre, dando grande rilevanza al dato biografico. Quali sono i rischi e le virtù del tuo approccio? 

Fabio Cherstich: Il taglio narrativo, biografico, corale dei miei progetti legati all’arte visiva deriva dalla mia formazione e dalla pratica del palcoscenico, poiché a teatro non si lavora mai da soli, ma si racconta sempre una o più storie a qualcuno: si fa tutto per un pubblico. Il mio approccio curatoriale è didattico, nel senso brechtiano del termine, fortemente incentrato sullo storytelling, sul fornire i contesti storici per capire i lavori e il pensiero che ci sta dietro. È un dispositivo in cui stage e backstage convivono. Anche in questo caso alla mostra corrisponde un ampio progetto editoriale che raccoglie non solo le immagini delle opere esposte ma pure tutto il materiale di archivio, di “backstage” degli artisti, nonché testi originali e contributi di artisti contemporanei chiamati a rileggere in forma critica i lavori storici presenti in mostra.

S.S. La mostra presenta diversi lavori di Arch Connelly e Jeff Perrone. Connelly (1950-1993) applica sgargianti materiali decorativi su comuni elementi d’arredo, mentre Perrone (1953-2023) crea dipinti utilizzando materiali tessili e bottoni dove l’approccio iperdecorativista incontra tradizioni storico-artistiche in quei decenni extra-canoniche: quella dei nativi e dell’immigrazione africana, indiana, latina, oltre che la tradizione manifatturiera afghana di tappeti.

Tornare ai lavori iconici di questi due artisti, oggi, dopo tutto quel che si è assimilato e organicamente dimenticato rispetto a individuazione e disintegrazione del genere, fa un certo effetto.

Personalmente mi sono interrogata su quanto certi stereotipi della girlishness (l’estetica da diario segreto, burn book e cameretta della ragazza adolescente da Pretty in Pink a Mean Girls) siano sorelle minori del massimalismo decorativo queer che nel 1982 era già musealizzato in mostre quali Extended Sensibilities del New Museum. Questo immaginario sta oggi tornando in voga, in toni più opachi e post-concettuali, ovunque nel mondo ma anche nell’arte emergente della nostra Milano. 

Di fronte a Connelly e Perrone, mi sono chiesta quanto sia difficile costruire una rappresentazione estetica puramente non-binaria, forse è impossibile; prima pensavo che la decorazione potesse aiutare in tal senso. Cosa ne pensi?

F.C. All’opening della mostra mi ha raggiunto un amico artista milanese, Davide Stucchi. Le sue sculture, frutto di azioni minime, svelano la vulnerabilità degli oggetti, sfidando l’ideale machista dell’artefatto. In lui e nel suo lavoro trovo un intrigante legame con gli artisti queer newyorkesi della generazione Connelly/Perrone. Non sorprende infatti che davanti al lavoro di Perrone, Davide abbia definito il tutto “on DRAG”, un riferimento che si intreccia con il lessico della comunità queer cui Perrone apparteneva. Lo stesso e forse in una forma più pertinente si potrebbe dire del lavoro di Connelly.

Le opere di Connelly, sottoposte a un pesante make-up, si travestono e diventano sculture che nobilitano oggetti comuni grazie all’aggiunta di bigiotterie, glitter e gusci d’uovo glassati. Oggetti sexy, eccessivi, liberati dalla noiosa funzione borghese. Specchi recuperati in mercatini dell’usato o dalla spazzatura diventano preziosi oggetti desiderabili, coperti di tessuti e tulle che richiamano le trame dei collant. I collage di immagini pornografiche incrostati di glitter e stagnola luccicante… Tutto nel suo lavoro è “queer, kitsch, mannered, snobbish, pink, pink, pink, pink” per citare le parole del manifesto che Connelly scrive nel 1982 per codificare la sua opera.

S.S. Facciamo un gioco, azzarda dei lookalike di questi artisti che hanno abitato altre parti del mondo.

F.C. Perrone è un Boetti Queer, sarebbe un doppio show pazzesco. Il diario frocio di Arch Connelly trova affinità col brasiliano Hudinilson Jr., con le sculture sbrilluccicanti e bellissime, vicine al mondo di Raúl De Nieves. E, restando in Italia, la scrittura e gli slogan di Connelly mi fanno pensare al mio amato Nino Gennaro, agli oggetti e alle performance di Desiato. In Connelly intravedo anche ragionamenti concettuali e immaginari vicini ai mondi dell’artista italiana Anna Franceschini, a Davide Stucchi… Sarebbe anche interessante un parallelo tra il suo lavoro e quello di Tomaso De Luca: ci sono delle affinità rispetto all’indagine dei queer spaces e dei queer objects, un’indagine della casa nelle sue varie accezioni che non abbiamo qua il tempo di approfondire, ma che mi piacerebbe indagare in un progetto futuro.

S.S. Come viveva l’arte dei downtown amigos quando usciva dalla comfort zone comunitaria?

F.C. La spinta massimalista, non binaria, provocatoria degli artisti in mostra – molti di loro sono attivisti di ACT UP – nasce da una finalità politica e sociale. All’epoca c’era Reagan al governo e la gente moriva di AIDScome mosche. In questi tempi neofascisti, segnati dal ritorno all’ordine, auspico all’arte e agli artisti di non avere mezze misure. Di non avere paura. Jeff Perrone ha parlato di arte come “cavallo di Troia” per i collezionisti, immaginandoli esibire opere colorate nelle loro case eleganti solo per poi scoprire che i bottoni luccicanti compongono frasi intimidatorie e violente: “The Rich Will Never Allow You To Vote Away Their Wealth” e “Rape”. Pas mal, no?

S.S. Nella mostra assume centralità narrativa anche il luogo di ritrovo comunitario, il bar per esempio, come dimostrano i disegni di Jimmy Wright (1944) e le fotografie di Stephen Barker (1956). Viaggi spesso a New York per riavvolgere il filo di questa storia; quale memoria rimane dei luoghi?

F.C. I lavori diventano una testimonianza visiva di quei queer spaces che sono scomparsi a causa della speculazione contemporanea. Locali dove non esistevano differenze di classe sociale, razza, età, luoghi dove la Comunità si riuniva per vivere la sessualità in una forma libera dentro ad uno spazio protetto. Il Club 82, soggetto dei disegni realizzati nel 1973 da Wright e delle foto di Barker scattate nel 1993-94, è un locale nato negli anni 50, gestito dalla famiglia mafiosa Genovesi e noto al tempo per gli spettacoli di uomini e donne en travesti. Trasformato negli anni ‘60 in locale per show girls, negli anni ‘70 in un drag club e negli anni ‘80 – ‘90 in un gay sex club. Un luogo dove “tutti” andavano. Un altro posto di cui Roberto mi parla sempre è The Bar. Il Bar era il luogo in cui si ritrovavano tutti gli artisti gay – Robert Mapplethorpe, David Wojnarowicz, Peter Hujar, Robert Gober e Edward Albee per citarne alcuni. Roberto, Jimmy, Arch, Jeff e Marc Tambella (1953) – Marc era il barista – ma anche la loro amica Donna Francis, andavano sempre lì. In questo Bar si sono scambiate idee, opere, drink e ogni genere di fluidi per tutti gli anni 80. Era uno degli epicentri della vita culturale della città.

L’erotismo è elemento centrale di molti dei lavori in mostra. È l’energia che la città emanava e che veniva riversata nel lavoro. A detta di tutti la città ha ancora mantenuto questa elettricità, questa tensione sessuale e io sono d’accordo. Basta vedere come le persone ti guardano per strada… New York City è sempre stata una città promiscua e sporcacciona: lo è ancora.

S.S. Le due artiste in mostra, Elaine Reichek (1943) e Donna Francis (1952), stemperano la sofferente gioia delle altre opere con lavori più fermi.

F.C. Tra i vari lavori di Reichek presenti in mostra uno è tratto dalla serie Harlem Arcadia, quattordici ricami basati sui motivi architettonici trovati nelle case a schiera di mattoni e pietra marrone di Strivers’ Row dove Elaine vive e lavora. Strivers’ Row, progettato negli anni ’90 del 1800 come enclave per soli bianchi, è diventato il centro della Rinascita di Harlem quando è stato aperto agli afroamericani nel 1919. Il boom culturale è stato interrotto dalla Grande Depressione, ma il nome Strivers’ Row ha mantenuto un’aura mitica nonostante la difficoltà di immaginare qualsiasi quartiere di New York come un’Arcadia a lungo termine. Questa traduzione dei motivi architettonici neoclassici del quartiere in tessuto cucito e trapuntato porta l’ornamento esterno nel campo del decoro domestico, trasponendo materiali maschili in un linguaggio femminile. Elaine è stata la migliore amica di Jeff Perrone, artista che non a caso è esposto nella sua stessa stanza.

Donna Francis invece è presente in mostra con un lavoro molto potente dal titolo Black Rider. Cito le sue parole perché mi sembrano emblematiche: «Schwarz Faherin/Black Rider è un ritratto di un mio vicino di casa che ho realizzato negli anni ’80. Gli ho detto di vestirsi come avrebbe desiderato essere ritratto e lui si è presentato vestito da cowboy e con un fucile. Solo in seguito ho usato questa foto per realizzare l’opera. Il titolo è tratto dal termine usato per le persone che viaggiano sui tram in Svizzera senza pagare. Ho pensato che fosse una dichiarazione interessante su come le persone bianche vedono noi, persone di colore».

S.S. Al pubblico italiano la mostra offre un tassello di pittura anni Ottanta, la possibilità di studiare un singolo tramite una comunità. Offre arte politicizzata per essenza e non per intenti programmatici ergo quella di cui il potere sottovaluta la permeabilità, offre radici per gli artisti emergenti che operano nel campo di estetiche queer, offre un modello curatoriale diverso: emotivo e candidamente filologico; l’abbiamo percorsa anche credendo in group show sempre più esigenti, che affondino nella vita sociale degli artisti con rispetto e spudoratezza senza strappare le opere al contesto né ordinandole in faldoni avulsi dalla loro casa o dal loro bar.

ARTICOLO n. 28 / 2024

I SEGRETI DELLA MENTE MILIONARIA

Vengo da una lunga stirpe di gente economicamente irresponsabile. Nessuno nella mia famiglia ha mai avuto il fiuto per gli affari, e laddove una qualche ricchezza poteva essere accumulata o centellinata o anche solo assennatamente gestita, una serie di sfortunati eventi o di pessime decisioni hanno lasciato un piccolo buco fumante, simile a quello che da generazioni segna i palmi delle nostre mani. “I soldi vanno tenuti spesi”, diceva qualcuno che noi abbiamo preso in parola ed eretto a guida spirituale delle nostre esistenze, assicurandoci che la nostra eredità rimanesse composta da nient’altro che una fornitissima collezione di DVD e un buon senso dell’umorismo. 

Non ce la siamo mai passata davvero male, ma neanche benissimo, afflitti come siamo dall’eterno dissidio tra ciò che ci piace e ciò che ci possiamo permettere. Non è un problema di povertà, di per sé – ci siamo sempre mantenuti ben al di sopra della linea di galleggiamento – quanto di dissonanza cognitiva: i nostri gusti, i nostri desideri, le nostre smanie non riflettono in alcun modo la realtà dei fatti, né tantomeno i nostri conti in banca. Case in centro, pellicce di visone, vacanze in mete esotiche, porcellane di pregio, mobili di design, ristoranti esclusivi sono solo alcuni degli sfizi che nel tempo abbiamo ritenuto di meritarci, mentre lo stato delle cose rispecchiava sempre una situazione sostanzialmente diversa. 

Questa perenne tensione si unisce, almeno nel mio caso, a una fondamentale incomprensione del denaro e di tutto ciò che lo riguarda. Semplicemente: di soldi non capisco niente. So che esiste una cosa chiamata inflazione, ma non capisco in che modo questa ci impedisca di risolvere le crisi economiche stampando più soldi. Ho guardato e apprezzato La grande scommessaBillionsThe Wolf of Wall Street – e molti altri prodotti a tema “borsa” – come mi immagino un ruminante possa guardarli e apprezzarli. I miei occhi erano aperti, le mie orecchie pure, il cervello fino a prova contraria mostrava una minima attività sinaptica, ma dovessi spiegare mezza cosa di come funziona il mercato azionario farei scena muta, non importa quante Margot Robbie in vasche da bagno provino a spiegarmelo in termini semplici. 

Sono quasi trent’anni che mi faccio delle domande sul finale di Una poltrona per due. Pago le tasse da un terzo della mia vita e non ho ancora capito cosa sia l’IRPEF e perché vuole i miei soldi. Per evitare spese di spedizione su un’ordine online, finisco sempre per spendere molto di più di quanto avevo messo in conto e una voce incosciente dentro di me ripete solo “brava, hai risparmiato 4 euro”.

Nonostante le premesse, nel 2023 per la prima volta nella mia vita adulta ho messo via una congrua somma di denaro. Congrua nel mio mondo, ridicola in quello di qualcuno che ha un rapporto equilibrato con le proprie finanze, ma comunque un risultato inedito nella mia storia famigliare. Questo mi ha fatto sentire investita di una qualche responsabilità, e dopo essermi premiata – per cosa, non si sa – con una borsa di lusso e un paio di stivali tanto scomodi quanto bellissimi, mi sono detta che forse era arrivato il momento di cambiare atteggiamento. 

Ho superato i trent’anni, e questo significa che, tra gli argomenti di conversazione tra coetanei, le feste e gli amorazzi sono stati sostituiti da mercato immobiliare e fondi pensione. Così ho chiesto un po’ in giro e ho scoperto che questo fantomatico fondo pensione di cui tutti parlano può avere un suo senso, soprattutto per una persona della mia generazione che andrà in pensione a 140 anni, quando l’INPS sarà ormai un cumulo di macerie sul fondo del mare. Alcuni amici hanno iniziato addirittura a parlarmi di investimenti a basso rischio, di bond e obbligazioni, del tutto inconsapevoli del deficit di apprendimento che nel mio cervello viene innescato da queste parole. Sempre ruminando, fingevo interesse e annuivo con sguardo solenne, mentre mi convincevo che comunque la borsa – quella di Celine che mi ero comprata, mica quella di New York – era stato in effetti un ottimo investimento.  

Tuttavia, essendo ormai impossibile nascondere i propri pensieri all’algoritmo di Instagram, nei giorni successivi a queste conversazioni esplorative su una più consapevole gestione del mio denaro un post sponsorizzato si è insinuato nella mia vita: “per una più consapevole gestione del tuo denaro”, recitava infatti la didascalia dell’app, ma anche “diventa la persona più interessante della stanza”, un secondo obiettivo che mi è subito sembrato perfettamente in linea con le mie ambizioni più ataviche. Il telefono mi dimostra ancora una volta di conoscermi meglio dei miei genitori, e com’è ovvio scarico l’app pubblicizzata seduta stante.

C’è un periodo di prova gratuito, dopodiché, vengo informata, pagherò un piccolo abbonamento mensile, immagino per il resto dei miei giorni. Come ormai potete indovinare da soli, ho pagato molti abbonamenti nella mia vita, così tanti che se mi fossi tenuta tutti i soldi che ho dato alle varie piattaforme di streaming a quest’ora forse avrei le risorse per rilevare un piccolo cinema di provincia. Ho firmato iscrizioni di tutti i tipi, anche le più stupide, ho pagato corsi di fitness che non ho mai seguito, sono abbonata da anni alla Cucina Italiana cucinando esattamente zero pasti alla settimana, e mi sono fatta convincere a fare la carta di credito sul treno tra Roma e Milano, per farci non si sa bene cosa, se non pagare i molteplici abbonamenti di cui sopra. Eppure un lampo di buonsenso e amor proprio mi suggerisce che stavolta stiamo andando oltre il limite, e che non imparerò nulla sulla gestione delle mie finanze né tantomeno diventerò la persona più interessante della stanza, in nessuna delle stanze che popolerò in futuro, quindi mi premuro di segnare sul calendario la data in cui dovrò cancellare questo ennesimo abbonamento superfluo. Realizzo così che forse ho già imparato qualcosa: ho appena risparmiato 79 euro e 99 centesimi.

Come primo passo l’app mi chiede di selezionare gli argomenti che mi interessa approfondire tra una vasta gamma che comprende voci tanto specifiche quanto vaghe. Si va da “comprensione del mondo” a “mentalità di crescita”, qualsiasi cosa significhi. Io sono qui per capire cosa succede alla fine di Una poltrona per due e come fare più soldi con pochi soldi, quindi seleziono “soldi e investimenti” e “gestione del denaro”. Già che ci sono seleziono anche “crescita personale”, perché putacaso servisse a qualcosa sarebbe un’alternativa davvero molto economica alla psicoterapia. 

Nella seconda fase mi viene sottoposto un elenco di titoli di libri che sarei interessata a leggere, e sospetto e mi auguro che alcuni di questi non esistano: Padre ricco padre poveroSoldi. Domina il giocoTu 6 un duro che fa soldi con la mentalità della ricchezza. C’è una quantità di pubblicazioni sui Bitcoin francamente eccessiva, oserei dire addirittura offensiva, ma ormai ci sono dentro e non posso permettermi inutili snobismi. Le scorro tutte, e mentre sento che l’anima sta lasciando il mio corpo realizzo che nessuno di questi libri sembra dedicato all’obiettivo della crescita personale, a meno che questa non passi per la trasformazione transitoria in brutta persona. 

Seleziono tre titoli a caso solo per scoprire che per fortuna non mi sarà richiesto di leggerli, l’app ha raccolto per me degli utili riassunti che posso ascoltare a 1,5x mentre giro tra le corsie della Pam. “Non sei povera, sei pre-ricca” mi suggerisce il telefono mentre metto nel carrello dei cereali sottomarca che gridano il contrario. 

Decido di iniziare da I segreti della mente milionaria, da cui scopro nei primi minuti di ascolto che i soldi non fanno la felicità, da sempre massima di chi non ha mai avuto problemi di soldi. Ma sono determinata a farmi una cultura in materia, e mi sembra lampante che la mente milionaria ancora non ce l’ho. Non solo la mente, ma anche il corpo non mi pare milionario: i miei denti alla deriva non sono quelli di una persona ricca, i capelli tradiscono una scarsa frequentazione del parrucchiere. Le occhiaie e la gobba suggeriscono che passo molte ore davanti a un computer in Pianura Padana, e troppo poche ore sulle spiagge assolate dei Caraibi.

Nei venti minuti di ascolto che servono per riassumere tutto il libro però mi viene insegnato solo un metodo di dubbia utilità, secondo cui la ricchezza è tutta una questione di volontà. L’autore consiglia di ripetere ogni giorno allo specchio 17 dichiarazioni per sviluppare la mente milionaria, ma non è dato sapere quali siano. Poco importa comunque, ognuno si può creare le sue, quello che conta è l’atteggiamento positivo, primo requisito della mente milionaria. È forse dunque la mente milionaria che mi ha portato in questi anni a spendere sempre un po’ più di quanto guadagnassi? Vuoi vedere che quella che ho sempre scambiato per sconsideratezza altro non era che la mente milionaria? Saremo mica tutti milionari in potenza a casa mia? “I ricchi pensano in grande, i poveri in piccolo”, mi dice l’app mentre mi trovo davanti alle buste di insalata scontate del 30% in quanto scadute o in procinto di. Penso in grande, mi penso milionaria, e compro un lattughino a prezzo pieno.

Vado avanti così per qualche giorno, in un turbinio di citazioni di Warren Buffett e consigli farraginosi che hanno più a che fare con una simulazione della ricchezza che con una concreta pratica di amministrazione, e mentre sento un gilet tecnico da stronzo materializzarsi su di me e la parola “mindset” mi riecheggia nelle orecchie, realizzo che nessuna app al mondo mi può salvare dalle cattive abitudini. Dopo aver solidarizzato con Mike Tyson, che scopro essere finito in bancarotta pur guadagnando 400.000 dollari al mese, decido che cercherò indicazioni altrove – forse da un consulente finanziario come fanno le persone normali – e cancello l’app. 

Quella notte sogno di giocare al Superenalotto. Nel sogno dico al tabaccaio di segnare “sicuramente il 14” e poi il 96, perché nella dimensione onirica non so nulla proprio come nella realtà. Infatti si dà il caso che si possano giocare i numeri solo fino al 90, scopro il giorno dopo mentre mi affretto a comporre una schedina in ricevitoria. Sulla schedina del sogno, a mo’ di intestazione, c’era scritto “Il porco”, il numero 4 nella smorfia napoletana, che ho scelto come testo ermeneutico per l’occasione. Me lo sono appuntato nel cuore della notte per paura di scordarmelo, in quel dormiveglia drogato che è terreno fertile per le idee più stupide che tutti abbiamo avuto. Il giorno dopo ritrovo la nota sull’iPhone, una serie di numeri, il porco, e per qualche motivo la regione Liguria, che nella smorfia napoletana, come forse potete immaginare, non è annoverata. Scelgo di assecondare i miei peggiori istinti, esacerbati dalla settimana appena trascorsa nel mondo delle criptovalute, e decido che Liguria significa avarizia. Numero 22, mi informa l’internet, come gli euro per un pezzo di focaccia a Bonassola. 

Consegno la schedina alla tabaccaia, abbastanza sicura che la mia vita stia per cambiare per sempre. Le ore che mi separano dall’estrazione dei numeri vincenti le passo su Immobiliare.it a scorrere annunci di case oscenamente costose, avendo impostato il filtro di prezzo minimo (un milione) ma non quello massimo. Ho già deciso in quali città del mondo comprerò un pied-à-terre e quanti milioni regalare ad amici e parenti. Scelgo divani, lampade, tappeti. Lascio che la mia mente milionaria viaggi per realtà parallele, nessuna delle quali è abitata da una versione di me con i capelli crespi. Nel multiverso della mia ricchezza sono una benefattrice dalla chioma setosa, risolvo crisi umanitarie e ho finalmente il tempo per leggere Infinite Jest. Da ricca va a finire che sono anche la persona più interessante della stanza, oppure ho pagato i miei commensali per fingere che sia così. 

Quando si fanno le 20:30 e nessuno dei miei numeri viene estratto – nemmeno il sicuro 14, nemmeno la Liguria – sento una piccola fitta di delusione. In effetti nel sogno giocavo, ma mi svegliavo prima di scoprire se avevo vinto. Tale è l’incompatibilità tra me e il denaro: anche nei miei sogni più vividi e sfrenati non posso ambire allo stile di vita che vorrei. Resto solo una pre-ricca, e niente di più.

ARTICOLO n. 27 / 2024

AD ANTIGONE PREFERISCO CREONTE

Un’intervista di Valeria Verdolini

Milano. Uscita dallascensore, la porta è già socchiusa. La casa è luminosa, con le stanze comunicanti che si intersecano con il corridoio. Ovunque libri, ma anche oggetti di una vita di viaggi e studio. In ingresso un grande quadro specchiante con una tigre accoglie e restituisce alla casa di studiosa una nota impertinente, che è anche la cifra della conversazione che ne è seguita. Eva Cantarella è nello studio, la trovo dopo aver vagato per le stanze. 

«Eccomi da lei. Avevo lasciato tutto aperto, perché non volevo perdere il filo dei pensieri. Arrivo al punto e poi sono da lei. Parleremo di tutto quello che vuole, ma prima dobbiamo accertarci che nella sua attesa non sia fuggito il gatto. Ha vent’anni, povero, è cieco, ma ha mantenuto uno spirito avventuroso e appena la porta si apre, tenta la fuga».

Accertata la presenza del rosso persiano, poco lontano dalla libreria a soffitto, ci accomodiamo in sala. Loccasione è luscita del recente Contro Antigone, o dell’egoismo sociale (Einaudi, 2024). Professoressa ordinaria di diritto greco e romano, divulgatrice e studiosa, Cantarella ha pubblicato oltre 30 volumi e innumerevoli saggi sul diritto greco, sulla polis, esplorando le contraddizioni di Atene, ma anche la capacità che hanno i classici – così come gli istituti giuridici – di parlare alloggi, di offrirci uno spunto. Di classici ci sono solo gli interessi di ricerca, perché la professoressa ha mantenuto gli occhi e lo stile da ragazzina, che brillano quando la si provoca con una domanda, e quellinformalità spigliata e cosmopolita che permette anche di dissacrare Sofocle, riprendendo alla lettera gli stasimi e riportandolo allinterpretazione autentica.  

Nel libro si distingue chiaramente il mito di Antigone e la versione prosaica della paladina dei diritti contro il potere tirannico dello zio Creonte, e la tragedia di Sofocle, in cui le vicende narrate assumono una piega sensibilmente differente. «Il mito è stupendo. Per fortuna esiste, regge nello spazio e nel tempo, e va molto lontano. Recentemente, per esempio, Milo Rau l’ha riproposto in Brasile, con la sua Antigone in Amazzonia». Il mito è chiaro, è noto. Tuttavia, Antigone è un’invenzione di Sofocle, e Sofocle nella sua tragedia racconta una storia molto diversa». 

La conversazione parte perciò dal sottotitolo paradossale: a fronte della nota eroina che sacrifica la vita per la degna sepoltura del fratello, il suo libro parla di egoismo sociale”. 

«Antigone è di uno spaventoso egoismo! Lo dice lei stessa, chiaramente, eccome se lo dice! Rileggendo il testo è chiarissimo! Il momento nel quale la cosa è non solo evidente, ma esplicita è quando dice a Creonte “tu hai ragione, è giusto che ci siano le leggi ed è giusto che gli altri obbediscono, ma io non intendo farlo!”».

Le domando da cosa derivi allora questo paradosso. «Antigone disobbedisce perché vuole assolutamente compiere un’azione che sarebbe un reato. Fondamentalmente a lei non importa null’altro che della sepoltura di Polinice. Tutto il resto è irrilevante, gli altri che la circondano, le altre azioni umane. Lei vuole solo una cosa, che è un reato per la legge di Tebe».

Le chiedo cosa la spinge a questa ostinata rottura e devianza. Perché voleva così tanto farlo? «Ci sono varie interpretazioni, ma molte si possono semplicemente scartare. L’idea dell’incesto tra lei e il fratello è proprio semplicemente ridicola. E perché quindi agisce così? Per amore fraterno ovviamente, e da questo punto di vista non c’è niente di strano. Ma il modo in cui lei esercita questo amore fraterno è strano: lei dice che non è giusto in generale ma che lo vuole fare comunque, e che lo vuole fare a modo suo. Esplicita che non le importa nulla che sia sbagliato teoricamente, semplicemente non vuole fare altrimenti. L’egoismo sociale è proprio questo: l’affermare che c’è un interesse individuale e in contrapposizione la polis, la visione collettiva della città. E questa è l’unica cosa che le importa. Non le interessano i sentimenti, per esempio. Antigone è una donna che non ha un sentimento. Una delle cose più impressionanti secondo me. Devo dire, sono rimasta colpita, e non è che io sia una romantica che si immagina chissà quali tenerezze. Però mi sono riletta non so quante volte il testo di Sofocle proprio perché volevo essere sicura. E in tutta la tragedia lei non pronuncia una sola volta il nome di Emone, il suo promesso sposo. Non lo nomina mai! E non solo non ne parla, ma non allude al suo matrimonio neanche quando si avvia alla morte, sapendo di rinunciare alle nozze. Si avvia alla fine, e in quel momento le poteva venire in mente vagamente… E invece, nemmeno in quella circostanza compare il futuro marito. Nell’universo di Antigone c’è spazio solo per lei e per la decisione di seppellire il fratello, cosa che sarebbe più che lodevole se non fosse fuorilegge. Peraltro, a voler essere precisi, Antigone si oppone contro una regola giuridica che non è solo lecita, ma anche logica: quando mai si offre degna sepoltura a un traditore della patria? Non era mai accaduto. Dei cadaveri dei nemici si faceva strage. E in questo caso si tratta di Polinice, che organizza la presa di Tebe, e poi lo dovrebbero seppellire in città insieme al fratello caduto per difenderla. Non ha senso, è una pretesa illogica, contraria al senso comune. Avanzare questa pretesa significa essere mossi da un enorme, spaventoso egoismo sociale, accompagnato da una perenne mancanza di sentimenti, e di visione. Colpisce come una persona, da sola, per assecondare il proprio volere, si metta in contrapposizione alla polis, accettando la regola generale ma evocando per sé, per il singolo caso, l’eccezione, l’accettazione della violazione. Ed è una forma di mostruoso egoismo».

La conversazione – così come il volume – si sposta sulle contrapposizioni poste in luce da Sofocle, che ha prodotto un testo dicotomico. La prima è una dicotomia generazionale, tra giovani e meno giovani. 

«Quello è molto importante, anche perché c’è in mezzo tutto questo fatto di quella nuova gioventù che erano i sofisti – i primi sofisti – quindi rappresenta anche un momento importante di trasformazione. Perché il racconto dell’Atene democratica, be’, anche quello spesso sfocia nel mito. Io ho sempre amato Pericle, con le sue contraddizioni. Ad esempio si evoca sempre la pratica democratica dei cittadini ateniesi. Ma alla fine quanti erano questi cittadini? Erano quattro gatti. Perché io tutte le volte che rileggo il famoso discorso, appunto, “abbiamo perso la nostra primavera”, che è bellissimo, anche se non sappiamo se abbia pronunciato esattamente quelle parole, ma immaginando di sì, lui pronuncia questo bellissimo discorso davanti a tutta la cittadinanza e i cittadini chi sono? Sono soltanto i maschi. Anzi, Pericle restringe ancora di più, riducendo l’accesso ai maschi ateniesi figli non solo di padre ateniese, ma anche di madre. Si trattava di pochissimi privilegiati. E gli altri? Atene era abitata da moltissimi meteci. Senza i meteci Atene non avrebbe avuto vita, lavoro. I meteci avevano dato senso alla città, così come i figli dei meteci che erano andati a morire in guerra. E Pericle fa un discorso che è bellissimo se letto oggi, ma che allora era assolutamente impensabile come inclusivo, era elitario. Abbiamo mitizzato i greci da tanti punti di vista e gli ultimi studi, soprattutto statunitensi, stanno rivedendo – anche in modo a volte creativo – come stavano le cose. Questi lavori ci raccontano come, in concreto, i diritti riconosciuti ed esigibili erano pochissimi, e come fossero goduti da una piccolissima parte della popolazione. E sebbene questi giovani studiosi stiano mettendo troppa enfasi e a volte tendano a esagerare, centrano un punto: abbiamo mitizzato la Grecia, abbiamo mitizzato i greci, abbiamo mitizzato persino Pericle».

La chiacchierata prosegue sulla seconda dicotomia centrale nellAntigone sofoclea, ossia quella di genere, tra la mascolinità di Creonte e la responsabilità femminile di Antigone. 

«Di questo nodo non parliamone neanche. È impressionante l’arretratezza in cui versavano le donne greche, sebbene poco lontano, in Oriente, le condizioni fossero diversissime. Lo racconta bene Erodoto quando ripercorre la storia di Tomiri, una donna assolutamente straordinaria.  È la regina dei Massageti, quando muore il marito lei prende il trono. Era molto bella ed era stata chiesta in moglie da Ciro il Grande. Capendo che lui in realtà mirava solo a controllare i Massageti, lei risponde di no, con garbo. Lui risponde dichiarando guerra. Lei cerca diplomaticamente di dissuaderlo, ma non c’è niente da fare. Ciro il Grande fa prigioniero il figlio di Tomiri, Spargapise. Tomiri propone un accordo per liberare il figlio prigioniero. Ciro il grande si rifiuta, ma slega le mani a Spargapise che riesce a suicidarsi. A quel punto Tomiri dichiara vendetta, rispondendo al sangue versato con la minaccia di fargli bere tutto il sangue che aveva causato. Be’, quando ti muore il figlio, che cosa si fa se non la guerra? E naturalmente, vince lei. Piccolo particolare: Ciro il Grande viene ucciso quindi da una donna. Io non l’ho mai letto in un manuale di storia. E poi, il cadavere non si trova. Mandano a cercarlo, lo trovano, lo prendono. Lei aveva preparato questa una bella tinozza piena di sangue, e dentro ci affoga il cadavere di Ciro il Grande. Tomiri incarna tanto la grandissima guerriera quanto una madre coraggio. E incredibilmente questa è una storia minore, poco studiata e poco narrata.

Mentre questi eventi erano possibili, le donne greche erano completamente senza potere. E quindi è abbastanza impressionante questa contrapposizione di figure femminili e questa Grecia, da questo punto di vista così arretrata. Ed era così più o meno dappertutto, tranne forse a Sparta. Se lei mi chiedesse di scegliere tra spartana o ateniese non avrei avuto dubbi, ma basta leggere le fonti, c’è scritto. Vero è che queste donne spartane non vedevano mai gli uomini perché quelli venivano portati via, e spesso loro contavano solo in quanto madri di un eroe.  Però alle donne spartane era consentito l’amore che noi chiamiamo lesbico. Le donne si amavano fra di loro. Questo poteva succedere a Sparta, certamente non ad Atene. E per questo dico che comunque se avessi dovuto scegliere avrei scelto probabilmente Sparta, dove le donne quantomeno partecipavano alla vita sociale. Insomma, sono buffi questi greci, sono un po’ diversi da come ce li hanno insegnati».

Spostiamo il dialogo sulla questione centrale delle leggi costituite e del contrasto evocato da Antigone, ovvero sulle cosiddette leggi celesti che tutti sovrastano. Dove si colloca il testo? Che ruolo ricopre il diritto?

«C’è la legge, e lei la vuole violare e dice è giusto, però non me ne frega niente, non lo faccio. Sofocle mette di fatto in scena il suo timore: egli teme che Antigone incarni quell’individualismo egoistico che il tragediografo attribuisce ai suoi concittadini e che lo terrorizza. Quindi, rileggendo Sofocle noi vediamo una critica all’egoismo.  Perché si inventa un personaggio così antipatico? Perché descrive quella che è la Atene che lui amava follemente e la città lo ricambiava dello stesso amore. Un bel personaggino anche Sofocle, la sua stessa vita è ricca di aneddoti. Del resto, lo stesso Pericle lo sgridava perché gli piacevano i ragazzini. C’è una scena riportata dai testi in cui lui cerca di baciare un ragazzo durante un banchetto. Era un viveur. Era divertente, ma allo stesso tempo era pieno di principi politici rispettabilissimi. Si impegnava. Contrariamente a quello che si dice non è vero che non si impegnasse in politica, tra l’altro era un conservatore, e si impegnava talmente tanto da diventare poi amico e collaboratore di Pericle. Umanamente è un personaggio di grandissima simpatia, divertente, che si invaghisce di donne, uomini e ragazze, ma che al contempo fa tutto il possibile per divertirsi, rimanendo però politicamente impegnato. Era un conservatore che si adatta, e capisce cosa cambia attorno a lui. Una persona intelligente e un gran viveur. Era molto ricco, e nonostante questa vita piena di intrattenimento è riuscito a scrivere moltissimo. Va detto che è anche vissuto un secolo. Forse potremmo tenerci l’insegnamento che una vita piena fa bene e l’allunga. Cent’anni ben vissuti. Una vita godereccia e piena, necessaria per scrivere tragedie.

Tornando all’Antigone, alla fine, non ci posso fare nulla, ma pur con i suoi torti io preferisco Creonte. Creonte poveretto è coerente fino in fondo, fino a quando non entrano in campo gli dèi, perché come sempre poi chi decide sono gli dèi, i quali a un certo punto cambiano opinione radicalmente. I greci erano fatti così, no? E tra l’altro si dimentica sempre che il povero Creonte non è che volesse diventare re per forza, anzi, non voleva proprio, lo dice all’inizio della tragedia. Accetta il compito che gli tocca, e lo svolge con un rigore esagerato. Ma al di là di questo non si può accusarlo di essere un despota. Mi sembra un personaggio positivo, decisamente con i suoi limiti. Senz’altro insomma, tra i due, non avrei un attimo di esitazione».

La provoco allora. Se sta dalla parte di Creonte, quale potrebbe essere oggi un moderno Creonte? Nel libro si trovano elencate le moderne Antigoni (tra le più note, Carola Rackete). Ma mancano moderni Creonte, visti alla fine come buoni governanti.

«Be’, certamente nessun governante europeo, ma anche negli Stati Uniti in questo momento non riesco a vederlo. Magari ce ne fosse uno. Anche in Europa. Sto cercando, chi è il migliore? Macron no di certo. Faccio fatica a individuare qualcuno che possa rappresentare una politica mossa da logica e coerenza, con un certo rigore».

Discutiamo di come il mito abbia ribaltato le cose. E perché nel farlo abbia scelto di acuire la dimensione individuale, leroina salvifica e non una salvezza collettiva. 

«È sempre stato un po’ così, abbiamo sempre avuto bisogno di un ideale, l’ideale è necessario, ma è difficile rappresentarlo davvero in una dimensione collettiva. Ma oggi non troviamo più non solo il collettivo, ma nemmeno il singolo, e la singola, che si farebbero uccidere per un ideale. Salvo rari casi, come il povero Navalny in questi giorni. Una vicenda che, letta da qui, fa sembrare le scelte di Putin poco strategiche, perché quella morte sembra aver avuto la capacità di toccare e attivare molte coscienze, con una reazione mondiale di grande portata. E non mancano solo le Antigone, mancano anche le Ismene, ossia le persone dotate di buon senso. Ismene è un bel personaggio, un personaggio razionale, ma oggi di persone sagge se ne trovano poche». 

Sullo stato del mondo, e sui timori sul mondo, c’è il verso forse più oscuro e più bello dellAntigone, ossia il primo stasimo. Il testo greco usa il termine ambiguo Denia”, associato alle cose del mondo. Un termine che è stato di volta in volta declinato e interpretato come il diritto, la legge, ma anche la tecnica, il progresso. 

«Πολλὰ τὰ δεινὰ vuol dire tutte e due le cose, tant’è vero che poi a un certo punto dice, dipende da come fai, perché se lo usi in un certo modo diventi un cittadino pieno e integrato, se lo usi in modo errato diventi un reietto. Si possono intendere l’uno e l’altro, tanto l’abuso della tecnica per fini nocivi, quanto la violazione delle norme. E quella violazione rende le persone apolis, fuori dal patto di cittadinanza. Apolis voleva dire questo. Ma è evidente che a seconda della bontà dei governi questo uso può essere ribaltato, ieri come oggi. Pensi allo stesso Navalny: prima di morire era di fatto in una condizione di apolis nella Russia putiniana. E la debolezza democratica dei governi mi fa dire che paradossalmente, oggi, fuori dal patto sociale vengono messe le poche persone perbene che ci sono. Perché, diciamoci la verità: quando uno ha Ignazio La Russa come seconda figura dello Stato, diventa tutto inconcepibile. Stiamo parlando di una persona che ancora oggi ammette di tenere i busti di Mussolini in casa. E non ci dimentichiamo che menava. Come menava lo abbiamo visto tutti nel 1968 in piazza San Babila. Non me lo faccia dire».

Andando a concludere la nostra conversazione, quale tragedia o quale mito secondo lei rappresentano meglio la situazione attuale? Che cosa dovremmo rileggere per capire dove siamo oggi?

«Ma non lo so. Probabilmente però in qualunque tragedia troviamo un personaggio nel quale possiamo identificarci. Ma non una sola tragedia. Non lo so, non mi viene in mente niente. Non so se sono io in un momento di particolare distrazione, ma non trovo proprio niente.  Forse ci dice tanto del nostro tempo il fatto che non riusciamo a trovare dei modelli a cui ispirarci, perché ci racconta anche della grande confusione in cui siamo. Un tempo non era così. C’erano dei modelli, e spesso le tragedie e i miti hanno svolto questa funzione, e sarebbe importante che tornassero a svolgerla».

ARTICOLO n. 26 / 2024

ROMA VISTA DAL GAZOMETRO

Pubblichiamo un estratto dal volume Architetture inabitabili (Marsilio Arte) a cura di Chiara Sbarigia e Dario Dalla Lana. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alto quasi novanta metri, tre tonnellate di ferro e due milioni di chiodi per costruirlo, chilometri di tubazioni. Scendendo viale Aventino, lo avvisti da piazza Scanderbeg che sovrasta le chiome dei pini, poi riappare da mille altri punti di vista, meravigliosamente incongruo nello skyline frastagliato di cupole, ville patrizie, torrette. Quando ero ragazzo lo si vedeva anche pieno per un terzo, o a metà, o vuoto del tutto, e nessuno di noi capiva come effettivamente funzionasse, nemmeno ce lo domandavamo: più è complessa, più la tecnica la si accetta come una specie di implicito miracolo. Un mondo sottinteso. A parte chi ci lavora, i macchinari che mandano avanti una città come sono fatti, chi li conosce?

E poi, la z nel suo nome vi aggiungeva un ulteriore tocco esotico. 

Molto è stato scritto e ancora di più filmato sul carattere impiegatizio, ministeriale e burocratico della città di Roma. Solo qui è stato possibile che si creasse un milieu artificialmente interclassista così capiente da mescolare palazzinari, gente di spettacolo, stimati professionisti, personaggi televisivi e politici, artisti e artistoidi, insieme a una variopinta fauna umana, che impropriamente veniva chiamato “generone”, capace di riprodursi in modo proteiforme avvicendando i suoi protagonisti eppure mantenendo quasi immutato il suo codice morale, e cioè un radicale e umoristico scetticismo, nei confronti di tutto e tutti (persone, istituzioni, idee), e persino verso un valore che in altre città viene, se non adorato, quanto meno rispettato: il denaro. La RAI, il tifo calcistico, er Cinema, i Palazzi della politica, i Circoli sul Tevere e sull’Aniene, le redazioni dei giornali e le caste dell’amministrazione pubblica sono legati dai fili di una rete più o meno visibile, come quella che salva gli acrobati del circo quando sbagliano, su cui sta sospeso un mondo al tempo stesso surreale e fatto di interessi concreti, di frivolezza e candore e opportunismo e miscredenza, dove, a momenti, i soldi sembrano contare un po’ meno che altrove, poiché, a tirare le somme, nulla conta veramente, tutto è transitorio, il potere, il successo, la considerazione o la riprovazione altrui, il sesso, la politica, insomma a farla breve la vita; e dunque, perché dannarsi l’anima a inseguire uno di questi obiettivi? Meglio lasciar andare il tempo, e l’anima (se qualcuno ancora ce l’ha) affidarla alla sua corrente… 

Secondo gli schemi del mio rigido moralismo di ragazzo, il corpo sociale della città in cui da sempre abito mi sembrava insomma formato da sonnolenta e retrograda borghesia, zozza plebe e aristocrazia spompata, con una preponderanza della prima categoria sulle altre. Qualcosa di analogo aveva scritto Stendhal quando ironicamente sosteneva che la città fosse abitata per un terzo da preti, per un terzo da donne e per un terzo da statue: a lui queste percentuali non sembravano dispiacere, forse perché trapassavano le epoche assicurando una sorta di precaria stabilità all’assetto cittadino. 

Suonerà bizzarro, ma da queste parti, infatti, permanenza e pungente senso dell’effimero si scambiano di continuo i ruoli: si confida nella prima a causa del secondo, o meglio, è la maestosità della prima (rappresentata plasticamente dalle immani rovine antiche) a indurre incredulità nei confronti di qualsiasi realizzazione attuale. L’immobilismo diventa così garanzia di eternità.

Ma ecco il Gazometro a smentire tutto ciò. Ferro, e non soltanto marmo. Chiatte cariche di carbone invece che pini e fontane. Tecnica e industria, e non turismo (ossia quell’attitudine che induceva Joyce a scrivere: “Roma mi fa pensare a un uomo che campa mostrando ai visitatori, in cambio di un soldo, il cadavere di sua nonna”). In altre parole, modernità, che non cancella l’antico anzi serve a mantenerlo vivo, a illuminarlo. Con la sua grandiosa incastellatura metallica, nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento, che oggi è anch’essa divenuta a suo modo archeologia, certo, ma che contorna di un opaco splendore il profilo estetico della città esattamente come, in certi quadri, il paesaggio sullo sfondo fa risaltare ancora di più le figure in primo piano. Nel quadrante sud, là dove il Tevere serpeggia una volta sgusciato fuori dalle mura, la città era anche questo, soprattutto questo, emanante l’“acre e strano fascino” industriale, e lo ricordano le lugubri descrizioni nei documentari che venivano girati lì dentro. La stentorea voce fuori campo avrebbe potuto fungere da didascalia a un film su qualche fuligginosa città operaia inglese o addirittura all’incubo di Metropolis, con il “ventre insaziabile” delle sue fornaci. “Nell’atmosfera squallida ai margini della città… le officine del gas sembrano esprimere… coi loro tetri profili… tutta la tristezza della periferia…”. Centinaia di operai si aggirano intorno alle “costruzioni affumicate e untuose” di questo “mondo nero e pulsante”. E poi, con un tono ancora più esaltato: “si irradia dai tozzi gabbioni dei gazometri… il calore necessario alla vita dell’immensa città!”. Eh sì, perché in realtà i gazometri sono quattro, gli originari più piccolini, e poi quello monumentale aggiunto nel 1937 dall’Ansaldo, il più grande d’Europa, assai più titolato a rappresentare l’autentico Colosseo novecentesco in luogo di quello (quadrato) dell’EUR. 

Colgo l’occasione che oggi mi viene concessa di entrarvi. Da molti anni è stato svestito delle paratie telescopiche che si alzavano e si abbassavano a seconda della quantità di gas stoccato (fino a duecentomila metri cubi), quindi ne rimane il guscio, il “fantastico castello d’acciaio” come lo definiva il cinegiornale d’epoca. Ammetto di essere piuttosto emozionato: come quando visitai il cuore della centrale nucleare mai attivata a Montalto di Castro, e mi piazzai dove avrebbero dovuto essere le barre di plutonio (unico luogo al mondo, credo, Montalto, dove sia possibile far questo…). 

L’impressione, accerchiante, e che mozza il fiato, è di stare in un incrocio tra una plaza de toros e una vertiginosa proiezione di effetti optical verso il cielo, con in alto il tondo azzurro e tutt’intorno la trama leggera delle travature. Mi sembra di cogliere in modo palpabile la volumetria del manufatto anche se essa, di fatto, non esiste, è aria. L’architettura consiste soprattutto di quello che in cinese si dice wu, particella dalle mille possibili traduzioni: l’assenza, il nulla, il non avere o forse il non essere, l’apertura, il vano. Ciò che arretra, che esiste per sottrazione, insomma, e così offre spazio alla vita, come appunto i vani di un’abitazione. Volendo proseguire con analogie forse stravaganti, ma senza le quali non potrei rendere minimamente le mie sensazioni, è come quando mi ritrovai, a Bamiyan, davanti alle nicchie dei Buddha giganti distrutti dai Talebani: non c’erano più, eppure c’erano. Il vuoto suggeriva la loro presenza. Vi alludeva, la significava.

Poco più in là, oltre la recinzione, scorre il fiume, lo si intuisce dalle cime degli alberi scossi dal vento che ne segnano l’argine. È dal Tevere che veniva scaricata la materia prima. Quindi, negli “immani bracieri” dei forni, bruciava il carbone a mille e trecento gradi, per trasformarlo in gas, che poi doveva subire altri passaggi, lavaggi, purificazioni, sublimazioni, prima di essere adatto all’uso. Insieme a un buon sistema fognario, l’illuminazione segna il vero scatto in avanti della vita urbana. Qualcuno dovrà pur fare il lavoro sporco perché alla comunità sia concessa un’esistenza più pulita.

Persino a Roma, città simbolo di svagatezza e approssimazione, le fondamenta poggiano su sangue sudore e lacrime: ipocrita nasconderle o porle fuori vista. Il traforato castello del Gazometro, anche se ora è un immateriale disegno in cielo, una specie di miraggio calviniano, sta ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza: come il fossile che segnala, in negativo, con il suo solco vuoto, il corpo dell’animale vivo. 

Le immagini degli operai che lavorarono lassù, sospesi in aria, tra il 1935 e il 1937, ricordano quelle famose dei grattacieli americani in costruzione, con i carpentieri che fanno uno spuntino seduti sulle putrelle d’acciaio appena imbullonate. Ora mi piacerebbe arrampicarmi sulla scaletta metallica che sale a zigzag fino in cima; ma soffro di vertigini, so che non arriverei a dieci metri. Dall’alto penso si allarghi il panorama fino all’osteria “Al Biondo Tevere” che sta un chilometro più in giù sulla via Ostiense. Be’, ci andrò in motorino.

ARTICOLO n. 25 / 2024

ALMARE: INDIVIDUALITÀ E PROGETTUALITÀ CONDIVISA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, stiamo curando Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo secondo appuntamento abbiamo intervistato ALMARE, un collettivo artistico-curatoriale fondato a Torino nel 2017 da Amos Cappuccio, Giulia Mengozzi, Luca Morino e Gabbi Cattani. ALMARE indaga le pratiche artistiche incentrate sull’uso del suono come mezzo espressivo, ma in molti dei loro progetti si riconoscono più anime, vedendo come la scrittura narrativa o l’audiovisivo, per esempio, possono convivere nello stesso spazio performativo, espositivo o testuale con la dimensione sonora.

MONTAG: Sul vostro sito vi descrivete come “collettivo artistico-curatoriale”, ma che cosa significa per voi essere un collettivo? Cosa vuol dire collaborare, lavorare insieme? E un’altra curiosità: che significa per voi essere un collettivo che collabora con altri collettivi? Come fate rete? Pensiamo soprattutto alla recente collaborazione The listeners.

ALMARE (Amos): Vorremmo prima fare una premessa: siamo in un periodo complesso e articolato per il collettivo stesso, motivo per il quale abbiamo deciso di fare questo incontro. Ci piaceva l’idea di dare delle risposte in un momento difficile in cui stiamo passando una crisi – ma sì, chiamiamola crisi. Per quanto mi riguarda, il nostro collettivo sta proprio in quell’equilibrio tra individualità e progettualità condivisa.

Noi siamo quattro persone che dal punto di vista delle attitudini e delle esperienze hanno un filo conduttore, che è il percorso artistico. Non necessariamente nel fare arte in quanto artisti, ma come percorso di studio, di interessi; un percorso di vita, in cui la musica, l’arte in generale, il mondo della cultura sono centrali. Detto questo, abbiamo provenienze diverse anche da un punto di vista di classe, percorsi di vita che hanno direzioni e necessità diverse. E abbiamo sempre cercato, nella nostra impostazione, di far sì che ognuno di noi potesse essere rispettato nella sua individualità e nella sua necessità di portare avanti un percorso personale. Proprio perché ci siamo uniti in una fase che era di “fine scuola” – almeno io, Gabriele, Luca – e, come tante altre relazioni che nascono in periodi di transizione, poi si deve crescere insieme. C’è quasi un movimento ondulatorio, in cui ci si adatta alle necessità degli altri, ci si fa anche trascinare dagli altri, in modo positivo. Poi per ognuno diventa più chiaro in che cosa si sente a proprio agio e che cosa vuole fare. Per noi questo è il momento: abbiamo iniziato a capire tutti più chiaramente che cosa vogliamo, in cosa vogliamo andare avanti nelle nostre vite. E bisogna riuscire a capire quanto questa cosa si può fare insieme e secondo quali modalità.

Questa credo sia l’introduzione, ma forse anche già una parte del discorso. Poi nella pratica facciamo cose diverse. Gabriele, per esempio, ha un percorso più da artista e teorico. Giulia un percorso più curatoriale, anche lei teorico, però con un’attitudine diversa alla scrittura. Io un percorso da musicista e sound designer, come Luca, che è anche informatico. Questo ha fatto sì che le cose si unissero molto bene, ognuno ha potuto portare la sua specificità. Forse il film a cui stiamo lavorando ne è l’esempio maggiore. Detto questo, ci sono altri aspetti, che sono appunto le necessità della vita, del dove si vuole vivere, se nella stessa città o in città diverse, come organizzarsi il tempo, come comunicare. 

MONTAG: Vi siete conosciute a Torino. Si pone la questione della topografia del collettivo. Vi capiamo, lo stiamo vivendo un po’ anche noi.

ALMARE (Giulia): La nostra idea di collettivo si sta schiantando contro la vita reale, quando si incrociano delle necessità che impongono di rispettare l’individualità, comunque rimanendo nella volontà di lavorare insieme. Non so poi fino a che punto si possa dare una definizione univoca di collettivo. Nel caso di ALMARE l’idea di partenza era: che cosa vogliamo fare? A quali mancanze vogliamo provare a rispondere? A quali frustrazioni? Insomma, ci siamo chieste come costruire uno spazio di azione che da sole forse non avremmo saputo creare.

Un’azione trasformativa del proprio contesto, anche mediante iniziative che possono prendere varie forme, da un film che diviene audio-racconto all’organizzazione di concerti, alla scrittura, oppure, non so, passare la notte a parlare di cose. Eravamo quattro amici al bar, scusate la banalità, ma vi vedo sorridere, quindi magari sono esperienze comuni. L’essere collettivo ha a che fare con una agency condivisa. I collettivi, sia artistici che politici, alla fine sono persone che si uniscono per fare qualcosa. Se non c’è questa spinta bastano, credo, altri tipi di relazioni, amicali, ma se c’è un intento di unirsi in un organismo che supera le individualità forse è perché si sente la volontà di essere più efficaci nell’operare nel proprio contesto. Spero non sia troppo astratto come ragionamento.

MONTAG: Non sembra per niente astratto, anzi: l’agency condivisa, creare uno spazio d’azione comune, è un fare molto politico, ed effettivamente, addentrandosi nei vostri lavori, si legge di guerriglia sonora o di arma sonora. Come vi ponete rispetto a questo discorso, a questa vocazione politica, a questa voglia di cambiare le cose, sia in riferimento al vostro ultimo lavoro, Cronache di vita di Dorothea Ïesj S.P.U., sia rispetto ad altri lavori passati nei quali vi siete interfacciati con figure politiche, di lotta, come Porpora Marcasciano? 

ALMARE (Gabriele): Non so se esista un politico fuori da una visione, che poi è anche ideologica. E non c’è bisogno di aver paura di questo. Noi siamo quattro, e in questo corpo tetracefalo abbiamo visioni che guardano in una stessa direzione, forse politica, ma che si sono espresse anche in modi diversi e in attività diverse. Penso che Giulia e Amos abbiano una pratica più spiccata di attivismo, o di studio relativo a certe tematiche. Poi, una parte di questo studio e di questa pratica è entrata all’interno del collettivo, così come in Dorothea, ma come dicevate anche il nostro incontro con Porpora ha contato. In quel caso eravamo state invitate per lavorare su come il suono, e specialmente il suono registrato, occupa uno spazio, in senso molto pratico, architettonico. E dunque qual è la differenza tra uno spazio privato e uno spazio pubblico, che è anche performativo? E come scelgo di diffondere un suono che altrimenti rimarrebbe inciso? Quando abbiamo cominciato a organizzare delle sessioni d’ascolto o a ragionare su certe tematiche, è allora che queste sono emerse come urgenti: oggi il suono è rientrato nel dibattito sulla politicizzazione della memoria e su come conserviamo certi suoni, come vi abbiamo accesso. Penso che queste tematiche, poi, ci abbiano spinto a occupare in modo più trasversale diverse posture, con la volontà di porsi domande su questioni difficilmente riassumibili, che necessariamente aprono a una sorta di mimesi che spinge a chiedersi: “E io come lo farei? Come reagirei a questo stimolo?”

ALMARE (Giulia): Da questo punto di vista faccio una precisazione: fatico a arrogarmi il diritto di definirmi attivista perché per esserlo ci vuole una costanza, una coerenza e una capacità di impegnarsi rispetto ad alcune questioni che purtroppo, forse per uno spirito di autoconservazione o mantenimento di privilegi, sento di non avere appieno. Però è indubbio che c’è una sensibilità che va in quella direzione, un approccio politico. ALMARE ha sempre cercato con le proprie pratiche di creare operazioni culturali che potessero funzionare come piattaforma di supporto e diffusione di contenuti politici, che poi abbiamo condiviso con persone che invece possono a buon diritto dirsi attiviste. Penso a Justin Randolph Thompson, che abbiamo portato in una performance al compianto Macao e al festival Saturnalia nel 2018, poi sicuramente a Porpora Marcasciano, chi più di lei? Insomma, non voglio dire che un approccio politico sia il motore primigenio delle nostre collaborazioni, però c’è un’attenzione verso questo aspetto. Penso che chi fa attivismo abbia bisogno di piattaforme, di risorse. E nel suo piccolo ALMARE prova a contribuire. Questa è un’intenzionalità politica che ha un piccolo effetto sul piano del reale.

Poi c’è un lavoro di analisi e diffusione di contenuti che non è mai didascalico, perché non lo è il nostro linguaggio, che a tratti è anche abbastanza complesso e lì cerchiamo di fare il nostro per diffondere contenuti che sono esplicitamente politici. Si faceva riferimento ad esempio alla questione delle armi sonore, che è da intendersi come l’ha intesa Steve Goodman in Sonic Warfare. Nel contesto dell’audio-racconto l’abbiamo veicolata attraverso una storia fantascientifica che fa esplodere in maniera fantasiosa l’argomento, però per noi sono tutti strumenti di riflessione sulla realtà che viviamo tutti i giorni, e speriamo anche che lo siano per chi si imbatte nel nostro lavoro. Mettiamola così.

MONTAG: Partendo da Cronache di vita di Dorothea, volevamo farvi una domanda sul fronte artistico. Ci ha interessato molto come progetto perché è una creatura ibrida sotto moltissimi punti di vista: unisce sonoro, testuale, narrativo. Ma è anche ibrida dal punto di vista del genere narrativo, perché c’è da un lato il framework fantascientifico, ma dall’altro c’è anche quell’effetto quasi horror generato dal sentire la voce, il suono perduto di qualcosa quasi inarrivabile. Ne avete parlato anche in un post su Instagram, della possibilità di recuperare la voce di Gesù, che però chiaramente avrebbe un effetto orrorifico, perché parlerebbe in una lingua che a noi è completamente aliena, con inflessioni a noi sconosciute. Ci interessa questo vostro lavorare in maniera ibrida sia sul piano dei media che su quello dei generi. Per voi è una cosa naturale, lo decidete insieme…?

ALMARE (Giulia): Terrificante, ma anche comico. Sempre a cavallo.

ALMARE (Amos): I formati ibridi credo siano una delle scelte che più ci caratterizzano e interessano fin dall’inizio. Ci abbiamo sempre fatto attenzione, perché non volevamo bloccarci all’interno di una modalità di fare, di un formato o di un linguaggio. Di per sé questo audio-racconto si forma pian piano da un punto di vista formale, ma nasce prima di tutto come un racconto inteso proprio come una fiaba letta ad alta voce. Lo volevamo fare con uno stile che fosse vicino alla fantascienza dal punto di vista della scrittura, perché lì ci portava il tema dell’archeoacustica, che di per sé è fantascienza, ma nel senso che è una scienza che ancora non ha trovato delle risposte ai propri esperimenti, quindi è fantastica ed è qualcosa che ti devi per forza immaginare. Poi da un punto di vista formale, invece, all’inizio era semplicemente un audio-racconto senza sottotitoli. I sottotitoli sono nati come elemento funzionale e poi sono diventati centrali e necessari per portare fuori la voce e dargli una forma attraverso le lettere e le parole. Da lì ci sono voluti anni prima di arrivare a pensare che potesse essere considerato un film. Abbiamo avuto la fortuna che ci invitassero a fare la presentazione e ci dicessero “guardate abbiamo un cinema, vi va di farlo in un cinema?” E noi, “Ok, proviamoci”. Quell’esperienza lì, al cinema, è stata illuminante, perché abbiamo capito che effettivamente era un film. Lì prendeva forma nella postura che richiede il cinema, nello stare seduti, nell’ascoltare dall’inizio alla fine, nell’avere un grande schermo che ti attrae gli occhi e allo stesso tempo non c’è quasi nulla da vedere. Dall’altra hai anche la possibilità di avere un impianto audio che ti concede di spaziare, di lavorare sulla dimensione drammaturgica del suono. 

ALMARE (Giulia): Era il cinema Eliseo di Cesena, nel contesto della programmazione curata da MU, un’organizzazione composta da Enrico Malatesta, Glauco Salvo, Giovanni Lami. Tutte quelle ricerche che avevamo svolto in altri progetti, sia curatoriali che organizzativi, ci avevano portato a indagare certe tematiche che sono intrinsecamente legate agli albori di una tecnologia, di un modo di intendere la tecnologia, e che ci riguardano perché siamo ancora all’interno della modernità per quanto uno si sforzi a dirsi postumano. Nello specifico, Cronache di vita di Dorotea nasce da una ricerca legata alla registrazione, con la quale eravamo ossessionate nel 2019, e su cosa significa ascoltare e riascoltare, e se è possibile davvero ascoltare suoni registrati da noi stessi senza calcolare un interlocutore diretto: un’impressione sonora che non è finalizzata a una comunicazione intenzionale. Ci siamo accorte che le questioni che stavamo studiando andavano a smuovere tutta una serie di ambiti di cui noi non potevamo assolutamente occuparci. Allora abbiamo deciso di invitare autori, autrici, artiste, ricercatori, ricercatrici, che pensavamo potessero avere qualcosa da dire rispetto a questa domanda: che cosa significa autoregistrarsi? Il risultato è stata un’installazione sonora che abbiamo chiamato “Miscellanea” in riferimento a un format seicentesco, barocco, perché chiamarla archivio, database, non era abbastanza. La traccia dura 17 ore e raccoglie una serie di spunti sull’archeoacustica, una disciplina che indaga le proprietà acustiche dei siti archeologici per capire come sentiva la gente all’epoca dentro quei luoghi, come voleva far riverberare la voce.

Si tratta anche di un fantasioso sottobosco di teorie cospirazioniste e leggende metropolitane, legate a un’idea nata tra fine Ottocento e inizio Novecento: le persone attraverso queste tecnologie scoprivano che le onde sonore si imprimono nella materia e che poi, con degli strumenti appositi, è possibile riprodurre l’incisione discografica. Qualcuno si chiese: sarà successa la stessa cosa in tempi antichi? La voce di Aristotele sarà rimasta incisa su un vaso che qualcuno stava modellando in quel momento? Un’idea molto stimolante dalla quale è nato il what if del nostro racconto fantascientifico. Immaginate cosa succederebbe se questa ipotesi diventasse praticabile.

Qui la fiction arriva un po’ come reazione ai limiti della ricerca speculativa. Anche questo nasce da un’esperienza di ricerca condivisa e forse non ci saremmo mai arrivate se non avessimo fatto ricorso a ispirazioni portate dal coinvolgimento di altre persone. Abbiamo avuto la fortuna di poter approfittare in maniera quasi parassitaria di soluzioni che vengono dall’incontro con un’etichetta internazionale con cui abbiamo organizzato alcuni concerti a Torino. L’etichetta aveva poi coinvolto un’associazione torinese, Archivio Tipografico, che si occupa della conservazione della nobile arte della stampa a caratteri mobili. Il fatto che loro lavorassero alla riemersione di strumenti per la stampa risuonava con quella del suono, inciso e scavato come caratteri mobili, di cui parla il racconto. Il lavoro è, alla fine, un film, un piano sequenza che però è anche un’operazione di graphic design, ottenuta tramite processi analogici. L’effetto finale è quello di immagini che sembrano uscire dallo schermo, senza una funzionalità in sé, ma rinforzando ciò su cui volevamo lavorare, questa idea dello scavo archeologico, dell’emersione di strati diversi che poi si sintetizzano. L’interfaccia visiva ha assunto quasi magicamente un ruolo sintetico, una ragione quasi autonoma. E, anche qui, non avremmo potuto farlo senza entrare in relazione osmotica con il lavoro di altri collettivi.

MONTAG: Volevamo proprio andare a scavare su quanto fosse importante per voi il rapporto tra sonoro e visivo. Poi con il discorso sul collaborare e intrecciarsi con altre realtà ci avete fatto pensare a Kathy Acker, che seguiva un’etica molto punk, appropriazionista, e le sue opere cercavano di mostrare come tutto viva di una intertestualità e sia, in fondo, una sintesi di appropriazioni. Ci sembra che anche il modo in cui decidete di lavorare mostri il bello di una sintesi simile, fatta di tutti gli scambi e le collaborazioni che avete attraversato, sia tra di voi che con altre realtà. Tutto ciò, in un certo senso, rimane. Ecco, lo sottolineiamo perché sulle cose di cui abbiamo parlato aleggia una certa ossessione per l’inciso, la memorizzazione, qualcosa che viene salvato. Noi, nella nostra esperienza con la scrittura performativa, ci siamo confrontati con il dilemma inverso: situazioni di creazione collettiva in cui, alla fine, se l’opera finale scompare, che problema c’è? Cosa cambia, insomma, se dell’esperienza sonora o narrativa non resta assolutamente niente, se viene vissuta interamente sul momento. Finora abbiamo parlato di memoria sonora ma, al contrario, come vi ponete rispetto alla scomparsa sonora? Nella vostra estetica o etica si è mai posta una questione simile?

ALMARE (Gabriele): L’audio-racconto traccia esattamente questa traiettoria di cui parlate. Da una parte, l’ossessione di salvaguardare, o forse una pretesa di salvaguardare, tutto, di un’archiviazione quasi totale. Proprio l’altro giorno mi trovavo a discutere del rapporto con la tradizione e del fatto che la tradizione sia sempre, in fondo, una reazione emotiva alla perdita. E non esiste tradizione senza perdita. Sono la stessa cosa: ogni volta che ci interfacciamo con una ricorrenza, ci interfacciamo con una perdita. D’altro canto, e questa è la fine del racconto, le cose devono essere lasciate andare, in modo che possano essere vissute e basta. La memoria non è archivio. Bisogna fare i conti con l’ineluttabile e anche, direi, con una certa gioia nell’accettare che le cose prendano la loro naturale vita e che, quindi, si perdano. Forse potremmo definire la tecnologia nei termini di una hauntologia, una creazione di fantasmi: se si vuole tenere tutto, si vivrà in un mondo di fantasmi. E questo per noi era un punto centrale verso il quale volevamo andare con il racconto.

ALMARE (Amos): Aggiungo una cosa, un po’ per chiudere il cerchio rispetto all’introduzione. Per far sì che i nostri personaggi lasciassero andare, in un certo modo, abbiamo dovuto lasciare andare noi prima di tutto. Per questo parlavamo di un’esperienza “sofferta”, nel senso che la cosa andava a toccare un elemento intimo, anche rispetto a un momento in cui il nostro collettivo ha incontrato quel sottile confine tra le necessità comuni e le necessità di ciascuno. L’individuo, nel senso positivo del termine, non è l’individuo che rifiuta gli altri o rifiuta di mettersi in discussione, ma è l’individuo che riconosce il suo percorso e impara anche a mettersi da parte. Solo così aiuta la collettività, nel momento in cui è in grado di lasciare andare. E questo è un percorso che si fa da soli e insieme allo stesso tempo.

ALMARE (Giulia): Dico un’ultima cosa che però mi sembra significativa rispetto anche alla scrittura collettiva. Mi pare di capire che anche voi vi scontriate con il lasciare andare, il domandarsi fino a dove accumulare e poi fino a che punto sintetizzare o rielaborare tutto. Prendiamo lo script del nostro film. Molto materiale che usiamo sono parole scritte da altri, come Goodman, Burroughs, Morselli. Credo che finora solo per caso non ci sia finita Acker stessa. Poi c’è stata una prima fase del lavoro che è stata una registrazione delle nostre conversazioni, oppure salvataggi più o meno autorizzati di mail, chat, e così via. Tutto quel materiale è finito in un modo o nell’altro all’interno del lavoro finale: là dentro ci sono le parole di tutti, il nostro cumulo. Qui poi potremmo aprire tutta una digressione sull’accumulo come ossessione e sulla sua matrice politica, ma forse non abbiamo tempo.

MONTAG: Forse no, ma grazie mille per tutto quello che avete detto. Una cosa finale?

ALMARE (Amos): Nessuno ha ancora detto la parola capitalismo.

ARTICOLO n. 24 / 2024

DONNE CATTIVE

Il mito della mostruosità femminile - ii

Uno dei film più attesi del nuovo anno è stato indubbiamente Povere creature!, ultima pellicola del regista greco Yorgos Lanthimos. Il film, che vede tra i protagonisti Emma Stone e Willem Dafoe, è tratto dal celebre romanzo di Alasdair Gray e racconta la storia di Bella Baxter, giovane donna che lo scienziato Godwin Baxter riporta in vita attraverso uno strano esperimento. Di Bella, all’inizio, sappiamo poco; non conosciamo i motivi che l’hanno portata, incinta, a suicidarsi gettandosi nel fiume, né con quali tecniche Baxter l’abbia rianimata. Mentre racconta all’amico e collega McCandless delle circostanze in cui ha compiuto l’operazione, il medico rivela di aver prelevato il cervello dal feto e di averlo impiantato successivamente nel corpo della giovane: «Per anni avevo progettato di prendere un corpo e un cervello scartati dal nostro mucchio di letame sociale per riunirlo in una nuova vita. Adesso l’ho fatto, e Bella ne è il risultato». 

A una prima analisi, la storia di Bella Baxter potrebbe ricordare quella di Frankenstein, entrambe le figure condividono infatti il destino di essere assemblate e riportate in vita per mano di un uomo. Tuttavia, Bella è fin da subito dotata di un nome e una propria individualità, che si forma via via grazie ai progressi evolutivi di quel cervello infantile che le è stato impiantato. Bella è riconoscente al suo creatore, che non a caso per tutto il romanzo chiamerà con il suo diminutivo che significa “Dio”: «Mi hai reso forte e sicura di me – God – insegnandomi le cose belle e importanti del mondo e mostrandomi che ero una di esse». Ben diversa invece è la vicenda di Frankenstein, mostro senza nome, ripudiato anche dall’uomo che lo ha creato, e mai avrebbe dovuto. Mentre Shelley dà vita a un romanzo – il primo a metà tra gotico e fantascienza – in cui traspone la perdita e il dolore per la morte prematura della figlia, Gray crea una storia politica funzionale a ricordarci l’importanza di cambiare costantemente prospettiva per poter andare, davvero, al nocciolo delle questioni. Non è un caso, infatti, che lo scrittore di Glasgow, giocando con la quarta parete, racconti la storia da punti di vista diversi: il suo, che nella finzione letteraria diventa curatore di un grande volume trovato per caso tra i materiali di cui una ditta si era sbarazzata; quello di McCandless, che firma l’opera e quello della stessa Bella Baxter, che il giovane medico sposerà dopo varie peripezie. 

Bella Baxter è una figura mostruosa non solo e non tanto per il modo in cui interagisce con gli altri personaggi – si muove a scatti, impara a parlare e scrivere esattamente come farebbe un bambino, per tappe e grossolani errori – lo è soprattutto perché il suo comportamento trasgredisce le regole sociali. È bellissima, sessualmente insaziabile – tanto che non perde occasione di intrattenersi con l’avvocato Duncan Wedderburn (nonostante sia promessa sposa di McCandless) – e si diletta inoltre a girare per il mondo sostenendo le nascenti teorie socialiste. La mancata maternità, la vita sessuale dissoluta, l’interesse per la politica e la scienza fanno di lei una donna mostruosa, una delle tante che il sistema di potere nel quale ci troviamo a vivere ha sempre tentato di condannare e reprimere. Nel lungo cammino che ci spinge a riflettere intorno ai miti del femminile, non potevamo quindi esimerci dal raccontare del loro corpo e, soprattutto, delle loro pulsioni.

Come dicevamo, il patriarcato non si è premurato soltanto di definire quelle pratiche e quei comportamenti che dovevano essere agiti dalle donne per poter ottenere approvazione e consenso. Le regole si creano soprattutto attraverso il biasimo e la condanna sociale delle condotte ritenute indegne: dimostrare un’eccessiva libertà e promiscuità sessuale rientra indubbiamente in questa casistica.

Ne Il mostruoso femminile, Sady Doyle scrive: «La sessualità di una donna adulta – quella che va a braccetto con l’esperienza, la capacità d’azione e il potere – è demonizzata anche più di quella adolescenziale». Non ci si deve stupire quindi se il patriarcato ha cercato nei secoli di costruire, attraverso la narrazione, miti funzionali a stigmatizzarla. Il genere femminile viene da sempre raccontato attraverso una prospettiva maschile: non solo nel cinema, come ci ha spiegato la critica cinematografica Laura Mulvey, ma anche nelle storie e nelle tradizioni che ci sono state tramandate vengono rappresentate esperienze femminili attraverso lo sguardo e le lenti interpretative degli uomini. A ben vedere, molte protagoniste che ci sono state consegnate dalla storia raccontano più della paura degli uomini nei loro riguardi che non delle vicende che le vedono coinvolte. In questo senso, la mitologia irlandese è una fonte interessante a cui guardare per cercare qualche esempio. Le selkie sono donne-foca che possono “perdere” la loro pelle animale per assumere una forma umana e vivere sulla terra, insieme al loro partner, a patto che egli non ne veda il manto tenuto al sicuro in baule. In quel caso l’essere mitologico perderà le fattezze femminili e si allontanerà per sempre dal suo sposo.

Il mito delle selkie potrebbe derivare a sua volta dalla vicenda di Melusina, raccontata nell’Histoire de Lusignan, dallo scrittore francese Jean d’Arras. Melusina è una fata che accetta di sposare Raimondino, figlio del re dei celti, a patto che egli la lasci sola per un giorno a settimana. Tutto sembra procedere bene fino a quando il giovane, convinto dalle malelingue che la moglie avesse un amante, rompe il patto e la spia: ciò a cui assiste non è un tradimento ma una rivelazione circa la mostruosità della sposa, che dalla vita in giù è dotata di una lunga coda da sirena. In seguito alla rottura dell’accordo, Melusina sparisce gettando il suo sposo in un dolore straziante.

Le donne libere sembrano quindi giocare con i sentimenti degli uomini: a Bella Baxter pare non importare molto del dolore che arreca a McCandless quando decide di andarsene con “l’amante” nonostante la promessa di matrimonio. Per lei, l’amore per le due figure non è in contraddizione. La protagonista di Povere creature! non è un vampiro, eppure la sua vicenda ricorda molto quella di Lucy Westenra.

Secondo l’interpretazione di J.E. Sady Doyle, la donna descritta in Dracula appare come un personaggio non convenzionale, ricca, bellissima, voluttuosa e, a differenza della cugina Mina Harker, più interessata a flirtare con i tre suoi pretendenti che a sposarsi e aderire alle convenzioni sociali. Il modo in cui Bram Stoker descrive il momento in cui Dracula si china sul suo corpo trasformandola per sempre in una non-morta ha poco del sacrificio e molto della voracità sessuale a cui lei pare abbandonarsi. È il professor van Helsing che rivela ai tre amanti la spiacevole verità e obbliga il promesso sposo Arthur Holmwood a piantarle un paletto nel cuore. Prima del gesto, la cui violenza ricorda quella dello stupro, la donna tenta ancora un approccio sessuale («vieni da me, Arthur, le mie braccia ti bramano»), ed è proprio quello il momento in cui la sua immagine si trasforma, anche agli occhi degli astanti. Dice ancora Sady Doyle, riportando Stoker: «Diventa un incubo, “la dolcezza era diventata spietata crudeltà e la purezza voluttuosa impudicizia”».

Pur non avendo nulla del romanzo didascalico, la punizione subita da Lucy Westerna insegna alle donne a moderare il proprio desiderio, a renderlo accettabile all’interno della cornice sociale entro cui devono adattarsi. Bella, Lucy, Melusina, sono figure che mal si adeguano alle regole anche perché sono loro che cercano di dettarle, ed è proprio questo l’aspetto contribuisce a renderle una minaccia. Nel corso dei secoli, non tutte le donne che hanno rappresentato un pericolo sono state rinchiuse in manicomio o processate per stregoneria, ma tutte hanno subito un controllo nel tentativo di produrre un addomesticamento coatto. La maggior parte delle protagoniste non avrà una storia come quella di Bella Baxter (di cui non sveliamo il finale), molte soccombono alla forza di un potere che le sovrasta. Muoiono, ma si ribellano seminando terrore negli uomini che sono costretti a scontrarsi con loro, e questo gesto sì che può insegnarci qualcosa.

ARTICOLO n. 23 / 2024

LA MUSICA DELLE PAROLE

Dopo essere stati travolti dall’overdose sanremese, in cui si è disquisito di tutto, dall’outfit (oddio, l’ho scritto!) di uno al colore dei capelli dell’altra, dalle pseudo-polemiche agli pseudo-scandali, mi è venuta voglia di parlare di musica. Mi correggo: siccome della musica non ha molto senso parlare (la musica la si ascolta), mi soffermerò su ciò di cui parla la musica, ovvero i testi delle canzoni. Tanto per rimanere sul più grande fenomeno canoro italiano, citerò alcune strofe raccolte a caso dei brani sanremesi di quest’anno (oltre all’immarcescibile parola “amore”, la più ricorrente pare sia “mare” seguita da “cielo”):

Se avessi un telecomando non ti cambierei mai / tagliami il cuore se vuoi con un paio di forbici
L’amore spacca il cuore a metà / ti lascia in coma dentro al solito bar / nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle / e vomito anche l’anima per sentirmi vivo dentro ‘sto casino
Con cosa son rimasto / con ‘sta nostalgia del cazzo
Sai che dentro ho un mare nero che m’illumina
La mia collana non ha perle di saggezza / a me hanno dato le perline colorate / per le bimbe incasinate con i traumi/da snodare piano piano con l’età/eppure sto una Pasqua guarda zero drammi
Stamattina io mi lavo i denti col gin / metto i soliti jeans / sono un nomade in un attico chic
Le tue pupille sembrano pallottole se mi guardi mi ferisci / tu sai che avevo bisogno d’aiuto potevi pure mandarmi a fanculo
L’amore è una sala slot / mi gioco tutto
Questo amore è una sparatoria / con le tue armi puntate verso di me / siamo pieni di rimpianti fino all’overdose.

Ecco qui. Ora non sto a lambiccarmi se debba o meno lasciare il segno un testo scritto per quel palcoscenico fiorito, abbandono dunque il festival rivolgendo lo sguardo (e in seguito l’orecchio) alle canzoni i cui testi, insieme alle note, hanno segnato la mia esistenza, e comincerò dal gruppo che più di ogni altro associo alla mia biografia: i Genesis. Credo di conoscere a memoria quasi tutti i testi degli album prodotti dal 1970 al 1976, vale a dire da Trespass a Wind and Wuthering, che segna la fine della mia cieca devozione. 

La maggioranza delle persone ascolta una canzone senza tener conto delle parole che la compongono, vuoi perché non conoscendo la lingua ne ignora il significato, vuoi perché considera il testo elemento accessorio alla melodia. Per me invece i testi sono fondamentali. Posso dire di aver imparato l’inglese per poter capire le lyrics dei Genesis, e seppure la padronanza della lingua non ha chiarito il senso di quelle parole misteriose imbevute di mitologia e simbolismi, mi ha però offerto l’impagabile piacere di cantare insieme a Gabriel, Rutherford, Hackett, Banks e Collins le migliaia di volte che ho schiacciato il tasto play per ascoltarli. I’ve got sunshine in my stomach… 

Già solo questo attacco: “Ho il sole nello stomaco”, me li fa amare senza riserve. La concezione musicale (di questo si tratta, di concezioni) dei Genesis è strettamente legata al testo, le celeberrime suite sono interminabili poemi musicali, e pazienza se le ambiguità, i doppi sensi, gli scioglilingua, le ripetute metafore di cui sono farciti i versi rendono ardua la comprensione, pazienza… Li avrei amati allo stesso modo senza conoscere i testi delle loro canzoni? Non credo. Mi piace sapere che in Get’em out by Friday vengano evocati dei “dirigenti dell’Ente Controllo Genetica” che decidono la statura massima delle persone così da sfruttare lo spazio abitabile delle case: I hear the Directors of Genetic Control / have been buying all the properties that have recently been sold / taking risk oh so bold / it’s said now people will be shorter in height / they can fit twice as many / in the same building site. Così come mi appassiona sapere che Supper’s ready nasce da un’esperienza paranormale vissuta da Peter Gabriel e sua moglie Jill, nel salotto, divenuto improvvisamente teatro di spaventosi fenomeni, della casa dei genitori di lei. Si racconta di visioni soprannaturali, tende svolazzanti, strani rumori, e di uno stato di trance che trasfigura il volto di Jill: Walking across the sitting room / I turn the television off / Sitting beside you / I look into your eyes / As the sound of motor cars / Fades in the nighttime / I swear I saw your face change / it didn’t seem quite right.

Capire il significato del testo rende il brano, già grandioso nella sua composizione, ancora più potente. Naturalmente la metrica è fondamentale, la traduzione rischia talvolta di far apparire un testo ancora più assurdo di quanto già non lo sia in originale. Cito l’esempio di un’altra band che ricorre nelle stagioni della mia vita: I King Crimson. 

Disse l’uomo onesto all’uomo in ritardo / Dove sei stato? / Sono stato qui e sono stato lì / e ho vissuto a metà / Io parlo al vento / il vento non sente, il vento non può sentire.

I talk to the wind è il titolo del brano: Said the straight man to the late man / Where have you been? / I’ve been here and / I’ve been there / And I’ve been in between.

Non si tratta quasi mai di parole appese tanto per soddisfare il ritmo di una melodia, è evidente la ricerca di un valore letterario, il tentativo di far combaciare due linguaggi senza che uno prevalga sull’altro.

Between the iron gates of fate / the seeds of time were sown / and watered by the deeds of those / who know and who are known / knowledge is a deadly friend / if no one sets the rules / the fate of all mankind I see / is in the hand of fools.

Tra i cancelli di ferro del destino / furono piantati i semi del tempo / e innaffiati dalle azioni di quelli che conoscono e da quelli che sono conosciuti / la conoscenza è un’amica mortale / se nessuno stabilisce le regole / il destino di tutta l’umanità che vedo / è nelle mani dei pazzi.

Epitaph è il titolo del brano contenuto nell’album In the court of the Crimson King. Echi shakespeariani e musica sublime. Non a caso, ai testi, interpretati dalla voce distorta di Greg Lake, collaborò il poeta Peter Sinfield. Vi è incluso anche l’apocalittico (e profetico) 21st Century schizoid man: 

Un tormento di sangue / filo spinato / un rogo di politici /innocenti stuprati con il fuoco del Napalm / uomo schizoide del ventunesimo secolo / La morte semina l’avidità dell’uomo cieco / i figli dei poeti affamati sanguinano / Non ha nulla di cui abbia veramente bisogno / l’uomo schizoide del ventunesimo secolo.

“L’uomo schizoide del ventunesimo secolo” potrebbe essere il titolo del momento, invece è datato 1969. Inutile citare la copertina, probabilmente la più bella mai realizzata (da un ragazzo di ventitré anni che morì l’anno successivo senza sapere quale prodigio aveva compiuto). Chi non la conosce vive sulla luna.

«Nei nostri concerti vedo migliaia di persone felici di ascoltare questo pezzo, ignari di ciò che dice», ha detto in un’intervista Thom Yorke a proposito di Street Spirit (fade out), brano dei Radiohead contenuto nell’album The Bends. Un testo disperato, Street Spirit, come disperata è la voce di Yorke: Uova frantumate, uccelli morti / urlano mentre lottano per la vita / sento la morte, vedo i suoi minuscoli occhi / queste cose matureranno / queste cose ingoieremo un giorno.

Cracked eggs, dead birds / scream as they fight for life / I can feel death, can see its beady eyes / all these things into position / all these things we’ll one day swallow whole.

Esistono diverse cover dei brani dei Radiohead (lo stesso Peter Gabriel ha prodotto una sua dolentissima versione di Street Spirit), ma i testi di Thom Yorke, così criptici, psicanalitici, concettuali, se cantati da altri suonano come appropriazioni indebite. Basta leggerli per capire che non esiste altro modo possibile di interpretarli se non con la voce del loro autore, così come accade con i poeti, gli unici legittimi declamatori dei loro versi. 

Il più grande scrittore (sì, scrittore) di testi è senza dubbio Bob Dylan, probabilmente uno dei Nobel per la letteratura più meritati degli ultimi anni, con buona pace di chi ha sollevato riserve. Lo cito per dovere di cronaca pur non facendo egli parte delle mie ossessioni musicali. Possiedo però un libro ponderoso (1225 pagine) intitolato Bob Dylan Lyrics 1962-2001 (mancano dunque più di vent’anni di brani aggiuntivi), del quale ogni tanto mi diletto ad aprire una pagina a caso, e ogni volta casco su qualche perla. Come in questo momento: p.585, Sign on the CrossI know in my head / that we’re all so misled / and it’s that ol’sign on the cross / that worries me / Now, when I was just a bawlin’ child / I saw what I wanted to be / and it’s all for the sake / of that picture I should see / but I was lost on the moon / as I heard that front door slam / and that old sign on the cross / still worries me.

Ce l’ho ben chiaro in testa / che siamo tutti sulla strada sbagliata / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri / Sin da quando ero un bambino che frignava / sapevo cosa volevo fare da grande / ed è tutto per via / di quella figura che poi dovevo vedere / ma ero perso sulla luna / quando ho sentito sbattere la porta / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri.

Proviamo di nuovo. Casco sulla pagina 1025. Il titolo è Dignity. La dignità.

Fat man lookin’ in a blade of steel
Il grasso la cerca in una lama d’acciaio
Thin man lookin’ at his last meal
Il magro la cerca nel suo ultimo pasto
Hollow man lookin’ in a cottonfield
Un guscio d’uomo la cerca in un campo di cotone
For dignity
La dignità
Wise man lookin’ in a blade of grass
Il saggio la cerca in un filo d’erba
Young man lookin’ in the shadows that pass
Il giovane la cerca nelle ombre che passano
Poor man lookin’ through painted glass
Il povero cerca di scorgerla in un vetro dipinto
For dignity
La dignità

È tutto chiaro. Ciascuna parola ha il suo significato.

Per una stramba associazione penso a Syd Barrett e ai suoi testi, i cui significati vagavano nei bui meandri del suo cervello: An effervescing elephant / with tiny eyes and great big trunk / once whispered to the tiny ear / the ear of one inferior / that by next june he’d die, oh yeah.

Un elefante effervescente…

I versi enigmatici sono quelli che prediligo. Inestimabile Mogol, ma Pasquale Panella, per Battisti, di questo è stato capace: 

Ti piacciono i dolci / ed io sul tuo terrazzo impianto / un’impastatrice industriale / che mescola e sciorina la crema per le scale.

Vuoi prendere un treno di notte / pieno di paralumi e di damasco per dormire / Sennò a che serve un treno? / Alzo con le mie leve tutti i binari / E, senza alcun disagio di viaggiare in discesa / Scivolano da te tutti i vagoni / Detto così è semplice / E infatti lo è detto così.

Se nulla capivo, qui tu finalmente / Nulla lasciavi germogliare sulla brulla / Paradossale, tra noi terra infondata / Dove sono i leoni / Ammattiti e marroni / Lasciando immaginare / La sposa occidentale.

I leoni ammattiti e marroni…

E poi c’è De Gregori con l’inarrivabile: Conoscete per caso una ragazza di Roma / la cui faccia ricorda il crollo di una diga.

O l’ancora più bello: Ditele che la perdono per averla tradita.

E infine vorrei ricordare un autore ignorato in Italia e molto popolare in Francia. Personaggio eclettico (è attore, scultore, disegnatore, regista) dall’aspetto buffonesco, è autore di testi sublimi nascosti in motivetti elementari, apparentemente leggeri. Un pezzo unico nella patria degli chansonniers. Il suo nome è Philippe Katrine, e questo è ciò che scrive nel brano Mort à la poésie:

Je fais de ma vie un chef d’œuvre / Faccio della mia vita un capolavoro
Que l’on visite pour 100 francs / Visitabile con 100 franchi
Tous les deux ou trois ans / Ogni due o tre anni
J’écrase des insectes merveilleux / schiaccio insetti meravigliosi
Sur des visages adolescents / su visi adolescenti
Et absolument consentants / e assolutamente consenzienti
Je marcherais nu sur la Pont Neuf / Camminerò nudo sul Pont Neuf
Le 7 avril de 2009 / Il 7 aprile 2009
En criant: / Gridando:
«Mort à la poésie ! Mort à la poésie ! / Morte alla poesia! Morte alla poesia!
Je suis un homme libre» / Sono un uomo libero»


Concludo con il suo testo più bello, Où je vais la nuit. Versi che Baudelaire avrebbe amato:

Si tu savais où je vais la nuit / Se tu sapessi dove vado di notte
Je nage dans tes yeux comme en Océanie / Nuoto nei tuoi occhi come in Oceania
Je marche dans tes cheveux sans trouver mon chemain / Cammino nei tuoi capelli senza trovare la strada
J’escalade tes seins avec l’aide des dieux / Scalo i tuoi seni con l’aiuto degli dèi
Si tu savais / Se tu sapessi
Où je vais la nuit / Dove vado di notte
J’embrasse tes ancêtres sur leur bouche adorée / Bacio i tuoi antenati sulla bocca adorata
Et toutes les terres qu’ils ont un jour foulé / E tutte le terre che calpestarono un tempo
Je les embrasse pareil à un nouveau né / Li bacio come farei con un neonato
Puis je pleure un peu pauvre con que je suis / Poi piangerei un po’, povero fesso che sono
Si tu savais où je vais la nuit / Se tu sapessi dove vado di notte
Tu resterais, toi ou ton fantôme / Rimarresti, tu o il tuo fantasma
Qui métamorphose mes nuits en royaume / che trasforma le mie notti in un reame
Sauvage et délicat / Selvaggio e delicato
Reste dans mes bras / Resta fra le mie braccia

ARTICOLO n. 22 / 2024

TORNARE NELL’ESTREMO NORD DELL’ALASKA

Pubblichiamo un estratto inedito dal volume oggi in libreria, Il canto del mare (Einaudi, traduzione di Duccio Sacchi).

Prima della nascita di mio figlio vivevo a Londra, avevo una vita sociale intensa ed ero una giornalista di successo. Una volta diventata mamma, le cose hanno preso una piega via via peggiore. Quando Max aveva un anno, nel 2012, mi sono ritrovata a vivere in un ostello per madri single, sull’isola di Jersey, di fronte alle coste del nord della Francia, dove ero cresciuta. Avevo speso tutti i miei risparmi in onorari di avvocati, per difendermi in tribunale dal mio ex, Pavel, e dimostrare che Max doveva vivere con me. 

Nell’ostello me ne stavo sulle mie, usavo il corpo come un’armatura, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Era tutto svanito così in fretta. Il lavoro regolarmente retribuito, il sonno, gli amici a cui non avevo più i soldi per telefonare, la mia stessa casa. Possedevo un appartamento nell’East London, ma non potevo venderlo, dato che valeva meno del mutuo che dovevo finire di pagare, e neppure ero in grado di estinguere l’ipoteca per andare a viverci. Senza contare che c’erano anche altre ragioni per non stare a Londra. 

Per me era come reimparare da zero a camminare e a parlare. E dato che il mondo sembrava non riconoscermi più, pensavo soltanto a prendermi cura di quello che era diventato il centro di ogni cosa, il mio bambino di un anno. 

Un giorno d’inverno avevo imboccato una viuzza appartata, lontana dalla zona dei negozi di Saint Helier, il maggiore centro abitato di Jersey, e avevo proseguito fino al banco alimentare situato al piano di sopra di un negozio di beneficenza dell’Esercito della salvezza. Un uomo sorridente ci aveva fatto strada oltre gli appendiabiti e su per le scale fino a una fila di armadi a muro al primo piano. «Prendi tutto quello che ti occorre e che riesci a portarti via», aveva detto. Me ne portai via di più. Una borsa di plastica era già sul punto di strapparsi. La campanella del negozio suonò mentre uscivo tenendo con una mano tre borse piene di scatolette e nell’altra il piccolo palmo di Max. 

All’improvviso una voce familiare: «Doreeen!» Una mia compagna di scuola ferma sulla strada, con un bel sorriso che ricordavo ancora a distanza di vent’anni. Eravamo amiche da ragazzine. «Sei tornata». 

«Ciao! Sono tornata, sì», risposi posando le borse per terra. 

«Non sapevo che avessi un bambino. Ciao, bello». Fece un cenno a Max e tornò a guardarmi. «Tuo marito è inglese?» Max saltellava, tirandomi per la mano. 

«Nessun marito. Siamo soltanto io e Max. Come stai? Sono secoli che non ci vediamo». 

La sua domanda successiva era già partita: «Sei tornata a casa dai tuoi allora?» 

Strinsi la mascella. «No, mamma sta troppo male». Risollevai le borse. 

«Ma quindi dove stai?» riprese accigliata. «Come te la cavi? Ti dà una mano qualcuno?» 

Mi era venuto mal di testa. Sentivo i manici delle borse tagliarmi la mano. Lasciai che Max mi tirasse dall’altra parte. «Stiamo bene. Mi ha fatto piacere vederti. Adesso scusa, devo andare, siamo in ritardo». 

Mentre tornavamo all’ostello passammo davanti alla vetrina di una panetteria, dove erano esposti vassoi di panini morbidi. Nel vetro vidi una barbona: indossava i miei vestiti e teneva per mano un bimbo adorabile. 

Qualche settimana dopo, un altro incontro mi fece cambiare rotta. Le donne come me, voglio dire le madri che avevano soggiornato di recente nella casa rifugio o che attualmente vivevano lì, avevano anche dei vantaggi. Un’associazione ecclesiastica organizzava una giornata di cure di bellezza tutta per noi. Ero arrivata qualche minuto in anticipo e spingendo i pesanti battenti di legno scoprii ammirata la vastità della sala inondata di luce. 

«Signore mio Dio, aiuta queste povere donne… sulla retta via… lontano da Satana». Il capannello di donne non mi aveva visto entrare. Pensai di tornarmene subito fuori ma il gruppo si era sciolto e le signore mi stavano già salutando sorridenti. Ricambiai con uno sguardo serissimo. Non pensavano mica che avessi bisogno di essere salvata? Una donna puntò dritta su Max e ci fece strada fino all’area bimbi gestita da volontari, tutti assistenti all’infanzia professionisti, mi rassicurò. Max la prese per mano e avanzando a passi incerti andò a dare un’occhiata ai giocattoli. Un’altra signora con una maglia a righe blu alla marinara e scarpe da barca cercò di guidarmi verso un altro angolo dove erano a disposizione massaggi, manicure e pediluvi. Non sarei stata il loro caso umano. Dovevo portare via Max. Diedi un’occhiata intorno e vidi mio figlio che in braccio a una signora stava scartando un regalo, un’autobetoniera giocattolo con tanto di autista e bicchiere rotante. Sprizzava felicità. Guardai di nuovo la sala. 

Cominciavano ad arrivare altre famiglie. Se proprio dovevo passare il pomeriggio a fare la donna di Satana, tanto valeva approfittarne. «Un massaggio alla testa andrebbe benissimo, grazie», dissi alla mia nautica accompagnatrice, dopo di che mi sedetti e chiusi gli occhi. Le sue dita accarezzavano come acqua il mio cuoio capelluto. All’inizio fingevo, fantasticando, di trovarmi in una spa. Ma la spa si trasformò in un mare. Non ero più nella sala parrocchiale. Ero tornata una bambina che correva a perdifiato sulle spiagge di Jersey e d’Irlanda. Poi mi si presentò alla mente l’immagine di una costa diversa, una costa artica, e posai lo sguardo su una vasta distesa di ghiaccio marino, che si perdeva in lontananza verso il polo Nord. Ero di nuovo in Alaska, dove ero stata in viaggio sette anni prima, di nuovo a Utqiaġvik, che prima si chiamava Barrow, e vivevo con una famiglia iñupiaq. La città si affaccia sull’oceano Artico, all’estremo confine settentrionale degli Stati Uniti. Gli iñupiat prosperano da migliaia di anni in questo luogo periodicamente inghiottito dal ghiaccio e dall’oscurità, uniti dalla loro antica cultura e dal rapporto speciale che hanno stretto con gli animali che cacciano, tra cui la magnifica e misteriosa balena artica. Laggiù non avevo soltanto visto le balene, avevo fatto parte di una grande famiglia di cacciatori, viaggiando con loro in un paesaggio di stupefacente bellezza e pericolosità. Mi ero sentita straordinariamente viva, connessa alle altre persone e al mondo della natura. Se solo avessi potuto sentirmi di nuovo a quel modo, e trasmettere anche a Max quella sensazione! «Mamma!» 

Tornai dall’Artide e riaprendo gli occhi mi trovai davanti il mio bambino. La signora sollevò le mani dai miei capelli. Avevo la testa più leggera. 

«Via». Max fece un gesto in direzione della porta. Ringraziai la mia massaggiatrice, presi Max per mano e me ne andai. 

Quella notte, mentre Max dormiva, lasciai perdere la ricerca a cui stavo lavorando da freelance e cercai in rete informazioni sulle balene artiche. 

Passando alle balenottere azzurre, guardai il mio video preferito di David Attenborough, in cui la creatura gigantesca emerge vicino alla barchetta del regista. Dopo di che finii su un articolo sulle balene grigie, una specie di cui non sapevo niente. Ne esistevano due popolazioni, c’era scritto, una nel Pacifico occidentale, l’altra in quello orientale. Fu allora che scoprii che ogni anno la popolazione orientale si trasferiva dall’oceano Artico ai luoghi di parto nelle lagune costiere del Messico, per poi migrare nuovamente a nord con i cuccioli appena nati. Tra andata e ritorno era un viaggio di più di quindicimila chilometri, come dire quasi due giri a nuoto intorno alla luna. Le balene viaggiavano in genere in prossimità delle coste sopra fondali abbastanza bassi coperti di alghe e si potevano avvistare lungo tutta la costa occidentale del Nord America. E mentre si facevano mezzo pianeta a nuoto le madri respingevano i predatori, crescevano la prole e allattavano. Erano la resistenza incarnata. 

Leggendo queste notizie sentii rinascere dentro di me una nuova forza. L’articolo diceva che nella Baja California era possibile vedere madri e cuccioli da dicembre ad aprile. Forse potevo portarci Max. Risi di gusto all’idea, ma continuai a pensarci. Sarebbe stato un modo per imprimere le balene nel suo subconscio, per insegnargli il sapore della libertà, per cancellare qualsiasi traccia di claustrofobia o di disperazione che poteva aver assimilato nella casa rifugio. Avrei potuto condividere con lui gli stimoli che mi davano le meraviglie della vita sottomarina. Sarebbe stato come i documentari di Attenborough con cui ero cresciuta, anzi, meglio ancora, perché sarebbe stato reale. Era gennaio. Madri e cuccioli dovevano già essere lì, nella Baja California. 

Mentre ero china sul computer, sul bordo del letto, di fianco a Max, sentii una voce, la voce di Billy, vicina e profonda, come se fosse seduto accanto a me, sulla banchisa in Alaska sette anni prima, a scrutare le balene. 

«A volte», disse lentamente, «vediamo una balena grigia». Era come se Billy mi stesse parlando attraverso i chilometri che ci separavano. 

Da quel momento avvenne tutto in fretta. Una corda calata dal cielo mi stava tirando fuori dalla finestra per portarmi di là dal mare. Il giorno dopo lasciai l’ostello e mi trasferii nella mansarda di un’amica. Ottenni un prestito, richiesi i visti. Seguiremo madri e cuccioli dal Messico fino in capo al mondo, spiegai a Max. Le balene nuoteranno e noi prenderemo l’autobus, il treno e la barca di fianco a loro. 

«Treno?» Max non aveva tutta questa smania per le balene, ma sicuramente adorava tutti i mezzi di trasporto. «Flash con me, mamma!» Prese il suo morbido cagnolino di peluche e si fermò vicino alla porta, pronto per partire. 

Mi dissi che dalle balene avrei imparato di nuovo a fare la mamma, a perseverare, a vivere. 

Sotto sotto, segretamente, quello che desideravo era tornare nell’estremo nord dell’Alaska, nella comunità che mi aveva offerto rifugio nell’aspra bellezza dell’Artico, e da Billy, il cacciatore di balene che mi aveva amato. 

© 2022 Doreen Cunningham
© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

ARTICOLO n. 21 / 2024

PANICO WOKE

Anatomia di un'offensiva reazionaria

C’è un’ondata di panico nel dibattito pubblico globale sul termine wokismo. È nato con l’omicidio, nel febbraio 2012, di Trayvon Martin, un adolescente afroamericano uscito dalla sua casa in una città della Florida per comprare caramelle in un negozio di alimentari. Fu ucciso da George Zimmerman, un uomo di razza mista bianca e latina che faceva parte di un’organizzazione di “vicini vigilanti”. Il governo federale non ha immediatamente perseguito l’aggressore. In Florida, la legge “Stand Your Ground” consente a chiunque ritenga ragionevolmente che la propria sicurezza, o quella della propria proprietà, sia minacciata di sparare alla persona che la sta minacciando.

L’omicidio di Trayvon Martin è avvenuto nel 2012, in un’epoca in cui le reti sociali erano sviluppate: Twitter, Facebook, Instagram, Tumblr, e altri. Furono organizzate mobilitazioni digitali per chiedere giustizia, spingere lo Stato della Florida a perseguire l’assassino e reclamare lo spazio pubblico per le persone di colore. I genitori di Trayvon Martin, Tracy Martin e Sybrina Fulton, lanciarono una petizione, sostenuta da celebrità come Janelle Monae e LeBron James. Il processo si è tenuto durante l’ondata di emozione per l’omicidio. L’assassino si difese sostenendo di essersi difeso contro un diciassettenne disarmato. Una giuria composta da sei donne, cinque bianche e una latina, assolse Zimmerman nel 2013. Le conversazioni trapelate sulla stampa indicano che, secondo la giuria, Zimmerman “temeva per la sua vita”. Tuttavia, si scoprì che il vigile volontario aveva preso l’iniziativa di seguirlo con la sua auto, sebbene il 911 [il numero per le emergenze negli Usa, ndr.] gli avesse proibito di farlo.

Stay woke

È stato a questo punto che è dilagato lo slogan “stay woke” sui social network. Era un’indicazione alle persone mobilitate di restare vigili di fronte alla violenza della polizia. Stay woke esprimeva anche la sfiducia nei confronti della copertura mediatica tradizionale degli eventi, riecheggiando la famosa frase di Malcolm X: «Se non sei vigile, i media ti faranno odiare gli oppressi e amare coloro che li opprimono». 

L’espressione deriva dall’African-American Vernacular English, l’inglese sviluppato dai neri americani. È stata diffusa sui social network e irritò gli utenti conservatori che l’hanno subito ridicolizzata. Allora venne realizzata un’operazione di rovesciamento semantico e di ricolonizzazione del senso di un’espressione concepita per liberare gli oppressi. Wokismo, oggi, si riferisce a chiunque sia coinvolto in lotte sociali progressiste: contro la “negrofobia”, la transfobia e così via. Ormai “wokeism” non è una parola che indica un contenuto, ma va considerata a partire da una funzione censoria e stigmatizzante che serve a contestare tutto ciò che gli oppressi hanno da dire quando sono uccisi, sfruttati o umiliati.  

A differenza di Stay wokewokismo non ha una definizione precisa. L’acquista quando si tratta di colpire, con il cinismo aggressivo dell’ironia social o il disprezzo di classe, qualcuno che osa dire di non volere essere malmenato. Stiamo parlando di una chimera come altre nate quando le guerre di religione sono state secolarizzate nei conflitti sulla proprietà dell’immaginario. La sua peculiarità è data dal fatto che il wokismo è azionato quando si tratta di bloccare un principio di organizzazione dei dannati della terra.

Per chi indaga le culture politiche contemporanee, questa strategia indica l’esistenza di uno scontro e permette di comprenderne la logica spesso oscura e quasi mai esposta in maniera razionale. Alla base delle discussioni che occupano la sfera pubblica digitale c’è un’intuizione della teoria critica della razza, quella di Angela Davis ispirata alla connessione tra classe-genere-razza, Questa prospettiva denuncia la criminalizzazione degli uomini e delle donne di colore e il loro alto tasso di incarcerazione negli Stati Uniti. Un’altra ricercatrice, Kimberlé Crenshaw, ha sviluppato questo lavoro e ha parlato di “intersezionalità della violenza”, soffermandosi in particolare sulle lotte femministe contro la misoginia, l’ipersessualizzazione e la criminalizzazione dei corpi neri.

Insieme queste teorie sono state usate dai movimenti statunitensi a partire da quel 2012 per creare uno spazio politico liberato e denunciare quello occupato dalla “supremazia bianca”. Questa opera di costruzione politica procedeva insieme allo sviluppo di un movimento a Miami, Oakland, New York e Detroit e in tantissime altre città. Un’attivista afrofemminista, Alicia Garza, scrisse un post su Facebook in risposta all’assoluzione dello sparatore Zimmermann: BLACK LIVES MATTER. Lo slogan è stato ripreso come hashtag ed è stato urlato da folle di manifestanti. Attivismo, teoria critica, creazione di uno spazio politico, anche attraverso i social network, dunque. Questo, a oggi, è lo schema seguito per costruire un movimento.

Cancel culture

Un’analoga strategia di contro-rovesciamento di una pratica militante è avvenuta nel caso della cosiddetta cancel culture. L’abbattimento delle statue raffiguranti personaggi razzisti, prove del colonialismo e l’imperialismo degli Stati Uniti, è stato interpretato come una volontà nichilista di cancellare il passato della “nazione” e imporre in maniera totalitaria una verità di minoranze pericolose e riottose. In realtà si è trattato di atti simbolici, profondamente conflittuali, realizzati sia per contestare la violenza del passato che l’oppressione del presente ai danni di una moltitudine di soggetti amplissima, non limitabile nemmeno ai discendenti degli schiavi. 

L’enorme differenza tra un atto politico è un altro banalmente distruttivo è stata strumentalizzata per fare dire a questi movimenti ciò che non pensano. Questa strategia ha unito, nel medesimo empito di legge e ordine, liberali reazionari e destre estreme oggi al potere, o che aspirano a vincere le prossime elezioni. Il senso comune è diventato un campo di battaglia attraversato dalle scorribande degli editorialisti negli spazi mediatici centralizzati come la televisione, la radio e la stampa scritta. La comunicazione tra il livello mediatico e quello politico-organizzativo ha bisogno di una continua manutenzione e di un costante rilancio, proseguendo la strategia di base: quella di occupare il terreno dell’avversario e cambiare radicalmente il senso delle sue azioni, e dei simboli, al fine di delegittimare e patologizzare la sua stessa esistenza. 

Contraccolpo, contrattacco

Alex Mahoudeau ha analizzato le caratteristiche della “offensiva reazionaria” nel libro La Panique woke. Per l’autrice la denuncia del wokismo è un esempio di “panico morale”, cioè “una serie di aneddoti più o meno esagerati o inventati [che] alimentano la sensazione di una grande minaccia”. Aneddoti decontestualizzati che caricaturano la realtà. Ecco perché le scienze sociali, o le filosofie, che descrivono una realtà diversa sono sempre il primo bersaglio di queste operazioni. Il loro scopo è creare un consenso su una presunta minaccia rappresentata da gruppi di subalterni accusati di essere responsabili di comportamenti “devianti”. 

La “devianza” è l’esito dell’affermazione di una norma, considerata naturale e accettata dalla maggioranza, mentre in realtà è l’espressione della volontà di un’élite che ha interesse a mantenere un “dominio” e a stigmatizzare chi lo insidia come responsabile di un’irrazionalità rispetto all’ordinato decorso del mondo.Strategie come il wokismo servono ad alimentare l’ostilità diffusa verso persone classificate come “nemiche” nel dibattito pubblico. L’operazione è astuta perché usa il linguaggio della democrazia liberale, quello ispirato alla libertà di opinione, per negare una visione diversa della società attribuendole una minaccia all’integrità sociale.

Il panico woke è dunque l’espressione di una reazione a difesa di uno dei rapporti di poteri sui quali è costruita una società maschilista e bianca. Il binomio è tornato con forza all’attenzione dello scontro. Un simile ritorno è stato spiegato da Susan Faludi nei termini di un backlash, cioè di un “contraccolpo” o di un “contrattacco” dopo le conquiste sociali delle lotte femministe degli anni Settanta e Ottanta. Faloudi ha descritto una proteiforme mobilitazione maschilista che ha portato nel dibattito pubblico l’idea che le donne controllino tutto, mettano la museruola anche a una sana opposizione e prosperino a spese degli uomini, della famiglia e del mondo del lavoro.

Una simile torsione, osservabile anche nella retorica acchiappatutto del “politicamente corretto”, non è nuova. Susan Faludi sostiene che si verifica dopo la manifestazione di una nuova soggettività rivoluzionaria che impone, anche in maniera contraddittoria e non lineare, un “progresso sociale” che incrina i rapporti di potere, a cominciare da quelli nelle relazioni. A quel punto scatta un’operazione che potremmo definire di “sussunzione”: gli avanzamenti vengono parassitati e modificati anche nel significato da teorie concorrenti, e apparentemente assonanti, che tendono a espropriare le soggettività associandole a teorie come quella dell’“empowerment” femminile, per esempio. Quest’ultima è una teoria che riduce le nuove libertà e le nuove uguaglianze al mercato. Contemporaneamente si diffonde una paura che contribuisce a destabilizzare le persone escluse dai cambiamenti e a colpevolizzare coloro che li hanno formulati, rimproverandole per la sconfitta o per la crisi dello status quo che è all’origine dell’ingiustizia.

Problematizzare l’universalismo

Il campo non è tuttavia occupato solo da due forze opposte. In mezzo si trova l’universalismo degli Stati costituzionali, che conosce diversi sviluppi nei singoli paesi. Per esempio in Francia, dove l’universalismo “repubblicano” e “laico” è fortissimo, le istituzioni restano in una posizione apparentemente neutrale. Una posizione usata sia per addomesticare lo scontro, sia per “regolarlo” in termini consensuali, di “patto sociale”, o di normalizzazione. 

Questo universalismo si basa sull’idea che il popolo sia “uno e indivisibile”, composto da individui indistinguibili e indistintamente rappresentati. Allo stesso tempo l’universalismo è un principio costituzionale della Repubblica, basato su un individualismo mediato socialmente. La contraddizione entra in fibrillazione quando emergono i conflitti scatenati dal genere, dalla razzializzazione o dalla religione. Da un lato, lo stato costituzionale cerca di garantire una differenza positiva di trattamento; dall’altro lato, conferma l’esistenza di differenze oggettive. 

Quando un governo, come quello francese guidato da Jean Castex nel 2021, ha iniziato a polemizzare contro un grottesco, e inesistente, “islamogauchismo”. Con questa formula arzigogolata si è cercato di attribuire alla sinistra, e al pensiero critico, posizioni simili al fondamentalismo islamico. Così facendo si è cercato di stigmatizzare ogni forma di opposizione, a cominciare da quelle espresse da una generazione fortunata del pensiero politico: per esempio Derrida o Foucault, le cui opere sono state oggetti di interpretazioni distorsive e parodistiche.

Il conflitto sull’universalismo, e nell’universalismo, ha investito anche il campo cosiddetto “decoloniale”. Con questa espressione si intende un ampio lavoro, sia teorico che politico, che in Francia (e non solo, evidentemente), lavora su più fronti al fine di estendere la critica del passato coloniale di questo paese nelle relazioni sociali e di potere in cui sono imbrigliati i soggetti “razzializzati”.

Ci sono state violentissime polemiche, seguite anche da minacce di violenza contro le attiviste impegnate in questa prassi. Hanno riguardato in particolare la tendenza al separatismo, definito anche “non-mescolanza” [non-mixité, ndr.]. Tale pratica conflittuale è uno strumento usato in maniera occasionale dallə attivistə oggettədelle discriminazioni. Offre un sostegno per rielaborare il senso della propria posizione in una società in cui la contraddizione non è ancora stata accettata dalle autorità pubbliche come problema politico. Spesso questo tipo di oppressione viene negata o minimizzata, a cominciare dalle sue vittime. In più, com’è accaduto più volte, l’organizzazione di tali momenti di “non mescolanza” è stata attaccata come una manifestazione di “razzismo anti-bianchi”. Invece, sostengono lə attivistə, è in realtà una tattica per contrastare il “razzismo strutturale”.

La critica dell’universalismo è un argomento molto delicato in un momento in cui l’universalismo è usato, in maniera del tutto destoricizzata, per sostenere le ragioni di una “democrazia occidentale” senza distinzioni contro quelle di tirannie e altri “illiberalismi” in un mondo multipolare e ostile. Su questo spartito si esercitano sia le fabbriche dell’opinione conservatrice e che quelle delle estreme destre che saccheggiano la storia del “liberalismo” in maniera capziosa e strumentale, espellendo da essa proprio gli aspetti legati al colonialismo e all’imperialismo. 

Il punto debole 

Una delle ragioni per cui l’offensiva reazionaria continua ad avere presa sembra essere dovuta al fatto che colpisce uno dei luoghi più problematici dei pensieri critici, a cominciare dal marxismo. L’obiettivo è fornire nuove ragioni per consolidare la separazione tra razza, genere, lavoro, mercato e Stato. Si intendono così dividere i diritti della libertà da quello dell’uguaglianza, la struttura dalla sovrastruttura, la verità dall’ideologia, le lotte sulla produzione da quelle sulla redistribuzione, la materialità dalla cultura, la sessualità dal simbolico, e così via. 

Contro questo dualismo molti pensieri materialistici, femministi o spinozisti si sono battuti. Ma, in tempi di debole connessione tra teoria e prassi, la loro lotta è indebolita. Rinascono invece identificazioni fantasmatiche, ispirate all’ontologia dell’autenticità e dell’identità. Si creano nuove gerarchie. Ad esempio, quella di una classe lavoratrice con bianchi maschi eterosessuali separati, e spesso ostili, a una forza lavoro migrante composta sia da uomini che da donne. Su un dualismo tra minoranza e maggioranza è costruita anche la parodia secondo la quale le richieste di giustizia avanzate dalle minoranze sono una difesa dei loro “privilegi”. 

Queste e altre pratiche fanno parte di una guerriglia ideologica, realizzata nei perimetri dei pensieri critici tra loro in conflitto. Il loro scopo è screditare ed eliminare la possibilità stessa che i subalterni si organizzino in maniera efficace e di massa. Si tratta di avvelenare i pozzi ai quali si abbeverano le soggettività che cercano di creare una nuova condizione politica in comune. Bisogna riuscire però a riconoscere le strategie di resistenza, e di contropotere, usare per interrompere questa aggressione sistematica. Tali strategie incontrano spesso un limite storico, intensamente combattuto, ma perdurante: il dualismo, appunto. Tra i diritti, le identità, le priorità politiche: viene prima l’anticapitalismo oppure la lotta per l’ecologia? Viene prima la libertà o l’uguaglianza? L’oppressione patriarcale o lo sfruttamento del lavoro? La centralità della dinamica razziale oppure quella sessuale?

Su queste opposizioni la controrivoluzione in atto va a nozze e si diverte a dividere i suoi avversari a seconda delle priorità del momento. Questa azione risponde a una priorità: bisogna impedire con ogni mezzo la ricomposizione dei soggetti e la riscoperta di una dialettica tra teoria e prassi che permetta di coniugare nuovamente, in contesti diversi, la critica dell’economia politica con i conflitti di classe, di razza, di sesso e ambientali. Sono numerosi i tentativi sia teorici che pratici di ricombinare questi elementi, individuando nuove forme politiche e organizzative.

Rispetto a questi obiettivi abbiamo riscontrato diversi passaggi a vuoto. Non ha giovato la diffusione del populismo, nelle sue diverse declinazioni. Si tratta di una politica che contrappone i “ricchi” e i “poveri”, ma non pensa la lotta di classe, e istituisce una nuova gerarchia tra diritti sociali e civili. Non ha giovato nemmeno la svolta neoliberale e autoritaria del sistema mediatico che è più pronto a rielaborare le parole d’ordine delle destre estreme (“prima gli italiani” ecc., o migranti = pericolo invasione) che le istanze femministe, anticapitaliste, anti-razziste. Un’evoluzione che è andata di pari passo con la chiusura all’elaborazione più avanzata e diffusa dei pensieri critici nell’accademia come nella scuola. 

Questi mutamenti strutturali e istituzionali sono gli effetti materiali, e sistemici, della controrivoluzione che si è rafforzata in coincidenza con il moltiplicarsi delle crisi dal 2008 a oggi. Gli spauracchi del wokismo, della cancel culture o del “politicamente corretto” non sono mere ideologie, ma effetti discorsivi prodotti da un potere reale.

Rivoluzione passiva

La tesi di una “guerra non dichiarata contro le donne” (Faludi) in nome di un “contrattacco” condotto per riaffermare il “dominio maschile” (Pierre Bourdieu) e la “bianchezza” (Paul Gilroy) è molto interessante nella prospettiva di una genealogia della politica contemporanea. Sono usati cioè i valori del liberalismo politico (la libertà, l’universalità, il diritto all’opinione, la tolleranza, e altri ancora) per affermare il contrario e ristabilire un’egemonia dei dominanti giudicata sotto attacco. Ciò avviene in un momento, per di più, in cui il presunto attacco è più debole rispetto ad altri, come quello degli anni Sessanta e Settanta, oltre che di natura difensiva. 

Ciononostante il conflitto si basa sull’uso delle parole dell’avversario (le donne, i neri, i subalterni, gli sfruttati e gli oppressi), e della loro storia “minoritaria”, per evidenziare come le “maggioranze” artificialmente costruite siano in pericolo. In nome di tale emergenza si evoca l’antica legge del “bisogna difendere la società” per colpire i soggetti e la loro presunta volontà di destabilizzare il sistema.

In Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista ho definito questa strategia nei termini di una “rivoluzione passiva”. Termine che ho rielaborato da Antonio Gramsci, con il quale il filosofo comunista italiano ha inteso descrivere un lungo periodo di “contro-rivoluzione” moderata e classista nel XIX secolo in Italia. Questa politica ha strumentalizzato i contenuti di una rivoluzione politica e sociale – di segno diverso: quella francese prima, quella sovietica poi – riconoscendo ai popoli solo i diritti decisi dalle classi dominanti e negando ogni forma di partecipazione e trasformazione ai movimenti di autodeterminazione. Dal punto di vista della logica politica, l’offensiva reazionaria in corso si esprime allo stesso modo. Prolunga cioè la reazione a un ciclo rivoluzionario che ha modificato i rapporti sociali, di genere o razziali nelle società capitalistiche, attacca i soggetti che si ispirano necessariamente a quella storia e usa contro di essi i principi che, in linea teorica, dovrebbero liberarli. 

Così funziona l’egemonia. Diversamente da come la intendeva Gramsci, una certa corrente della destra al governo l’ha intesa come una “guerra culturale” priva però di lotta di classe. Questa “guerra” intende consolidare un sistema basato su un triplice potere: economico (il potere di possedere la maggior parte della produzione di ricchezza e di stabilire una divisione razziale del lavoro); normativo (il potere di stabilire le regole della società su scala internazionale – in un mondo globalizzato); simbolico (il potere di attribuire un valore e di valutare unilateralmente i corpi e le pratiche dei “non bianchi” per definire la loro umanità). 

Un simile assetto dei poteri è rivoluzionato incessantemente, in maniera antitetica a chi si oppone, al fine di consolidare l’ordine della proprietà, dei confini e del capitale. La rivoluzione passiva oggi è un ribaltamento postmoderno dei principi classici della rivoluzione: la reazione è libertà, l’uguaglianza è sfruttamento, il capitale è natura. In questo regime paradossale, i soggetti restano subalterni. Di solito, questo processo è considerato un blocco unico insuperabile, un grande Leviatano indistruttibile. Quando accade, come oggi, è difficile trovare un’alternativa, mentre risorgono culture dell’apocalisse e della fine del mondo. In queste fasi si perde di vista il carattere reazionario dell’offensiva, cioè la sua mancanza di autonomia. Essa non può fare a meno del “nemico” che si è scelta per giustificare la propria esistenza. Quanto ai suoi avversari, continuano a dividersi, obnubilati da un’intelligente operazione politica che sembra avere saturato ogni spazio di libertà nel presente. Ma questo è l’effetto derivato della loro autonomia che persiste nel mondo rovesciato della rivoluzione passiva.

ARTICOLO n. 20 / 2024

CARCERE. IL SUONO DELLE ANIME

intervista di isabella de Silvestro

Franco Mussida è chitarrista, compositore e membro fondatore della Premiata Forneria Marconi, il gruppo musicale simbolo del rock progressive anni ’70. Nel corso della sua carriera ha collaborato con i più grandi nomi del cantautorato italiano, ha vinto premi, scalato le classifiche oltremanica e oltreoceano. Ma la sua carriera non è solo quella di un virtuoso della musica, è anche quella di un uomo che ne ha fatto una pratica di comunità, un mezzo per creare reti di sostegno e vie di conoscenza.

Mussida si impegna da decenni per l’applicazione della musica in ambito sociale, dalle carceri alle comunità di recupero per tossicodipendenti. Nel 2013 dà vita al progetto Co2, che ha visto la creazione di audioteche in undici carceri italiane con il fine di educare all’ascolto e dare sollievo. L’iniziativa più recente, unica in Europa, è la sonorizzazione di ampi spazi del carcere di San Vittore a Milano, con musica strumentale selezionata dai detenuti nella cornice del laboratorio “Ascolto emotivo consapevole”, condotto da Mussida stesso. Mi accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di Cpm-Music Institute, la scuola di alta formazione musicale che ha fondato e dirige dal 1984. Ha bianchi capelli lunghi e una rara serenità nei gesti e nel tono della voce. Nonostante la porta chiusa, gli esercizi di pianoforte di qualche alunno penetrano le pareti, facendo da sfondo al nostro incontro.

Isabella De Silvestro: Da dove viene il suo interesse per il carcere?

Franco Mussida: Non fu direttamente il carcere a interessarmi. Accadde che molti dei tecnici della Premiata Forneria Marconi iniziassero ad avere problemi di dipendenza dall’eroina. Li vedevo soffrire molto, così insieme a mia moglie decidemmo di provare a dare una mano accogliendoli in casa. È stato questo il primo approccio alla marginalità. Il carcere è arrivato dopo, nell’87, quando il professor Garavaglia, il responsabile del gruppo di psicoterapia del carcere di San Vittore, nel prendere atto che la sua équipe non funzionava più chiese alla Provincia di mandare delle attività artistiche. Il mio socio dell’epoca era in contatto con la Provincia e mi chiese se me la sentivo. Da lì è partita la mia ricerca, trentacinque anni di onorato servizio. Non mi sono mai fermato.

È stato l’interesse per la persona a portarmi fra quelle mura.

I.D.S. Il carcere è un luogo dove ancora si espia una pena corporale: la sensorialità è ridotta, gli stimoli sono scarsi e ripetitivi. Che significato assume, in un contesto del genere, l’introduzione della musica?

F.M. Dopo trentacinque anni di lavoro in carcere sono riuscito, in seguito a innumerevoli sforzi non solitari – queste cose sono sempre il frutto di relazioni – a fare in modo che i corridoi di San Vittore abbiano un impianto dedicato esclusivamente alla sonorizzazione: ho lavorato con i detenuti per creare playlist di sola musica strumentale che risuonano nei corridoi della galera.

È vero che sembrerebbe che la dimensione degli stimoli in carcere sia compressa, in realtà si tratta di una compressione da eccesso di stimoli. La compressione arriva dall’incapacità delle persone detenute di gestire il dolore pregresso, il dolore presente e l’immaginario nero del futuro che hanno davanti. Quindi il tema non è quello di arrivare a dare ulteriori stimoli, perché ne hanno già abbastanza, anche di fortemente negativi. Tutti, anche gli agenti di custodia. Il tema è piuttosto usare la musica come stabilizzatore dell’umore, agendo sulla nostra comune struttura emotiva.

I.D.S. Che cosa significa “agire sulla nostra comune struttura emotiva?”

F. M. Ci sono dei medicamenti naturali, e artificiali, che agiscono sul fisico e che hanno dei risultati anche sulla psiche. Dobbiamo immaginare la musica come una sostanza. Non parlo di musicoterapia perché già il tema mi fa rizzare i peli, dal momento che non c’è una fisiologia musicale conclamata, e non essendoci si fa fatica a immaginare di operare fisicamente con la musica. Io mi tiro indietro e osservo. Che cosa osservo? Che la nostalgia di un giapponese non è diversa da quella di un napoletano, di un milanese, di un cileno o di un nigeriano. È la stessa cosa. Tutto il mondo del sentire è un archetipo. Il mio lavoro sul codice musicale è duplice: da un lato studio gli elementi oggettivi, dall’altro studio come questi elementi oggettivi diventano soggettivi attraverso l’esperienza umana, che è unica e irripetibile ma che è osservabile proprio per il fatto che la nostra struttura emotiva è comune. Le emozioni possono cambiare di intensità, di spessore, di auto-percezione, di coscienza, ma la radice è la stessa. Vedi, è come per gli elementi fisici: io e te abbiamo gli occhi. Magari tu li hai azzurri e io verdi, ma entrambi abbiamo gli occhi. 

E la musica che cosa fa? Agisce attraverso elementi magici, spirituali, dell’anima, che poggiano la loro sostanza sul fatto che noi siamo esseri vibranti e che, in quanto esseri vibranti, se organizziamo le vibrazioni in un certo modo otteniamo dei risultati di natura anche emotiva. A me sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma sono 35 anni che ci lavoro, su come scaldare l’acqua.

I.D.S. Come si dialoga in maniera efficace con l’umanità variegata e marginale della galera, uomini che provengono da angoli anche remoti della Terra, della cui esperienza sappiamo pochissimo?

F.M. Ricordo che feci sentire il Tema di Deborah di Ennio Morricone a un centinaio di detenuti, di cui ottanta erano stranieri, al carcere di Venezia. Diedi a queste cento persone diverse faccine in grado di rappresentare diversi stati d’animo e poi chiesi loro di alzare questi fogli catalogando l’emozione che il brano musicale emanava. Tutti hanno scelto la nostalgia: i siciliani, gli albanesi, ma anche i nigeriani, che non l’avevano mai sentita. Le forme ti avvicinano a casa, alla storia, alla cultura. Ma il portato musicale va al di là della forma, della storia e della cultura. Certo, bisogna tenere conto delle forme: in carcere facciamo un lavoro sulla musica dei paesi di provenienza dei detenuti, sulla storia della musica classica, sentiamo il jazz, ascoltiamo Chet Baker, arriviamo al pop. Ci confrontiamo con tutto. Oggi la depressione imperversa. Schiere di uomini e di donne che elaborano un pensiero che ne pensa un altro che ne pensa un altro che ne pensa un altro e ti uccide. E questo accade quando si esce dallo spazio del sentire come strumento di conoscenza.

I.D.S. Il suo essere uomo e il suo essere musicista coincidono? 

F.M. L’abito fa il monaco, sì. Non è facile. Il mondo del sentire è come le nuvole, cambia di continuo, ma nello stesso tempo ci vuole un orientamento: la musica è il mio orientamento, mi indica la direzione. Può essere pesante a volte, vengo assalito da attacchi di solitudine. Ma sono malinconico: nella solitudine ci sto benissimo. 

I.D.S. Qual è l’ambiente sonoro del carcere? Che suoni si sentono?

F.M. Ci sono due tipi di suoni: quelli della gestione della giornata, i suoni della popolazione del carcere che arrivano dagli oggetti, dall’aprirsi e chiudersi dei portoni di ferro, dalle chiavi, dai chiavistelli. Sono i suoni dati dalla manifestazione degli esseri senzienti che lì vivono o lavorano e che manifestano la loro presenza. 

Poi c’è un altro tipo di suono che si fa più fatica a sentire, ed è quello delle anime che sono lì. Quel suono è così potente che anche un operatore di passaggio deve maneggiarlo con cura. Ci si abitua, il callo arriva abbastanza in fretta, però, una volta che lo hai sentito, non lo devi dimenticare. È una sensazione molto profonda, traumatica per certi versi. È per questo secondo suono che continuo a recarmi in carcere dopo trentacinque anni. 

I.D.S. Il carcere rieduca o punisce? È cambiato in questi trentacinque anni che ha avuto la possibilità di osservare?

F.M. L’unica grande differenza è il ruolo della società civile. Io sono arrivato proprio all’inizio di un cambiamento, dopo la legge Gozzini, che ha consentito alle associazioni di entrare in carcere e portare arte e cultura. Per il resto l’etica in carcere rimane una questione personale. Si possono trovare degli agenti di custodia pessimi, brutali, senza capacità di sentire l’altro, e trovare invece dei piccoli angeli come li ho incontrati io, soprattutto all’inizio del mio lavoro. Non posso dimenticare non solo Luigi Pagano [il direttore a cui si deve il modello a celle aperte della casa di reclusione di Bollate, ndr], l’allora direttore del carcere di San Vittore, ma anche Luigi Cadoni, un agente di custodia che andava nelle celle a tirar fuori questi ragazzi per portarli a fare musica. 

Si tratta purtroppo di visioni eccezionali, non della norma. Il peggio sono le carceri minorili perché sono abitate dai ragazzi ma vigono più o meno le stesse regole delle carceri per adulti, cosa tremenda. Va modificato il pensiero, la maniera di percepire l’uomo nella sua essenza. 

I.D.S. Le interessano di più i vizi o le virtù?

F.M. Che bella domanda… I vizi per promuovere le virtù. Quando entro in carcere non voglio mai sapere la storia delle persone. Per me sono persone pulite, tutte. Poi hanno una voglia tremenda di raccontare le loro storie. Però voglio immaginarli così. Perché il lavoro del musicista non è quello di stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Il suo ruolo è quello di portare elementi di luce, di coscienza, di equilibrio, a persone che ne hanno bisogno. Il lavoro in carcere è da un certo punto di vista un processo educativo anche per chi lo fa. Bisogna provare a stare con le persone immaginando di essere un prete laico. Non siamo operatori culturali, non è un lavoro di cultura, è un lavoro sulla profondità dell’essere. 

Dico prete laico in questo senso: l’arte è una via di conoscenza, quello di cui stiamo dimenticando il senso è l’arte come via di conoscenza, non di espressività. Ora è diventato tutto espressività, bravura, dimostrazione. Ma non dovrebbe essere quello il punto. Chi è un artista? E una persona intelligente? Una persona sensibile? Che connotati ha? Queste sono le domande che oggi il mercato di qualsiasi genere ha coperto. Si fatica ad arrivare sotto la domanda, perché sopra è coperto tutto dal mercato. La musica è una via di conoscenza e gli artisti dovrebbero percorrerla. 

ARTICOLO n. 19 / 2024

WALTER CHIARI, HAI PRESENTE?

I cento anni di Walter Chiari

Stava là, nel residence. Niguarda. Residence Hotel Siloe. Milano, al limite della periferia nord, la strada, via Cesari, anonima, senza un negozio, il rumore da consumo quotidiano. Silenzio. Un appartamento minimo, due stanze, gli arredi un po’ così, non scelti, adottati in una noncuranza da solitudine. Lui, tuta blu scuro, i capelli spettinati, le mani grandi come pale di un mulino a vento mentre raccontava qualcosa di una vita sincopata. Parole come note da jazz. Caldo nonostante il posto, il divano blu pure quello, un tavolino senza arte o parte. “Ma, scusi, che ci fa qui? No, dico, questa è la sua città, non c’è una casa, un luogo diverso da questo?”. Sorrise con una virgola di amarezza nelle labbra, disse ma no, l’ho data a mio nipote. Disse: le cose appartengono a chi le desidera di più. Una frase celebre, un gioiello cesellato da Dashiell Hammett poco prima di volare via. Era primavera, stava per andarsene pure lui, morto pochi mesi dopo, 20 dicembre 1991, stessa stanza, stesso residence. Aveva 67 anni, aveva quella faccia là, bellissima, da ragazzo che non sa invecchiare, aveva addosso una malinconia da giorni perduti, adrenalina consumata, amori travolgenti, qualche oscuro rimpianto.

Walter Chiari, hai presente? Mica tanto, ma no, per niente. La traccia si è fatta debole, è invisibile per chi non ha l’età. Un peccato, perché Walter Chiari ha regalato un viaggio indimenticabile a ciascuno di noi, fatto di improvvisazioni strepitose, aneddoti esilaranti, sketch indimenticabili, film non sempre memorabili, spettacoli trionfali, flirt da paparazzi e pettegolezzi, uno scandalo alla cocaina che gli costò 98 giorni a Regina Coeli e una ferita a cielo aperto mai rimarginata del tutto. Popolare, amatissimo, quel modo di fare un po’ guascone, morbido, una simpatia da naturalezza, per far innamorare gli italiani al fianco di Mina e Paolo Panelli in una edizione perfetta di Canzonissima, anno 1968; al fianco di Carlo Campanini – la sua spalla ideale – in viaggio sul treno con il sarchiapone. Era di casa, in ogni casa, affabile, come un fratello, un fidanzato, un amico prediletto. Compreso al punto da farsi perdonare ogni trasgressione, ogni svarione, quasi tutto; bonariamente invidiato per quel fare là da conquista a prima vista, l’ironia come tocco magico, adatto, niente a che vedere con la spocchia del playboy, niente camicie sbottonate, catene dorate, roba da Saint Tropez, da gesti e luoghi comuni così distanti dalla sua originalità. Alle donne, a corteggiarle, sembrava non pensasse più di tanto e proprio per questo diventava irresistibile. Relazioni al galoppo e fidanzamenti, uno soprattutto, chiacchieratissimo, con Ava Gardner, data come diva irraggiungibile, alla quale raccontava delle abilità strategiche di Napoleone: “Avevo anche dei soldatini per spiegare i movimenti geniali delle truppe”. Ava? Figuriamoci. Eppure in quella storia d’amore senza futuro, Chiari si era trasformato in un rappresentante dell’orgoglio italico maschile e maschilista. Una specie di eroe delegato, di certo molto invidiato.

Donne. Del resto, un vero esperto. Rivista, teatri, dopoguerra all’alba. Una festa del sogno, del desiderio. Il palcoscenico come pista di atterraggio e di decollo. Prima scrittura nel 1946, Se ti bacia Lola il titolo dello spettacolo. Non il primo debutto visto che Walter Annichiarico, nato a Verona nel giorno dedicato alle donne – 8 marzo 1924 – origini pugliesi, padre brigadiere, madre maestra elementare, trasferito a Milano nel’33, era stato magazziniere, pugile pesi piuma, discreto tennista, fenomenale nel gioco delle bocce, nuotatore agonistico, radiotecnico, bancario licenziato in tronco causa imitazione di Hitler in piedi su una scrivania, giornalista, vignettista, milite della X MAS, conduttore radiofonico, arruolato nella Wehrmacht, ferito, prigioniero degli americani a Coltano insieme a Dario Fo, Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Enrico Ameri. Una precoce odissea. A chiamarlo in teatro fu Marisa Maresca, leggendaria primadonna del varietà, una compagna di lavoro fondamentale, al pari di Delia Scala, molti anni dopo. 

Walter, in pista, sul palco, capace di divertire improvvisando, generando continui straniamenti, noto per i ritardi cronici, le dimenticanze: “Avevo una prima a Trieste, me ne ero completamente scordato. All’ora dell’apertura sipario stavo a Livorno. Per altri versi rimediavo. Una sera Delia era malata, un febbrone. Il teatro stracolmo. Dissi agli spettatori: mi spiace, vi rimborsano il biglietto. Oppure, se proprio volete, potrei recitare la parte sua e la parte mia, una cosa un po’ scombinata. Restarono. Ridevano. Ridevano da matti”.

Passava da una argomento all’altro con una rapidità fulminea, una cultura vasta, sorprendente. Parentesi tonde, quadre, graffe riuscendo a riprendere ogni filo, magari evitando di soffermarsi sul matrimonio con Alida Chelli, su Simone, suo figlio, preso forse dal peso di qualche mancanza, di una vaga inadeguatezza. Raccontava piuttosto degli anni che gli fornirono una patente, lo slancio per diventare Walter Chiari. Il tempo dell’euforia, di un incontro collettivo con la bellezza femminile: ”Un uomo che usciva la sera, magari per vedere anche il teatro, soprattutto, voleva guardare la donna. In un film vedevi solamente la star mentre lì, in teatro, anche l’uomo comune, questo impiegato che stingeva gli occhi invano al cinematografo, che una bella donna mai, non l’avrebbe nemmeno sfiorata, poteva fantasticare anche sull’ultima ballerina di fila, vicinissima, viva, con il suo sorriso. Le prime ballerine si sposavano con gli industriali. Appena entravano in scena erano prenotate. Si fidanzavano, si sposavano e sparivano. Era una specie di riserva di caccia privilegiata alla quale avevano accesso i signori. O magari gli impresari. Uno di loro aveva sposato la donna più statuaria del mondo. Si chiamava Irene. Era talmente bella, talmente perfetta, gli occhi, il naso… sembrava appartenesse a una tetralogia wagneriana rivisitata da una specie di Arcadia latina. Vestita da uomo, con cilindro e bastone. E il ballerino era vestito da donna. Improvvisamente mentre lui si appoggiava, lei gli girava intorno, gli piegava la testa indietro e lo alzava con due mani. Vedevi queste braccia truccate, bianche, esangui, da cui venivano fuori muscoli che sembravano incisi a penna su una litografia. C’era anche chi, della donna in quanto donna, non fregava niente, osservavano il particolare, il disegno del corpo, la grafica. Magari erano quelli che oggi chiamano stilisti. Per noi lo stilista era uno che faceva i cento metri a nuoto. Stile libero. Dopo lo spettacolo arrivava qualcosa per tutte. Da un’autista con la fuoriserie a un mazzetto di fiori. Quelle donne lasciavano qualcosa anche nel teatro vuoto. Un profumo, un’emozione”.

Lo sport, altra passione: “Qualcuno dice: non mi occupo di sport. Non sa che per sua fortuna pratica lo sport da sempre, da quando si è innamorato la prima volta nella vita. Lei, di Venezia, lui di Modena. Si conoscono magari al mare, poi via, per direzioni separate. Amano e scoprono il verso dell’amore, la separazione. Ma ormai sono in campo, senza sapere bene con chi hanno a che fare, una dolcezza, un cinismo dell’altro. Non sai. È che l’arbitro ha già fischiato, la partita è già iniziata. È un debutto in gara, è sport. Quando tocca tirar fuori il tuo meglio, nell’amore, nell’amicizia, sul lavoro, fai sport. Scopri, misuri, riveli, patisci e godi. Sport”.

Un fuoriclasse, un pezzo unico. Non appena ci incontrammo, in quel residence a Niguarda, disse: “Guardi, tra mezz’ora devo andar via”. Cinque ore dopo, con un dispiacere fondo, dissi: “Guardi, devo andar via”. Era sera ormai e sono qui da anni a domandarmi quale impegno, quale urgenza mi portò via. Avrei voluto, avrei dovuto rimanere. A cena, dopocena, a tirar tardi, chissenefrega. Porca malora, Walter, aspetti, faccio in un attimo, torno lì.

ARTICOLO n. 18 / 2024

FREEDA, COME FREEDOM

Il femminismo non è un brand

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Jennifer Guerra Il femminismo non è un brand (Einaudi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Nel gennaio del 2017 avevo 21 anni. Scrivevo sul blog di «Soft Revolution Zine» da tre e avevo appena concluso un breve stage in una rivista di moda di Milano. Avevo già un lavoretto, ma ero sempre in cerca di opportunità per scrivere su altri blog o riviste, magari ricavandoci anche qualche soldo. In una bella giornata di gennaio, su Facebook mi imbattei in un annuncio: «Stiamo cercando autrici che si interessino di femminismo per un nuovo progetto editoriale». Sono sicura che c’erano molti più inglesismi nel testo, ma il senso era quello. Non ci potevo credere: una rivista che tratta di femminismo in Italia, oltre a «Soft Revolution Zine», e che pagherebbe pure? Mandai subito la mia candidatura. Mi rispose una persona molto gentile per chiedermi di inviare il mio portfolio, ma poi la cosa si fermò lì.

La «rivista» si chiamava Freeda. 

Oggi sono 2 milioni le persone che seguono la pagina Facebook e 1,7 milioni i follower su Instagram. Freeda ha anche due divisioni estere, una versione spagnola e una inglese, per un totale di 7 milioni di persone raggiunte. Secondo la pagina LinkedIn, l’editrice Freeda Media oggi conta 200 dipendenti in tutto il mondo e ha raccolto investimenti pari a 13 milioni di euro per i suoi progetti futuri. «Freeda – come freedom, al femminile – è un progetto editoriale che celebra la libertà e i tanti modi di essere di una nuova generazione di donne», recita la sezione delle informazioni su Facebook. A settembre del 2021, l’azienda ha lanciato un nuovo progetto, Freeda Platform, «una piattaforma che mira a innovare il mercato della consulenza di marketing e dell’analisi dei dati provenienti dai social, fornendo alle aziende un servizio a 360° finalizzato allo studio delle community e dei comportamenti online dei più giovani», come ha spiegato il cofondatore Andrea Scotti Calderini in un’intervista.

Da un paio d’anni è in corso un fenomeno curioso negli ambienti antifemministi e della maschiosfera italiana, «i siti e i gruppi di discussione di internet che si occupano dell’interesse e dei diritti degli uomini in opposizione a quelli delle donne, spesso collegati all’ostilità verso il femminismo o al disprezzo delle donne». In rete sono spuntate pagine, interventi, video e articoli che criticano Freeda perché lo identificano con il movimento femminista e, cosa ancor più strana, con una sua variante «estremista». Su Instagram esistono diversi profili dedicati alla contestazione di Freeda e Marco Crepaldi, divulgatore italiano che si occupa di «discriminazione maschile», le ha dedicato ben tre video sul proprio canale YouTube: Tutta l’ipocrisia di FreedaFreeda: il business del femminismo I pericoli del femminismo moderno. Nel corso di questi video, pur riconoscendo la natura profittevole che sta dietro al progetto Freeda, Crepaldi sovrappone più volte gli intenti della pagina al movimento femminista nel suo insieme, specialmente nell’ultimo video. 

Ma Freeda è oggetto di critiche anche da sinistra o dall’interno del movimento femminista. Il primo tentativo di smascherare i reali intenti di Freeda fu un articolo di «Dinamo Press», da tempo cancellato dal sito ma ancora reperibile in rete, intitolato Ecco cosa c’è dietro Freeda, pubblicato meno di due mesi dopo l’avvio del progetto editoriale. L’articolo parlava della nascita di Freeda e dei suoi legami con la famiglia Berlusconi e all’epoca aveva scatenato grande indignazione e stupore. L’azienda proprietaria del marchio Freeda, Ag Digital Media, è stata infatti fondata da Gianluigi Casole, che ha lavorato per il family office di Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi H14, e da Andrea Scotti Calderini, ex di Publitalia 80, concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset. Tra i suoi investitori, insieme a diverse figure legate alla galassia Mediaset, c’è anche Ginevra Elkann, nipote di Gianni Agnelli. Se nel 2017 quello di «Dinamo Press» sembrava un vero e proprio scoop, dal momento che agli esordi Freeda poteva benissimo essere scambiato per un progetto nato dal basso, oggi si tratta di informazioni note a tutti e che di certo non vengono tenute nascoste. Insomma, sul fatto che dietro Freeda si celino interessi diversi dalla lotta transfemminista o dalla rivoluzione proletaria nessuno nutre alcun dubbio. Eppure, moltissime persone degli ambienti femministi si sentono ancora in dovere di prendere pubblicamente le distanze da Freeda, non solo per la sua vicinanza alla famiglia Berlusconi, ma anche e forse soprattutto per l’idea di femminismo che la pagina propone: la Libreria delle donne di Milano, spazio storico del femminismo della differenza italiano, ha scritto un post sul proprio sito per ribadire che quello di Freeda è «sedicente femminismo rassicurante e mai controverso». Sono inoltre innumerevoli gli articoli che tentano di differenziare il «vero» femminismo da quello del marchio, con argomentazioni più o meno condivisibili: Freeda non è una pagina femminista («Medium»), Freeda: un femminismo confuso («La colonna infame»), Il doppio volto di Freeda («The Password», rivista degli studenti dell’Università di Torino), Freeda è solo un altro strumento del capitalismo? («Excentrico»), per citare i più recenti. 

Tale confusione sulla natura di Freeda ha generato qualche episodio che mi ha personalmente coinvolta e mi ha fatto riflettere sul ruolo che questo progetto sta avendo nel mondo femminista italiano. Durante una presentazione del mio primo libro, Il corpo elettrico, due ragazze molto giovani mi hanno chiesto cosa dovessero rispondere a chi sosteneva che Freeda fosse «femminismo radicale». Un’altra volta mi è stato chiesto, sempre da adolescenti, se fosse giusto o sbagliato seguire quella pagina. Se dovessi dire qual è una delle domande che mi vengono rivolte più spesso durante le interviste o gli incontri di fronte a un pubblico giovane, sarebbe proprio un commento su Freeda e sull’autenticità dei suoi contenuti.La mia impressione è che queste lettrici cercassero una conferma sul fatto che Freeda, come mi è stato detto più volte, «è il male». Mi sono interrogata a lungo sull’impatto che Freeda ha avuto sulla vita di chi si avvicina in adolescenza al movimento delle donne. Perché le giovani femministe sentono il bisogno di prendere una posizione così netta nei suoi confronti? Perché le più anziane intervengono per condannarla apertamente? Perché Freeda è diventata lo Zeitgeist del discorso femminista contemporaneo nel nostro Paese? 

Freeda non ha, ovviamente, nulla di estremista, sovversivo o pericoloso: è una pagina dai contenuti inoffensivi, con una grafica curata da una palette viola e fucsia, che alterna post e storie motivazionali – che hanno spesso per protagoniste le minoranze sessuali, etniche o le persone con disabilità – a inserzioni pubblicitarie. Il suo target sono le adolescenti o le giovani adulte e il progetto mira a promuovere cose del tutto innocue come la «realizzazione femminile, lo stile personale e la collaborazione tra donne». Basterebbe ribadire che si tratta di un’azienda per dimostrare che Freeda non ha molto a che vedere con il movimento femminista in quanto tale. Eppure, il motivo per cui si dibatte tanto su Freeda, arrivando a sovrapporla con quello che fanno le militanti e attiviste femministe, non è affatto banale né marginale.

La domanda da porsi infatti è questa: pagine come Freeda rappresentano una variante del femminismo o sono una variante del capitalismo che si appropria del linguaggio, della retorica e dell’estetica femminista?

La recente riemersione del soggetto politico femminista in un paradigma economico che non si fa scrupoli a capitalizzare i temi sociali in nome del profitto ci pone di fronte a delle sfide nuove. Il primo nodo da sciogliere è se le aziende e i brand si meritino il «patentino» del femminismo e il secondo, la cui risposta pare meno scontata, è come tale nuova postura della brand identity influenzi la pratica femminista. Per tentare di dare una risposta a queste domande, è necessario capire come si è arrivati a questo punto. 

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

ARTICOLO n. 17 / 2024

LA DISTANZA PIÙ BREVE

Quando si è laureato non pensava di dover sparare. 

Si era iscritto ad Agraria come se non avesse alternative, futuro laureato per soddisfare i suoi desideri e le aspettative dei genitori. Aveva scelto la facoltà legata all’attività della famiglia paterna: la terra. Il presente universitario omaggiava la tradizione, il passato, ma soltanto per distanziarsi e ipotizzare il futuro, il futuro come manager nella Grande Distribuzione Organizzata. 

Prima di arrivare a sparare, aveva studiato alternando i libri ai laboratori; aveva studiato, annoiandosi, la storia dell’agricoltura, che gli era parsa troppo astratta rispetto alla smania di vivere, alla dipendenza dal quotidiano. Certo, occorreva conoscere la storia dell’agricoltura, il pensiero degli agronomi nel corso dei secoli per comprendere il lungo processo grazie al quale miliardi di esseri umani si erano affrancati dalla fame, ma il problema della fame, così come quello della guerra, non si era risolto in tutto il mondo, e allora lui preferiva concentrarsi sul benessere smemorato, su ciò che aveva trasformato la storia dei popoli in vicende individuali. 

Il suo ruolo sarebbe stato quello: soddisfare la fame del singolo cliente.

Aveva studiato le teorie per analizzare la conformazione degli animali, allo scopo di quotare le funzioni economiche delle esistenze, poiché ogni animale offriva, in potenza, qualcosa, e spettava all’essere umano trasformare la potenza animale in prodotto: carne, grasso, latte, uova. Aveva studiato la chimica organica, la metodologia per ispezionare e stimare i rischi degli alimenti di origine animale, le tecniche di trasformazione e conservazione. Ma soprattutto aveva studiato come valutare il cosiddetto benessere animale, le procedure relative all’allevamento e alla macellazione, o meglio, al ciclo di macellazione di bovini, suini, polli, pesci.

Ecco, ciclo di macellazione. Sia da studente che da manager della Grande Distribuzione Organizzata aveva utilizzato locuzioni tipiche – qualità nutrizionale, regime alimentare – perché così imponeva, e impone, ogni linguaggio tecnico ripetuto in modo meccanico. 

Ogni linguaggio tecnico utilizza parole condivise con linguaggi tecnici di altri settori; da alcuni decenni, per esempio, sembra sia impossibile sottrarsi al sostantivo filiera: filiera del libro, filiera della carne. 

Nella seconda metà degli anni Novanta, subito dopo la laurea, era stato assunto presso la sede centrale di un’azienda di supermercati. Il suo ruolo era adeguato alla laurea in agraria e all’indirizzo scelto durante gli studi: era diventato il buyer junior della carne. 

Il suo capo cinquantacinquenne – il buyer senior – aveva iniziato come compratore della carne quando la parola buyer non era di uso comune. Il buyer senior lavorava per quella azienda di supermercati da trent’anni, aveva comprato carne in ogni angolo del pianeta senza parlare inglese. Durante la sua carriera era stato affiancato da numerosi buyer junior i quali – dopo pochi anni, a volte dopo pochi mesi e perfino dopo poche settimane – avevano cambiato lavoro, passando alla concorrenza o a un altro settore. 

Eppure quando il buyer senior aveva visto il nuovo buyer junior, aveva pensato che quel trentenne potesse essere la scelta giusta; il buyer junior conosceva davvero la carne; il buyer junior, durante i mesi estivi della giovinezza, aveva coltivato la terra nell’azienda agricola dello zio e, fin da bambino, aveva assistito all’uccisione degli animali sull’aia della cascina. Ma quello era il passato.

Il buyer senior aveva notato la voglia di crescere, il desiderio, in prospettiva, di diventare buyer senior al suo posto. E allora il buyer senior aveva organizzato, in accordo con il presidente dell’azienda, un addestramento specifico, che necessitava di dieci giorni – due settimane lavorative – all’interno di un macello. 

Il buyer junior aveva guidato l’auto aziendale, una Fiat Punto bianca utilizzata in precedenza da un altro collaboratore. Aveva percorso la tangenziale e un tratto di autostrada fino al macello, pensando di analizzare capi di bestiame, di verificare la macellazione, la filiera della carne, appunto. 

Appena arrivato, era stato accolto dal responsabile della macellazione che gli aveva mostrato un foglio, il disegno raffigurante la testa di un bovino. Il responsabile della macellazione aveva indicato con un pennarello l’obiettivo al centro del cranio; poi gli aveva mostrato una pistola e i proiettili captivi, punte acuminate d’acciaio. 

Il responsabile della macellazione aveva condotto il buyer junior alla finestrella che si affacciava su un breve tunnel, il punto in cui attendere l’animale; si trovava un po’ più in alto rispetto al passaggio del bovino, come se il buyer junior si affacciasse al davanzale di una finestrella al piano terra, e quella leggera posizione rialzata servisse ad avvicinarsi meglio alla testa. Il bovino era entrato nel breve tunnel, aveva compiuto pochi passi, al buyer junior la testa era sembrata grande. Il responsabile della macellazione aveva sparato, colpendo il punto mostrato poco prima sul disegno. 

Il bovino era stramazzato incosciente a terra, nella condizione tra lo stordimento e la morte, morte che sarebbe avvenuta pochi secondi dopo, nella giostra di macellazione. 

Adesso toccava al buyer junior. Il bovino successivo era entrato nel tunnel, al buyer junior la testa non era sembrata grande, semmai più simile al disegno del foglio che alla realtà sopraggiungente, sì, lo spazio in cui colpire era davvero minimo, come se la testa del bovino si fosse ristretta, diventando la testa di un ovino, un agnellino di tre chili. 

Aveva sparato, il bovino era stramazzato a terra, incosciente, pronto alla macellazione.

Se ci fosse stato il tempo per porsi domande, il buyer junior avrebbe risposto che lui non uccideva l’animale, lo stordiva, lo inviava alla macellazione in uno stato di incoscienza per evitare sofferenze, e farlo morire meglio. Ma poco dopo il primo bovino, ne era uscito un altro, e poi un altro, e un altro ancora.

Alla fine del primo giorno, il buyer junior, salendo sull’auto aziendale, aveva sentito un indolenzimento al braccio destro, tenuto per quasi tutto il giorno in posizione di sparo. Così aveva guidato la Fiat Punto bianca in autostrada e poi in tangenziale usando la sola mano sinistra. Ma quei giorni, e il dolore al braccio destro, erano passati. 

Non tutti i buyer junior erano riusciti a sparare in fronte ai bovini. Lui sì, e questo lo aveva fortificato. Sparare nella fronte di un essere vivente, di centinaia e centinaia di esseri viventi, significava aderire davvero al processo di apprendistato e a qualcosa di più grande della carriera aziendale. Tra l’altro, un apprendistato di quel tipo non era necessario a un buyer junior, ma lui non si era sottratto, e l’azienda aveva così testato le doti di resistenza fisica e mentale. La promozione da buyer junior a buyer senior poteva essere valutata anche attraverso gli spari all’inizio della carriera. 

Dopo quei giorni, il buyer junior aveva comprato la carne che lui stesso aveva anestetizzato prima della macellazione, la carne che il consumatore italiano avrebbe trovato in vendita al supermercato. 

Il buyer junior sarebbe diventato buyer senior e avrebbe avuto una carriera manageriale ancora più significativa se, una decina d’anni dopo, non si fosse ammalato di cancro. 

E tuttavia, poiché aveva aderito fino in fondo al proprio ruolo, a quarant’anni, da malato terminale, era andato in Scozia per partecipare a una fiera del bestiame, conscio che sarebbe stata l’ultima fiera della sua vita, durante la quale aveva premiato un allevatore scozzese per la miglior carcassa

Era morto poche settimane dopo. 

Il buyer junior era un mio caro amico ai tempi del liceo e della giovinezza. Ventidue anni fa, sei anni prima che morisse, avevo scritto un monologo su un buyer della carne. 

Di recente ho ripensato a ciò che mi aveva raccontato a proposito della macellazione ebraica e della macellazione islamica. 

Gli addetti alla macellazione kosher erano tre, rabbino compreso. Ciascuno aveva un compito preciso. Uno leggeva ad alta voce ciò che sembrava una preghiera. Uno effettuava la visita dell’animale. Uno sgozzava. L’animale era infilato in una gabbia rotonda, quasi al buio. Il meccanismo della macchina spingeva l’animale verso una finestrella aperta, così l’animale sporgeva la testa, e allora la macchina manovrata dall’uomo si stringeva intorno al collo, ribaltava la bestia e la sgozzava, uccidendola per dissanguamento. La macellazione halal era molto simile. Avveniva durante la recita del Corano. L’animale era imprigionato in una gabbia ricoperta da un telone nero. La gabbia doveva essere rivolta verso La Mecca; anche se la macellazione avveniva nei pressi di Lodi, ciò che contava era La Mecca, la direzione verso cui l’animale, adagiato su un fianco e sgozzato da specifici coltelli, rivolgeva lo sguardo prima di morire dissanguato.

In entrambi i casi, il personale che tagliava e disossava la bestia era sempre ebreo o musulmano. La macellazione kosher e la macellazione halal avvenivano soltanto una volta la settimana, poiché bisognava allestire la parte del macello che, di solito, era pronta secondo i metodi di uccisione stabiliti dall’Unione Europea.

Oltre alle storie che raccontava il mio amico a proposito della macellazione kosher e della macellazione halal, mi è tornato in mente un piccolo, prezioso libro che avevo letto quando era uscito in Italia, nel 2011: Esecuzioni a distanza, di William Langewiesche (Adelphi). Il libro era composto da due brevi testi: il primo narrava di Crane, tiratore scelto statunitense che aveva combattuto in Afghanistan e in Iraq, eccellendo, diciamo così, per la precisione della mira grazie alla quale aveva ucciso afgani e iracheni; il secondo testo raccontava la vita dei militari che pilotavano i Predator, piccoli aerei pilotati dalla base di Alamogordo, New Mexico; i Predator restavano in volo fino a ventiquattro ore, viaggiando alla velocità di circa cento chilometri orari; erano sensibilissimi alle intemperie, tanto che una semplice pioggia poteva causare loro danni; i Predator erano utili nella raccolta dati e aiutavano le truppe di terra ma, all’occorrenza, potevano sparare e uccidere in Afghanistan o in Iraq, a tredicimila chilometri di distanza dal punto in cui erano pilotati.

Il tiratore scelto Crane, a differenza di molti soldati semplici, non sparava all’impazzata. Se fosse stato un pessimo tiratore, si sarebbe comportato come il soldato britannico che sparava a casaccio e recriminava di aver “ucciso più asini che talebani”: disappunto mitigato in parte dal fatto che, a giudizio del soldato britannico, si trattava comunque di “asini talebani”. Crane era invece un tiratore serio, professionale, e questo fatto implicava un altro tipo di inquietudine. «A quanto sembra Crane ha colpito sempre e solo bersagli giusti. Ciò significa che in varie occasioni ha rinunciato a sparare». Langewiesche evitava qualsiasi sbavatura epica guerresca e ci costringeva a un calcolo balistico, una cifra che tuttavia racchiudeva anche la responsabilità del gesto. Crane, per esempio, si era trovato a 806 metri di distanza da un altro uomo, un afgano nascosto dietro una roccia e inquadrato nel mirino del tiratore scelto statunitense. Non sappiamo nemmeno dire se 806 metri siano tanti o pochi: 806 metri sono due giri di una pista d’atletica, più quei sei metri in cui di solito, al termine della gara, si crolla a terra ansimando per lo sforzo. L’essere umano più veloce impiega circa un minuto e quarantuno secondi per compiere 806 metri; un proiettile impiega pochi istanti. Ammettiamo che in quella circostanza Crane abbia deciso di sparare, come possiamo definire la morte dell’uomo? Si può considerare un’uccisione remota oppure è la giusta distanza per sentire ancora la responsabilità del corpo di un altro uomo, l’idea che quell’uomo stesse rifiatando dietro una roccia, poco prima di essere colpito?

Mentre Crane prendeva la mira sotto il sole, in mezzo alla polvere, altri militari, a tredicimila chilometri di distanza, nella cittadina di Alamogordo, in un anonimo edifico di mattoni rossi, erano seduti su “una poltroncina di vinile marrone” e pilotavano aerei che volavano a oltre quattromila metri d’altezza, nel cielo afgano. «Oggi ci hanno dato l’Afghanistan, ma possiamo avere mappe di qualsiasi parte del mondo».

Già da buyer junior il mio amico aveva molta libertà di azione. Poteva comprare carne in ogni zona del pianeta, ma per ovvi motivi logistici privilegiava l’Italia e alcune nazioni europee, come la Francia e l’Irlanda. E poi, quando possibile, preferiva visitare i macelli, gli animali che sarebbero diventati le bistecche del consumatore. E tuttavia, con il passare degli anni, il suo lavoro era diventato più simile a quello dei militari di Alamogordo e quindi molto simile alla maggior parte dei gesti che compiamo ogni giorno. 

Cosa ci infastidisce di più? Chi uccide a distanza, con un Predator o un drone? Chi bombarda e uccide con un caccia F35? Oppure ci fa più orrore chi entra nelle case armato di fucili mitragliatori, guarda negli occhi le vittime e ascolta le urla prima di sparare? Oppure ci fanno orrore tutte queste situazioni, consci che nulla possa essere come i videogame dell’infanzia ininterrotta, perché ci pongono nella condizione di spettatori e complici? 

«L’addestramento non lo aveva preparato a niente del genere. Era come se gli avessero insegnato a uccidere in astratto», scriveva Langewiesche.  

Il buyer senior aveva mostrato al buyer junior il processo attraverso il quale si giungeva alla fettina di carne nel supermercato. Ma le uccisioni non sempre avvenivano secondo le procedure, in apparenza così ineccepibili come quelle stabilite dall’Unione Europea. 

Un essere umano si stancava di affacciarsi alla finestrella nel tunnel del macello, stravolto dal dover sparare con quella frequenza, stravolto dal dover mirare la piccola parte della testa di un altro essere vivente; e quindi accadeva che il proiettile captivo non centrasse il punto esatto per stordire l’animale, e l’animale giungeva alla macellazione ancora cosciente.

Raid. Operation Enduring Freedom. Farm to Fork. 

Mettiamo una ulteriore pellicola tra il linguaggio che depista, i gesti e le loro conseguenze. Quando i nostri corpi ci parlano, troviamo giustificazioni, utilizziamo sotterfugi, come guidare l’anonima Fiat Punto bianca con la mano sinistra in autostrada, dopo centinaia di colpi sparati in fronte ai bovini, il braccio destro indolenzito.

«Tra i movimenti del controllo e la risposta del Predator c’è un intervallo di due secondi, il tempo necessario a trasmettere il segnale attraverso le fibre ottiche in Europa, e da lì, via satellite, all’aereo in volo sull’Afghanistan». Il tempo necessario affinché il pilota, dall’altra parte del pianeta, possa correggere le oscillazioni.

Vorrei credere che due secondi di lieve discrepanza satellitare tra l’istante di Alamogordo e l’istante dell’aereo nel cielo afgano – come la breve riflessione di Crane a 806 metri di distanza, la sensibilità dei Predator alle gocce d’acqua o il dolore al braccio destro del mio amico ventisette anni fa – siano una forma residuale di resistenza anomala, forse nemmeno troppo consapevole, ma grazie alla quale possiamo ancora definirci, insomma, qualcosa.

ARTICOLO n. 16 / 2024

IL FILO DELLA VITA DI ROSA E DI BASAGLIA

Cento anni di Franco Basaglia

Pubblichiamo un estratto da Cento giorni che non torno (Laterza) di Valentina Furlanetto. Ringraziamo l’editore e l’autrice per la disponibilità.

Cent’anni dopo la nascita di Basaglia, seduta alla scrivania, cerco di dipanare il groviglio di fili di queste vite parallele. Si intrecciano storie di guerra, povertà, sofferenza, storie di una crescita economica che pure ha lasciato indietro moltissimi individui fino a schiacciarli: e penso alla malattia mentale. 

Il filo della vita di Rosa e il filo della vita di Basaglia, ma anche di Lorenzo, che a più di quarant’anni dalla legge 180 è morto legato a un letto, e di tutti noi, che almeno una volta nella nostra vita abbiamo avuto una crisi d’ansia o un periodo difficile, almeno una volta ci siamo chiesti se siamo sani o se siamo malati e se davvero abbia un senso questa distinzione. Ci siamo domandati se le persone che ci circondano stanno bene e cosa dovremmo fare per aiutarle, se la malattia mentale è una cosa lontana e pericolosa o vicina e innocua, se ci appartiene, come funziona, come si cura, se le possiamo dare la colpa di tutto ogni volta che succede qualcosa di apparentemente inspiegabile, se possiamo chiuderla nel recinto e finalmente liberarcene, noi che il più delle volte ci pensiamo sani, razionali, che ci illudiamo che non ci riguardi. E invece.

Da bambina passavo molto tempo da sola. Avevo un fratello molto più piccolo con cui non potevo sperare di giocare dalla mia nonna paterna, Maria, non c’era nessun altro bambino. Trascorrevo pomeriggi assolati e infiniti con la nonna ad aspettare che i miei genitori tornassero a casa. Il tempo non passava mai, credo per entrambe. Lei ogni tanto sollevava la testa dal suo lavoro a maglia e mi sorrideva, spesso mi chiedeva se avevo fame, era sempre preoccupata che avessi mangiato abbastanza: anche se avevamo appena pranzato, anche se stavamo ancora mangiando chiedeva continuamente “hai fame?”. Io fame non ne avevo mai e questo le dava ancora più ansia, raddoppiava le sue raccomandazioni. In quei lunghi pomeriggi leggevo, disegnavo, facevo i balletti davanti al vetro del forno, guardavo assieme a lei la telenovela Andrea Celeste in tv, così straziante, così gonfia di retoricae così carica di sventure da far sembrare le nostre esistenze fortunate. Poi scappavo fuori e gironzolavo per il giardino.

Oppure accadeva che stessi sola con i miei pensieri nel cortile d’asfalto della scuola elementare. Ero così piccola rispetto alle altre bambine che non andavo bene per la maggior parte dei giochi, e allora per puro spirito di sopravvivenza, prima ancora di essere scartata, mi sottraevo e facevo immensi giri a vuoto nel cortile.

In tutte queste occasioni di solito i pensieri si ripetevano, si muovevano in cerchio, e ricordo che a un certo punto ho iniziato a sentire delle voci. Erano voci che sussurravano le stesse parole ossessivamente, a volte intere frasi, a volte parole singole. Mi ronzavano nell’orecchio, monotone e insistenti, come una cantilena. Poi si spegnevano e magari tornavano il giorno dopo o a distanza di qualche settimana. Anche sforzandomi, non ricordo cosa dicessero. Ma ricordo che erano voci benigne, che riconoscevo, che talvolta mi facevano compagnia, che sembravano un mantra, una nenia, qualcosa che mi cullava, che faceva da sfondo, che compiva un movimento sempre uguale che tornava sempre al punto di partenza. Anche se non erano minacciose, a un certo punto queste voci hanno iniziato a turbarmi, a essere invadenti e costanti, e soprattutto io ho iniziato a pensare che forse ero matta e che fosse qualcosa di cui preoccuparmi. Non avevo nessuna voglia di parlarne a mia madre, ero certa che lei, sempre così ansiosa, si sarebbe allarmata.

Ma se stavo diventando pazza? Alla fine gliene parlai. Mi chiese solo se queste voci mi inquietavano, se dicevano cose che mi spaventavano, se mi davano ordini, se erano aggressive. Le dissi di no, lei mi rassicurò, mi disse che a tanti bambini accade, che facevo bene a parlargliene, ma che non dovevo preoccuparmi. Ho continuato a sentire queste voci per qualche tempo, mi hanno fatto compagnia senza più allarmarmi, fino a che sono sparite e non sono più tornate.

Anche Lorenzo aveva sentito le voci da bambino? Erano voci buone o voci cattive? Si era spaventato? Anche lui era stato rassicurato che non si trattava di niente di grave oppure gli avevano detto che era “matto”, che era malato? E se anche era “matto”, perché lo avevano legato? Sì, in passato si faceva così, ma non erano pratiche ormai superate? La risposta alla follia, alla diversità, all’imponderabile è sempre stata chiudere, dividere, legare. Ma non avevamo fatto tanti passi avanti? E dove siamo esattamente oggi?

La questione del legare o meno i pazienti, come quella del rinchiuderli negli istituti o lasciarli liberi, ha radici antiche e, si sperava, superate. John Conolly, ad esempio, già tra il 1839 e il 1849 aveva messo in piedi un movimento per eliminare le misure di contenzione e le porte chiuse nel manicomio di Hanwell in Scozia. Per la sua epoca era un rivoluzionario.

Nella sua opera Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi (1856) Conolly scrive: »non solo è possibile dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e benefico cambiamento».

Per lo psichiatra inglese, che Franco Basaglia citerà poi nei suoi scritti, «la sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito ­­­un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde».

Insomma, il coinvolgimento di infermieri e medici e il lavoro di équipe che poi Basaglia metterà in atto trovano in Conolly un antesignano importante.

Il medico inglese descrive anche i risultati positivi della sua esperienza: »Ci portano dei giovani impazziti da alcune settimane che, per lo spavento o l’ignoranza dei parenti, sono stati messi dentro dalla polizia, esposti a maltrattamenti e ingiurie, sono state loro imposte le manette e alla fine inviati in manicomio al colmo della esasperazione per tutto ciò che avevano subìto. Un esempio notevole di tale stato di cose fu una giovane diciottenne, la cui guarigione ebbe inizio il giorno del ricovero: pur essendo in preda a crisi maniacali e con tendenze suicide al momento dell’accettazione, lasciò l’istituto perfettamente guarita. Dopo due giorni che la fanciulla era nel reparto, sparirono i gesti incomposti e l’aspetto pazzoide; si fece notare per l’aspetto mite e la gentilezza, ma conservò un lucido ricordo di come era stata trattata prima di essere mandata da noi». Il medico inglese era il pioniere del cosiddetto “no restraint”, il sistema di trattamento dei malati mentali che esclude i mezzi di coercizione meccanica o li consente solo in casi estremi (se il paziente ha una tendenza a ferirsi o a ferire gli altri). Ma allora perché Lorenzo era stato legato?

Negli anni Quaranta Franco Basaglia, adolescente, giocava spesso a Campo San Polo a Venezia, ancora oggi un luogo dove i ragazzini si incontrano, giocano a palla, si scambiano chiacchiere, dispetti, scherzi. A pochi metri c’è la laguna, ma all’interno del campo quasi non se ne avverte la presenza: se non fosse per l’odore salmastro che sale quando fa caldo, ­­­si potrebbe essere ovunque. 

Franco Basaglia passava molte ore con i compagni di classe e gli amici a giocare sotto casa a Venezia, talvolta nei fine settimana con la famiglia si spostava sulla terraferma, con il padre visitava i mercatini di antiquariato, una sua passione. Erano gli anni del fascismo, ma in famiglia si parlava poco di politica, anche se da parte di madre ci sarà una medaglia d’oro, Giovanni Faccin, ufficiale di carriera che l’8 settembre preferì suicidarsi piuttosto che consegnarsi ai tedeschi.

Così, mentre l’Italia fascista si lanciava nella guerra con scriteriato entusiasmo, Franco Basaglia ragazzo giocava a Campo San Polo e camminava per le calli di Venezia con i libri sottobraccio per andare a lezione, e a una settantina di chilometri di distanza, in piena campagna veneta, Rosa, figlia di un falegname, cadeva a terra, investita da un’auto.

Fu un brutto incidente. Il conducente scappò. Non si scoprì mai il colpevole, probabilmente un gerarca fascista, chi altri poteva disporre di un’automobile in campagna a quei tempi? La cartella clinica riporta che «fu investita da una macchina con trauma cranico e frattura dell’osso frontale, di cui rimane evidente infossamento a sinistra». Rosa entrò in coma e venne trasportata in ospedale. 

Nessuno pensava che ce l’avrebbe fatta, tanto che non la operarono neppure alla gamba, dove aveva riportato una frattura, convinti com’erano che sarebbe comunque morta, né pensarono di operarla alla tempia, che presentava una ferita importante, perché allora non esistevano né la strumentazione né le competenze scientifiche per intervenire.

Per mesi Rosa rimase incosciente in ospedale. Le sorelle, i genitori, il fratello erano rassegnati al peggio, invece dopo qualche mese Rosa si risvegliò. Sopravvisse, ma da quel momento iniziarono i problemi. La commozione cerebrale da trauma le lasciò in eredità frequenti mal di testa, convulsioni e crisi epilettiche durante le quali perdeva conoscenza, il suo corpo si muoveva a scatti, senza alcun controllo; quando usciva dalle crisi, Rosa avvertiva un senso di confusione ed estraneità che per qualche tempo non la rendeva partecipe della vita quotidiana. Per queste crisi, per questi disturbi, venne più volte ricoverata in manicomio. Da qui ha inizio la sua storia di malata psichiatrica.

ARTICOLO n. 15 / 2024

MADRI MOSTRO

Il mito della mostruosità femminile - i

A causa di alcuni problema di salute, la Presidente del consiglio Giorgia Meloni ha rimandato la consueta conferenza stampa di fine anno ai primi giorni di gennaio. Si tratta di un appuntamento importante in cui l’esecutivo è chiamato a confrontarsi con la stampa in merito alle attività svolte durante l’anno appena concluso. Com’era prevedibile, molto tempo è stato dedicato a rispondere alle domande sulla natalità e sulle misure utili a favorirla. Il cosiddetto “inverno demografico”, espressione utilizzata per descrivere lo stato di preoccupante denatalità che caratterizza i paesi europei e in particolare l’Italia, è infatti un tema molto avvertito dall’attuale Governo, che non a caso vi ha dedicato ampio spazio sia nella manovra di bilancio che nelle iniziative pubbliche, come per esempio nell’ultima edizione di Atreju, la festa organizzata dalla Sezione Giovanile di Fratelli d’Italia. Gli esponenti politici non perdono occasione per ricordare alle donne la necessità di adempiere alla propria funzione biologica. Lo ha fatto, tra le altre, la senatrice Lavinia Mennuni in un programma televisivo proprio sul finire dell’anno, quando ha ricordato alle istituzioni di agire per avvicinare le diciottenni alla maternità, rendendola di nuovo cool.

In un puntuale articolo su Valigia Blu, la scrittrice Giulia Blasi ha ricordato che la maternità (e non la “genitorialità” o la “paternità”, i tre termini infatti non sono propriamente sinonimi perché inseriti all’interno di una cornice narrativa che attribuisce loro, socialmente, valori differenti) non è mai stata cool, perché l’aggettivo si riferisce a una moda, e far figli non dovrebbe esserlo. Se fosse una moda, aggiungo, essa colpirebbe un po’ tutti gli strati della popolazione come accade quando un accessorio diventa incredibilmente richiesto e tutti cercano di accaparrarselo nella versione luxurycheap o fake a seconda delle possibilità.

Il mito della maternità, di cui abbiamo già parlato in uno dei nostri precedenti appuntamenti, invece, è uno strano mostro multiforme che si manifesta in modo differente a seconda della soggettività in cui si incarna. Come ricorda la giornalista Ilaria Maria Dondi in Libere, «la questione per una donna non è tanto o solo avere o non avere figli, ma averli o non averli in un modo preciso». Le campagne volte a contrastare la denatalità sembrano riguardare tutte, ma in realtà si rivolgono a un target specifico: le destinatarie dell’invito a procreare devono essere giovani, bianche, abili, possibilmente economicamente autosufficienti e inserite in relazioni monogame ed eterosessuali. Tutto ciò che fuoriesce da questo identikit è escluso dal discorso, non importa se anche queste soggettività siano in possesso degli organi necessari alla riproduzione e del desiderio – di cui troppo spesso ci dimentichiamo – che dovrebbe sostenerla. 

Rebekah Taussig è una scrittrice e docente, oltre che una persona con disabilità. Nel suo volume Felicemente sedutautilizza la propria esperienza personale per mostrare come certi temi, tanto cari al femminismo, colpiscano il corpo di una persona disabile in modo del tutto diverso. Mentre le sue sorelle crescevano e diventavano madri confrontandosi sui rimedi contro le nausee mattutine e i vestiti premaman, nessuna le chiedeva se avrebbe voluto figli. Lei per prima, afferma, non sarebbe riuscita a immaginarsi in quel ruolo a causa di una totale assenza di modelli. Nel 2020 la scrittrice e il suo compagno sono diventati genitori. Nei post su Instagram in cui si mostra con il pancione e, successivamente, con suo figlio tra le braccia ha sottolineato spesso come la sua maternità sia stata considerata un’anomalia, qualcosa di inconsueto che sembrava autorizzare chiunque a porre indebite domande sul futuro: come lo avrebbe gestito? Come avrebbe fatto a rincorrerlo, sostenerlo, proteggerlo dai pericoli, seduta su una sedia a rotelle? 

La curiosità morbosa nei confronti della maternità di una donna con disabilità può trasformarsi in vero e proprio disprezzo quando lo spauracchio di una possibile gravidanza coinvolge i corpi delle persone nere e disabili. Negli Stati Uniti, la sterilizzazione coatta ha colpito diffusamente le donne immigrate: se agli inizi del Novecento questa pratica avveniva nelle istituzioni totali, come per esempio nelle carceri, intorno agli anni Settanta è stata condotta apertamente con l’inganno, facendo credere alle persone coinvolte di sottoporsi a sperimentazioni o terapie per presunte malattie che le affliggevano. Celebre è la storia di Katie Relf, una donna analfabeta e povera, proveniente da un sobborgo dell’Alabama, che, convinta di approvare un semplice intervento per l’inserimento della spirale intrauterina, ha in realtà autorizzato i medici a compiere un’isterectomia sulle sue figlie minorenni e disabili.

C’è un altro caso, tuttavia, in cui la maternità è un’eventualità da rimuovere, impedire e nascondere: quella che riguarda le persone trans. Se guardiamo oltreoceano troviamo alcune storie di uomini trans (cioè persone AFAB, assegnate femmine alla nascita, che hanno compiuto una transizione verso il genere maschile) che hanno scelto di portare avanti una gravidanza. Il primo è stato Thomas Beatie, che nel 2008, in seguito alla scoperta della sterilità della sua compagna, ha deciso di interrompere le terapie ormonali e ricorrere alla procreazione assistita per dare alla coppia un figlio. Le persone che ricorrono a questa pratica si definiscono seahorse dad, cioè “papà cavalluccio marino” perché in questa specie sono gli individui maschi a covare le uova fino alla schiusa. Il fatto che ci sia un termine per descrivere questa condizione fa pensare che non sia poi così rara; è indubbio però che le istituzioni cerchino di contenerla e stigmatizzarla.

Se guardiamo all’Europa, sono sette i paesi in cui le persone trans possono accedere alla rettifica anagrafica solo previa intervento di sterilizzazione. Giulia Senofonte, endocrinologa esperta di terapie gender affirming, ricorda che in Italia, fino al 2015, per poter procedere al cambio del nome sui documenti anagrafici era necessario sottoporsi a un intervento di rimozione delle gonadi. Questa pratica persiste per legge in altri paesi europei (dalla Finlandia alla Romania). Il recente caso di Marco (nome di fantasia), uomo trans che ha scoperto di essere in stato di gravidanza mentre si preparava a un intervento di isterectomia, rivela quanto questa condizione sia impensata, imprevista e stigmatizzata. Essa risulta inattesa sia da un punto di vista medico, dato che non si conoscono le conseguenze della terapia ormonale sul feto, sia da un punto di vista legale – Marco infatti ha già provveduto a fare la rettifica anagrafica e pertanto non potrebbe ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, né è chiaro in che veste potrà riconoscere suo figlio, se in qualità di padre o madre. 

Nel saggio Il mostruoso femminile, J. E. Sady Doyle ci ricorda che definire le donne a partire dalla gravidanza o viceversa è ingannevole: ci sono donne che non partoriranno mai, ci sono persone appartenenti al genere maschile che possiedono un utero e per questo potrebbero, ce ne sono altre che, pur rientrando in quello femminile, sono impossibilitate per cause biologiche o pregressi interventi sanitari. A ben guardare «non si tratta di quale sia la realtà, ma di come insegnano a immaginarla». Dare la vita è un gesto potente e mostruoso perché potenzialmente potrebbe violare le norme sociali su cui il patriarcato si regge, per questo, sostiene Doyle, «la creatura che esiste al di là dei ruoli e dei confini che riteniamo accettabili deve essere uccisa, altrimenti il sistema collasserà».

In quanto sistema di potere, il patriarcato è una struttura complessa e articolata, apparentemente immutabile. In realtà, non lo è affatto. La sua organizzazione scricchiola e viene messa a rischio dalle storie di tutte quelle soggettività che fuoriescono dai canoni e si appropriano di funzioni vietate. «Finché il mito della famiglia, il mito della maternità e l’istinto materno non verranno soppressi, le donne saranno oppresse», scriveva De Beauvoir a Betty Friedan. La libertà delle donne, oggi, va di pari passo a quella di tutte le altre categorie marginalizzate e, per questo, mostruose.

ARTICOLO n. 14 / 2024

CONTRO L’IDEALE DELL’INTELLETTUALE

tre strategie

Pubblichiamo la prefazione al volume di Zygmunt Bauman e Bruno Bongiovanni Intellettuali (Treccani). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

I vocabolari sono le forme più ingannevoli di rappresentazione della vita di un linguaggio. Nelle loro pagine le parole si affiancano l’una all’altra con pacifica indifferenza reciproca, senza gerarchie, senza ambizioni, come se nessuna badasse al proprio uso. Come se ciascuna fosse da sempre e per sempre legata a un significato in un matrimonio semantico che non può conoscere crisi e tantomeno divorzio. Sarebbe difficile immaginare qualcosa di più illusorio. 

Le parole in realtà sono, da sempre, il luogo di una duplice battaglia: quella relativa al loro significato (che proprio per questo non smette di mutare) e quella per il loro uso. I suoni che scivolano nelle nostre bocche o gli strani intrecci di linee su fondo bianco che popolano libri e quaderni sono stendardi e vessilli di una guerra continua che riguarda chi ha il diritto di parlare, in quali condizioni, quanto spesso, e in relazione a quale e quanta porzione di realtà sia possibile trasformare attraverso la presa di parola. Ogni discorso trasforma il reale: è per questo che vi è un continuo scontro. E in una guerra in corso le parole non si equivalgono: non hanno alcuna assicurazione a vita sulla validità e la legittimità del loro significato così come del loro uso e sono sempre sporche, piene di macchie di crimini passati di cui abbiamo dimenticato moventi e assassini.

Il termine intellettuale è, da secoli, il terreno di una delle guerre più sanguinose che culture ed epoche diverse si sono fatte e che continuano a farsi. Sarebbe ingenuo pensare che questa battaglia sia nata con la genesi del morfema “intellettuale”: il conflitto esisteva molto prima di Zola, Dreyfus e Clemenceau, prima degli usi che nel mondo intellettuale inglese si fecero di questa parola, ed esisterà anche in futuro. 

Il testo di Bauman sembra alludervi: il termine “intellettuale” è lo strumento verbale attraverso cui un gruppo ristretto di individui si è arrogato il titolo che conferiva loro una superiorità, assieme cognitiva e morale, rispetto al resto dell’umanità e proprio per questo una maggiore vicinanza al reale e al Bene.

D’altra parte, è questa prossimità alle fonti della realtà e della morale che conferiva a questo gruppo di persone un esonero dalle forme contemporanee di schiavitù – il lavoro – e la possibilità di avere un rapporto privilegiato con le forme del potere. Si farebbe male a pensare che questo tipo di configurazione sia propria solo alla modernità europea. Perché così facendo si riduce la posta in gioco espressa da questo termine a una semplice questione culturale, sociale o demografica. 

La posta in gioco è invece di natura antropologica: ogni volta che si pensa a cosa è una o un intellettuale si partecipa a un conflitto millenario e ubiquo sulla stessa natura della vita umana. Si tratta infatti innanzitutto di separare una dimensione, una funzione, una facoltà o potenza della nostra vita e di riconoscerle una sorta di superiorità gerarchica sulle altre. Poco importa che lo si chiami intelletto, ragione o spirito: l’idea di intellettuale presuppone che vi siano porzioni della vita umana (la sensibilità o il metabolismo chimico-biologico, per esempio) che partecipano meno della sua stessa natura o che riescono a esprimere in misura minore la nostra umanità. È proprio sulla base di questa frattura interna a ciascuno degli esseri umani che diventa possibile separare alcuni individui dagli altri: l’intellettuale è diverso da tutti gli altri esseri umani, perché è chi riesce a eliminare quanto della sua vita non partecipa di questa facoltà, e riesce a conferire a quest’ultima una forma di primato egemonico.

La natura di questa divisione è cambiata nel tempo e nello spazio: c’è chi la considera ontologica e separa due classi di umanità, chi la considera sociale o culturale, chi ne fa invece una forma di frattura politica. Resta che parlare di intellettuali significa aver frazionato l’umano al suo interno, creando un’articolazione gerarchica delle vite. Poco importa ricordare che questo frazionamento mirava a una riunificazione postuma dell’umano o a una forma di riconciliazione. L’ideale dell’intellettuale nasceva dalla divisione e produceva divisione. Non solo: c’era qualcosa di perverso in questa chirurgia interna alla natura umana. Perché l’intelletto, lo spirito, la ragione finivano per separare l’umano anche dal mondo invece di riportarlo verso di esso. È per questo che i suoi più acuti critici (da Davide di Dinant a Nietzsche) vi hanno visto il trionfo di un ideale ascetico e di rinuncia. 

È evidente oggi quanto una simile strategia sia ingenua, antiquata, insensata. L’ideale dell’intellettuale ha prodotto solo separazione: separazione all’interno dei popoli, separazione tra i popoli, separazione tra l’umanità e il resto del cosmo. Ha separato le forme dell’esperienza, ha opposto le culture, ha fatto della cultura qualcosa che non smette di allontanarsi dalla natura. Non si tratta certo di opporre a questo ideale un elogio romantico e altrettanto ingenuo dell’unità dell’esperienza e della riconciliazione universale. Ma si possono opporre a questo ideale tre evidenze, che coincidono anche con tre strategie, per far vivere il pensiero ovunque. 

La prima è di ordine psicologico. All’ideale dell’intellettuale che separava e gerarchizzava le forme dell’esperienza all’interno di ogni essere umano è necessario replicare con il principio che qualsiasi attività umana, qualsiasi forma dell’esperienza, qualsiasi espressione della nostra vita sia di natura spirituale, sia l’articolazione cioè di idee e di una mente che riarticola il mondo godendo di questa stessa attività. Poco importa che si tratti di mangiare, correre, scrivere, sognare, costruire oggetti o creare melodie. Il pensiero è ovunque. E si tratta di edificare una cultura che riconosca l’onnipresenza del pensiero. Da un certo punto di vista si tratta di ripetere il gesto che ha portato alla genesi dell’idea di arte in Occidente. […]

La seconda evidenza è di ordine politico. Viviamo in un mondo che è stato costruito a partire dalla possibilità per cose e persone di migrare senza interruzioni. E proprio perché tutto si mescola attraverso la migrazione, attribuire oggetti, artefatti e persone a un luogo specifico del pianeta è impossibile: la sola unica e comune provenienza è l’orizzonte planetario, che è il solo e unico “suolo” che accomuna tutto ciò che vive e tutto ciò che esiste. Anche per le conoscenze, i simboli, le idee è così. Quello che chiamiamo mondo digitale è uno spazio in cui le idee e i simboli non cercano luoghi in cui accumularsi – archivi o biblioteche – ma circuiti attraverso cui diffondersi. Si può dire che i social media sono gli spazi in cui le esperienze esistono nella misura in cui possono circolare: la verità è funzione del tramandamento. Un’idea – proprio come una moneta – è tanto più vera quanto più circola. In questo quadro, a circolare deve essere anche e soprattutto la soggettività: è l’io che deve viaggiare di corpo in corpo, di esperienza in esperienza, di mondo in mondo. Da un punto di vista tecnico, la capacità di un io di migrare è quello che il pensiero antico nominava come demone. […]

La terza evidenza è di ordine cosmologico. La scienza ha dimostrato da tempo che l’intelletto o la ragione non sono una parte della nostra esperienza o del nostro corpo, ma coincidono con il reale, anche e soprattutto non umano. Il pensiero, la ragione, lo spirito sono ovunque. Non solo in ogni forma di vita – perché tutti i viventi pensano, riflettono e agiscono sulla base del pensiero – ma anche nella materia non vivente. L’universo è un insieme infinito e in moltiplicazione perpetua di menti. Se l’intelletto è ovunque (e non solo in una porzione minima della vita di una frazione infima degli esseri viventi, gli uomini) essere intellettuali, aderire all’intellettualità significa cercare di trovare il modo di pensare dentro, attraverso e con le altri menti. 

Da questo punto di vista, il legame tra le menti non può più essere puramente cognitivo o intellettuale, ma erotico. Bisogna innamorarsi della mente altrui per poter pensare dentro e attraverso di essa. L’intellettuale del futuro è per questo una figura dell’amore, schiavo di un Eros capace di rivolgersi a qualsiasi mente.

E in fondo, scrivere un libro o un articolo, comporre una sinfonia, produrre un film, indagare, passare ore dietro la lente di un microscopio o davanti a un computer, osservare il comportamento degli elementi della materia non sono semplici espressioni della nostra razionalità. Sono attività che comportano soprattutto un enorme dispendio di desiderio e di amore. Ci vuole desiderio, tantissimo desiderio, per rimanere incollati a una pagina per ore e ore, per cesellare la più piccola virgola; ci vuole una devozione d’amore inaudita per seguire la vita di una mosca o di un batterio in una brutta e fredda stanza di laboratorio; ci vuole una passione bruciante, quasi disumana, per dedicare giorni a trovare il ritmo giusto per collegare due suoni o immagini in una sequenza che abbiamo già visto e sentito migliaia di volte. Ci vuole desiderio, e immenso ardore, per dedicare trenta, quaranta, cinquant’anni a qualcosa di così fragile e immateriale come una forma, un’idea, un linguaggio, un animale, un materiale. 

Gli intellettuali sono soprattutto degli amanti: padroni di un desiderio che ha imparato a rivolgersi e a farsi carico non solo degli esseri umani, ma anche di quasi tutti gli oggetti e gli eventi che popolano il nostro mondo. Come nel caso dell’amore per gli esseri umani, anche in questo caso l’oggetto può essere non plausibile, assurdo o fuori luogo: una particella che nessuno è riuscito a osservare per decenni, come il bosone di Higgs, pigmenti su una tela, un evento di cui non c’è traccia, una violenza passata, una lingua incomprensibile, un manufatto senza valore. Come tutti gli e le amanti, sono anche pronti a perdonare qualsiasi cosa all’oggetto del loro amore: la noia, la malizia, il minimo capriccio. Come tutti gli e le amanti, sono anche disposti a fare qualsiasi cosa per poter perseguire il loro amore: pronti a rovinare la loro vita e quella degli altri, ad abbandonare tutto, a trascurare tutto ciò che non ha nulla a che fare con l’amato. Più che i sacerdoti della ragione in una fantomatica città ideale, sono l’esercito violento di Eros. 

Dovremmo iniziare a chiamarli così: parlare di amateurs e amanti, là dove siamo abituati a parlare di intellettuali e intellighenzia.

Non si tratta di una precisazione secondaria. Perché chiamare amanti chi chiamavamo intellettuali significa cambiare le aspettative nei loro confronti. Non chiediamo un metodo a chi ama: l’amore non ha istruzioni, è un’ostinazione che inventa ogni volta un nuovo espediente per restare vicino all’oggetto amato. Dalle persone che amano non ci aspettiamo coerenza e nemmeno esemplarità: le persone che amano non predicano la giustizia, né cercano di mostrarsi moralmente superiori agli altri. Il dono che non smettono mai di fare alla società è semplicemente il fuoco della loro passione per il mondo. Questo mondo.

[© 2023 Emanuele Coccia. Pubblicato in accordo con Rosaria Carpinelli Consulenze Editoriali, Milano]

ARTICOLO n. 13 / 2024

LA STANZA DELLO STUPRO

Raccontare una storia non è semplice: ci sono regole da seguire, percorsi da attraversare e far attraversare, linguaggi precisi e, come ogni narrazione che si rispetti, questa dovrebbe concorrere ad arricchire chi ne fruisce, fornendo chiavi di lettura inedite e che possano veicolare dei messaggi.

Quando si scrive un racconto, per prima cosa si deve tenere presente del destinatario dello stesso: a chi ci rivolgiamo quando decidiamo di condividere il nostro lavoro?

Successivamente, per comprendere il modo migliore per diffondere la nostra narrazione, dovremo trovare un punto di partenza e uno di arrivo: questo significa dare struttura, ovvero iniziare a incastonare gli eventi in una forma che possa portare da un punto A a un punto B, in modo logico e accessibile al nostro target. 

La struttura della narrazione, detta anche architettura, può aiutare infatti chi ascolta o legge a sentirsi partecipe della vicenda e a vivere al meglio le emozioni che accompagnano la crescita connessa alla fruizione del nostro racconto.

Contrariamente a quello che si pensa, quasi tutto ciò che ci circonda e che vediamo si sviluppa in racconti: libri, film, teatro, rappresentazioni, performance, letture, eventi, incontri, articoli di giornale e anche mostre d’arte.

Nella sua primaria e immediata accezione, una mostra d’arte è un’esposizione di opere di uno o più artisti –  in questo caso si chiama “collettiva” – e viene organizzata da enti privati, organizzazioni, fondazioni o enti statali per avvicinare il pubblico alla visione delle opere.

Ma le mostre d’arte non sono una mera esposizione di quadri o statue o installazioni all’interno di uno spazio: anch’esse infatti hanno bisogno di una struttura, una cornice in cui organizzazione e curatori e curatrici possano, tramite le opere, raccontare una storia, collocandola nel tempo e mettendola in dialogo con il presente, con il luogo in cui viene esposta e con il pubblico.

È un vero e proprio lavoro creativo, in cui lavoratori e lavoratrici dell’arte rendono interdisciplinare la materia e l’opera stessa, cercando collegamenti con la storia, la filosofia, la cultura del paese di provenienza di artiste e artisti, la loro vita personale.

Quando però queste regole non vengono rispettate, si va incontro a un cortocircuito in cui ci rimette per primo il pubblico che vorrebbe fruire di una mostra.

In questo senso, un caso emblematico è avvenuto nella costruzione del percorso espositivo e narrativo della mostra “Artemisia Gentileschi: coraggio e passione”, inaugurata in 16 novembre scorso e ancora presente a Palazzo Ducale a Genova.

La mostra, promossa e organizzata da Arthemisia (azienda di produzione, installazione e allestimento di mostre d’arte), Palazzo Ducale fondazione per la cultura, Comune di Genova e Regione Liguria, si prende il difficile compito di trattare la storia di Artemisia Gentileschi e della sua incredibile produzione artistica. Dal sito, si comprende che la mostra si snodi «Tra vicende familiari appassionanti, soluzioni artistiche rivoluzionarie, immagini drammatiche e trionfi femminili».

«La mostra a cura di Costantino D’Orazio», prosegue il sito, «offre un ritratto fedele della complessa personalità di una delle più celebri artiste di tutti i tempi, attraverso oltre 50 dipinti provenienti da tutta Europa».

Dalle parole della cartella stampa sembra dunque che questo percorso espositivo e narrativo vada a elogiare l’opera della pittrice seicentesca, inserendola in un quadro ampio e – cito –  rivoluzionario, in grado di appassionare il pubblico e avvicinarlo alla figura di Gentileschi, di cui la mostra si prefigge di dare un ritratto fedele. 

Attirate non solo dal suggerimento di una docente di corso e dallo studio dell’arte, ma forse anche da queste premesse promozionali, alcune studentesse di Storia dell’arte e valorizzazione del patrimonio artistico dell’Università di Genova sono andate dunque a vedere la mostra a pochissimi giorni dalla sua inaugurazione, e dire che siano rimaste di stucco è forse riduttivo.

Le studentesse si sono infatti trovate davanti un percorso museale e narrativo completamente distorto rispetto alle premesse descritte dal sito.

La mostra è tutta sviluppata intorno alla figura di Gentileschi in relazione agli uomini della sua vita: il padre Orazio, Caravaggio e perfino Agostino Tassi, collega del padre e carnefice della pittrice stessa, della quale abusò nel 1611 e andò per questo a processo nel 1612. 

Le opere in alcune sale dialogano con quelle dei colleghi uomini – per sottolineare che l’artista fosse brava quanto i suoi colleghi maschi – e, in una sala, sono addirittura messe in contrapposizione con quelle del Tassi. 

Ma non finisce qui: la narrazione di Gentileschi che viene fatta durante il percorso è tutta in funzione dello stupro subito e inflitto da Tassi.

Ogni sala permette infatti al pubblico di focalizzarsi solo su quell’evento della vita della pittrice: sono presenti video, filmati, perfino una mappa della Roma del 1600 con i punti di interesse riguardanti l’assalto commesso dal Tassi a Gentileschi. Come in un climax, tra citazioni e documenti originali del tribunale di Roma del processo per stupro del 1612, il pubblico arriva poi in quella che viene rinominata “la sala dello stupro”.

In una stanza buia, videoproiezioni delle opere della pittrice ricoperte però di sangue vengono trasmesse su pannelli verticali. Una voce femminile con tono sommesso legge la testimonianza in tribunale di Gentileschi mentre, al centro della sala, vi è posizionato un letto su cui vengono proiettate le parole che descrivono la violenza sessuale subita dall’artista e, di nuovo, altro sangue. 

Una vera e propria rappresentazione dell’atto, talmente tanto violenta che alcune persone si sono sentite male e hanno dovuto abbandonare la mostra. 

Le studentesse si sono poi trovate davanti altre sale, in cui Gentileschi veniva unicamente descritta come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, impedendole perfino da morta e a distanza di più di 400 anni di potersi separare dal proprio trauma. 

Tassi, che dai pannelli di testo che integrano la visita viene descritto come talentuosissimo «ma inquieto», è una presenza costante durante tutto il percorso e non solo: all’interno del bookshop a fine itinerario espositivo si possono trovare in vendita delle magliette con le sue citazioni durante il processo che lo vedeva prima imputato e poi condannato. 

Insomma, un vero e proprio tour dell’orrore.

Le studentesse hanno quindi contattato Noemi Tarantini, che non solo è content creator e advisor sull’arte, ma lavora nel settore, in cui è laureata e di cui è esperta, per portare alla sua attenzione la infelice narrazione di questa mostra. Oltre a Tarantini (che su Instagram prende il nickname di @etantebellecose), le studentesse hanno contattato anche altre content creator legate al mondo dell’arte, senza però ricevere alcuna risposta.

Tarantini si mobilita immediatamente e va a vedere la mostra, creando dei contenuti (video e post) che in poco tempo diventano virali.

Ne risulta un video pubblicato su Instagram e TikTok, in cui Tarantini fa notare quanto la mostra sia tutta sbilanciata dal punto di vista narrativo: dal titolo (“coraggio e passione”), al colophon tutto maschile, passando per gli elementi già citati in questo testo.

In seguito alla visita, Tarantini contatta Non Una Di Meno Genova e Valentina Crifò, content creator come lei (al secolo digitale è @immagini.narranti) ma soprattutto storica dell’arte ed educatrice museale. 

La richiesta che fanno ad Arthemisia e al curatore Costantino D’Orazio è quella di aprire un dialogo sulle scelte narrative dietro a questa strada espositiva e curatoriale, oltre alla rimozione della sala dello stupro dal percorso espositivo e al ritiro dei gadget a tema Tassi dal bookshop (tra cui il libro di Buttafuoco dal titolo La notte tu mi fai impazzire: gesta erotiche di Agostino Tassi).

D’Orazio ha dunque contattato Non Una Di Meno Genova – che aveva prontamente ricondiviso i contenuti di Tarantini e Crifò – proponendo loro una visita guidata alla mostra, per raccontare e motivare le scelte dietro la disposizione delle sale.

Alla visita guidata con NUDM Genova hanno partecipato anche Tarantini e Crifò, che ho personalmente contattato per sapere come questa visita si sia svolta.

Crifò mi ha raccontato che, in prima battuta, per comprendere lo scopo della visita proposta da D’Orazio si debba pensare al concetto – tutto maschile, aggiungo io – di competenza.

«Se curo una mostra», mi scrive Crifò, «in teoria dovrei saperla raccontare non soltanto in ogni singolo elemento ma, dall’alto della mia professionalità e coinvolgimento nel progetto, saper calibrare la mia narrazione a seconda del pubblico che ho davanti. Su questo aspetto ho una certa esperienza: da anni lavoro nel mondo mostre e musei e ho assistito a fantastiche formazioni da parte di curatorɜ che hanno saputo rispondere a qualsiasi quesito, tecnico, allestitivo, curatoriale eccetera. Sarebbe assurdo doverlo dire, quasi come ci parrebbe assurdo un padrone di cucciolo che non si ricordi il suo nome».

«L’impressione, condivisa», prosegue Crifò, «è stata che Costantino D’Orazio ci avesse accoltɜ pensando di condurre una visita guidata per un gruppo di svagatɜ visitatorɜ e non un gruppo di persone che, in via preliminare, si era documentata e aveva quesiti di tipo specifico. Pertanto, nessunǝ si sarebbe accontentatǝ di sentirlo elogiare la bellezza delle pennellate di Gentileschi. A unǝ curatorǝ più competente sarebbe stato ovvio che lo scopo dell’incontro avrebbe dovuto solo ed esclusivamente approfondire le scelte curatoriali che i veri professionisti attuano con consapevolezza. Queste “scelte”, però, D’Orazio ha cercato di liquidarle come pedissequa adesione alle fonti documentali. Come se l’operazione fosse semplicemente un compito scolastico. Be’, se allora dobbiamo dare un voto a questo compito, possiamo dire che l’allievo non deve aver letto e compreso i documenti processuali. Dice di aver letto tutti i testi ma, per esempio, nessun focus in mostra ricorda le lettere che Gentileschi invia al suo amante Francesco Maria Maringhi. E, soprattutto, una volta interrogato non riesce ad ammettere che in materia di narrazione della violenza ci sono tantissimi errori. Primo su tutti, non aver avuto l’umiltà di demandare il tema a chi dimostra una sacrosanta e comprovata competenza».

Insomma, da questa visita emerge una volontà di difendere le scelte espositive nonostante le palesi declinazioni sessiste in cui la vicenda di Gentileschi e la sua opera vengono raccontate. 

Da questo incontro piuttosto inutile e poco aperto, NUDM Genova, le associazioni About Gender e Mi riconosci, Crifò, Tarantini e le studentesse d’Arte dell’Università di Genova decidono di aprire uno spazio di riflessione collettivo aperto alla cittadinanza. Lo fanno in un’assemblea pubblica partecipatissima al Teatro della Tosse, in cui si ritrovano esperte ed esperti d’arte e soprattutto comuni cittadini e cittadine che hanno visitato la mostra di Palazzo Ducale. Da questo incontro nasce l’idea di una lettera aperta ad Arthemisia e Palazzo Ducale con la richiesta della chiusura della “sala dello stupro”, che nel frattempo continua a far sentire male parecchie persone che vanno in visita al museo, e il ritiro dei gadget e libri problematici dal bookshop. 

La lettera raggiunge le 4.000 firme in pochissimo tempo, e questo porta necessariamente a una presa di posizione da parte di Arthemisia e Palazzo Ducale. Ma non nel verso che ci aspetteremmo a questo punto della storia. 

La presidente di Arthemisia Iole Siena è rimasta irremovibile sulle scelte espositive: ribattendo che l’azienda a cui è a capo sarebbe composta al 90% da donne (come se fosse un elemento utile ai fini della discussione sulla spettacolarizzazione dello stupro), ha vietato l’affissione di un trigger warning all’esterno della sala incriminata e si è fermamente opposta alla chiusura della sala (da parte di Palazzo Ducale, che ha provato invece ad apporre dei teli neri tutto intorno per deviare il passaggio alle persone che non volessero assistere a quella macabra, disturbante, violenta rappresentazione. La chiusura della sala è però stata temporanea: dopo qualche giorno i tendaggi sono infatti stati rimossi e il letto insanguinato è di nuovo aperto a tutto il pubblico del museo.

Nel bookshop sono – anche qui: solo per qualche giorno – sparite le magliette con le frasi di Agostino Tassi, ma sono rimaste delle – perdonatemi il francesismo – cagate a tema pinkwashing che sfruttano l’immagine di Gentileschi e la storia della sua violenza sessuale e il libro sulle “gesta erotiche” (così l’autore decide di chiamare le violenze sessuali) del Tassi.

A questo riguardo, ho chiesto a Tarantini una dichiarazione. E Tarantini usa parole che condivido in pieno e vi allego qui.

«Il caos che regna all’interno della mostra in questi giorni (tra togli e rimetti di gadget, cartelli e tendaggi) dimostra una cosa: il settore storico-artistico pensava che i cambiamenti che stanno investendo la società globalizzata non l’avrebbero mai riguardato. Si sbagliava di grosso. Mostre, musei, mercato dell’arte ed enti di formazione si dovranno sempre più mettere in discussione, pena il fallimento o l’oblio. Il pubblico è vivo e non si accontenta più di avere centralità nei manuali di marketing culturale, la vuole nella realtà. Palazzo Ducale – per sensibilità o per opportunità – pare averlo capito e, stando alle recenti dichiarazioni del Presidente Beppe Costa, la vicenda ha reso necessaria la revisione dei contratti futuri con i produttori di mostre nell’ottica di garantire maggior peso decisionale alla Fondazione. È un grandissimo traguardo e la pratica partecipata con cui l’abbiamo raggiunto è una novità assoluta nel panorama italiano. Vale la pena ricordare ai vari soggetti coinvolti che il patrimonio culturale, la cui fruizione e valorizzazione – almeno sulla carta – rappresentano le finalità del partenariato pubblico-privato che hanno stipulato, è un bene comune. Sembrerebbe dunque il minimo prestare ascolto a chi il senso comune lo produce ogni giorno, ovvero l3 cittadin3. Senza questo non c’è cultura. E senza sviluppo della cultura non c’è democrazia».

Insomma, si è andato a creare uno stallo alla messicana, che vede da un lato le rimostranze della popolazione genovese, delle e degli addetti ai lavori dell’arte e le associazioni femministe, dall’altro Arthemisia e la dirigenza di Palazzo Ducale. In questo impasse permangono solo alcune certezze.

La prima è la pericolosità di un percorso espositivo così brutale privo di trigger warning e avvertimenti per il pubblico, che si ritrova senza preavviso in una stanza capace di riattivare dei traumi non indifferenti in modo a dir poco becero e spettacolarizzante.

La seconda è l’ennesimo voler sacrificare l’opera di Gentileschi a una lettura unilaterale, concentrandola in un “prima e dopo” lo stupro, disegnando la figura dell’artista come dipendente dalle vite degli uomini che l’hanno circondata, rendendoci incapaci di apprezzare appieno la mastodontica tecnica della pittrice che diventa qui solo il suo stesso trauma.

La terza certezza, che forse mi rende ancora più affranta, è l’impossibilità da parte dell’organizzazione della mostra di leggere la contemporaneità, come accennavo nel mio lungo incipit.

Leggere la contemporaneità vuol certo dire comprendere il nuovo modo che il mondo, grazie al transfemminismo e agli studi di genere – che ricordo sempre non essere scienza delle merendine, ma una corrente socioculturale trasversale e fondamentale – ha di parlare di violenza maschile contro le donne e di trattare le voci delle artiste della nostra storia che troppe volte sono state silenziate o piegate a narrazioni becere o maschiocentriche. Ma vuol dire anche permettere a chi visita una mostra come questa di comprendere la condizione della donna nel 1600 in Italia. Gentileschi a Palazzo Ducale viene descritta come una fenice, una donna che si ribella a una condizione di ingiustizia e ne esce vincitrice. Non c’è niente di vero però in questa visione.

Gentileschi fu in grado di andare a processo per un’intercessione del Papa Paolo V, che accettò di aprire un procedimento contro Tassi anche per la violenza sessuale ai danni di Artemisia. Ma il moto principale dell’astio di Orazio Gentileschi verso Tassi fu un debito economico di questo nei suoi confronti. In più, non vi è nulla di glorioso nella vita di Artemisia Gentileschi dopo il processo: fu infatti costretta a scappare da Roma e cambiare il suo nome (firma il suo Giale e Sisara con lo pseudonimo che poi avrebbe definitivamente fatto suo: Artemisia Lomi), dopo pesanti accuse di incesto con il padre e malelingue che ne minarono la credibilità fino al giorno della morte. 

Non siamo davanti a una storia di riscatto, bensì a una storia di soprusi e cancellazione. 

Cancellazione che si ripete in un percorso museale come quello scelto da Arthemisia, D’Orazio e Palazzo Ducale, dove la pittrice viene fagocitata dal suo stesso evento traumatico, a cui si riduce tutta la sua produzione artistica. E questa cancellazione avviene con metodi spettacolarizzanti e poco conformi al vero, metodi che inducono attacchi di panico nelle persone che visitano quella sala e che ci ricordano che qualsiasi cosa tu faccia nella vita, se sei donna e di talento, non sarai mai nessuno senza gli uomini amati o odiati nel tuo percorso.

E in questo non c’è niente di culturale, ma tanto, troppo, forse tutto di patriarcale.

All’inizio di questo mio pezzo mi chiedevo: a chi destiniamo le storie che decidiamo di raccontare?

Ecco, questa storia, con questa architettura, non è destinata a un pubblico sensibile o alle persone che hanno subito quel tipo di violenza, peraltro drammaticamente comune, basterebbe guardare le statistiche ISTAT.

Raccontare una storia significa avere sensibilità e responsabilità, altrimenti è solo mero sensazionalismo. E il sensazionalismo ha poco a che fare con la cultura e molto con la promozione selvaggia.

Attendiamo dunque altre, migliori, pratiche risposte dall’organizzazione di questa mostra, perché nel 2024 ricordare Gentileschi unicamente per il suo stupro è anacronistico e assolutamente non culturale, in ogni senso possibile che questo termine possa assumere.

ARTICOLO n. 12 / 2024

ARTICO

Pubblichiamo la prefazione al volume di Valentina Tamborra, I Nascosti (Minimum Fax). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

La strada liscia e deserta che si staglia sul lato anteriore dell’immagine è ridotta quasi a un punto quando una cresta bassa e scura la tronca a metà, poco prima dell’orizzonte. Sotto le masse e le scie delle nubi si distende un paesaggio verde pieno di fiori, erba e alberi bassi, che mi sembra più «meridionale» rispetto alla tundra canadese di cui ho sperimentato i rigori, ma che annuncia la propria natura nordica attraverso il cartello triangolare con la silhouette di una renna. Valentina ci dice che «la tundra inizia quando non ti aspetti più nulla». 

Per me la tundra è sempre stato il luogo delle mie aspettative più felici, perché è il punto nel quale, in assoluto, mi sono sentito più vicino al cielo. Ma forse farei meglio a rinunciare alle mie aspettative, perché quando leggo che l’Artico si sta riscaldando a una velocità tre o quattro volte superiore rispetto alla zona temperata sento montare la nausea. 

Immagino le case e gli oleodotti che sprofondano in quello che un tempo era il permafrost, e i nomi tradizionali dei luoghi che si dissolvono, precipitando nel passato. In ogni caso, non sono mai stato nel luogo che si chiama Sápmi, e che i miei maestri delle elementari mi avevano insegnato a chiamare Lapponia. Perciò, quel poco che credo di sapere sul Nord e sugli indigeni che lo abitano potrebbe soltanto attirarmi nelle paludi fangose dell’errore, pronte a risucchiarmi dai piedi gli stivali di gomma. Sono un semplice bambino del Sud, intento a fissare le immagini di qualcosa che non sono in grado di capire, sognando disperatamente di trovareuna bacca da succhiare.

Nel sogno nordico di Valentina c’è un paesaggio con una sabbia così bianca, un cielo di un grigio chiaro così uniforme e un mare così metallico, che l’erba rossiccia sotto le sagome dei cespugli non riesce quasi a prevalere sulla sensazione che la foto sia in bianco e nero. Ma il rosso dell’erba finisce per trionfare, in silenzio e con dolcezza. E io mi chiedo perché tutto questo mi renda così felice.

Ecco un paesaggio notturno, con una striscia di neve magicamente illuminata fino ad assumere una tinta grigio-azzurra e, a sinistra, una struttura che ricorda una tenda indiana e che brilla scheletrica; poi una distesa di ombre, l’orizzonte e un cielo chiazzato e spolverato di stelle, la cui tinta verde può derivare dall’aurora boreale. In un’altra immagine l’aurora si solleva ad arco dalla neve, come una gorgonia ondeggiante, a tre strati. In un’altra foto scopro dei fiori che sembrano batuffoli di ovatta e che si levano dall’acqua scura per soffiare il loro polline raffinato oltre un promontorio buio e un cielo inondato di sole.

Nel mezzo delle tenebre si erge una finestra squadrata, al cui interno due uomini siedono uno di fronte all’altro davanti a un tavolo invisibile, con una torcia o una lanterna tra di loro. Non saprò mai chi sono.

In piedi sulla porta dell’Ullkarderi con le pareti rivestite di bianco, dietro il quale si

staglia un pendio d’erba e di ghiaia, una giovane coppia tiene in mano quelli che sembrano stivali di montone. Un uomo, con un giaccone blu e un cappello che ricorda vagamente un berretto basco, con i paraorecchi che penzolano in basso e dietro le sue spalle, è seduto davanti a un tavolino rotondo, con un pezzo di carta pieno di quadrati numerati, mentre attraverso la finestra sullo sfondo si intravede un veicolo bianco su una spianata bianca. Che cosa significa tutto questo?

In un’altra stanza, caffè istantaneo, una teiera, una candela, delle tazze, un recipiente di cartone che potrebbe contenere del latte e due lattine, forse di birra o di qualche bevanda analcolica, occupano un tavolino con una tovaglia triangolare. Sulla parete sono appese foto a colori di paesaggi innevati e di renne.

Una casa buia sta acquattata tra una neve azzurra invasa da scaglie luminose e un cielo azzurro spolverato di stelle, con un pallido sole che si staglia all’orizzonte. L’altro sole è una candela dagli infiniti raggi o una lanterna sospesa tra due volti, dietro una finestra squadrata.

Una donna splendidamente segnata dalle intemperie, con una giacca a vento rossa e una fascia per capelli viola, si erge contro le nubi e uno steccato. Una donna più giovane, con un maglione rosso e una sciarpa slegata, è in piedi in mezzo alla neve, con le punte degli stivali bianche e due pelli appese alla parete dietro di lei. 

Vedo dei ritagli di pelliccia su un tavolino rotondo e pieno di graffi. Ci sono delle ragazze intente a realizzare qualcosa di artistico che non riesco a comprendere, usando lunghi fili colorati o fibre che ricordano quasi ciocche di capelli. Valentina ci dice che l’abito tradizionale dei sami si chiama gákti. Che cosa «significano» questi fili? Su una cosa non ci sono dubbi: questo breve testo può fare tranquillamente a meno delle mie speculazioni da saggio uomo del Sud.

Un uomo e una donna siedono davanti a un tavolo rotondo, sul quale si erge, in piedi, il loro bambino biondo.

Due uomini si appoggiano ai loro buggy della tundra (Valentina li chiama quad; nel Nunavut la gente li avrebbe chiamati four-wheelers), puntando i loro binocoli; se dovessi tirare a indovinare, direi che cercano di individuare le renne. Per quanto tempo ancora? Valentina scrive di un inverno recente durante il quale un caldo innaturale ha sciolto la neve, che durante la notte si trasformava in ghiaccio, impedendo alle renne di pascolare. «Così i sami devono nutrirle e questo nel tempo renderà la vita ben diversa». E in una stanza foderata di legno, che dalle corde e dai giacconi appesi alle pareti immagino sia uno spogliatoio o uno sgabuzzino, un uomo posa per noi con una corda di un rosso scolorito che passa sopra la spalla destra e sotto il braccio sinistro. Una mano rugosa stringe un cellulare con una mappa sullo schermo. Una renna dagli occhi enormi guarda di sottecchi Valentina.

Le sue corna hanno un colore rosa nei punti lasciati scoperti dalla lanugine. Un uomo con le mani sporche di fango o di sangue stringe un coltello contro le ginocchia rivestite di cuoio, mentre, con una pietra, si prepara ad affilare la lama. 

Tra due veicoli un uomo è in posa in mezzo a un mucchio di neve, con una renna morta ai suoi piedi e un’altra in primo piano. Un ragazzino è seduto in mezzo alla tundra e accanto a una casa, impegnato a segare un blocco di legno, mentre sullo sfondo un adulto è appoggiato contro una roulotte, e lo tiene d’occhio. Tra vent’anni, questo luogo si trasformerà in una palude?

Una bambina vestita di rosa si china sopra una renna distesa a terra, alla quale i suoi parenti stanno facendo qualcosa che posso provare a immaginare ma che non riesco a vedere. Un uomo si trascina dietro un panno rosso, mentre alle sue spalle un branco di renne preme contro uno steccato. In piedi nella neve c’è una giovane donna vestita di rosso, che tiene una mano piena di anelli su una grossa cintura nera, decorata di medaglie bianche. Strisce bianche e arancioni le ricadono sul petto, nascoste dalle trecce nere.

Una donna si affaccia a una finestra mentre un uomo affonda le mani in una massa

di pelli o di piume. Un’altra donna, bellissima e inquadrata di profilo, porta una bandana bianca e rossa, ricamata a mano, con dei fili che le piovono all’altezza del cuore. Davanti a una macchina per cucire, una donna più anziana lavora su un motivo bianco e rosso.

Una donna giovane che indossa il suo gákti è seduta sulla sponda di un fiume o di un fiordo, con dei fiori davanti e un cielo pieno di nubi sopra la testa. La mia capacità di comprenderla è ridotta al minimo, come le chiazze di neve sull’altura che si erge oltre lo specchio d’acqua.

Un uomo e una donna sono distesi assieme sopra delle pelli, in una tenda spaziosa. In un’altra immagine, due figure si stagliano in mezzo alla neve, con delle corna al posto delle teste. Sono esseri viventi o effigi? Un volto incappucciato, con gli occhi sgranati, mi fissa attraverso una maschera azzurra.

In una stanza, un uomo e una donna sono inginocchiati uno di fronte all’altra, con dei teschi dipinti e vagamente umani sul pavimento tra di loro, e quello che sembra un teschio di renna sopra i capelli ramati della donna.

Due figure camminano su una strada innevata. Una delle due ha un copricapo di pelliccia, sormontato da un paio di corna. Intorno a un falò notturno, lungo la strada, sono radunate altre figure con pellicce e corna. Una meravigliosa fiumana di renne avanza serpeggiando nella neve, sotto una mezzaluna. Due mani ad artiglio scavano nel bianco, fino a portare allo scoperto il rosso.

ARTICOLO n. 11 / 2024

GLI AMORI DIFFICILI

intervista di Fabio bozzato

Nell’ultimo romanzo di Michael Cunningham, tutto si coagula il giorno 5 di aprile. Nel 2019, di mattina; l’anno dopo, di pomeriggio; e infine la sera del 2021. In Day (La nave di Teseo, traduzione di Carlo Prosperi) le vite di cinque adulti, tre bambini e un amico immaginario si annodano e si sfilacciano, cucite da una scrittura preziosa e sofisticata, come ci ha abituato da sempre questo scrittore americano.
L’abbiamo incontrato a Venezia, in uno degli eventi che anticipano il festival Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, che si terrà dal 10 al 13 aprile. Day esce dopo dieci anni dall’ultimo romanzo e ventisei dopo il successo di The Hours, di cui è famosa pure la versione cinematografica di Stephen Daldry.

Fabio Bozzato: Michael, cominciamo con un tema un po’ naïf ma necessario: l’amore. Lei è uno straordinario narratore dell’amore, ma l’amore dei suoi libri è sempre consumato, rotto, svanito, perduto. Potremmo dire che lei è un narratore del fallimento dell’amore?

Michael Cunningham: Come tutti noi sappiamo dalle nostre vite, l’amore prende sempre forme inimmaginabili. E penso anche segua tantissimi fili. Sì, io sono più interessato a scrivere di amori difficili. So per certo che ci sono nel mondo degli amanti felici, magari non ogni minuto della loro vita, ma lungamente felici. Eppure, se ci pensi bene, non c’è molto da dire attorno a un legame d’amore felice, no? Ora, io non mi voglio paragonare a certi scrittori, ma da Tristano e Isotta ad Anna Karenina c’è una tradizione classica. Insomma, se ad Anna fosse stato permesso di lasciare Karenin e andarsene con Vronskij, non ci sarebbe stata alcuna storia, nessun libro. Credo sia importante che ce lo ricordiamo. Ma io, come altri scrittori, preferisco scrivere di persone che vivono circostanze difficili. Questo non significa che tutti nel mondo vivano quelle difficoltà, per fortuna [ride].

F.B. Eppure il tema del fallimento, del fallimento nell’amore o nella vita, attraversa così tanto la sua scrittura. Cosa significa il fallimento per un uomo di successo come lei?

M.C. Ci penso molto. Penso che una delle benedizioni e delle maledizioni della vita umana sia che anche se siamo stati estremamente fortunati, e dovremmo essere grati se lo siamo stati, continuiamo a sentire in qualche modo di aver fallito. Allora pensi di non aver fatto tutto quello che potevi; puoi immaginare di aver dovuto fare qualcosa di più, anche solo un piccolo gesto in più che avrebbe cambiato ancora le cose. Penso che gli esseri umani, se siamo abbastanza fortunati e se siamo stati trattati bene dal mondo, continueranno ad affrontare quel senso di smarrimento, di dubbio. È un sentimento costante, permanente, credo. Non posso parlare a nome di tutti, ma ho questa sensazione. Penso che probabilmente siamo fatti così. 
Non conosciamo veramente gli animali, ma forse siamo davvero insoliti tra i mammiferi e gli altri esseri viventi perché possiamo immaginare più di quanto possiamo creare. Il mio gatto, per esempio, sembra completamente soddisfatto della sua catness, la sua gattitudine [ride]. Sognerà di essere un gatto migliore? A dire il vero vorrei che prendesse in considerazione l’idea di essere un gatto migliore, ma non credo gli passi per la mente. 
A ogni modo, in almeno tre dei miei romanzi precedenti i protagonisti che si amano restano assieme, pensano a un futuro assieme. In un certo senso, tutti i miei libri finiscono con la vita che comunque continua, il che non è necessariamente un lieto fine, ma è una specie di lieto fine.

F.B. In questo ultimo libro, Day, la pandemia è uno spartiacque tra le vite e gli eventi. Anche se non la nomina mai, è il baricentro di tutto. Ho pensato che siamo una generazione di uomini gay sopravvissuti a un’altra pandemia e peraltro i due virus sono biologicamente parenti. Quanto è stata presente la prima pandemia nello scrivere questo libro? Quanto pensa si assomiglino o differiscano le due epidemie?

È davvero la seconda che viviamo nella nostra vita, speriamo sia l’ultima! Comunque, sì, è un pensiero assolutamente presente. È qualcosa che non possiamo dimenticare e non credo che mi sentirò mai bene per quanto il mondo è stato insensibile e così a lungo di fronte all’AIDS. Credo, peraltro, che uno dei motivi per cui hanno trovato così velocemente il vaccino contro il Covid sia stata anche la ricerca condotta sull’HIV. All’epoca, ce lo ricordiamo, nessuno ha fatto nulla perché sembravano morire “solo” gay e tossicodipendenti. Ma ora, quando a morire era nostra madre, il vicino di casa, un fratello la reazione è stata immediata e scioccante. E la domanda per tutti noi era: chi sarà il prossimo a scomparire? 

M.C. In entrambi i casi c’è questa cosa tragicamente poetica dei modi di trasmissione, di sangue, sperma e respiro, come se vita e morte si confondessero.

Certo, è esattamente così. E aggiungo, ma parlo per me stesso, che a un certo punto mi sono sentito un gay americano bianco privilegiato. E poi d’un tratto, invece, mi sono ritrovato nel vagone merci assieme a tutti gli altri. È come se il potere mi vedesse in un altro modo come essere umano. E questo fa la differenza tra la sensazione di vincere e di perdere.

F.B. Il tempo della pandemia l’abbiamo percepito come un tempo interrotto. In tutti i suoi lavori colpisce sempre l’architettura del tempo. In Day è lo stesso giorno in tre anni diversi; in The Hours sono tre epoche e tre generazioni che in qualche modo si incrociano; in Carne e sangue è un tempo lineare; in Una casa alla fine del mondo sembra un tempo sospeso. Mi chiedo: il tempo per lei è solo un meccanismo narrativo o è un personaggio che si muove tra gli altri?

M.C. Penso che la narrazione letteraria sia semplicemente inchiodata al tempo. Mi puoi raccontare anche una piccola storia, ma davvero non lo puoi fare se non si svolge nel tempo. Può anche non avere uno sviluppo logico, possono essere mille anni o cinque minuti, ma qualunque storia riguarda gli effetti del passare del tempo. 
Per ragioni che non comprendo appieno, ma che a me sembrano importanti, vedo che ogni scrittore ha delle predilezioni che sono semplicemente lì, e tu stesso non le capisci appieno mentre scrivi. Di sicuro, quelle relative al tempo per me sono estremamente importanti. E proprio come la definisci tu, “l’architettura del tempo”, in quest’ultimo libro è davvero fondamentale. Il fatto è che ho cercato un modo per incorporare la pandemia senza scrivere di pandemia. Il tempo mi sembra la chiave, la percezione del tempo, non solo le persone o il virus. Ecco che ho immaginato lo stesso giorno, diviso in tre sezioni, prima della pandemia, al culmine della pandemia e un dopo che non voglio chiamare post-pandemia. Non lo chiamo così perché lo sento irrispettoso. Anche questo è un tempo strano, tuttavia sono qui a fare un tour in giro per il mondo, cosa che non avrei potuto fare relativamente di recente. Quindi è un altro tempo, e noi siamo fra quelli che sono stati abbastanza fortunati da sopravvivere finora. E il mondo continua, cosa che sembrava non potesse accadere per un po’.

F.B. Questo ci riporta a un’altra questione: abbiamo la sensazione di non poter davvero descrivere la realtà se non per frammenti. Ci sfugge sempre l’insieme delle cose e ci sembra impossibile fare un unico racconto. Lei crede che oggi ci sia ancora spazio per un romanzo dalla storia grande, coerente, organica? O anche la narrativa non può che procedere sincopata e frammentaria?

M.C. Penso che la realtà ci sembri frammentata nel tempo in cui la viviamo. E forse è sempre successo così. L’importanza dei romanzi, quelli belli e quelli grandi, non si è sempre basata proprio su questo motivo? Il ruolo che gioca un romanzo non è in qualche modo dare forma ai frammenti della realtà? Questo per me significa narrazione. 
Sì, la storia dei nostri giorni è caotica, ma penso che la forza di un romanzo (ed è uno dei motivi per cui li leggo anch’io), è che esprime un qualche ordine che ci sembra invisibile nella vita quotidiana. Penso anche che i romanzi da sempre fanno parte della documentazione storica: se vuoi conoscere la Russia del diciannovesimo secolo, hai bisogno di cercare biografie e storie, ma dovresti anche leggere Tolstoj e Čechov e le esperienze di chi era vivo al tempo. Non credo che smetteremo di scrivere romanzi simili.

F.B. Tra i suoi libri ce n’è uno, uscito ormai vent’anni fa, molto particolare, Dove la terra finisce, che è una sorta di reportage narrativo in un piccolo luogo della costa, Provincetown. Lo possiamo definire un esempio di giornalismo narrativo? O è un pezzo di letteratura non-fiction? Lei crede ci sia differenza tra questi due generi?

M.C. Credo sia una linea molto sottile. Quel libro mi era stato commissionato, faceva parte di una serie: la casa editrice aveva chiesto a vari scrittori di raccontare un luogo e io ho scelto Provincetown. Tra l’altro ricordo di essere stato molto felice nel farlo. Tuttavia, è stato anche l’unico di quel genere che ho scritto. Ma sinceramente non ho mai pensato a una linea di confine netta tra saggistica e narrativa. La narrativa è sempre basata su qualcosa che hai visto o sentito, che conosci del mondo. E la saggistica non può mai essere del tutto oggettiva. Penso ci sia una sorta di continuum, non corpi di lavoro separati. Alla fine, stiamo tutti solo raccontando delle storie.

ARTICOLO n. 10 / 2024

IL NAUFRAGIO DEL SINGOLARE

Appunti sull’autobiografia italiana

Non ricordo il suo nome: ma qualche anno fa una giurata del Booker Prize, notando che tra i libri giunti in finale c’erano diversi memoir, commentò: – Il fatto è che è sempre interessante ascoltare qualcuno che parla di ciò che conosce bene. – E questo spiega buona parte del piacere di leggere un’autobiografia. Poi c’è l’altra parte.

Mi spiace citare le mie stesse parole, ma devo riprendere le fila di ciò che ho scritto esattamente vent’anni fa in un libro che si chiamava (guarda caso) Perché non possiamo non dirci: «Io sento [in quanto italiano] la mancanza del gesto autobiografico, il peso della penna che si confronta con il problema della verità letterale. Questo gesto, questo peso, è qualcosa di bellissimo. È una posizione, una posizione etica che mi manca dal punto di vista estetico. Mi manca come un colore, come un luogo. Mi manca l’autobiografia, in questo paese pieno di romanzi, così come mi mancherebbe la fotografia in un paese pieno di quadri: non quindi perché una delle due sia arte, o verità, e l’altra no».

Lasciamo stare per ora la diagnosi sull’Italia come paese renitente alla scrittura autobiografica (ci tornerò subito). Il piacere che tentavo di descrivere nasceva dallo spettacolo di una scrittura che lavora per aderire a un impegno di veridicità. “Spettacolo”, perché si tratta di qualcosa di simile al piacere che proviamo a teatro o al cinema, quando – sospendendo temporaneamente la nostra sospensione dell’incredulità – ammiriamo l’attore per il suo sforzo di immedesimazione. Soltanto che sul palcoscenico l’obiettivo è esattamente l’opposto: la finzione. L’autobiografo, invece, non deve fingere – o al massimo deve, come il poeta di Pessoa, fingere ciò che davvero sente. Chi lo legge ammirerà la ginnastica etica (lo dico senza alcuna sfumatura negativa) che gli occorre per dire la verità. Tutti gli stratagemmi del memorialista (semplificare la cronologia, cambiare i nomi, accorpare diverse persone in un personaggio, fino alle tecniche più radicali dell’autofiction contemporanea) sono posti al servizio di questa scommessa: dire il più possibile la verità su di sé. 

Questo è un obiettivo che ha preso forma soprattutto con le Confessioni di Rousseau. È vero che Rousseau, come oggi sappiamo, in realtà ha più volte mentito e taciuto. Tuttavia il suo progetto, la sua entreprise – je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple et dont l’exécution n’aura point d’imitateur, “mi inoltro in un’impresa senza precedenti, l’esecuzione della quale non troverà imitatori” – lasciata in eredità agli autobiografi contemporanei, era quello di una rivelazione totale del sé. Mi sembra che questa eredità (come del resto quella della semplice biografia) non sia stata raccolta in Italia, non quanto in altri paesi: la Francia, i paesi anglosassoni. (Abbiate pazienza: nei prossimi paragrafi mi concederò diverse altre generalizzazioni).

Qui si potrebbe azzardare una spiegazione in termini, per esempio, di cultura cattolica o protestante, o di penetrazione parziale e orientata della cultura illuministica e romantica; o anche in termini socio-politico-economici – l’entreprise come impresa del nascente capitalismo borghese, produzione di un io a sua volta potentemente produttivo di capitale culturale e sociale. Non svilupperò queste ipotesi. Resta il fatto che dopo le memorie (alcune scritte in francese) di Gozzi, Goldoni, Alfieri, Casanova e Da Ponte, le nostre opere autobiografiche diventano mediamente molto meno rilevanti sul piano letterario. Pellico, Settembrini, D’Azeglio, il taccuino di Abba, i frammenti di Foscolo e Leopardi, non sono paragonabili alle opere di Chateaubriand e Stendhal. C’è un felice egotismo autobiografico che da noi non trova terreno fertile. 

Si potrebbe sostenere che l’Ottocento, soprattutto dopo il suo primo terzo (cioè nel clima del positivismo), sia stato un po’ dappertutto un secolo ingrato per l’autobiografia, troppo spesso privata di spessore letterario e ridotta a mero resoconto di fatti; del resto anche oggi è soprattutto un format editoriale a cui ricorrono le celebrità. E tuttavia dal Novecento in poi autori e autrici come Gide, Duras, Sartre, de Beauvoir, Canetti, Joyce, Nabokov e tanti altri hanno continuato a esplorare nuove vie della scrittura autobiografica intesa proprio come spazio di innovazione letteraria. In Italia questo è accaduto molto meno. Solo negli anni Sessanta i libri di Ginzburg e Meneghello hanno aperto una felice stagione di rinnovamento, a cui ricollegherei anche Se questo è un uomo di Primo Levi (uscito sotto silenzio nel ’47 ma poi ripreso da Einaudi nel ’58). 

Queste opere hanno un tratto in comune. La vicenda del singolo è fortemente inserita in una collettività: il lager di Auschwitz, la famiglia Ginzburg (e il suo milieu), il paese di Malo. È inevitabile, o comunque assai frequente, che un memoir colleghi il privato al pubblico, ma stavolta l’attenzione è portata molto più su queste realtà collettive che sulla persona dell’autobiografo: la quale viene spesso sottratta allo sguardo, per riserbo o per sprezzatura o per un sentimento del sé composto di entrambi. Al centro, fin dal titolo, c’è la famiglia (Lessico famigliare) o il paese (Libera nos a Malo); o se l’individuo, l’individuo indifferenziato (Se questo è un uomo) che rimanda immediatamente alla moltitudine degli oppressi. Più che autobiografie sono autosociografie, per ricorrere a un termine che viene già usato in riferimento alle opere di Annie Ernaux (alcune più di altre, direi) o a Ritorno a Reims di Didier Eribon.

Si pensi, per contrasto, a Lalla Romano, che conosce il maggiore successo in quegli stessi anni, ma per quanto omaggiata di un doppio Meridiano Mondadori rimane una figura anomala e appartata nel nostro panorama letterario. Certo, la dimensione relazionale è ben presente fin dai titoli delle sue opere: InseparabileL’ospite, la prima persona plurale di Le parole tra noi leggere o La penombra che abbiamo attraversato. Eppure il filo conduttore della scrittura è senza dubbio schiettamente autobiografico: è la singolare sensibilità della narratrice, che può dedicare un intero libro (Metamorfosi, l’opera prima!) al racconto dei propri sogni, o assegnare alla sua giovinezza il titolo Una giovinezza inventata. Inventata da chi se non da lei stessa?

Questa diffusa opzione per l’autosociografia, che da noi anticipa di molti anni Gli anni di Ernaux, nasce dalla tendenza italiana a privilegiare la dimensione comunitaria (i chierici rossi o neri di Montale), nonché dalla nostra scarsa inclinazione a ripensare, dopo il romanticismo, il racconto dell’io. Gide e Joyce e Canetti lo mettono in discussione, l’io, e ne incrinano in vario modo la coesione: ma questo non gli impedisce di metterlo al centro – anzi li costringe a farlo. Conducono uno scavo prolungato nella propria intimità, azzardando un’esposizione personale che per uno scrittore italiano saprebbe subito di alfierismo o dannunzianesimo. È come se fosse mancato, da noi, il passaggio attraverso un’autopercezione solida ma non enfatica, analitica ma non compiaciuta: o il fascismo l’avesse sabotato, questo passaggio. Puntare i riflettori sul proprio io sembra brutto. 

Oggi anche scrittori di forte temperamento e tutt’altro che inclini a scomparire entro una realtà collettiva come Edoardo Albinati o Vitaliano Trevisan scrivono memoir come Maggio selvaggioIl ritornoVita e morte di un ingegnere, e Tristissimi giardiniWorksBlack Tulips (notare la completa assenza di pronomi di prima persona): libri che addentano la propria vita da diversi lati, un morso alla volta: il carcere, le missioni delle ONG, il rapporto col padre, la città d’origine, la vita lavorativa, il rapporto con le donne migranti. Raccontano cioè, sia pure con un occhio che può essere ferocemente critico, dimensioni fortemente relazionali o addirittura comunitarie. Sono libri straordinari, beninteso, ed è un bene che queste dimensioni vengano raccontate con una schiettezza che ha pochi precedenti. Eppure mi dispiace un po’ non trovare in Italia un’impresa autobiografica solida e compatta in tre o cinque o sei volumi come quelle in cui Coetzee, Bernhard e Knausgård non esitano a distendersi al centro del vetrino del microscopio. Nella narrazione non solipsistica ma pienamente focalizzata sull’io, nell’autentico gesto autobiografico, c’è un valore specifico che è un peccato perdere.

Vorrei provare a vedere più da vicino come funziona una di queste costellazioni di testi che costruiscono, sommandoli, una sorta di autobiografia (o più esattamente, come ho scritto, autosociografia). E subito incontro una complicazione: non sempre sono testi autobiografici.

Racconterò un’esperienza di lettura. Da ragazzo ho scoperto che il mio autore di fantascienza preferito (alla pari con Asimov) usava uno pseudonimo. In realtà tutti sapevano chi fosse, lui stesso non ne aveva mai fatto un segreto. Ma io ero appunto un ragazzo; e lo appresi solo in un secondo tempo, che quel Damiano Malabaila si chiamava in realtà Primo Levi. Sì, era quel Levi che aveva scritto un libro importante sui campi di concentramento. Su Auschwitz. 

Levi stesso ha a volte rimarcato il confine che separava le due modalità della sua scrittura, ma altre volte ha sottolineato il nesso che le univa (al punto di giustapporle in opere più tarde come Il sistema periodico e Lilìt e altri racconti). E soprattutto ha spiegato che quel bizzarro nom de plume, Malabaila, “cattiva balia”, evocava il “latte girato a male”, e che quel cibo divenuto veleno sapeva “di sofisticazione, di contaminazione e di malefizio”: due termini tecnico-scientifici più uno tratto dal mondo magico. Aggiungeva che il mondo del lager, dove “i professori lavorano di pala, gli assassini sono capisquadra, e nell’ospedale si uccide”, somigliava a quello del Macbeth, e in particolare agli incantesimi delle streghe. 

Così quando, dopo numerose letture delle Storie naturali e di Vizio di forma, arrivai verso i diciott’anni a Se questo è un uomo, l’effetto fu quello che forse aveva preconizzato qualche recensore malevolo (uno di quelli che avrebbero voluto un Levi esclusivamente “testimone”, e fustigavano la commistione di realismo estremo e sbrigliata fantasia in un unico percorso di scrittura): il resoconto del lager mi sembrò una favola nera. Avendo invertito l’ordine di lettura rispetto a quello di pubblicazione, non vedevo nei racconti una modulazione fantastica di temi già presenti nella tragica realtà esperita da Levi. Al contrario, era Auschwitz a sembrarmi una forma di surrealtà. 

Ma è interessante che questa derealizzazione non attutisse in me l’effetto del memoir: tutt’altro. Che si trattasse di eventi effettivamente accaduti era indiscutibile. Che avessero anche un alone maligno, l’indefinito effetto d’eco di una pietra gettata nel fondo buio di un pozzo – be’, questo non faceva che aggiungere al senso di minaccia. Una minaccia tanto più concreta in quanto immaginaria.

Capivo bene, però, la perplessità dei recensori dei due libri di racconti fantastici, perché leggere Se questo è un uomo ti lascia una sensazione di compiutezza, in senso sia estetico che etico: un “non c’è altro da aggiungere”. (La tregua, se viene letta subito dopo, rischia di apparire – ingiustamente – come una coda.) Il fatto è che il memoriale di Auschwitz, uscito nei Saggi Einaudi prima che nei Coralli e già pochi anni dopo riproposto in un’edizione per le scuole, è un’opera rivestita di assoluta urgenza storica e politica e morale, da allineare con quelle di Antelme e Améry: ma – a considerarla come prodotto letterario – è un oggetto impossibile. Non può essere un modello di scrittura autobiografica, perché il dramma che ci consegna non ha paragone. (Le stesse parole dramma e consegnare sono palesemente insufficienti: il dramma è un genere fondato sulla finzione o perlomeno sulla performance; si consegna qualcosa che può essere raccolto, tenuto in mano, fatto proprio.) Non può, d’altra parte, venire apprezzato per i suoi valori puramente estetici: non che manchino (tutt’altro!), ma sarebbe scandaloso staccare i fili con cui lingua, stile e immagini alimentano la missione del testo-testimone. Non ha epigoni. Si costruisce, per così dire, un genere letterario tutto suo e lo esaurisce. Sembra strano – dopo – aprire un altro libro (tanto più se di fantascienza): per leggerlo, o per scriverlo.

Ma naturalmente è ciò che facciamo, aprire altri libri. Una volta letti tutti i libri di Levi che riuscivo a trovare, ho avuto conferma del nesso profondo che avevo intuito (e che, del resto, è cosa ben nota): il reale e il fantastico lavoravano bene insieme, non c’erano da una parte le opere d’invenzione e dall’altra quelle autobiografiche. Molte delle prime mettono in scena un mondo in cui ha trionfato la logica del lager, o meglio, i temi che quella logica sottende, dalla genetica al sadismo, dalla memoria alla mente animale. Molte delle seconde prevedono, per contro, un certo grado di “arrotondamento”, come ha spiegato molto bene Martina Mengoni. In Vanadio, uno dei racconti del Sistema periodico, Levi spiega che la storia del dottor Müller (un chimico alle cui dipendenze aveva lavorato nel lager) «non [era] inventata, e la realtà è sempre più complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda». Ma in altra sede ammetteva di aver cambiato non solo il nome del personaggio (si chiamava Meyer) ma anche diversi aspetti della vicenda che aveva portato al loro secondo incontro nel dopoguerra, e perfino alcune caratteristiche personali: «Dopo la sua morte, e mentre scrivevo la ‘sua’ storia, ho avuto la sensazione che l’impatto sul lettore sarebbe stato maggiore attenuando le sue peculiarità individuali, e cumulando nel personaggio Müller un di più che della borghesia tedesca nel suo complesso…». Riassumendo: la fantasia letteraria è contaminata dall’esperienza, mentre il memoir, pur fedele, si lascia aggiustare dall’invenzione.

Non esiste un’autobiografia di Levi. Esiste un complesso di testi narrativi, composti in varia misura di testimonianza e d’invenzione (ma anche testi saggistici e poetici, che ho tralasciato per non dilungarmi); tutti insieme circondano e delimitano un nucleo di vita vissuta. Si disegna un campo di forze. La scelta della metafora del campo non è qui uno scherzo di cattivo gusto. In fisica il campo è la regione di spazio dove per ogni punto è definita una data grandezza o proprietà; anche i campi di concentramento o di internamento sono spazi in cui vigono proprietà specifiche, fondate sullo stato di eccezione. Tutta l’opera di Levi è lo sforzo di definire queste proprietà, che tuttavia non si lasciano cogliere fino in fondo, perché prive di una logica (il famoso Hier ist kein warum!, “qui non c’è alcun perché!”) o perché ripugnanti allo sguardo. 

La ricerca delle radici, in questo senso, è un manifesto di poetica autosociografica. Raccoglie testi di ogni tipo: da Belli a Conrad, dal manuale di chimica di Gattermann agli alieni di Fredric Brown. All’epoca, il titolo Antologia personale veniva prescelto da poeti come Borges (evocato da Levi nell’introduzione), ma anche da scrittori di fantascienza come Asimov, per raccogliere i propri testi migliori. La scelta di sottotitolare Antologia personale un libro composto ritagliando brani di libri altrui è dirompente: ci dice che nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri. L’io è una sommatoria di altri io; è un noi. L’autobiografia si predica come essenzialmente collettiva. Il grafo ellittico posto all’inizio del libro, che ha al polo nord “GIOBBE” e al polo sud i “BUCHI NERI”, è un gorgo di libri, di linguaggi condivisi che ruotano attorno a un centro vuoto. Anche le opere di Levi sono un vortice di libri: una straordinaria costruzione testimoniale e riflessiva, l’evocazione di un inferno e del suo lascito nel nostro mondo. Nel tratteggiarla Levi ci ha raccontato molto di sé, eppure ha mantenuto un ritegno di fondo: il campo dell’io resta un’ellissi. Il tema era un altro.

In questa ruota di testi, ce n’è uno (un po’ Giobbe, un po’ buco nero) che occupa una posizione privilegiata perché corrisponde all’esperienza più sventurata: Se questo è un uomo. Levi è diverso da quasi tutti gli altri autori e autrici, in cui vita e scrittura sono due assi uniti da connessioni seriali come i fili paralleli di un telaio. In lui il reticolo di rapporti assume forma circolare: è un perimetro centripeto (e centrifugo) definito dalla forza di un unico evento biografico, un primum vissuto e sofferto – Auschwitz – che dal suo fulcro o fuoco, con energia incomparabile rispetto a ogni altro vissuto, riverbera in tutti gli scritti come una luce oscura. Se devo pensare a qualcuno che ha dato a una singola esperienza un simile potere di imprimersi su ogni punto della sua opera, il primo autore che mi viene in mente è Petrarca, con Laura e tutto ciò che lei viene a rappresentare. Sembra molto lontano da Levi e dal suo radicale dantismo, ma non dimentichiamo che nel racconto Breve sogno (in Lilìt e altri racconti), il protagonista sogna di essere Petrarca.

Breve sogno è la storia di un risveglio, scandito da una parola sbagliata: sogh-no: così pronuncia “sogno” la ragazza straniera. Come in molti racconti, vi si proietta in forma più leggera l’ombra del lager: il risveglio (da un sogno a un incubo) alla fine della Tregua, con la parola straniera Wstawać, “alzarsi”. Anche il dottor Müller di “Vanadio” viene riconosciuto da un refuso. L’autosociografia contempla molto naturalmente una dimensione linguistica: non è forse la lingua, in primis, a definire una comunità? Altrettanto naturale è però la tensione tra la lingua del gruppo e quella del protagonista, con i suoi sbagli. Ognuno di noi è straniero agli altri.

Non bisogna banalizzare questa “tensione”. Innanzi tutto, uso questa parola non troppo determinata per riferirmi a un ampio spettro di relazioni e atteggiamenti, che includono, per esempio, anche l’affettuosa ironia dei giovani Ginzburg davanti alle immutabili frasi fatte dei genitori, o l’aspirazione del ragazzo Meneghello a capire meglio certi termini veneti. E poi i linguaggi collettivi sono più d’uno (e anche tra loro si instaurano “tensioni” di vario tipo): la lingua d’uso, il dialetto, la lingua letteraria, i gerghi della scienza e della tecnica, le lingue straniere; in Meneghello, per esempio, l’inglese ha certamente un potenziale liberatorio rispetto all’italiano. Inoltre anche l’idioletto più personale è “collettivo”, come lo è sostanzialmente ogni espressione linguistica: perfino il nonsense si produce entro un orizzonte d’attesa. Non esiste la verità del singolo. Ma la verità scaturisce sempre dal cortocircuito tra il singolo e il gruppo.

Rispetto all’idioletto i linguaggi del gruppo hanno inevitabilmente una posizione dominante o pervasiva, che emerge quando vengono descritti in modo metodico o perlomeno molto ampio. È ciò che accade in tutto Lessico famigliare, fino alle pagine finali in cui un’intera conversazione tra padre e madre è costruita come una lorica, agganciando formule come piastrine d’acciaio. In Levi e Meneghello il resoconto (spesso un vero e proprio racconto) dei linguaggi è più disseminato e circostanziale, ma non meno importante. Per quanto riguarda Levi, la matrice sta nella Babele di Auschwitz: il lessico concentrazionario, l’incontro con lo yiddish, il tedesco lingua infernale e salvifica, il russo colonna sonora di una caotica libertà, e poi la ricerca delle parole italiane per dire l’orrore. Ma ancora nel Sistema periodico, per esempio, il primo capitolo (“Argon”) dedicato agli antenati dell’autore è anche un trattatello sul linguaggio giudaico-piemontese. (Del resto la tavola degli elementi, su cui si modella il libro, è in senso lato un linguaggio; il sistema periodico è l’“alfabeto” della materia, e di una vita di chimico; una delle etimologie proposte per il latino elementum vede in questa parola la sequenza delle lettere L, M, N, un po’ come in italiano l’abbiccì deriva da A, B, C).

Non è un caso che negli stessi anni Cinquanta-Sessanta delle grandi autobiografie collettive prenda forma la sociolinguistica moderna, in Francia (Marcel Cohen) e in America (William Labov); verrà portata in Italia da Giorgio Raimondo Cardona negli anni Settanta – e questo è il decennio in cui inizia a scrivere Annie Ernaux… Dietro al progetto di raccontare un corpo sociale attraverso le sue parole c’è il fatto che, dopo tutto, la lingua è essenzialmente comunicazione, dunque comunità; e più specificamente l’idea che il linguaggio sia strettamente legato alla visione del mondo. Secondo quella che (un po’ impropriamente) viene chiamata “ipotesi Sapir-Whorf”, una lingua definisce in modo stringente la cultura di una collettività, cioè di chiunque la parli. Ancora una volta, ciò che abbiamo di più personale appartiene ad altri. 

Ma se l’idea di un rapporto cruciale tra lingua e comunità è largamente accettata, per molti linguisti l’ipotesi Sapir-Whorf, almeno nella sua versione più rigidamente causale e deterministica, può venire ammessa solo con forti limitazioni. A maggior ragione nicchiano gli scrittori, ben coscienti che la letteratura racconta soprattutto storie individuali (un po’ come la mathesis singularis, la “scienza del singolare” di cui ha scritto Roland Barthes) e che ogni personaggio ha un suo linguaggio, evidentemente in rapporto con la lingua condivisa, ma anche dotato di caratteri propri e unici. La domanda, a questo punto, è: l’autobiografia riesce a raccontare anche l’idioletto? E come?

Le autosociografie potremmo considerarle una precoce diramazione del romanzo-sistema postmoderno, cioè di quei romanzi (raramente autobiografici) che negli anni Sessanta-Ottanta disegnano un sistema chiuso e completo, a volte linguistico, una sorta di alfabeto allestito attraverso un ridotto numero di unità basiche. Il sistema periodico, appunto; e Fuoco pallido di Nabokov, Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili di Calvino, La vita, istruzioni per l’uso di Perec, i Sillabari di Parise, l’Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš, il “Piccolo dizionario di parole fraintese” nell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, Vedi alla voce: amore di David Grossman, il Dizionario dei Chazari di Milorad Pavić, e così via. 

Il romanzo-sistema, però, includeva una deliberata lacuna. Era un omaggio allo strutturalismo, ma anche una critica a certe sue pretese di imperialismo ermeneutico. Incarnava (con tutte le varianti che si possono immaginare) un ragionamento di questo tipo: la realtà è una struttura complessa e in parte arbitraria o casuale; è possibile descriverla, ma mai in modo esaustivo, perché ci sarà sempre un elemento che sfugge al sistema, che lo rende imperfetto o inesauribile. In Fuoco pallido manca l’ultimo verso, perché il poeta Slade viene ucciso. Anche in La vita, istruzioni per l’uso Bartlebooth muore prima di completare la sua impresa, e una stanza resta inesplorata. Nei Sillabari Parise scrive uno o più racconti per ogni lettera dell’alfabeto, ma deve fermarsi alla S – come confessa la celebre Avvertenza: «Nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato… La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei… un poco come la vita, soprattutto come l’amore». Come si vede, l’incompletezza del sistema è sempre riferita alla presenza tenera o tragica del fattore umano. Il sistema periodico, per contro, non contempla strappi alle regole; la chimica è il regno della causalità; e la tavola degli elementi in fondo può essere intesa, nel 1975, come una risposta moderata e oggettivante alle fughe e derive anti-sistema della contestazione.

Ho l’impressione che l’autosociografia italiana abbia fatto poco spazio al linguaggio del singolo. Non era il suo progetto e lo sapeva bene. Se questo è un uomo voleva essere un libro di testimonianza storica, non un diario intimo; La tregua e soprattutto Il sistema periodico hanno tracciato attorno all’esperienza storica un’esperienza biografica. Qualcosa di simile si può dire per il rapporto tra l’affresco di Lessico famigliare e i racconti e ritratti e autoritratti delle Piccole virtù. Ma questo recupero dell’io ha funzionato solo fino a un certo punto. Levi e Ginzburg si fondavano su un paradigma di oggettività, quello del socialismo scientifico o della scienza tout court. Pensiamo, per contrasto, a Ernaux: ha alle spalle e tutto attorno un paradigma di soggettività, il “partire da sé” femminista come ripresa e capovolgimento del tradizionale intimismo femminile. Questo fa sì che in lei la profondità dell’osservazione sociale si accompagni sempre a un immediato, e se necessario disinibito, scavo introspettivo. L’ho detta alla grossa; il pericolo è che queste figure di intellettuali appaiano ridotte alla loro dimensione ideologica. Ma credo che ci sia del vero nella mia analisi, e un po’ me ne rammarico, perché nonostante l’amore per Levi e Ginzburg – tra i miei scrittori preferiti in assoluto – credo che solo puntando il compasso sulla sensibilità personale l’autobiografia possa dire ciò che è nata per dire. 

Per trovare qualcosa di simile dobbiamo guardare altrove. A Meneghello, forse? Ne ho poco parlato qui, dovrei riprendere in mano vecchie letture: ricordo, in certe pagine, un senso di tenera freddezza, l’impressione di una intensa esplorazione dell’insensibilità personale, con gli strumenti di una sprezzatura quasi violenta e di una cultura linguistica e stilistica oggettivante; sì, l’attenzione per il linguaggio può produrre, invece di sensibilità, una forma di distacco. A chi, allora? Ad alcuni libri di Ernaux, per esempio L’evento. Oppure alle opere di Michel Leiris, soprattutto la tetralogia La Règle du jeu, uscita negli stessi decenni delle opere di cui abbiamo parlato. Andrea Cortellessa ha parlato della «pazienza eroica, il vero e proprio stoicismo da palombaro col quale per mezzo secolo Leiris ha scandagliato il mare fondo che si agitava dentro di sé».

Qui potrò fare solo un accenno: e me ne scuso. Dunque all’inizio di Biffures, primo volume della Règle du jeu, Leiris si sofferma a lungo sul proprio linguaggio infantile. Racconta per esempio l’episodio in cui una sua esclamazione, – …Reusement! – (qualcosa come: – Tunatamente! – ), viene corretta dagli adulti in “heureusement” (“fortunatamente”). Una biffure è una cancellazione, ma il titolo allude anche alla bifur, la biforcazione. (Biffures esce pochi anni dopo Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges.) La correzione oblitera l’errore – ma gli concede anche una sopravvivenza virtuale. “Per un momento resto interdetto, in preda a una specie di vertigine. Perché quella parola storpiata, di cui ho appena scoperto che in realtà non è quel che avevo fin allora creduto, mi ha messo in grado di oscuramente avvertire – grazie alla sorta di deviazione, di scarto impresso al mio pensiero – in che cosa il linguaggio articolato, tessuto aracneo dei miei rapporti con gli altri, mi trascenda, protendendo da ogni parte le sue antenne misteriose.” 

C’è quindi un doppio movimento: il riconoscimento del proprio idioletto e della lingua condivisa che lo smentisce. Quest’ultima è insieme “tessuto aracneo” e essere dalle “antenne misteriose”, ragnatela e ragno (o altro minaccioso insetto): ha cioè i caratteri dell’oggettività e insieme della soggettività, il che la rende imprendibile. Quanto all’idioletto, si dichiara “storpiato”, assimilando il giudizio della norma grammaticale. Eppure ha in sè anche una potenza particolare, la forza che svela l’esistenza della norma che la “trascende”. La letteratura ci dice la realtà condivisa, ma non può semplicemente enunciarla: ha bisogno di un liquido di contrasto, lo scarto individuale, l’errore conservato nella memoria a distanza di decenni. Se nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri, nulla è più comune dell’eccezione costituita dall’io. Se si perde di vista questo, accadrà ciò che annunciava nel 1967 il poeta George Oppen: 

Obsessed, bewildered
By the shipwreck
Of the singular
We have chosen the meaning
Of being numerous.
“Ossessionati, confusi
per il naufragio
del singolare
abbiamo scelto il senso
dell’essere numerosi.”

Testi citati

Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci: letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 176; Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni, trad. Giorgio Cesarano, Garzanti, Milano 1976; Primo Levi, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, a cura di Gabriella Oli e Giorgio Calcagno, Mursia, Milano 1992, p. 37; Primo Levi, “Vanadio”, Il sistema periodico, in Opere I, a cura di Marco Belpoliti, intr. Daniele Del Giudice, Einaudi, Torino 1997, p. 928; Martina Mengoni, Primo Levi e i tedeschi, Einaudi, Torino 2017 (in particolare la lettera di Levi a Hety Schmitt-Maass del 6 ottobre 1976, p. 151); Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia, trad. Renzo Guidieri, Einaudi, Torino 2003, p. 10; Andrea Cortellessa, “Parole come brecce per filtrare il mondo”, il manifesto, 15 agosto 2012, poi su Doppiozero il 20 agosto in versione ampliata (“Michel Leiris, la vita e il suo doppio”); Michel Leiris, Biffures, pref. Guido Neri, trad. Eugenio Rizzi, Einaudi, Torino 1979, p. 6; George Oppen, On Being Numerous, trad. Marco Rossi-Doria e Anna Maria Savarese, dalla rivista online Lo Sciacallo, a. I n. 2, luglio-settembre 2000.

ARTICOLO n. 9 / 2024

DIALOGO TRA UN QUASI-VEGANO E UN NON SO

Un progetto di liberazione

A — Quindi sei passato al veganesimo.

B — Non precisamente: sono vegetariano da anni, ma da qualche mese sono quasi vegano.

A — Quasi?

B — Provo a spiegarmi. Innanzitutto essere vegani al 100% è quasi impossibile: lo sfruttamento animale è così pervasivo da rendere difficile scovarne ogni traccia in ciò che consumiamo.

A — Questo argomento però vale per chiunque.

B — Certo, infatti non giustifica. Per quanto mi concerne continuo a indossare maglioni di lana (ma non ne compro di nuovi), bevo vino anche non vegano, o mangio le uova di un’amica di mia suocera le cui due galline conducono un’esistenza serena. Infine resto aperto sulla questione dei bivalvi allevati, anche se non mi capita quasi mai di mangiarli. Definirmi vegano senza queste precisazioni sarebbe ipocrita; ma non mi sento nemmeno un vegetariano tout court — non mangio più latticini e sto andando in un’altra direzione.

A — Insomma non è una rivoluzione, è una riforma.

B — Se vuoi. Ma il principio di base resta ridurre il più possibile qualsiasi forma di dolore animale, cominciando dall’alimentazione. A mio avviso ragionare in termini più gradualistici (senza che ciò diventi una scusa per indulgere in eccezioni che tornano a essere regola) non cambia in modo irreparabile la sostanza — posto che si continui a tenere d’occhio l’obiettivo e migliorare. È un po’ come dire che fra chi fuma una sigaretta a Capodanno e chi si fa due pacchetti al giorno non c’è alcuna differenza, sono entrambi fumatori.

A — Ti si potrebbe obiettare che un’etica con queste “mani avanti” sulle incoerenze non è una buona etica.

B — O forse la giubilante caccia alla minima incoerenza altrui è uno degli automatismi peggiori di questa società: tu puoi trovare macchie nel mio stile di vita, e ci mancherebbe altro, ma se lo fai mentre ti sbafi una fiorentina non sei molto credibile. Eppure c’è questa sete di assolutismo unita a un atteggiamento da tribunale permanente che va ben oltre la critica. Sono sempre le etiche altrui a dover essere scevre di compromesso, sempre gli altri a dover essere modelli di coerenza morale; forse serve per tranquillizzarsi la coscienza, non so.

A — E se l’obiezione venisse da un vegano rigoroso?

B — Ti direbbe che io non sono vegano, e avrebbe assolutamente ragione: da cui il “quasi”, che spero non risulti un gioco di parole o l’ennesima etichetta inutile. Sarei lieto di discuterne; ma sto discutendo con te. Che sei onnivoro.

A — Avanti, allora: argomenta la tua scelta.

B — Il primo motivo è il grande rimosso del dolore animale. In estrema sintesi, non trovo giustificazioni per far soffrire e uccidere maiali polli e mucche visto che esistono alternative efficaci sia per l’alimentazione sia per il vestiario. La domanda di partenza resta quella di Bentham: “Il problema degli animali non è, possono ragionare? né, possono parlare? ma, possono soffrire?” Quelli di cui ci nutriamo per la maggior parte possono soffrire di certo. E l’allevamento industriale è una sequela di orrori: ti risparmio video e reportage, ormai si trovano ovunque; se vuoi puoi cominciare dal classico Liberazione animale di Singer o da Se niente importa di Foer.

A — Però qui c’è un po’ di antropomorfismo, non trovi? Gli animali non sanno di dover morire, non hanno le nostre aspirazioni e la nostra idea di futuro.

B — Di sicuro quegli animali intuiscono il pericolo e, come detto, possono indubbiamente soffrire: è una questione di sistema nervoso centrale, non del modo in cui valutiamo la loro capacità intellettiva — un tema senz’altro importantissimo, ma che viene dopo l’applicazione del rispetto morale. Il fatto che un pesce non urli non implica che farlo crepare soffocato sia per lui indifferente. Lo stesso vale per costringere maiali in una gabbia, limitare il loro movimento, e più in generale farli nascere per destinare loro una vita di sofferenze con una condanna a morte già scritta. Può sembrare riduzionismo, ma senza questa premessa non si va molto lontano. Non voglio antropomorfizzare loro — voglio animalizzare noi.

A — E se mi nutrissi solo di carni provenienti da allevamenti sostenibili?

B — Sarebbe già meglio, ma dovremmo intenderci sulla presunta “sostenibilità” con dati concreti e fuori da ogni etichetta di marketing. Inoltre anche in questi casi il dolore non manca. Puoi tenere le tue mucche in libertà e non in orribili celle, ma se vuoi latte e formaggio dovranno essere fecondate e ti toccherà separarle dai figli — un evento straziante, come per ogni madre (stavolta non ti risparmio un video che non ho risparmiato a me, quando mangiavo ancora Parmigiano, ma mi voltavo dall’altra parte). Infine dovrai comunque uccidere gli animali di cui ti nutri: la macellazione non è mai stata un affare indolore, e gestirla su scala planetaria — un massacro di quasi cento miliardi di individui, di cui diciotto miliardi sprecati — moltiplica inevitabilmente la sofferenza. Il che ci porta a un altro punto: nutrire la Terra con allevamenti “sostenibili”, qualsiasi cosa significhi, è impossibile. Allora perché non smettere? O almeno, perché non porsi radicalmente il problema?

A — E i bambini, li fai crescere vegani? E la sperimentazione animale? E…

B — Aspetta. Tutti questi sono temi scottanti di bioetica: possiamo e dobbiamo parlarne, ma almeno cerchiamo di raggiungere un accordo di base — il modo in cui consumiamo gli animali, e l’effetto che fa alla Terra.

A — Ecco, a proposito: non pensi che il veganesimo sia un privilegio dei paesi ricchi? Come deve comportarsi chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, se uno di quei pasti è a base di carne o pesce?

B — Ovviamente deve mangiare carne o pesce. Non mi sognerei mai di predicare regimi di vita all’orbe terracqueo senza distinzioni: però vorrei persuadere le persone che possono cambiare e non lo fanno. Inoltre ciò consentirebbe di alimentare meglio anche l’enorme fetta di persone denutrite: invece di coltivare campi per sfamare animali, li coltiviamo per sfamare noi.

A — Quindi non è una moda.

B — Ma no. Forse il vegano modaiolo — potremmo chiamarlo il vegano fighetto: e Milano, dove vivo, è un po’ il suo habitat naturale — il vegano fighetto, dunque, difficilmente si porrà la questione in termini davvero radicali; magari vedrà nel veganesimo una semplice dieta. Ma non è una dieta: è una pratica politica e un progetto di liberazione.

A — Tuttavia è anche una dieta. E l’idea di campare a tofu e insalata…

B — Figurati. A me piace mangiare bene. Del resto già parlare di “cibo vegano” è sviante, quasi fosse un regime triste che rimpiazza i nostri “buoni vecchi piatti tradizionali”: ma la pasta e fagioli, la polenta e funghi, la caponata, le zuppe di legumi, la vignarola, la panzanella, la farinata, i carciofi alla giudia, gli spaghetti al pomodoro — ecco: sono “cibo vegano”?

A — Ammetterai però che cucinare verdure richiede tempo, e non tutti ce l’hanno.

B — Richiede più tempo di sbattere una fetta di pollo in padella, sì. Ma ogni cambiamento significativo ha un costo, per quanto minimo: anche l’idea che si diventi vegani con uno schiocco di dita è parte della tendenza fighetta di cui parlavo.

A — Ma non ti mancano la carne o il pesce?

B — No.

A — E il formaggio?

B — Talvolta. Una mozzarella è sempre appetitosa, ma rinunciarvi non è un grosso sacrificio.

A — E le proteine e tutto il resto?

B — Bisogna fare attenzione all’equilibrio fra cereali, legumi, semi oleosi, frutta e così via; ma non è poi molto diverso da altri regimi alimentari. Ho fatto gli esami del sangue di recente ed era tutto in ordine — incluse le proteine totali e la famigerata vitamina B12.

A — Però la carne è importante.

B — In realtà non è mai stata centrale per la massa se non da metà Novecento in poi, quando la produzione è quadruplicata.

A— Ok, sui diritti degli animali ho capito l’argomento. Poi?

B — Un attimo: preferisco non parlare di “diritti”, che è un termine teoricamente piuttosto impegnativo, quanto di schietta libertà. Qui superiamo Bentham: oltre alla capacità degli animali di soffrire dobbiamo riconoscere loro la capacità di dirigere la propria vita, senza antropomorfizzarli da un lato o ridurli a meri schiavi dell’istinto dall’altro. Evitare di prenderli come nostra proprietà significa anche riconoscere davvero le loro esistenze infinitamente varie e complesse, abbandonando il concetto di una “animalità” generica. Pensiamo solo alla molteplicità sensoriale che le varie specie mettono in campo: ne parla molto bene Ed Yong nel suo affascinantissimo Un mondo immenso.

A — Torniamo al punto?

B — Sì, scusa: il riscaldamento globale. All’incirca il 15% delle nostre emissioni climatiche sono causate dall’allevamento, che occupa anche la maggioranza delle terre agricole; senza contare lo spreco di acqua e il processo di deforestazione che comporta.

A — Ci sono ben altre azioni urgenti da fare per combattere le emissioni, in primo luogo cambiare la produzione energetica e il modo in cui ci spostiamo.

B — Sono d’accordo, ma smettere di sfruttare gli animali è una delle più tattiche più immediate e non contraddice il resto. Posso impegnarmi per le energie rinnovabili anche mangiando lasagne di verdure, no?

A — Ti ricordo però che anche determinate colture sono dannose per l’ambiente — l’avocado per esempio consuma moltissima acqua — senza contare che frutta e verdura possono avere una notevole impronta carbonica a causa del trasporto. Infine certi prodotti vegani sono comunque molto processati.

B — Ma mica mangio avocado tutte le settimane. È ovvio che occorre buon senso, ma in generale simili argomentazioni odorano di cattiva fede: si punta l’indice contro l’impatto di questa o quella singola coltura, dimenticando i danni assai maggiori inflitti dall’allevamento (che, a quanto pare, aumenterà ancora).

A — Be’, è quasi ora di pranzo. Che mi dici se addento un toast al prosciutto?

B — E che ti devo dire? Buon appetito.

A — Non mi insulti?

B — Scherzi? Se selezionassi le persone in base a quel che mangiano dovrei smettere di parlare con quasi tutti i miei cari, e del resto io stesso sono stato felicemente onnivoro per la stragrande maggioranza della mia vita. Si mangia insieme da sempre: in famiglia, tra amici e tra colleghi: immaginare il singolo consumatore scisso da influenze esterne è troppo comodo — e una paradossale concessione al modello capitalistico. Ritengo però che alla lunga, ognuno a modo proprio, tali resistenze possano e debbano essere superate: insomma non ti insulto, ma non ti dico nemmeno che fai bene.

A — Non sei un estremista.

B — Se per “estremismo” intendi un atteggiamento poliziesco, no: oltre a trovarlo sgradevole in generale, credo nuoccia alla causa avvalorandone la caricatura più diffusa — il moralismo, il senso di superiorità. Si è più interessati a difendere la propria immagine invece di persuadere gli altri con le difficoltà che questo implica. Ciò detto, non mi metto a fare lezioni di militanza ad alcuno.

A — Forse lo sdegno è anche una reazione al pregiudizio nei propri confronti.

B — Può darsi. Già quando ero “solo” vegetariano c’era sempre qualcuno che alzava gli occhi al cielo o reagiva come se lo stessi implicitamente accusando; e so quanto sia complicato difendere certe scelte in ambienti diciamo conservatori — la propria famiglia innanzitutto.

A — Su questo tornerò. Comunque l’obiezione di fondo, la mia quantomeno, resta: con tutti i problemi che abbiamo, chi se ne frega delle bestie. La vita implica darsi delle priorità, e così la politica.

B — Certo, è la replica più diffusa e credo vada considerata seriamente, anche perché siamo tutti nati in una società onnivora fondata sull’antropocentrismo. Ma anche questo è un pensiero estremista, no? Giustificare a ogni costo il diritto a sfruttare animali.

A — Ma un certo grado di antropocentrismo è ineliminabile, altrimenti una vita suina varrebbe quanto una vita umana. E finché non sono stati risolti i problemi umani — dubito a breve — dedicarsi agli animali è un’offesa nei confronti del prossimo.

B — Non è un’argomentazione pericolosamente simile a “Finché non sono stati risolti i problemi degli italiani, dedicarsi ai migranti è un’offesa nei nostri confronti”?

A — No. In questo caso siamo tutti umani.

B — Ok. Però il veganesimo non mette affatto in secondo piano il nostro specifico dolore. Anzi: come abbiamo già visto implica un miglioramento del clima, un aumento di cibo per gli umani, e l’abbandono di certi lavori mortificanti e indegni (non è bello passare la giornata in mattatoio o stipare in un camion decine di animali terrorizzati). E certo non ostacola le lotte che hanno come fine un incremento di libertà sostanziale, dal femminismo alla redistribuzione delle ricchezze; anzi, queste forme di attivismo si legano spesso nella pratica dei movimenti. Il veganesimo è anche un’educazione all’eguaglianza, e apre alla ricchezza del mondo naturale senza le lenti rosa della civiltà carnista — che da un lato decanta tale mondo in un’oleografia di piccole fattorie e mucche sorridenti, e dall’altro lo sfrutta industrialmente senza pietà.

A — E se il mondo diventa vegano, gli allevatori che fanno? Del loro dolore non ti importa?

B — Il mondo non diventerà mai vegano così, di colpo, e del resto vale per ogni cambiamento su ampia scala. Si possono studiare strategie. Del resto anche un mondo senza combustibili fossili è quanto mai auspicabile, ma che ne sarà di tutte le persone che lavorano nel settore? È il ragionamento di chi vuole mantenere lo status quo per interesse: in realtà non gli importa affatto dei lavoratori.

A — E se uno decidesse di spendere tutte le sue energie per dedicarsi (e riprendo il tuo esempio) a soccorrere i migranti nel Mediterraneo?

B — Mettere in competizione le giuste lotte è cattiva polemica. Comunque: quante energie davvero richiede cambiare dieta? Tolti i nobilissimi casi, sempre citati come paravento, concordo con Singer: l’idea per cui gli umani vengono prima “è più spesso una scusa per non fare nulla né per gli animali umani, né per quelli non umani”.

A — Però, parliamoci chiaro — e con questo torno al tema dell’ambiente conservatore: se propinassi tutto ciò a uno dei tuoi ex-compagni delle medie, in provincia, la reazione sarebbe: “Ma secondo te non devo sentirmi libero di mangiare quel che mi pare? Dopo una giornata di lavoro? Ma che vuoi da me?” E tralascio le volgarità in aggiunta.

B — Sicuro.

A — Ecco. Davanti a questa risposta, che si fa? Che si dice al pranzo di Natale mentre gli altri affettano il salame, o in pizzeria con quelli della palestra, o in trattoria con i tuoi colleghi? Fuori dalle nicchie più o meno bendisposte, là dove discutere è più difficile ma davvero si può fare la differenza, quali sono le tattiche?

B — Eh.

A — Parlavi del vegano fighetto: e se lo fossi un pochino anche tu, non per fini ma per comodità? Se non fossi più abituato a mangiare fuori dalla tua bolla?

B — Guarda, è il muro contro cui si scontra ogni movimento radicale, e non ho risposte sagaci: occorre valutare caso per caso, avere pazienza, non assumere atteggiamenti sacerdotali. Realisticamente, già instillare il dubbio è un successo. L’alternativa è chiudersi in un ghetto e ripetersi “Ho ragione” allo specchio, senza incidere in alcun modo.

A — Speravo in qualcosa di più.

B — Mi spiace. Intanto spero di convincere te.

A — Un’altra cosa sulle diseguaglianze. Anche nella filiera di frutta e verdura ci sono terribili storture: pensa al caporalato nei campi di pomodori in Puglia. Il business dell’agricoltura non è meno colpevole di quello dell’allevamento, da questo punto di vista.

B — Non solo, il fenomeno è diffuso anche a nord: un report di Terra! parla dello sfruttamento in Lombardia nella produzione di meloni e insalate in busta (oltre che nella filiera dei suini). Ripeto: è un aspetto da tenere nella massima considerazione, ma non lede i principi-base.

A — Ma se a me gli animali non interessano proprio?

B — Nessuno ti chiede di pensare a loro tutto il tempo. Il veganesimo non è l’estensione del concetto di “carino” al regno animale, dalle pecore ai grilli: come ho detto, è un progetto di liberazione. L’aspetto emotivo è una molla fondamentale, ma senza razionalità ha il fiato corto: quasi tutti provano ripugnanza nel colpire un animale, quantomeno un vertebrato, eppure lasciano che altri — spesso persone senza scelta — lo facciano. Perciò diffido un po’ del vocabolario sentimentale: chi dice di amare tutte le bestie, come chi afferma di amare l’intera umanità, mi fa venire i brividi. L’amore è selettivo e capriccioso, e qui abbiamo bisogno d’altro: franco materialismo, azione diretta.

A — Ma secondo te perché è così difficile far passare il tema?

B — Perché non abbiamo un’educazione al riguardo. Ovvio: se portassimo bambini e genitori in gita al mattatoio le conseguenze sarebbero disastrose per il business. Tuttavia c’è anche un motivo più profondo. In un passo poco noto ma davvero sorprendente, Leibniz disse che non percepiamo l’ingiustizia di uccidere le bestie per mangiarle “perché non abbiamo timore che esse cospirano contro di noi”.

A — In pratica perché siamo più forti.

B — Sì. In Dalla predazione al dominio, Gianfranco Mormino commenta così la frase: «Ciò che condanna gli animali alla situazione presente è una dinamica del tutto simile a quella esercitata nei confronti di tutti i deboli, ossia di chi sappiamo non essere in grado di resistere e vendicarsi»; e quindi «intere categorie umane, non sufficientemente minacciose da rendere pericoloso il loro sfruttamento, subiscono una sorte simile a quella degli animali».

A — E vorresti cambiare tutto ciò cambiando la tua dieta?

B — Ma no. Nessuno da solo conta granché: ma la pratica individuale può diventare collettiva, e serve a vivere già ora in un futuro possibile.

ARTICOLO n. 8 / 2024

VENEZIA E L’ORIENTE, NOI E MARCO POLO

Pubblichiamo un testo di Giovanni Montanaro dalla nuova edizione di Marco Polo, Il Milione (Marsilio). Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Che cos’è, Venezia? Ogni città è difficile da definire, ma Venezia lo è forse più di altre. Se la sua forza sembra la sua immutabilità, la sua identità, il corpo urbano in apparenza più intatto di tutto l’Occidente, in realtà Venezia è cambiata profondamente nel corso della storia. Nella sua funzione, nella sua essenza e persino nella sua struttura.

Nata come città di profughi e saline, divenuta città di pescatori, quindi emporio dei commerci, delle industrie, e dell’Arsenale più grande fabbrica del mondo, fu poi città degli spettacoli, delle arti e del teatro, nel decadente Settecento, e ancora meta dei grandi viaggiatori stranieri, durante l’Ottocento asburgico e quindi italiano, per diventare poi di nuovo industriale nel Novecento, con la scommessa di Porto Marghera. Oggi, invece, appare segnata da una triste vocazione turistica che a tratti pare irreversibile. 

La sua stagione più gloriosa appartiene certamente al Medioevo, quando Venezia era un impero commerciale senza veri confronti. A segnarne il destino, semplificando, furono due crociate; la prima, nel 1099, che le consentì una prima penetrazione coloniale nei mari. E la quarta, nel 1204, che aumentò in modo esponenziale il suo peso geopolitico nel Mediterraneo fino a farne la feroce dominatrice dell’Adriatico, capace per secoli di impedire a qualsiasi potenza rivale di crescere, perlomeno fino a Bisanzio e poi all’Impero Ottomano. 

Era merito dei veneziani, del sistema di governo, delle loro virtù e abilità, ma era senza dubbio frutto anche della collocazione della città nel mondo. La sua laguna era perfetta per costruire, varare, smontare e rimontare le navi, e per impedire le invasioni dei nemici, anche in assenza di mura. Era la sua natura anfibia a renderla concorrenziale. Senza treni e aerei, senza automobili, l’acqua era la rotta più rapida per i commerci, le comunicazioni, le scoperte. La città che oggi è la più lenta per antonomasia era un tempo invece quella più veloce.

È proprio da quel periodo che Venezia diventa la porta, o meglio il porto, per l’Oriente. Per i veneziani, ma anche per tutti gli Occidentali. C’erano i mercanti, prima di tutto, che andavano nel mondo a prendersi pepe e cotone, aromi, tinture, canapa, lino, lana, allume, ceneri di soda per fare il vetro. C’erano i militari, quando si presentava la necessità di combattere, conquistare, per sopravvivere o più spesso per nuovi affari. E c’erano centinaia di pellegrini, i veri “proto-turisti” dello spirito, con le loro guide odeporiche, le locande, gli itinerari. 

Andavano, tutti, sempre, verso Oriente. Non c’era altra destinazione se si partiva da qui. Certo, non c’era un Oriente solo. Ce n’erano numerosi, via via più remoti, esotici: i Balcani, l’Islam, la Persia, la via della Seta, fino appunto alla Cina.

A Venezia già si percepiva, l’Oriente. Non solo per l’architettura della città, vicina ai bizantini, con ori e colori così diversi dall’Europa profonda da cui tanti partivano. Non solo per la luce del suo cielo, le temperature più miti. Non solo perché per arrivarci bisognava passare l’acqua, e quindi, in qualche modo, già essere partiti, come se Venezia fosse sospesa già molto dentro il viaggio. Ma soprattutto perché, a Venezia, c’era già il racconto dell’Oriente. 

Brulicava nelle taverne, nelle locande, nelle storie dei marinai, nei tessuti e negli oggetti, tra le carte nautiche, nei libri che cominciavano a circolare, nei magazzini, nei depositi, nelle lingue, nei volti segnati da ogni colore, che si incontravano camminando, nei mercati e nelle calli. 

Tra tutti i racconti, c’era per eccellenza il Milione. Pareva tutto magico, quel libro. Nato in fondo per caso, durante la prigionia di Marco Polo, era un’epopea roboante, incantevole, superba. Usi matrimoniali stravolti, ragazze che non era bene che restassero vergini prima del matrimonio, le quattro mogli legittime del Kublai Kan, e poi belle scodelle di porcellana, balene ubriacate con il tonno, cavalli senza osso nella coda, l’Armenia e Shang-Tu, e una contrada senza nome in cui non c’è mai il sole. Quel libro forniva centinaia di informazioni sorprendenti, inaspettate, tanto da pensare che chissà se fosse tutto vero, o se non ci fosse invece qualche inesattezza, qualche bugia. 

Era quasi impossibile da verificare però, perché le due tratte di quel viaggio, andata e ritorno dalla Cina, non le fece quasi nessuno per secoli. Il Milione, in questo modo, raccontava non solo il tragitto verso quella terra, ma proprio il senso stesso dell’Oriente, l’essenza della scoperta della diversità.

In fondo, il Milione raccontava così, prima di tutto, la possibilità di cambiare, di godere una vita diversa, di approdare a un orizzonte ulteriore, in una terra nuova, trovare amici e nemici, e altri mercanti, animali strani, e donne e uomini ancora da conoscere, magari da amare. Scritto da una prigione, raccontava la libertà. Era, esso stesso, viaggio, nel significato più profondo della letteratura.

Aveva, in fondo, la stessa cifra di Venezia. Anche Venezia era un gigantesco Milione, un gigantesco racconto, una promessa di futuro. Perché indicava l’Oriente, perché conteneva l’Oriente. Perché qui si veniva per cambiare vita, per cercare fortuna, per scappare dalla prigione, da una moglie, per salvarsi in qualche modo dalla vita. Perché si pensava che fosse Dio, a volerlo, magari, o l’Imperatore. O, soltanto, perché ogni tanto prende la voglia di andare, di cominciare a navigare. 

Venezia è sempre stata, così, la porta d’Oriente, l’inizio del sogno. Con l’Oriente, la città avrebbe mantenuto un rapporto ambiguo, felice e bellicoso insieme, fatto di commerci, battaglie, inusitate alleanze. Lo sarà per tutta la durata della Serenissima e anche dopo la caduta, divenendo uno dei tramiti (pur subalterno a Trieste) del Lombardo-Veneto. E nel Novecento sarà una vedetta di fronte ai Balcani comunisti, quando l’Oriente era la cortina di ferro. E ancora oggi è, insieme a tutto il Veneto, capoluogo di una regione di viaggiatori, esploratori, uomini d’affari, delle imprese che vendono, e poi crescono, o talvolta delocalizzano, impiantando stabilimenti fino alla Cina, all’Oriente di oggi che si chiama Est. 

Certo, Venezia oggi è tutta diversa. Quello che era il più grande e importante porto del mondo è soltanto il settimo in Italia. Quella che era una delle città più popolose ha soltanto 50.000 abitanti che fronteggiano venti milioni di turisti. È una città di altra misura; minima, lieve. Soprattutto, unica. Per la sua fruizione solo pedestre. Per la bellezza senza paragoni. Per il suo essere fragile, minacciata dalla deriva turistica e dall’innalzamento dei mari. Per l’essere forte, però, robusta, tutt’altro che disponibile ad arrendersi, nel mezzo di trasformazioni per salvarla dalla scomparsa.

Così, mai come oggi Venezia rappresenta una diversità, una frontiera. Un diverso modello. È quasi come se la città fosse diventata, in qualche modo, una specie di Oriente essa stessa. Un Oriente per tutto il mondo. Nel tempo globalizzato, sempre più uguale nonostante le profonde differenze, è come se Venezia potesse ancora rappresentare un’alternativa.

O, perlomeno, come è sempre stata, come è il Milione, un desiderio. Di trovare un altro mondo. Di cambiare. E poi, chissà, forse, anche di ritornare. 

ARTICOLO n. 7 / 2024

SVUOTAVO LA CAMERA DI ANDREA

storia di un figlio

Quando Ryan e io decidemmo di fare un figlio, non vedevamo l’ora di incontrarlo. Io gli avrei parlato esclusivamente in italiano, Ryan gli avrebbe insegnato a suonare la chitarra, sarebbe andato con lui allo stadio per vedere i Red Sox. Avremmo mostrato come dei pavoni questa nostra creazione, nata da una combinazione di cellule, di DNA perfetti. Più cresceva la pancia, e più cresceva una fierezza anticipata, la certezza di una vita perfetta.

Siamo talmente abituati a ignorare la divergenza intellettuale che, quando decidiamo di avere un figlio, non immaginiamo minimamente che potrebbe nascere diverso da noi. Si pensa che imparerà a camminare, a parlare, poi a scegliere, decidere, studiare, innamorarsi, fare carriera, fare famiglia, avere figli di suo. Anzi, non si pensa semplicemente: si è convinti.

A novembre, nostro figlio Andrea ha compiuto ventisette anni. Siccome odia festeggiare il suo compleanno, attorno alla tavola c’eravamo io, Ryan, Alex e Vera. Andrea era in camera sua, a gustare il suo piatto preferito: gnocchi fatti da me. In frigo non c’era la torta e neanche lo spumante. Avevo messo due candeline come centrotavola, ma quello lo faccio sempre. Si parlava di come fosse così strano avere un fratellone che odia sia regali che compleanni, e ridevamo del fatto che, come ogni anno, era stata una fatica fargli aprire i pacchettini. E poi che, alla domanda: “Ti sono piaciuti i regali?”, lui rispondeva sempre con un no secco. “Cosa stiamo ancora qui a fargli i regali se li odia così tanto!”, diceva Vera con la bocca piena. 

In realtà, ci sono tante cose che ancora ci aspettiamo che Andrea faccia per apparire più simile a noi, per capirlo meglio. È uno strascico della difficoltà che abbiamo dovuto affrontare dopo aver ricevuto le diagnosi di autismo e sindrome di Down. Perché la prima reazione è sempre la stessa: non lo accetterò mai. È normalissimo in una società in cui, vale la pena ripeterlo, non siamo educati a convivere con persone diverse da noi. Credo che, a parte qualche piccolo dettaglio (siamo ancora tutti curiosi di sapere qual è il suo colore preferito o conoscerlo più a fondo), negli anni noi quattro siamo riusciti ad accettare Andrea per quello che è. Siamo tutti molto fieri di lui e non ci vergogniamo quasi mai, neanche quando si presenta in sala indossando solo una calza sul piede sinistro e un’erezione da fare invidia a John Holmes. 

Andrea ci ha resi persone migliori. La prima cosa che ci ha insegnato è come il termine normalità non significhi nulla.Ogni società ha tradizioni, credenze, regole sociali diverse; quindi, la normalità come la concepiamo noi è diversa da chi abita al di là del confine. Ci sono poi “normalità” ancora più difficili da comprendere: alcuni genitori estremamente religiosi, per esempio, sono disposti a picchiare i figli purché non si comportino come i loro coetanei occidentali. In Cina, sputare è considerato un gesto normale; per alcuni è normale la circoncisione maschile, quella femminile, purtroppo, anche. Per chi è cresciuto in queste culture, siamo noi gli strani, i diversi, quello che i loro figli non possono essere. Ma non solo. La normalità come concetto è anche uno scudo che usiamo per non vedere altre realtà, che spesso critichiamo senza conoscere. La normalità delle persone diverse da noi e simili ad Andrea ne è un ottimo esempio. Un altro è quella delle persone non cis; o di religione ebraica, o musulmana, delle donne e degli uomini. Lo scudo ci ha reclusi in una piccolissima zolla di terra in cui non è concessa alcuna deviazione.

Il mondo in cui Andrea ci ha catapultati è l’opposto del nostro. La parola d’ordine è empatia, e gli obiettivi delle persone che ne fanno parte non hanno nulla a che fare con i soldi, la carriera, la cultura, l’accumulo di oggetti. Non esiste competizione, e l’empatia senza competizione brilla ancora di più. Andrea ha portato questi principi nella nostra famiglia con estrema naturalezza, e ha condizionato molto anche Alex e Vera. Ogni volta che andavo a parlare con i loro insegnanti, parevano sorpresi dalla naturalezza con cui davano una mano a chi rimaneva indietro. Per loro, aiutare una persona che ha più bisogno è un’ovvietà. Come si fa a casa, d’altronde: rinunciare a molte attività senza rimanerci male, apprezzare qualsiasi passo in avanti, anche se impercettibile agli altri e festeggiarlo, a volte con le lacrime agli occhi. Andare a trovare Andrea nella sua scuola, dove gli strani siamo noi, e sapersi comportare con persone diverse. Tutte esperienze vissute da quando sono nate.

Un’altra cosa che Andrea ha portato in famiglia è la ricerca della felicità e della libertà assolute e fini a se stesse. La nostra felicità si basa sul successo, la fama, i soldi, perché sono gli strumenti che, per come abbiamo strutturato la nostra società, ci rendono felici. I genitori sognano per i figli una carriera, il successo che possa concedere loro di avere una casa grande, vacanze esotiche. Andrea ci ha fatto capire che nel suo mondo la felicità non si trova in questo, ma nelle piccole cose trovate sul nostro cammino e amarle: una cover di una canzone orrenda di James Taylor, un pacchetto di biscotti al cioccolato, un bacio o un abbraccio. Lui è felice così, nella gratificazione immediata, senza bisogno di pensare al dopo. La libertà secondo Andrea riguarda invece le regole sociali: semplicemente le ignora: se ha voglia di abbracciare una persona che non conosce, lo fa. Se ha voglia di una patatina, la ruba a chi le sta mangiando al tavolo di fianco al suo. Non capisce perché dovremmo vergognarci di mostrare alcune parti del nostro corpo, di chiudere la porta quando andiamo in bagno, di dover fingere di apprezzare una pietanza che non ci piace. Ora, è ovvio che una società basata su biscotti e musica bruttina e furto di patatine non è concepibile, ma lo è lo spirito, non solo: è una prospettiva allettante quasi più umana di quella che è davanti a noi. C’è del magico nell’osservare chi va contro, ma senza polemiche. La lista di cose che ci hanno resi migliori grazie a lui è lunga: la conquista della pazienza; la libertà di rispondere a domande inappropriate su di lui senza battere ciglio; la necessità di trovare altri strumenti per comunicare oltre che la voce e i gesti. E sono solo alcune.

Qualche giorno dopo il compleanno di Andrea, ho cominciato a svuotare la sua camera. Dopo due anni di ricerca, abbiamo finalmente trovato una stanza per lui in una casa-famiglia in cui vivono già tre altre persone autistiche a basso funzionamento, che vengono seguite da tre o quattro operatori. È in campagna, è molto bella, e dista un’ora da casa nostra. Non sto qui a spiegare il garbuglio di sentimenti che questa nuova fase della nostra vita ci ha provocato. Dico solo che allo stesso tempo è orrendo e stupendo. Orrendo stare senza di lui, stupendo che si senta pronto a fare un passo così grande e importante. 

Svuotavo la camera di Andrea e mi sono ritrovata a piangere, tanto per cambiare. Impacchettare i suoi oggetti è stato come rivivere le sue diverse fasi ossessive: le cassette, poi i CD, poi i DVD; i libri di Doctor Seuss e di Jim Croce; le calze mezze ciucciate. Ognuno di questi beni è testimone di molti momenti felici e qualche momento triste, difficile. Nella valigia ho messo i giochi da bimbi piccoli che ama, quelli che quando si schiaccia il bottone, la mucca fa MUU e il gatto fa MIAO. La scatola di fotografie che aveva rubato e con cui aveva dormito; i poster di Stevie Wonder, Bob Marley, James Taylor e Sting; il suo orsacchiotto Boris, che lo ha accompagnato in ogni sala operatoria; la sua unica cravatta usata per andare al Bar Mitzvah del figlio di amici. 

Svuotavo la camera di Andrea, dove per anni ha incontrato miriadi di terapeute comportamentali il cui compito era di insegnargli ad essere più simile a noi, come se essere come lui fosse sbagliato. Giornate sprecate a fare il bucato, dire grazie e prego, saper aspettare il proprio turno, svuotare la lavastoviglie, apparecchiare, mettere via la spesa, saper pagare. Mille istruzioni utili per vivere al meglio, ma nel nostro mondo. Andrea è perfetto così com’è. Ma dico io: davvero pensiamo che un giorno potrà andare al supermercato, mettere nel carrello quello che vuole, aspettare in fila, pagare, arrivare a casa, mettere via la spesa, fare il bucato? “E dunque perché insistere a insegnargli queste cose?”, chiedevo, basita. “Ma non è forse che siamo noi, che abbiamo anche un cervello che funziona meglio, a provare ad adattarci alla diversità invece che imporlo a uno come lui? 

Svuotavo la camera di Andrea e mi sentivo affogare dai sensi di colpa nei confronti di famiglie italiane con il loro, di Andrea, che non hanno accesso a nessuno di questi servizi, che non posso affidarsi ai servizi sociali, perché avere a disposizione dallo Stato, e cioè senza pagare un euro, una casetta in campagna a un’ora da casa, con quattro camere da letto, una per ogni persona che ci vive, con tre, quattro operatori, sembra fantascienza. Il senso di colpa nel pensare che chi è nato in un posto in cui ci sono risposte serie al dopo di noi ha il privilegio di poter invecchiare relativamente tranquillo, mentre se è nato da un’altra parte diventa un peso non solo per la società, ma anche per la famiglia. Mi sono ricordata, a voce alta, di non lamentarmi mai e poi mai. 

Svuotavo la camera di Andrea ed ero certa che sarebbe stato pronto per questa sua nuova fase, sicuramente più di noi. Andrea è la persona più difficile con cui convivere: non si taglia la carne, non si lava o veste da solo, non sa pulirsi dopo aver fatto la cacca, usa pochissime parole, storpiate, ed è molto complesso comunicare con lui. Come se non bastasse, è sempre addosso a me: il suo gioco preferito non è la mucca che fa MUU. Sono io, i miei capelli, il mio viso da baciare sempre, il mio collo da stringere, il mio sonno da disturbare, il mio silenzio da riempire, la mia libertà da limitare. Non è facile dedicare ventisette anni a una persona come lui. 

Eppure, è stato e continuerà a essere la persona più normalmente straordinaria che io abbia mai conosciuto.

ARTICOLO n. 6 / 2024

DENTRO L’ARCA DI PROMETEO

Una conversazione con Veniero Rizzardi

Di tanto in tanto l’instancabile abitudine di festeggiare gli anniversari a cifra tonda si rivela efficiente nel suscitare interesse attorno a qualcosa che forse altrimenti non ne raccoglierebbe. Ben venga dunque l’occasione per riprendere il Prometeo di Nono a cento anni dalla nascita del suo autore e quaranta dalla “prima”, per di più nel preciso luogo in cui era stata eseguita, la chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Venezia. La notizia ha infatti prodotto, oltre a un immediato sold out per quattro recite, aspettative tali da spiazzare, anche solo per un momento, un giustificato pessimismo attorno alle sorti della musica d’arte contemporanea. Quando Nono taceva, nel 1990, si stava da tempo chiudendo una stagione nella quale le cosiddette avanguardie erano ancora tali, e non ancora un comparto tra gli altri nel sistema delle produzioni simboliche. Allora il discorso sulla musica nuova non si era ancora condannato all’irrilevanza, polarizzato tra l’accademia e un “culto” di nicchia più o meno informato.

Il prestigio sociale di un artista come Nono era indiscutibile, un dato di fatto. Le sue concezioni avventurose e radicali trovavano risorse (pubbliche) per essere realizzate, e andavano incontro agli interessi di una platea curiosa, che poteva almeno seguire, se non condividere, e in ogni caso rispettare una ricerca tesa, originale, anche utopica, come era la sua. E quando nel 1984 Nono compì Prometeo, i paginoni centrali dei quotidiani erano occupati da anticipazioni e interviste. Le caratteristiche di evento d’eccezione, d’altronde, Prometeo le aveva tutte: un’opera immaginata al di fuori di ogni genere convenzionale nasceva in un’“arca” progettata da Renzo Piano dentro un luogo unico come San Lorenzo; il composito testo poetico era stato scritto da Massimo Cacciari; dirigeva Claudio Abbado; Emilio Vedova, inizialmente coinvolto per un’elaborata scenografia poi non realizzata, si prestava tuttavia come “maestro alle luci”. Inoltre, due strutture produttive erano impegnate nella complessa realizzazione elettroacustica, lo Studio sperimentale della Fondazione Heinrich Strobel di Friburgo, con Hans Peter Haller, e il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, con Alvise Vidolin. La produzione era congiuntamente della Biennale di Venezia e del Teatro alla Scala di Milano.

Oggi il primo riallestimento in situ di un simile lavoro, a cura della Biennale, deve fare a meno di una componente strutturalmente e simbolicamente importante, anzi costitutiva: l’arca di Piano, da tempo smantellata e conservata ma probabilmente irrecuperabile; d’altronde è l’ordine del tempo a stabilire, di necessità, che una ripresa, a quarant’anni di distanza, non possa essere letterale: tutte le opere musicali – anche questa, nella sua unicità – sono destinate a rivivere in altro modo, impossibile pantografarle attraverso gli anni. Tuttavia Prometeo può giungere intatto alle orecchie dei contemporanei, in una veste differente, ma altrettanto se non addirittura più sobria, nel rispetto di quella che Nono definì “tragedia dell’ascolto”: dove le fonti sonore, voci, strumenti e altoparlanti si confondono, alla vista come all’udito, in uno spazio nel quale non ha luogo nessuna azione, nessuna narrazione convenzionale, ma in cui si dipana attorno all’ascoltatore una drammaturgia di masse sonore che allude a un rituale senza evocare niente di riconoscibile.

Prometeo ha avuto una lunga gestazione. Nono iniziò a concepirlo all’indomani della sua seconda “azione scenica”, Al gran sole carico d’amore, andata in scena al Teatro Lirico di Milano nel 1975. Probabilmente pensava a una nuova e diversa realizzazione di teatro musicale, fino a che, nel corso di almeno tre anni, capì di dover rinunciare del tutto ad azione, scena e costumi, per provare a soddisfare il suo bisogno di una drammaturgia assoluta su di un piano non direttamente rappresentativo. Nel frattempo, avveniva un ripensamento profondo della politicità che la sua musica aveva espresso fino a quel momento; ripensamento che coinvolgeva anche il problema del ruolo sociale dell’artista, da sempre centrale nel suo lavoro. In un tale momento di crisi, l’incontro con Massimo Cacciari significava anche condividere la necessità di rimettere in discussione il quadro dei riferimenti culturali ereditati dalla tradizione del movimento operaio. Nono era così pronto a raccogliere, nel mentre Cacciari la veniva elaborando, gli esiti di un’indagine filosofica sul farsi della modernità. Le fonti: Hölderlin, Benjamin, Nietzsche, Schönberg, insieme al mito, Eschilo, Euripide, Sofocle, Esichio, Esiodo, Pindaro.

Questo, per sommi capi, il paesaggio dei pensieri in cui nasceva Prometeo, fin da subito molto descritto e spiegato, teorizzato, in numerose pubblicazioni, interventi, colloqui. Fu anche pubblicato un volume intitolato Verso Prometeo, a cura di Cacciari stesso, come se le peripezie legate alla genesi dell’opera fossero tanto importanti quanto i suoi elementi costitutivi. 

In uno di questi colloqui fu coinvolto anche chi scrive, e le ragioni per cui lo si riproduce qui, a distanza di quarant’anni, sono legate a un oggettivo interesse di contenuti, oltre che alla natura di inedito de facto: l’intervista comparve su un quotidiano in occasione della prima e non fu mai più ripubblicata. Le informazioni e i pensieri di cui Nono ci rende partecipi sono espressi in maniera schietta, aperta e interrogativa, un atteggiamento per lui abituale, ma tanto più evidente per il fatto di trovarsi di fronte un giovane. Con tutta la sua riluttanza a dare lezioni (pochissimi e quasi casuali sono stati i suoi allievi), Nono era continuamente avvicinato da giovani desiderosi di ricevere da lui un parere, un consiglio, un orientamento; ma nel rivolgersi a loro non assumeva mai la postura del padre o del maestro, piuttosto ne agiva i ruoli condividendo con l’interlocutore le questioni e i problemi che lo toccavano in quel momento. Ne avevo fatto io stesso esperienza.

Avevo incontrato Nono alcune volte in quei primi Anni Ottanta. Ci ritrovammo in un corridoio di Ca’ Giustinian a fare anticamera, ambedue in attesa che Mario Messinis, allora curatore della Biennale, ci ricevesse. Ne approfittai per dimostrargli il mio entusiasmo a proposito della musica che avevo ascoltato la sera prima: IO, frammento dal Prometeo aveva inaugurato la Biennale Musica nel settembre del 1981 – appunto, già nel titolo un “cartone” preparatorio, in realtà un’opera in sé compiuta che diede una prima spettacolare dimostrazione del suo nuovo orientamento. Nono mi impressionò per la disponibilità ad aprirsi e parlare del suo lavoro in modo semplice e in apparenza privo di schermi o filtri, come se stesse ragionando con sé stesso; mi sorprese anche il suo modo sottile, del tutto spontaneo, di entrare in confidenza e di stabilire complicità, esprimendosi in modo ironico ed ellittico.

Tre anni dopo, quando fu la volta di Prometeo, lo incontrai per parlare dell’opera, in un colloquio più strutturato. Ancora una volta era un pomeriggio di settembre, sedevamo sulle poltroncine di tela rossa, sospesi a tre metri dal pavimento nell’arca dentro San Lorenzo, dove passavo di tanto in tanto per seguire le prove, assistendo al lavoro di assemblaggio e affinamento del materiale composto. In quel luogo inventato, che non era una scena ma piuttosto la casa dell’opera, si ascoltavano i suoni e magari si assisteva alle sfuriate di Nono nei confronti di qualche solista; si andava a trovare Alvise Vidolin e Sylviane Sapir chiusi in un cubicolo di legno, intenti a governare i sistemi informatici, rumorosi per via delle ventole di raffreddamento, preposti alla generazione dei suoni di sintesi. Questi poi scomparvero dalle versioni successive. È a questo che si riferisce Nono nell’intervista quando parla del sistema 4i

Parlando con lui, lo trovai ancora più schietto, problematico, interrogativo ma anche entusiasta dell’opera che stava letteralmente prendendo forma in quei giorni. Il discorso tocca alcuni degli aspetti più appariscenti di Prometeo per come era stato annunciato, e Nono ritorna sui suoi temi favoriti, il bisogno di discontinuità e dell’incontro con l’imprevisto, l’assolutizzazione dell’ascolto; allo stesso tempo, dalle pieghe del discorso emergono aspetti non premeditati, come il desiderio di suscitare qualcosa di primordiale e, sul finale, quella che pare l’attesa del balenare di una rivelazione. 

[Il colloquio fu raccolto su nastro alcuni giorni prima della pubblicazione, che avvenne su La Nuova Venezia il 25 settembre 1984. Riprendo la trascrizione che ne feci allora, poiché, purtroppo, non posso più ricontrollarla sulla registrazione. Soppressi sicuramente qualche esitazione, ma sono sicuro che non cercai di normalizzare il discorrere di Nono che, almeno in quella circostanza, si espresse in modo molto fluido ed eloquente] 

Veniero Rizzardi: Come si situa l’invenzione musicale in rapporto a un testo così caratterizzato?

Luigi Nono: Certo non è mia intenzione rappresentare alcunché, mai ho voluto con i suoni cercare di fare altro da ciò che è possibile fare con i suoni. Da tempo rifiuto ogni concezione logocentrica. Qui il suono diventa esso stesso tragedia. Per questo il sottotitolo “tragedia dell’ascolto“: è il suono soltanto a dire, ma non a dire programmaticamente… il suono inteso come fenomeno fisico, usato all’interno di trasformazioni di diverso genere, come avviene con l’elaborazione in tempo reale che lo studio di Freiburg è in grado di ottenere, o con i suoni interamente sintetici prodotti dal processore 4i, o con i suoni dell’orchestra. Tutto ciò si scompone, si sovrappone in questi spazi infiniti, che sono il prodotto dell’arte combinatoria di Renzo Piano, tra il suo legno e il suo acciaio, e le pietre di San Lorenzo.

VR: In questo interesse alle trasformazioni del suono si ritrova un importante elemento di continuità rispetto al tuo lavoro precedente. Dunque anche il testo è un ispiratore di queste elaborazioni. 

LN: Certo, il testo è un provocatore, e insieme viene trattato come segnale acustico… e non è un insieme di significati chiusi, ma di significanti… ciò che per me rappresenta una problematica apertissima, e la domanda sul che cosa questo significante diventa, come si trasforma. In genere ci si interroga sul senso del risultato, sulla sua lettera. A me interessa molto di più seguire le trasformazioni cui questo elemento va incontro nel vagabondaggio per spazi come questo. 

VR: Ma se è il suono soltanto a poter dire, in questo Prometeo che peso hanno i residui di rappresentatività immessi nell’opera sotto forma degli interventi luminosi di Emilio Vedova, degli stessi spazi ideati da Piano…?

LN: Lo so, lo so… Quando mi sono trovato di fronte questa struttura, compiuta, mi sono reso conto con spavento che c’era moltissimo da vedere… Basta girare l’occhio, e cambia tutto, spazi, proporzioni… Tra tutto questo e la musica non direi che c’è contraddizione, no, ma un conflitto sì,  che può condurre a delle scoperte… Vi sono due modelli di ascolto che entrano qui in conflitto, credo: quello della ritualità cattolica, in cui la musica ha più fonti sonore e per uno spazio in cui la visualità è per i mosaici, o i quadri, o le pale; e la ritualità ebraica, in cui da vedere non c’è quasi nulla… A ogni modo c’è qui una chiara riproposizione di una situazione d’ascolto perduta: in tutte le chiese, dal gotico, dal normanno, da San Marco, fino a Sant’Andrea di Leon Battista Alberti a Mantova, l’organo e le cantorie sono disposti a mezza altezza. Appunto, da molto tempo si perpetua una falsificazione grossolana proponendo concerti in chiesa secondo il modello della sala da concerto… Insomma, nello spazio del Prometeo, come nella mia partitura, c’è veramente di tutto: scoperte del Novecento e scoperte di duemila anni fa, tutto insieme, con la tecnologia più aggiornata: c’è un’orchestra, quella di Claudio Abbado, c’è il processore 4i, che spesso compiono operazioni molto simili, come l’uso dei microintervalli; c’è l’apparecchio ideato da Hans Peter Haller, l’Halaphon, che può far compiere al suono percorsi anche molto complessi, rimandandolo da un angolo all’altro di questo spazio, facendolo passare sotto il pavimento, e poi in alto… 

VR: Allora c’è anche un recupero di un modello rituale di ascolto, storicamente piuttosto ben caratterizzato… 

LN: Non rifiuto affatto la ritualità. La musica, qualunque musica, si consuma come rito. È rito, negativo e demagogico, il concerto in piazza con la Nona sinfonia di Beethoven, un mega concerto dei Clash è un altro tipo di rito, così come trenta persone attorno a un quartetto d’archi… Qui si è raggiunto un risultato nuovo, credo, grazie a partecipazioni geniali: quella di Piano, che ha inventato, oltre a una struttura formata fornita di caratteristiche visuali di grande originalità, una formidabile “macchina da musica”, una macchina acustica che interagisce con lo spazio della chiesa in modo straordinario; quella di Abbado, che ha messo a disposizione la sua esperienza e le sue doti di interprete per un’esperienza totalmente differente da quella dei suoi concerti abituali; e poi ci sono i pensamenti di Massimo Cacciari, le sue continue escogitazioni, così innovative, così necessarie nella loro provocatorietà; la disponibilità umana di Emilio Vedova che ha intuito, nel gioco di luci progettato ed eseguito insieme a Vannio Vanni, gli elementi primordiali di questa tragedia dell’ascolto… ecco, davvero direi che tutti hanno contribuito a rendere espliciti i caratteri primordiali che questo lavoro possiede.

VR: L’ultimo tuo grande lavoro scenico è stato, nove anni fa, Al gran sole carico d’amore, che è profondamente diverso da questo Prometeo in tutti i suoi aspetti, musicale, rappresentativo… Vorresti provare a misurare la distanza che ti separa oggi da quella esperienza? 

LN: Allora la grande scoperta era stata quella di Jurij Ljubimov e della sua teatralità, che rappresenta oggi la continuità con una scuola teatrale che amo moltissimo, quella cioè di Mejerchol’d. Lo spazio del Teatro Lirico di Milano mi aveva posto limiti precisi, così come oggi la struttura di Piano, la scelta di San Lorenzo hanno cambiato tutto per me, hanno indirizzato tutto il mio lavoro attuale. E poi allora mi valevo dell’elaborazione elettronica analogica, pur con l’aiuto dello straordinario Marino Zuccheri [lo storico tecnico dello Studio di Fonologia musicale della RAI di Milano, ndr]. Ci possono benissimo essere delle discontinuità, delle rotture… Io amo queste rotture, ho bisogno di buttarmi senza rete di protezione, di mettermi a ristudiare tutto, di rimettermi in discussione… Non è un partire da zero, ma un ridiscutere tutto ciò che hai fatto fino a un certo momento: e allora operi con filtri, con lacerazioni se necessario… Credo che questo modo, attuale, di scrivere, di pensare per frammenti non significhi impotenza nei confronti del grande progetto. È lo stesso progetto a non significare più nulla, non ha davvero più senso la programmabilità delle operazioni. Davvero, io ho necessità di poter esercitare una critica scarnificante sul mio lavoro… Su ciò che siamo, o su ciò che non siamo pensando di esserlo. È solo in questo modo che ci si può tenere aperta la possibilità di sorpresa, che può manifestarsi in un balenio, che appare…

ARTICOLO n. 5 / 2024

MEDUSA: UNA BAND DI BASSO E BATTERIA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, diamo il via alle Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo primo appuntamento abbiamo intervistato MEDUSA, un collettivo composto da Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che dal 2017 pubblica una newsletter omonima per raccontare e divulgare la crisi climatica. Il loro libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) è stato pubblicato da NERO nel 2021. 

MONTAG: Volevamo partire da una domanda che faremo a tutti quanti i collettivi con cui converseremo. Vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? E, se sì, cosa significa per voi?

MEDUSA: Se un collettivo è uno spazio in cui bisogna negoziare le scelte, le decisioni, i rapporti che si creano, il linguaggio che si adopera per interfacciarsi col mondo, se questa negoziazione è alla base del progetto, allora siamo un collettivo. Da altri punti di vista sappiamo che i collettivi sono organismi più complessi del nostro. Noi siamo più che altro un duo, una band di basso e batteria, che ha anche i propri progetti solisti. Ma quando ci mettiamo insieme uniamo, integriamo e completiamo qualcosa dell’altro. Il progetto comune è diverso dalle cose che facciamo ognuno per conto suo. Sappiamo che certe cose possiamo e vogliamo scriverle solo sotto lo sguardo di MEDUSA. Stiamo lavorando e abbiamo lavorato a pezzi, racconti e idee di romanzo per MEDUSA. Quando siamo in due cambia il modo in cui pensiamo alla scrittura, perché sappiamo di essere su un terreno comune, che abbiamo costruito insieme e che conosciamo ormai molto bene. Il progetto è nato sette anni fa: ormai sappiamo come muoverci, come editare l’altro, cosa voler tradire e cosa voler rispettare: ogni volta sappiamo dove stiamo camminando. E quindi sì, siamo più un duo che sa quale album viene prima e, se si mette a pensare un nuovo album, sa che può spostare l’asticella o il ritmo o la sperimentazione artistica da una parte o dall’altra.

MONTAG: Torna l’immagine musicale dei Wu Ming. Anche loro si definiscono spesso come una band.

MEDUSA: Sì, alla fine è così. È una cosa un po’ inspiegabile, alchemica, oscura. Quando si mettono insieme più teste si crea un’intelligenza collettiva, da alveare. E finché funziona, è bellissimo. Ci si capisce al volo. Noi a volte, in maniera preoccupante, pensiamo le stesse cose a distanza. Non solo quando scriviamo. Ci è capitato di aprire Telegram e mandarci lo stesso link, articolo o video, nello stesso momento. A livello di scrittura, poi, succede si sviluppi una postura quasi mimetica: abbiamo assorbito alcune qualità, alcune caratteristiche dello stile dell’altro, e quando scriviamo su MEDUSA ne facciamo uso senza problemi. Anche per questo, nel libro, abbiamo deciso di usare la prima persona singolare: solamente nell’introduzione dichiariamo di essere in due, siamo un noi, ma da lì in poi spariamo in un io, un autore singolo, e usiamo la prima persona singolare. A volte ci capita di riaprirlo, leggere un paragrafo e non sapere chi l’abbia scritto.

MONTAG: Ragionando sul rapporto tra negoziabilità e complessità nelle diverse forme di collettivo, questa è una cosa che abbiamo ritrovato molto nella relazione tra la forma che adottate per lavorare e creare insieme e le tematiche che affrontate, soprattutto nei termini di una tensione tra l’unità e le sue parti. Ci è piaciuto l’esempio che avete fatto in Storie dalla fine del mondo sulla “unica grande nota” di Zappa: tutto quanto è un’unica nota dal cui interno nascono le varietà, non esistono solisti, ma tutto si tiene in una grande armonia. È un po’ la stessa cosa che si viene a formare nel momento in cui entrambi vi mandate la stessa cosa su Telegram, quando avviene quella consonanza. Vi riconoscete in questa descrizione?

MEDUSA: Diciamo che non riusciamo a immaginarci un collettivo che nasce da persone che non vanno d’accordo, che non hanno una relazione sana e un’amicizia. Se le idee sono degli accordi, ci sono anche degli armonici, ci sono delle ottave, ci sono sempre delle differenze di interpretazione, che possono essere minime e cambiare nel tempo. A volte la sensazione è che abbiamo capito il nostro punto di vista leggendoci, piuttosto che parlando, perché ci sono operazioni e ragionamenti complessi da mettere su carta e di cui nella vita di tutti i giorni non si riesce a parlare, per esempio cosa si pensa della decarbonizzazione, o dell’ironia degli scrittori postmoderni.

Questa unione impossibile tra l’unità e la collettività è una delle cose che ci interessano, che nutrono il nostro sguardo e ciò che abbiamo scritto. In un certo senso è uno scontro tra la vita quotidiana, quindi l’unità, e la vita collettiva, quindi la vita della società. È uno sfogo cui abbiamo dato la forma di saggio narrativo o di racconto. Qualche settimana fa, intervistando Orhan Pamuk, Matteo ha citato Tolstoj, che dopo 700 pagine di Guerra e pace se ne prende qualche decina per raccontare la sua filosofia della storia. Sono pagine teoriche in cui dice che gli esseri umani hanno due vite: una vita individuale che segue dinamiche prevedibili, meccaniche che dipendono dai suoi umori, dalle emozioni, dai bisogni; e poi c’è la “vita-sciame”, la vita delle società, che segue invece relazioni talmente complesse che al singolo risultano impenetrabili, quasi divine. Senza poterla formulare con lo stesso acume di Tolstoj, è però una cosa a cui in effetti pensiamo spesso: il ruolo dell’individuo nella collettività, ma anche il senso di impotenza dell’individuo rispetto a essa, davanti a questioni enormi e incontrollabili, davanti a oggetti come le crisi climatiche e le guerre. Questa è di sicuro una delle cose che ci ha spinto – che ci spinge – a scrivere. Storie dalla fine del mondo parte proprio da lì, da quell’unica grande nota incomprensibile che citava anche Zappa.

MONTAG: Ancora sul tema del rapporto con la società: perché fare collettività oggi? Qual è la potenzialità del lavoro collettivo rispetto al lavoro individuale? Il funzionamento di tutta questa complessità si può cogliere meglio attraverso una dinamica collettiva?

MEDUSA: Vi diamo una risposta fenomenologica. C’è qualcosa nello spirito del tempo: il mondo è dominato da sistemi complessi come internet, e qualsiasi altro aspetto della nostra vita è imbrigliato in qualche rete grande o piccola. E la risposta è sempre più, anche negli artisti, di unione e di condivisione. Anche dal punto di vista politico, ci sembra che ci siano molti più gruppi che si stanno finalmente organizzando e hanno bisogno di mutuo appoggio e mutua assistenza per riuscire sia a decifrare il problema che a capire come superare le difficoltà. Pensiamo a Ultima Generazione o Extinction Rebellion, gruppi locali che sono arrivati a unirsi in reti internazionali (e viceversa). Ma questo discorso si può leggere anche nella musica: negli ultimi anni il rap, la trap sono dominati dal featuring, ormai moltissimi album sono praticamente playlist di duetti e collaborazioni. Non è più strano vedere un album con dodici nomi che poi va nella discografia di uno solo degli artisti. Non è mai stato così.

Poi, pensandoci meglio, è anche vero che molto sta in come i periodi storici si raccontano, nel modo in cui le società si autoanalizzano. Sicuramente c’è questa tensione, dei pattern comuni, oggi. Ma se si va a rivedere la storia del Novecento, i giovani hanno spesso formato dei collettivi di un qualche tipo. Le riviste sono il miglior esempio possibile. A inizio Novecento c’era Lucciola, che era una rivista femminista, l’abbiamo scoperta grazie al nostro amico Ivan Carozzi, una rivista incredibile, scritta per corrispondenza da sole donne, e poi pensiamo ai Vociani, o, passando all’arte, cosa sarebbe il surrealismo senza Zurigo e il Dada? E poi si arriva al Gruppo 63, alla politica degli anni ‘70. E anche gli ‘80: abbiamo avuto bisogno di raccontarli come individualisti solo perché andava “compensato” l’impegno politico degli anni ‘70, per riconoscerli nel contrasto ecco, ma gli anni ‘80 in realtà sono pieni di collettivi importantissimi che hanno inciso, per esempio, sulla storia della comunità LGBTQ+, o avventure culturali come la rivista Frigidaire. E ci sono anche molte realtà degli anni ‘90 che ignoravamo, e che abbiamo scoperto grazie a Grafton 9, progetto bolognese che si occupa di digitalizzare molte riviste del passato, soprattutto della scena sociale degli anni ‘90, ma non solo. Insomma, ovunque si guardi c’è sempre stato un bisogno di collettività, e anche oggi è giusto parlarne in questi termini.

Ma è vero che quell’impressione iniziale rimane: sembra che, persino nelle arti che sono sempre state rivolte all’espressione più individualista, ora ci sia più facilità e più volontà di renderle collettive. Si è sempre fatta, questa cosa di scrivere un libro in due, in tre, in quattro, ma oggi ci sembra una cosa ancora più naturale, non è più una bizzarria, non stupisce più.

MONTAG: Prima dicevate che nel vostro libro avete ricostituito un “Io collettivo”. Nel racconto del contesto storico e culturale in cui ci troviamo, quale è il posto dell’Io? Si può costruire un “Io antropocenico”?

MEDUSA: In realtà questa cosa dell’Io, della prima persona singolare con cui abbiamo scritto insieme il libro, è stata una sorpresa anche per noi, perché non l’avevamo preventivata. Abbiamo iniziato a scrivere il libro mettendo insieme cose che avevamo scritto singolarmente, poi continuando a scrivere cose nuove e completandolo, studiando le lacune e unendo i puntini. Arrivati a questo punto però ci siamo resi conto che andavano amalgamate le cose. E anche magari per pigrizia, all’inizio, se vuoi, abbiamo pensato a questa soluzione. Sarebbe stato più pesante e complesso specificare ogni volta, nel libro, chi parlava: “Io, Nicolò, giro per la Stazione Centrale deserta durante la pandemia” e poi “Io, Matteo, mi ricordo di quando a Venezia ho partecipato a un festival di cortometraggi”. Una volta che l’idea era sul tavolo, ci è sembrata la cosa più naturale e abbiamo immediatamente percepito la sua potenza. 

Da un lato ci ha liberato di alcuni tic che sono tipici del reportage narrativo: tutte queste varianti di new journalism ecco, fino a Carrère e i suoi emuli, presentano a volte quegli eccessi di Io, dove il giornalista-scrittore non si leva di mezzo mai, ti dice che cosa ha mangiato o come si è spostato, in macchina, in taxi, in treno. Tutti ganci narrativi che dovrebbero aiutare il lettore, portarlo a spasso per la storia, ma che spesso finiscono per essere pura maniera. E a maggior ragione, parlando di Antropocene, sarebbe stato strano: uno dei problemi di quest’epoca è proprio l’ego, l’egoismo, l’umanità nella sua forma autoriferita. Paradossalmente, invece, componendo un Io che erano due persone, non potevamo permetterci queste cose, cioè non ci potevamo permettere di essere completamente e fisicamente nel libro, non ci potevano essere le nostre vanitàe i nostri tic personali, perché dovevamo fare spazio all’Io-MEDUSA. E invece sono rimaste intatte le paure comuni, le ossessioni comuni, tutto ciò che ci ha spinto a scrivere il libro. 

Quindi abbiamo creato questa sorta di Io composito che, pur non essendo minimamente fisico, né egoista, né autoriferito, diventava più emotivo, analitico, preoccupato più per il mondo che per se stesso. Abbiamo cercato di sfruttare quell’Io come un’universalità, quella richiesta dall’emergenza climatica, dal problema dell’Antropocene.

MONTAG: Ci è venuta in mente un’analogia con una citazione di Kafka che avete inserito nel libro, quando appunta: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia, nel pomeriggio lezione di nuoto». Ci sono l’ordinario, il nuoto, e l’eccezionale, l’invasione, che si mischiano, e ci sembra che un po’ seguiate questa regola, una sorta di “rasoio di Kafka”, che stiate su questo crine in cui due mondi che costantemente portano l’uno a scomparire nell’altro. E ci sembra che un progetto come il vostro riesca in qualche modo a de-automatizzare questo binomio, anche grazie al vostro rendervi indistinguibili attraverso l’Io di cui parlate. In che maniera a partire da questo Io antropocentrico vi siete accorti che cambiava il vostro modo di scrivere?

MEDUSA: Sicuramente questo nuovo Io ci ha cambiato, è diventato una sorta di “super editing”, nel senso che, pur non facendo mai esperimenti come il vostro di scrittura simultanea o di condivisione totale, e pur avendo ancora bisogno del nostro foglio prima di darlo all’altro e farlo intervenire, è però qualcosa che a livello quasi subconscio interviene in anticipo, un editing prima ancora dell’editing. Per noi, quando uno scrive per MEDUSA, scrive in quanto MEDUSA. E ognuno di noi ha introiettato brandelli di stile o modi di scrivere dell’altro, è come una spinta mimetica che porta ognuno a scrivere precipitando e aspettandosi l’editing dell’altro, nella maniera più comunitaria e medusica possibile. A volte scrivendo si prende piena consapevolezza, come un flash, di avere non solo un lettore di riferimento ma anche un altro scrittore di riferimento. L’editing è la cosa più comunitaria che si possa fare nella scrittura, ed è la più delicata, bisogna trovare una persona di cui fidarsi, di cui accettare qualsiasi critica. Spesso l’editing può essere anche solo lessicale, un lavoro di piccole scelte, un po’ minimalista, però è quel minimalismo da producer che sistema le canzoni. Dall’altro lato spesso è massimalista, nel senso che a volte ci si sbrodola, si divaga, e quindi il confronto con l’altro aiuta a tagliare anche paragrafi interi.

Tornando all’Io, se c’è un messaggio, anche se non ci piace dire così, se c’è un fondo nel nostro libro, è il rifiuto del consumismo. Spesso, nel vecchio new journalism di cui parlavamo prima, e che ancora si propaga, raccontare l’Io significa raccontare i consumi. Ricorrere all’Io in questo contesto non è banale, perché l’autofiction si nutre di edonismo, egoismo, solipsismo, che sono tutte materie prime della letteratura, ma quando l’Io si intreccia con la divulgazione, quando si parla di che cosa è meglio per il pianeta, l’equilibrio diventa precario. È un lavoro che va fatto con attenzione.

MONTAG: Esatto, ci sembrava che andasse anche contro l’Io inteso come forma linguistica capitalista.

MEDUSA: Il tentativo di MEDUSA era ricostruire degli intrecci inspiegabili, invisibili, tra l’acciaio e le decisioni umane, le radiazioni e i traumi collettivi. Quindi visibile e invisibile. E l’unica voce che poteva raccontarlo era una specie di voce onnisciente che non è una divinità, ma una via di mezzo tra l’inconscio di un paese e l’aria che respira. Anche questo forse c’entra con la dissoluzione di un punto di vista soggettivo, che però ovviamente è un processo che si può fare in tutti i modi, con la prima, la seconda, la quarta persona!

MONTAG: Questo discorso che avete fatto ci interessa tantissimo. Anche a noi a volte succede di pensare la stessa cosa, persino di iniziare racconti con la stessa parola. Però a nuove forme mentali possono anche accompagnarsi nuovi generi, quindi: quali sono i generi di MEDUSA? Il vostro libro è un saggio narrativo, che già di per sé è un’espressione ibrida, si avvicina alla theory-fiction. Nella vostra newsletter è interessante vedere quanto spaziate a livello di genere, nella struttura, nella lunghezza e nel tipo di testi che ospitate: saggi, racconti, reportage, interviste. Che cosa vuol dire per voi sperimentare, da un lato scegliere di confrontarvi con così tanti generi, e dall’altro ibridarli? Confrontarvi con più generi vi è venuto naturale scrivendo insieme, oppure è una vostra caratteristica personale?

MEDUSA: Questa è una domanda per cui vi abbracceremmo! È una domanda che non ci hanno mai fatto, ci sembra, e che rispetta profondamente la nostra ricerca. Ci viene in mente il nuovo fumetto di Daniel Clowes, dove narra la vita di una ragazza, di una donna, attraverso tanti racconti e ogni racconto esplora un genere. E questa è una cosa che ci piacerebbe fare. Perché non crediamo nella gerarchia tra generi, anche se spesso ci siamo trovati impastoiati, infangati nel discorso sulla fantascienza. Ma, andando avanti, abbiamo sempre più la sensazione che la fantascienza non sia più un genere, la fantascienza contemporanea è semplicemente diventata il modo per raccontare il presente, il futuro.

Tanto “genere” purtroppo resta iterazione, replica. Ma, allo stesso tempo, quella che dalla nostra società è considerata “letteratura alta” è diventata un polpettone replicato in mille sfumature di trauma. Per noi i generi diventano invece un modo per sperimentare, per allargare le nostre capacità. A un certo punto, quando eravamo nei vari lockdown della pandemia, quasi stava collassando anche il senso di alcuni testi. Mi viene in mente una cosa che avevamo scritto su un minatore australiano che vive sottoterra e scrive poesie. Quella cosa iniziava come un reportage, prendeva l’idea da un numero di Frigidaire che raccontava di Coober Pedy, un paese scavato nella terra, in Australia, dove fa troppo caldo e quindi si vive sottoterra. Raccontavamo delle cose a metà, un po’ strane, fantascientifiche, e qualcuno alla fine ci ha chiesto se la storia fosse vera e di chi fossero le poesie, dove potevano trovare altre poesie dei minatori. Ma le poesie erano nostre! Questo per dire cosa? Che ci piace esplorare tutte le forme. 

MONTAG: È vero che nella newsletter c’è sempre più materiale narrativo, soprattutto dopo l’uscita del libro. E quindi volevamo farvi questa domanda, puramente speculativa: un romanzo MEDUSA avrebbe senso per voi?

MEDUSA: Ci pensiamo dall’inizio. Abbiamo già in mente di lavorare a un romanzo (o dei racconti) MEDUSA, ma in realtà vorremmo prima o poi fare anche un altro libro, un altro saggio ibrido, quindi vediamo cosa succederà. Idealmente, se avessimo tutto il tempo del mondo, entrambi subito!

MONTAG: In esclusiva ai nostri microfoni! 

MEDUSA: Però l’esplorazione dei generi per noi è stata, da sempre, anche una conseguenza editoriale a cui ci siamo costretti. Forse MEDUSA è anche questo, all’inizio abbiamo pensato alla newsletter e parlavamo di cambiamenti climatici, crisi ambientale, di realtà, appunto, di rapporto tra uomo e natura, cosa che si è sempre fatta ma che ci sembrava, in un momento di crisi globale, non si facesse nella maniera in cui ci sarebbe piaciuto leggerla. Quindi c’erano numeri più divulgativi, poi numeri letterari, dove parlavamo di filosofi e libri sull’Antropocene, di quello che ci andava di raccontare o commentare. C’è da dire anche che alla fine le questioni più letterarie forse sono quelle meno lette, non solo su MEDUSA, in generale su internet: i racconti vanno sempre peggio dei pezzi. Mentre noi, controcorrente, dopo sette anni di newsletter siamo arrivati a un punto in cui ci fa molto più piacere scrivere racconti dentro MEDUSA. Però sappiamo che parte del nostro pubblico è affezionato anche ad altri tipi di riflessioni, ad altri tipi di “contenuti”.

Non diciamo che sia del tutto saltata la divisione fra contenuto, racconto, o content, fra le storie, i link, le curiosità, però siamo qualcosa che si avvicina a una fusione di tutto questo. Lo vediamo per esempio su Instagram: ovviamente lì un racconto è invendibile, però ci sono comunque storie brevi che possiamo raccontare e che entrano in un nostro ragionamento, magari bizzarre, strane, e che continuano a succedere davvero nel mondo.

Poi, rispetto a quando è iniziato, il dibattito sull’emergenza climatica si è molto aggiornato in Italia. Quindi sentiamo di avere meno urgenza divulgativa, perché certe cose ormai sono note. Stiamo ovviamente parlando della nicchia in cui ci muoviamo e pure questa non è una questione da poco. La domanda alla fine resta: che cosa possiamo dare al mondo che il mondo non ha? E quindi è su questo che stiamo lavorando, appunto perché dopo sette anni abbiamo allentato i legacci del “tema”. Non siamo mai stati ancillari, non è mai stato un modo di svilire la letteratura, o le nostre ambizioni letterarie “per parlare del Tema”. Piuttosto al contrario, partivamo da un problema usandolo come elemento di interesse, tentativo di comprensione e di esplorazione di un racconto. 

Ora sia un nuovo saggio che un romanzo MEDUSA riusciamo a vederlo bene.

ARTICOLO n. 4 / 2024

CHI ERA EDWARD SAID?

Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Tony Judt al volume di Edward Said, La pace possibile (Il Saggiatore, traduzione di Antonietta Torchiana).

Quando morì, nel settembre 2003, dopo aver lottato per un decennio con la leucemia, Edward Said era forse l’intellettuale più conosciuto al mondo. Orientalismo, il suo controverso libro sull’assimilazione dell’Oriente nel pensiero e nella letteratura dell’Europa moderna, ha dato origine a un intero filone di studi universitari, e a un quarto di secolo dalla sua uscita continua a suscitare irritazione, venerazione e tentativi di imitazione. Se anche non avesse scritto altro e si fosse limitato a insegnare alla Columbia University di New York – dove lavorò dal 1963 alla morte – Said sarebbe comunque uno degli studiosi più importanti del tardo Novecento. 

Ma non si limitò a insegnare. A partire dal 1967, animato da una passione e da un’urgenza crescenti, Edward Said fu anche un commentatore eloquente e assiduo della crisi mediorientale e un sostenitore della causa palestinese. Questo impegno morale e politico a ben vedere non rappresentò uno spostamento dei suoi interessi intellettuali: la sua critica dell’incapacità occidentale di comprendere l’umiliazione dei palestinesi riprende l’interpretazione della letteratura e della critica dell’Ottocento condotta in Orientalismo e in opere successive (in particolare Cultura e imperialismo, uscito nel 1993). Tuttavia, questa scelta trasformò il professore di letteratura comparata della Columbia in una figura decisamente pubblica, adorata ed esecrata con pari intensità da milioni di lettori. 

Fu un destino ironico per un uomo che non corrispondeva a quasi nessuna delle etichette che gli venivano attribuite con tanta sicurezza dagli ammiratori e dai nemici. Edward Said visse sempre in maniera tangenziale rispetto alle cause cui si dedicava. Questo involontario “portavoce” degli arabi di Palestina, per lo più musulmani, era un cristiano episcopale, nato a Gerusalemme da madre battista nel 1935. Critico intransigente della pretesa superiorità imperiale, aveva studiato in alcune delle ultime scuole coloniali, dove si educavano le élite locali degli imperi europei, e per molti anni si trovò più a suo agio con l’inglese e il francese che con la lingua araba; era un prodotto tipico di un’educazione occidentale con la quale non riuscì mai a identificarsi pienamente. 

Edward Said è stato l’eroe venerato da una generazione di relativisti culturali attivi nelle università di tutto il mondo, da Berkeley a Bombay, per i quali la categoria di “orientalismo” poteva giustificare qualsiasi cosa, dalle analisi dell’oscurantismo “postcoloniale” a fini di carriera (la “scrittura dell’altro”) alle denunce del predominio della “cultura occidentale” nei programmi di studi. Ma Said non perdeva tempo con stupidaggini del genere. Il relativismo radicale, la negazione di qualsiasi fondamento oggettivo, che riduce ogni fenomeno a un mero effetto linguistico, gli sembrava vacuo e superficiale: i diritti umani, osservò in più di un’occasione, «non sono entità culturali o grammaticali, e quando vengono violati sono quanto mai reali».

A proposito delle volgarizzazioni del suo pensiero che vedevano negli scrittori (occidentali) soltanto un prodotto indiretto del privilegio coloniale, Edward Said si espresse con chiarezza: «Non credo che gli autori siano determinati in modo meccanicistico dall’ideologia, dalla classe o dalla storia economica». Come lettore e come autore, Said si riconosceva senza ripensamenti nella tradizione umanistica, «nonostante il disprezzo con cui i sofisticati critici postmoderni liquidano questo termine». Se c’era un aspetto che lo rattristava nella giovane generazione degli studiosi di letteratura era la loro frequentazione eccessiva della “teoria”, a scapito dell’arte della lettura minuziosa del testo. Inoltre Said apprezzava le divergenze intellettuali, perché per lui la tolleranza del dissenso era una condizione necessaria per la sopravvivenza della comunità internazionale degli studiosi; i dubbi che io stesso espressi sulla tesi di fondo di Orientalismo non furono di ostacolo alla nostra amicizia. Tale atteggiamento era difficile da capire per molti di coloro che lo ammiravano da lontano, persone per le quali la libertà accademica è tutt’al più un valore contingente. 

Questa profonda sensibilità umanistica gli rendeva insopportabile un vizio frequente negli intellettuali impegnati: l’approvazione entusiastica della violenza, di solito a distanza di sicurezza e sempre a spese di qualcun altro. Il “professore del terrore”, come i suoi nemici erano soliti chiamarlo, in realtà criticava la violenza politica in tutte le sue forme. A differenza di Jean-Paul Sartre, intellettuale che ebbe un rilievo analogo per la generazione precedente, Said aveva una certa esperienza diretta dell’esercizio della forza: all’università il suo studio fu visitato da vandali e saccheggiato, e lui e la sua famiglia ricevettero minacce di morte. Tuttavia, mentre Sartre non esitò a propugnare l’efficacia e la funzione purificatrice dell’assassinio politico, Said non giustificò mai il terrorismo, per quanto potesse simpatizzare con i motivi e i sentimenti che lo provocavano. I deboli, scriveva, devono mettere a disagio i loro oppressori, e non ci riusciranno mai con l’assassinio indiscriminato di civili.

Eppure Said non era un uomo placido, un pacifista, né tanto meno un tiepido. Nonostante il successo professionale, la passione per la musica (era un ottimo pianista, amico intimo di Daniel Barenboim, con il quale talvolta collaborò) e il talento per l’amicizia, era per certi aspetti un uomo profondamente arrabbiato. Ma nonostante l’identificazione con la causa palestinese e gli sforzi instancabili per promuoverla e illustrarla, era incapace di quel tipo di affiliazione acritica a un paese o a un’idea che permette al militante o all’ideologo di servire con qualsiasi mezzo uno scopo unico. 

Era invece, come dicevo, sempre leggermente defilato rispetto a ciò che sentiva affine. In quest’epoca di sradicamento, non era nemmeno un esule tipico, dal momento che la maggior parte degli uomini e delle donne che oggi sono costretti a lasciare il proprio paese hanno un luogo a cui guardare (pensando al passato, ma anche al futuro): una patria ricordata – spesso in modo fuorviante – che àncora l’individuo o la comunità nel tempo, anche se non nello spazio. I palestinesi non hanno neppure questo: la Palestina non è mai stata costituita formalmente, e all’identità palestinese manca questo punto di riferimento convenzionale.

Di conseguenza, come affermò significativamente Said pochi mesi prima di morire, «non sono ancora riuscito a capire che cosa significa amare un paese». Si tratta evidentemente della condizione caratteristica del cosmopolita privo di radici. Per chi non ha un paese da amare non è facile sentirsi tranquillo e sicuro: la sua condizione può attirare l’ostilità ansiosa di coloro che vedono in questa mancanza di radici il presupposto di un’indipendenza di spirito destabilizzante. Ma si tratta di una condizione liberatoria: il mondo osservato può non essere rassicurante come quello dei patrioti e dei nazionalisti, ma lo sguardo giunge più lontano. Come scrisse Said nel 1993, «non accetto la posizione secondo la quale “noi” dovremmo occuparci solo o soprattutto di ciò che è “nostro”».

Questa è l’autentica voce di un critico indipendente, che dice la verità al potere e fornisce un’opinione che è in conflitto con l’autorità: come scrisse su Al-Ahram nel maggio 2001, «non sta a noi decidere se gli intellettuali israeliani abbiano fallito la loro missione. Ciò che importa per noi è la decadenza del dibattito e dell’analisi nel mondo arabo». Ma la sua è anche la voce di un libero “intellettuale newyorkese”, una specie in via di rapida estinzione in larga misura proprio a causa del conflitto mediorientale, rispetto al quale tanti hanno scelto di schierarsi identificandosi con un “noi”. Edward Said non è stato un “porta-voce” convenzionale di una parte di quel conflitto.

Il quotidiano di Monaco ddeutsche Zeitung intitolò il necrologio di Said “Der Unbequeme”, l’uomo scomodo, ma il risultato più duraturo fu quello di mettere a disagio gli altri: per i palestinesi Edward Said era una Cassandra poco apprezzata e spesso irritante, che accusava i loro leader di incapacità, se non di peggio. Per i suoi critici era un parafulmini che attirava su di sé paura e vituperio. Quest’uomo spiritoso e colto divenne un improbabile demonio, la personificazione di tutte le minacce – reali e immaginarie – incombenti su Israele e sugli ebrei. A una comunità ebraica americana pervasa dal simbolismo della vittima, Said ricordava, con un discorso tanto più provocatorio perché finemente strutturato, le vittime di Israele. Con la sua semplice presenza a New York, era un vivente promemoria ironico, cosmopolita, arabo, della ristrettezza di vedute dei suoi critici. […]

La critica sferzante rivolta al mondo arabo era ciò che più premeva a Said: parlare agli altri arabi, fustigandoli senza mezzi termini. Gli attacchi più decisi sono rivolti ai regimi arabi e in particolare all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), accusati di avidità, corruzione, aggressività e cinismo. Ciò può apparire ingiusto – dopo tutto il potere effettivo è in mano agli Stati Uniti, ed è Israele a seminare distruzione tra i palestinesi – ma l’impressione è che Said ritenesse importante soprattutto dire la verità al suo popolo e sul suo popolo, piuttosto che rischiare di cadere in quella «servile elasticità verso la propria parte che deturpa la storia degli intellettuali sin dalla notte dei tempi». […]

Secondo Said, il vero ostacolo a un nuovo modo di pensare in Medio Oriente non era rappresentato da Arafat o da Sharon, e nemmeno dagli attentatori suicidi o dai coloni estremisti, ma dagli Stati Uniti. L’unico luogo in cui la propaganda ufficiale israeliana ha avuto un successo eccezionale e quella palestinese ha fallito completamente è l’America. Gli ebrei americani (un po’ come i politici arabi) vivono in uno stato di «incredibile auto segregazione nella fantasia e nel mito». 

Molti israeliani sono terribilmente coscienti degli effetti che l’occupazione della Cisgiordania ha prodotto sulla loro società (anche se sono un po’ meno sensibili alle conseguenze per gli altri): «Il dominio su un’altra nazione corrompe e distorce le qualità di Israele, lacera la nazione e fa a pezzi la società» (Haim Guri). Ma la maggior parte degli americani, compresi in pratica tutti i politici, non se ne rende affatto conto. 

Per questo motivo Edward Said sottolinea la necessità che i palestinesi portino il proprio caso davanti al pubblico americano, invece di implorare il presidente degli Stati Uniti perché dia loro uno stato. L’opinione pubblica americana conta, e Said trovava disperante l’antiamericanismo disinformato degli intellettuali e degli studenti arabi: «Non è ammissibile starsene seduti in qualche sala riunioni di Beirut o del Cairo a denunciare l’imperialismo americano (e se è per questo anche il colonialismo sionista) senza capire che si parla di società complesse, non sempre pienamente rappresentate dalle politiche stupide o crudeli dei loro governi». 

In quanto cittadino americano, tuttavia, trovava frustrante soprattutto la miopia politica del proprio paese: solo l’America può spezzare questa sanguinosa situazione di stallo in Medio Oriente, ma «gli Stati Uniti difficilmente possono porre rimedio a ciò che rifiutano di vedere con chiarezza». […] Per essere efficace, questo dibattito deve svolgersi in America ed essere condotto da americani. Ecco perché Edward Said era così importante: per trent’anni, quasi da solo, ha mantenuto aperto in America un confronto su Israele, la Palestina, i palestinesi, e così facendo ha fornito un servizio di valore inestimabile, anche correndo un notevole rischio personale. La sua morte apre un vuoto profondo nella vita pubblica americana. Said è insostituibile. 

ARTICOLO n. 3 / 2024

OGNUNA SI SALVI DA SOLA

Il femminicidio di Giulia Cecchettin nel novembre 2023 ha scatenato una reazione universale di preoccupazione e rabbia.

Abbiamo assistito e partecipato tutte a un moto quasi rivoluzionario del modo in cui solitamente si tratta la violenza di genere: per la prima volta dopo anni la parola patriarcato entrava nelle case degli italiani e prendeva vita nei talk show e nei telegiornali, nelle pagine di giornale, nei discorsi tra persone comuni.

La peculiarità del femminicidio di Cecchettin e della sua viralità potrebbe essere individuata in una serie di fattori concomitanti: il 2023 è stato un anno piuttosto violento dal punto di vista dei femminicidi (Scialdone, Tramontano, Malaj, Vefa hanno trovato molto spazio nella narrazione mediatica per la particolare brutalità con cui i loro femminicidi sono stati compiuti) e la preoccupazione è andata man mano crescendo, in modo direttamente proporzionale al numero di donne uccise per mano maschile. Oltre a questo climax mortale, possiamo reputare quello di Cecchettin un femminicidio “per antonomasia”, quasi da manuale: lei una giovane donna con davanti un brillante futuro, la sua famiglia attiva e consapevole, la retorica del bravo ragazzo perpetrata dai genitori dell’assassino, l’avvocato misogino a cui questa si era inizialmente rivolta, la fuga di Turetta, le parole misurate e intelligenti di Gino ed Elena Cecchettin, la disperata consapevolezza dell’epilogo. Era una tragedia annunciata che abbiamo seguito continuando a fare refresh sulle pagine dei giornali online nel tentativo di leggere buone notizie, anche se, per una ormai collaudata prassi, immaginavamo già tutte la fine di quella terribile storia.

Per questo, quando le notizie che speravamo di non leggere mai ci sono apparse sui telefonini, abbiamo pianto e abbiamo stretto i pugni. Era troppo, era tutto troppo: troppo silenzio istituzionale, troppo menefreghismo maschile, troppo poco ascoltate le parole di chi lavora per combattere la violenza maschile contro le donne, ma soprattutto era troppo tardi. Eravamo troppo in ritardo per avviare pratiche salvavita e troppo arrabbiate sapendo che una cura a questo sistema esiste e va messa in pratica. 

Novembre è stato dunque il mese dell’urgenza, un’urgenza che chi si occupa di violenza sulle donne ribadisce da così tanto tempo da essere ormai quasi non quantificabile e che finalmente diventava una materia di interesse comune.

In seguito alle rimostranze e proteste di attiviste, intellettuali, centri antiviolenza, divulgatrici, volontarie, avvocate, politiche e sopravvissute sulla totale assenza di politiche di prevenzione e formazione sul tema, governo e opposizioni hanno cercato di tamponare la crisi mediatica con una serie di raffazzonati provvedimenti.

Provvedimenti all’acqua di rose, che non tengono conto di innumerevoli fattori di rischio e innumerevoli vuoti educativi nelle proposte governative.

Nella fretta di mettere una toppa che accontentasse tutti, soprattutto associazioni cattoliche e antiabortiste, linfa vitale di questo Governo insieme ai partiti-satellite di stampo fascista, il disegno previsto da Valditara sull’educazione scolastica sul tema sembra infatti più una presa per il culo che una misura di contrasto.

Mentre infatti associazioni e fondazioni ribadivano l’urgenza di finanziamenti mirati e costanti, educazione al consenso fin dalle scuole primarie e un’educazione sessuale esaustiva e duratura negli anni delle secondarie, formazione a tappeto di magistratura e forze dell’ordine, collaborazione territoriale con le scuole e il personale sanitario, il Ministro dell’istruzione e del merito congiuntamente a Roccella e Sangiuliano stabiliva un pacchetto di provvedimenti a dir poco bizzarri.

Le iniziative rivolte dai tre al mondo della scuola per contrastare la violenza sulle donne sono infatti riassumibili come una bellissima supercazzola di trenta ore facoltative ed extracurricolari solo per studenti e studentesse delle scuole superiori secondarie. In queste trenta ore, se svolte e se partecipate, il tema della violenza e del consenso verrebbe moderato – non introdotto: moderato. Gli incontri infatti non sono lezioni bensì confronti, in cui è dunque possibile dibattere e opinare la materia, come se fosse una pagina di costume e non un tema socioculturale – da docenti assolutamente non formati sull’argomento.

Ma attenzione, per ovviare alla mancata preparazione del corpo docente sul tema, sono previsti corsi di formazione per renderli adeguati a poter trattare l’argomento con alunni e alunne: in pratica, una partita di domino in cui tutti insegnano qualcosa a qualcuno.

Considerando la precarietà di chi lavora nella pubblica istruzione, la poca sicurezza sul lavoro, le graduatorie, i dislocamenti e la mole di responsabilità che già i docenti si trovano ad avere, dare loro un altro fardello mi sembra incauto quanto naïf: pensate infatti a cosa potrebbe succedere a un insegnante che tocca temi ritenuti scomodi e sporchi dalla stragrande maggioranza delle famiglie italiane. Non mi pare così assurdo poter pensare a ritorsioni e minacce da parte dei genitori (se non vere e proprie violenze fisiche, come già avvenuto fin troppe volte), allontanamenti, provvedimenti delle dirigenze. Insomma, in una situazione già precaria e pericolosa, forse prevedere una figura super partes ed esterna al corpo docenti poteva essere la soluzione migliore su tutti i fronti. Ma lo sappiamo: i soldi sono soldi, e se possiamo risparmiare sulla qualità dei servizi offerti allora perché no. 

Non solo: a inizio progetto, Valditara aveva designato tre garanti per poterlo sviluppare sul territorio ovvero Concia, Zerman e suor Monia Alfieri. Tralasciando la parte transescludente e sicuramente la poca oggettività nel parlare di sesso da parte del clero, la democristianità della proposta è stata troppa un po’ per chiunque e le nomine sono decadute in meno di due giorni.

Valditara, dopo questo ennesimo scivolone, per riacchiappare un po’ di consenso con i suoi si è affrettato a dichiarare che l’educazione prevista dal suo disegno non sarebbe stata sessuale, neanche di genere. Il programma sarebbe infatti deputato solo all’educazione nei comportamenti verso le donne (quali? aprirci la portiera? ribadire che le donne non si toccano neanche con un fiore? chissà).

Così facendo ha rassicurato sì una parte dei suoi sostenitori, ma ci ha anche fatto capire che di violenza sulle donne e contrasto alle sue manifestazioni Valditara non ha proprio capito una benamatissima mazza.

O, nel caso invece avesse compreso la natura del fenomeno, ha deciso di sacrificare la sua risoluzione alle dinamiche di fidelizzazione ideologica degli elettori, delle associazioni ultraconservative e del partito. E questo, a mio modesto avviso, se dovesse essere il vero motivo alla base di questa infelice scelta, sarebbe ancor più mortificante.

Infatti l’educazione sessuale e di genere, l’educazione al consenso, l’educazione al superamento degli stereotipi connessi al binarismo e alla lotta all’omolesbobitransfobia non sono scindibili e sono un pacchetto che non può essere scorporato per accontentare i fanatismi cattolici di una parte di fedelissimi di Lega e FdI. 

La formazione deve necessariamente passare per un sano dialogo sul sesso, che invece sembra far davvero paura a questa coalizione di Governo, che arrossisce ogniqualvolta qualcuno proponga qualche strumento utile per aiutare i giovani ad autodeterminare i propri corpi.

Eppure niente da fare: di ciulare, questo Governo non ne vuol sentire proprio parlare.

Perciò il programma operativo complementare (POC) previsto dalla triade Valditara-Roccella-Sangiuliano non può considerarsi un programma di prevenzione ed educazione.

Il governo però non si è fermato nel cavalcare l’onda rosa che avrebbe potuto portar altri consensi: il ministro Nordio, preoccupato e angosciato dai numeri della violenza di genere, ha infatti pensato di partecipare alla campagna di prevenzione con la creazione di un volantino.

Non un pamphlet, non una pubblicità progresso, non un intervento strutturale: un volantino, ovvero l’oggetto meno consultato e più cestinato del mondo.

Il vademecum – come lo chiamano al Ministero – dovrebbe riassumere i fattori di rischio e vulnerabilità per permettere alle donne di comprendere la tossicità delle relazioni. Gli uomini in questo non sono pervenuti, ma tant’è, dopotutto su un volantino mica c’è così tanto spazio.

Le linee-guida inserite nel dépliant fornirebbero dunque elementi importanti per capire la gravità di un rapporto violento e avere una diagnosi ufficiale: «Come la tosse e la cefalea: spesso non significano nulla ma talvolta possono derivare da una malattia grave, ma curabile» precisa il Ministro al Sole 24Ore. 

Diametralmente a questi due progetti, il governo però ha pensato di inasprire le leggi del Codice Rosso, ovvero tutto quel pacchetto di tutele del nostro codice che servono a garantire pene per chi ha già commesso violenza senza tuttavia essere in grado di prevenirla: difatti, se non è la cultura a cambiare, la legge da sola non potrà fare miracoli nel contrastare questi episodi di bronchite o emicrania, sempre per proseguire con il bizzarro parallelismo di Nordio.

L’opposizione, in questo caos di proposte sconclusionate e formulate in tempi ristrettissimi per cercare di cavalcare l’onda ma dimenticandosi la qualità, e soprattutto la complessità, del tema da sanare, è entrata nel merito della lotta alla violenza sulle donne con una proposta, poi entrata in legge di bilancio, per allocare 40 milioni alla causa, a fronte degli usuali 30 disposti dalle precedenti manovre.

Ma come sottolinea Antonella Veltri, presidente di DiRe, e anche le voci dei CAV indipendenti dalla rete, la somministrazione di questi fondi non solo è momentanea e non sufficiente: è anche frammentaria, vista la poca ottemperanza delle Regioni nella redistribuzione e nelle tempistiche infinitamente variabili. In più, prosegue Veltri, queste risorse non strumentali costringeranno di nuovo i centri antiviolenza a programmare le proprie azioni alla giornata e continuare a far affidamento a donazioni private e non governative.

Insomma, la situazione sul tema della violenza maschile contro le donne a oggi (14 gennaio, giorno in cui scrivo questo mio pezzo) non è assolutamente cambiata e non accenna a migliorare.

Anzi, se possibile da un lato sta perfino peggiorando.

Mentre le donne continuano a morire (da inizio anno le vittime di femminicidio sono già cinque: Elisa Scavone, Ester Palmieri, Delia Zarniscu, Maria Rus, Rosa D’Ascenzo), si rafforza la retorica per cui la prevenzione sia sopravvalutata e si ribadisce una noncuranza delle voci di chi, nel contrasto alla violenza sistemica contro le donne, ci lavora con serietà, preparazione e dedizione.

Credere che chiunque possa scrivere o parlare di violenza di genere è paradossale, ma questa prospettiva è ben radicata: dai talk d’opinione in cui chiunque può dire la propria senza aver studiato il fenomeno a politici che rinnegano il patriarcato senza dunque poter garantire alcuna protezione alle donne.

La violenza di genere è un tema complesso e radicato, difficile da individuare e non arginabile con un volantino, trenta ore facoltative, emissione di fondi una tantum e leggi che intervengono solo quando è spesso troppo tardi.

La violenza maschile contro le donne deve tenere soprattutto conto della questione di genere, della questione di classe, del razzismo, dell’educazione sessuale, di quella al consenso e di quella sentimentale.

Non possiamo dare contentini cavalcando l’indignazione del momento, perché questo non salverà la vita a nessuna donna. 

Queste goffe mobilitazioni servono solo a cercare consenso. E non appena l’onda emotiva si sarà placata, le donne continueranno a morire in silenzio.

E chi ha invece pensato di essere risolutivo con un progetto che fa acqua da tutte le parti continuerà a dormire sogni tranquilli, acclamato dai partiti-satellite e dai fedelissimi di coalizione.

Nessuno scacco matto in questa storia, solo un ennesimo stanco tassello che ci ricorda quanto in Italia la vita delle donne valga un volantino, delle ore facoltative e 40 milioni.

E questo, in soldoni, vuol dire di nuovo una cosa soltanto:
Ognuna si salvi come può.
Ognuna si salvi da sola.

ARTICOLO n. 2 / 2024

UNA CASSANDRA PER IL 2024

Tutto quello che vorremmo che accadesse (e che no)

L’arte delle previsioni è ingrata, perché nonostante sia impossibile indovinare, se si sbaglia si fa comunque la figura degli idioti. Oltretutto viviamo in un periodo in cui è estremamente probabile che si verifichino fatti improbabili – c’è uno stormo di cigni neri all’orizzonte, per usare la celebre metafora di Taleb, ma non conosciamo ancora i loro nomi. Catastrofi climatiche e guerre, per esempio, sono già qui, ed è lecito immaginare che peggiorino, dato che non è stato fatto nulla per evitarle o anche solo per contrastarle al meglio. Il mio ruolo di Cassandra però si limita a un piccolo segmento del futuro che di recente sto osservando con attenzione e su cui sono stato interrogato da The Italian Review: qualche previsione sulle intelligenze artificiali per il 2024. Si tratta pur sempre di un tema enorme e la risposta non può che essere un esercizio narrativo, un piccolo racconto di fantascienza a cortissimo raggio.

Cominciamo con il dire che cosa vorrei che accadesse. Nel 2024 le varie cause legali e impegni legislativi internazionali porteranno alla decisione che i dati disponibili online sono un bene pubblico e che addestrare le IA con materiale protetto dal copyright è lecito (o fair use), ma solo previa tassazione da reinvestire per il bene comune e se il software viene rilasciato open source, ovvero con il codice sorgente disponibile pubblicamente per essere visionato, modificato e distribuito. Le aziende sono di conseguenza fortemente incentivate ad aprire i codici dei loro prodotti, mentre sia i singoli che i gruppi sono liberi di adattare e modificare le IA. Grazie alla massima apertura dei processi, queste tecnologie vengono studiate e comprese con più facilità, divengono meno elitarie e si intaccano un po’ i monopoli tecnologici. Non nel 2024, ma comunque in un futuro non troppo lontano, capiremo come funzionano davvero – perché siamo ancora in una fase simile a quella dell’invenzione del motore a vapore prima della scoperta della termodinamica, sappiamo che funziona ma non esattamente perché. Inoltre il mondo cognitivo delle IA, che è composto dai loro dati di addestramento, si amplia, diminuendo pericolosi bias culturali. Se una IA si addestra solo su giornali di estrema destra, avremo IA di estrema destra. Se si alimenta solo di cultura Occidentale, sarà limitata a questo mondo culturale: con i dati aperti abbiamo la possibilità di avere IA che parlano una lingua che, sebbene limitata, sarà perlomeno modificabile. Grazie all’open source nessuno può porre delle censure alle IA, che può sembrare un male, finché non ci domandiamo: chi decide che limiti mettere e che richieste bloccare? Esiste un’etica universalmente accettata?

Bene, diciamo ora cosa non vorrei che accadesse. In Occidente vince l’idea che sia necessario possedere i diritti per i dati con cui si addestrano le IA, laddove questi non siano liberi. Non in un anno, né con l’AI Act europeo né con le varie cause legali in atto (Getty contro StabilityNYT contro OpenAI eccetera), ma la direzione è questa. D’altra parte molte aziende che lavorano in ambito IA stanno cercando accordi con grandi detentori di copyright, come OpenAI con Springler, o Apple con Condé Nast, NBC News, IAC eccetera. Facendosi scudo delle preoccupazioni di alcuni artisti ma senza alcun guadagno concreto da parte loro, i grossi gruppi editoriali pretendono una fetta del guadagno – e lo ottengono. Questo ovviamente non significa la fine delle IA generative, tutt’altro. Non faccio parte degli entusiasti che vedono l’AGI (Intelligenza Artificiale Generale, quella super potente super umana ecc.) dietro l’angolo, credo anzi che questa idea sia un mix tra una strategia pubblicitaria delle aziende tech per attrarre più investimenti e il sintomo di un pensiero religioso travestito da scientifico. Nel dirlo non intendo assolutamente svalutare il pensiero religioso, anzi, penso proprio che sia il suo rifiuto a far sì che molti tecnologi non si accorgano di riproporlo identico ma nell’ambito sbagliato – come scriveva C.G. Jung, Dio è una necessità psicologica. Nonostante il 2024 non vedrà l’avvento dell’AGI dunque, è comunque immaginabile che ci saranno progressi nello sviluppo delle IA generative. Non iperbolici come quelli a cui ci ha abituato il 2023, ma comunque dei progressi. A questo si aggiunga che gli accordi in atto con grandi detentori di copyright miglioreranno la qualità dei dati utilizzati per il training rispetto a quelli raccolti dalla rete, cosa che forse affinerà la resa di questi software. Il copyright non fermerà queste tecnologie; le renderà solo un po’ più noiose e piene di pregiudizi, perché limiterà ancora di più la varietà culturale del dataset e degli usi. Un altro limite sarà che le aziende cercheranno in tutti i modi di non far creare agli utenti materiale protetto dal copyright, ed è un peccato, perché per farlo bloccheranno anche molte potenzialità “lecite” dello strumento. È illegale fare un dipinto nello stile di Edward Hopper (1882-1967)? Preferisco evitare temi che ignoro, ma è divertente notare che se lo chiedi a ChatGPT dice di no, perché ispirarsi è una pratica comune nell’arte. OpenAI però già oggi impedisce con il suo DALL-E 3 le imitazioni di stili di artisti che non sono morti da ben cento anni, così come quella di materiale simil-fotografico – castrando di fatto quello che credo sia il più potente software text to image. Imitare lo stile di un artista del passato è un esercizio ozioso, ma mescolarne dieci… può diventare interessante.

Forse chi produce questi programmi vuole evitare di essere accusato di violazione del diritto di autore se qualche utente produce materiale protetto, anche se credo che la responsabilità dovrebbe essere di chi fa una richiesta che viola il diritto d’autore. Per esempio, se uso un prompt come “Joaquin Phoenix nei panni del Joker nel film xyz”, trovo ridicolo lamentarsi se il software riproduce un’immagine che assomiglia molto all’attore nei panni del Joker nel film. Sarebbe come dire che, con una matita in mano e l’intenzione di disegnare il Joker, la violazione del copyright sia colpa della matita. O che le matite, se potessero, dovrebbero rifiutarsi di farci disegnare materiale che infrange i diritti di terzi. Tuttavia, se il mio prompt è “un clown per strada” e ottengo la stessa immagine, la faccenda è più complessa, perché potrei non essere a conoscenza del film in questione. Questo errore di prospettiva, sebbene piuttosto banale, è anche pericoloso e credo sia dovuto alla nostra tendenza ad antropomorfizzare l’IA, considerandola autore e non strumento ed eliminando così la responsabilità di chi la utilizza. Le fotografie invece vengono bloccate per la paura dei deepfake, le foto false causa di disinformazione – c’è chi ancora crede che la fotografia rappresenti fedelmente la realtà – ma invece che eliminare questo rischio lo rendono disponibile solo a pochi. Che poi pochi non sono, visto che è già possibile scaricare sul proprio laptop versioni prive di censura di moltissime IA… 

Per quel che riguarda le leggi la questione è molto complessa, e se alle previsioni preferite le analisi vi consiglio questo approfondito articolo, citato anche in un documento dell’Unione Europea più o meno alla voce “che casino questo copyright”. Lo consiglio soprattutto a chi ha la certezza che la situazione sia chiara e definita.

È una fase passeggera, o andrà sempre peggio? È difficile dirlo, la cosa più probabile sono le oscillazioni, che avverranno in base alle cause legali e alla sensibilità del pubblico, motivo per cui nel 2024 le cose peggioreranno per poi migliorare in seguito. Peggiorerà, perché siamo nella fase delle denunce, delle paure e degli assestamenti finanziari. Dopodiché migliorerà, perché verranno fatti accordi economici e perché nessuno vorrà proporre dei software più limitati di quelli Orientali od open source (che non scompariranno neanche nella peggiore delle ipotesi). Ma soprattutto perché le useremo tutti/e.

Le persone di cui sono stati utilizzati i dati ci guadagnano qualcosa? Ovviamente no, tranne forse qualche artista celebre. Un compenso economico realistico a chi produce poche immagini o testi è impensabile. Dato che per sviluppare queste tecnologie servono miliardi di immagini o testi, il contributo dei singoli è minuscolo ed è inimmaginabile l’idea di pagarli anche solo un euro l’uno, perché renderebbe il già alto investimento di partenza impossibile. I dati sono dunque retribuiti una miseria, e a guadagnarci è solo chi li possiede in enormi quantità – Shutterstock ad esempio sta pagando i creatorqualcosa come 0,01 a immagine usata per il training. I dati dei singoli, diluiti nella massa di miliardi di immagini o testi necessari all’addestramento, hanno un peso del tutto trascurabile, e gli accordi economici avranno senso solo con chi ne possiede moltissimi – le aziende a cui gli artisti li hanno ceduti insomma, o i social network a cui abbiamo concesso alcuni diritti d’uso delle nostre condivisioni (si veda il caso Meta). Neanche autori e autrici che non volevano vedersi “copiati” dalle IA tirano un sospiro di sollievo, perché di fatto erano al sicuro anche prima, dato che esistevano già delle leggi in merito. Il discrimine tra copia (illecita) e ispirazione (lecita) non è mai chiaro ed è sempre fonte di dibattito, ma chi ha uno stile più derivativo, ovvero la maggior parte dei creativi (cosa che non ne intacca il valore) sarà facilmente replicabile nonostante i blocchi, perché le IA hanno imparato molto bene certi stilemi dalle tante opere analoghe. Insomma, vessate da nuovi blocchi e censure, con le IA si sviluppano più a fatica degli stili originali, ma è sempre più facile produrre del materiale meno di nicchia, che di fatto rappresenta la fetta più importante del mercato delle immagini.

Va detto però che sto parlando solo di Occidente, perché in Oriente il concetto di autorialità e proprietà intellettuale ha basi culturali molto diverse e le cose potrebbero andare diversamente, come ci insegna il caso del Giappone, dove è stato già dichiarato fair use l’uso di dati protetti per il training. Saremo dunque surclassati dalle IA orientali? Il 2024 non basta per dirlo… ma il sospetto è che questa stretta su copyright e censura negli anni sia destinata ad allentarsi, soprattutto via via che l’uso di IA sarà normalizzato nei nostri flussi di lavoro.

Cassandra nel 2023 ha uno strumento in più: le IA, che sono pericolose per prevedere il futuro ma utili per avere un parere sulle proprie illazioni. Ho dunque approfittato della vasta rete di conoscenze di ChatGPT 4 per chiedergli quale delle due ipotesi gli/le sembrava più probabile (non ho fatto alcun editing):

Tra le due previsioni che hai descritto sul futuro delle intelligenze artificiali, sembra più probabile lo scenario che tende verso una maggiore protezione dei diritti sui dati per l’addestramento delle IA, ovvero la tua previsione “pessimistica”. Ecco perché:

Tendenze Attuali nella Proprietà dei Dati: Storicamente, abbiamo visto un forte orientamento verso la protezione della proprietà intellettuale e dei dati. Le aziende e le istituzioni tendono a salvaguardare strettamente i propri asset di dati, specialmente in un contesto in cui i dati sono sempre più visti come una risorsa preziosa.

Movimenti Legislativi e Cause Legali: Le recenti cause legali e i movimenti legislativi in Europa e negli Stati Uniti mostrano una crescente attenzione alla proprietà dei dati e ai diritti d’autore nell’ambito dell’IA. Questo indica una direzione verso una maggiore regolamentazione e controllo dei dati utilizzati per l’addestramento delle IA.

Interessi delle Grandi Aziende: Le grandi aziende tecnologiche e i detentori di diritti d’autore hanno risorse significative e influenzano notevolmente le politiche e le decisioni normative. La loro tendenza a cercare accordi esclusivi e a proteggere i loro asset è un fattore importante che inclina la bilancia verso una maggiore restrizione nell’uso dei dati.

Difficoltà nel Cambiare l’Approccio Attuale: Passare a un modello in cui i dati sono considerati un bene pubblico richiederebbe un cambiamento radicale nel modo in cui la società considera e gestisce le informazioni. Tale cambiamento, sebbene potenzialmente benefico, affronta molte sfide pratiche e ideologiche.

La tentazione di scaricare il barile sulla IA è forte, ma preferisco mantenere la mia responsabilità, anche perché un errore comune che avvelena molte analisi è proprio quello di antropomorfizzare questi strumenti e dimenticare che la responsabilità del loro operato la possiede chi li produce e li usa. E un errore ancora più comune e più grave è non riconoscere una cosa che facciamo spessissimo, sbagliare. La mia previsione dunque è questa: non andrà né come desidero né come temo, ma in un terzo modo, perché scommettere solo su due scenari significa sottovalutare la complessa creatività del mondo – che, come sempre, trascende quella dei singoli.

ARTICOLO n. 1 / 2024

SI CIAMA ANORESSEA

Pubblichiamo un’anticipazione da Stranieri a noi stessi (Iperborea, traduzione di Claudia Durastanti), da domani nelle librerie. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Nel reparto anoressia, mi venne assegnata una nuova compagna di stanza, Carrie, una dodicenne dai capelli color paglia. Le chiesi «Pensi che sono strana?» tante di quelle volte che alla fine disse: «Chiedimelo un’altra volta e ti risponderò di sì». Conosceva tutte le infermiere del piano e aveva legato con le altre pazienti. Consideravo lei e la sua amica Hava, che stava nella stanza accanto alla nostra, delle mentori. Hava aveva dodici anni ed era bellissima, con i lineamenti affilati e lunghi capelli castani che non si pettinava mai. Aveva qualcosa di stropicciato e selvatico e mi ricordava le eroine nei libri che parlavano della frontiera americana. Teneva un diario dettagliato del suo soggiorno in ospedale, costellato dal linguaggio terapeutico attraverso il quale stava imparando a capire se stessa. Da osservatrice precoce della realtà intorno a lei, inserì una nota rapsodica dopo avermi conosciuto: «Dio santo ha solo sei anni», scrisse. «Ma guardala!» Proseguiva: «Che possa fidarsi di un adulto e liberare i comportamenti infantili nascosti da qualche parte sotto quel corpo teso e rigido. Scommetto che sta solo aspettando che qualcuno le tenda la mano per afferrarla!»

Anche Hava poteva essere stata eccessivamente influenzata dallo spirito dello Yom Kippur. Frequentava la scuola ebraica ed era terrorizzata, così scriveva nel diario, di non essere «iscritta nel libro della vita», il registro di Dio su quelli che meritano di vivere un altro anno ancora. Si dava la colpa per «non aver raggiunto uno stato di santa perfezione».

C’erano altre somiglianze tra noi: anche i genitori di Hava erano invischiati in un divorzio prolungato e ostile e anche loro schernivano gli amici di famiglia obesi. Prendevano sempre in giro gli Ornstein «chiamandoli Oinkstein», scrisse. Anche lei aveva un’amica come Elizabeth: una ragazzina che non solo ammirava, ma che voleva diventare. Quando giocava a casa dell’amica, secondo il diario, le piaceva immaginare che viveva lì e non sarebbe mai tornata dai suoi. La sua grafia era così simile alla mia che di recente, leggendo alcuni passaggi del suo diario, ho avuto un attimo di smarrimento, convinta di leggere parole mie.

Quando conobbi Hava, stava in ospedale da quasi cinque mesi. Sua madre Gail era andata a incontrare la sua classe di prima media e aveva provato a spiegare la prolungata assenza della figlia. «Anche se Hava è molto magra», disse alla classe, «è convinta di essere molto grassa».

Hava, che pesava quarantacinque chili, sembrava non essere certa che la spiegazione della madre potesse aumentare il suo prestigio a scuola. Nel diario elencò «le cose che vorrei mi piacessero di me stessa», in cui figuravano «la mia personalità», «la mia intelligenza, i miei voti» e «i miei sentimenti». Faceva dei sogni in cui «ho supplicato i miei compagni di scuola e all’improvviso ero completamente capita e accettata».

Nella stanza dei giochi, dove chiunque cercava di prendersi l’unico Pac-Man a disposizione, Hava aveva fatto amicizia con una tredicenne incinta di due gemelli. Quando Hava si era lamentata delle regole ferree sul cibo nel reparto anoressia, la madre della ragazza incinta si era lasciata sfuggire che poteva bruciare le calorie con l’esercizio fisico. «È stata lei a convincermi che stasera mi metterò a saltare».

Avevo una venerazione per l’amicizia tra Hava e Carrie, che si consolidava attorno a obiettivi comuni. «Carrie e io ci siamo confrontate le ossa, la pelle, il colore e la magrezza», scriveva Hava. «Se Carrie non fosse qui non so dove sarei finita!» Sembravano affrontare insieme cicli di perdita e aumento di peso. Quando il peso era in risalita, le infermiere davano loro il permesso di visitare il reparto ostetricia e parto, dove Hava e Carrie si mettevano a guardare i neonati. Alcuni avevano «aghi e tutto il resto conficcati dentro, mi ha fatto sentire molto grata», scrisse Hava. 

«Vorrei solo che fosse più facile mangiare senza sentirmi in colpa». Quando le infermiere non guardavano, Hava e Carrie percorrevano i corridoi di corsa finché Hava faticava a respirare; si offrivano anche come volontarie per portare i vassoi dei pasti agli altri pazienti: «Il mio esercizio del giorno», c’era scritto sul diario di Hava.

Non sapevo che l’esercizio avesse a che fare col peso corporeo, ma la sera iniziai a fare salti da ferma con Carrie e Hava. Non mi davo più il permesso di sedermi, in modo da non essere un «sacco di patate», come dicevano loro. Le infermiere facevano il giro delle stanze del reparto anoressia con un carrellino pieno di romanzi young adult. Dopo il mio arrivo iniziarono a includere libri per lettori più giovani, come Gli orsi Berenstain, i libri sul cane Clifford e quelli di Mr. Men e Little Miss, compreso Mr. Strong, un libro su un uomo che mangiava otto uova in camicia per colazione, un dettaglio che mi sembrava mostruoso. Imparai a leggere nella mia stanza di ospedale stando in piedi. Quando entravano le infermiere, mettevo alla prova la mia nuova capacità legando le cinque o sei lettere che vedevo sui loro tesserini.

Le ragazze più grandi sembravano considerarmi una specie di mascotte, un’anoressica in divenire. Le mie idee sul cibo e il corpo erano persino più magiche delle loro. Mangiavo un bagel, ma rifiutavo una piccola ciotola di Cheerios: una O gigante era preferibile a trecento O piccole. Quando Hava e Carrie mi permettevano di guardarle mentre giocavano a Go Fish, volevo sapere (ma mi vergognavo a chiederlo) a quale pesce si stavano riferendo: un pesce nell’oceano?

O uno cotto su un piatto? Non capivo che i pesci nell’oceano diventavano quelli cotti nel piatto e, se intendevano questi ultimi, non volevo avere nulla a che fare con quel gioco. Non riuscivo a stare al passo con Hava e Carrie, che parlavano del loro peso non solo in chili ma anche in grammi. Anche se ha fama di essere un disturbo di lettura, forse l’anoressia riguarda anche la matematica. Quando era anoressica, Mukai, l’accademica giapponese, ricordava di essere entrata in un mondo «numerato», dove «tutto veniva concepito in termini di metri, centimetri, chili, calorie, tempi e così via». Scrisse: «Non condividevo più la cultura, né la realtà sociale, e neanche il linguaggio degli altri. Vivevo in una realtà sigillata in cui le cose avevano senso per me, ma per me soltanto».

Non ero abbastanza sofisticata per la matematica richiesta dalla malattia, ma ero attratta dal modo in cui Hava e Carrie avevano adottato un nuovo sistema di valori, un modo sconosciuto di interpretare le sensazioni fisiche per dare loro un significato. Ogni volta che arrivava una nuova paziente nel nostro reparto, Hava annotava l’altezza e il peso della ragazza sul suo diario. «Devo aspettare che la mia smania di cibo si esaurisca e provare l’esaltazione del successo. L’esaltazione è fantastica». Era come se stesse disciplinando il proprio corpo per un proposito superiore che non nominava mai.

Nel saggio del 1995 The Ascetic Anorexic, l’antropologa Nonja Peters, che era anoressica, suggerisce che la malattia si rivela in fasi distinte: all’inizio la persona anoressica è attivata dalle stesse forze culturali che ispirano le donne a mettersi a dieta. Il processo può essere istigato da un commento banale. Mukai decise di mettersi a dieta dopo aver chiesto a sua madre se da grande sarebbe diventata grassa come la nonna. «Forse sì», le aveva risposto la madre. Mukai si era fissata su quel commento, anche se sapeva che la madre «stava ridendo. Stava scherzando. Lo sapevo». 

Nel suo diario, Hava aveva descritto il momento cruciale, quando un’amica l’aveva definita «di taglia media». I genitori di Hava l’avevano spronata a non ascoltare le amiche, ma lei aveva scritto: «Se pensano che sono grassa allora sono grassa». 

Alla fine, una decisione impulsiva guadagna impeto e diventa sempre più difficile tornare indietro. «Una volta intrapreso il sentiero ascetico, il comportamento ascetico produce motivazioni ascetiche, non il contrario», scrive Peters.

Diversi accademici hanno studiato i parallelismi tra anoressia nervosa e anoressia mirabilis, una condizione tipica del Medioevo in cui giovani donne religiose si astenevano dal cibo affamandosi, un modo per liberare lo spirito dal corpo e diventare una cosa sola con la sofferenza di Cristo. Questa perdita di appetito, si diceva, era un miracolo. I loro corpi diventavano un simbolo così potente di fede e purezza che le donne facevano fatica a riprendere a mangiare, anche quando le loro vite erano a rischio. Lo storico Rudolph Bell ha definito questa condizione «santa anoressia», giungendo alla conclusione che quelle donne avessero una malattia. Ma sembra vera anche l’argomentazione contraria: l’anoressia può dare la sensazione di essere una pratica spirituale, un modo distorto di rintracciare un sé più alto. Il filosofo francese René Girard descrive l’anoressia come qualcosa di radicato «nel desiderio non di essere santa, ma di essere percepita come tale».

Scrive: «C’è molta ironia nel fatto che il processo moderno di scacciare via la religione ne stia producendo infinite caricature.» Una volta stabilita la rotta, è difficile cambiare le regole d’ingaggio. In un diario che tenevo in seconda elementare scrissi: «Avevo una cosa che era una malatia si ciama anoressea». Spiegavo che «avevo l’anoressea perchévoglio essere qualcuno migliore di me».

ARTICOLO n. 103 / 2023

L’ANNO DEL NOSTRO SCONTENTO

L’anno del nostro scontento sembra essere durato solo tre mesi. Una corsa furiosa, in cui ho come l’impressione non ci siano stati grandi momenti di respiro o pura, semplice felicità collettiva: ogni evento, anche piacevole o festoso, si portava dietro un retrogusto amaro che non lasciava spazio alla serenità. Un anno di lutto e rabbia, di conti e preoccupazioni, di silenzi e rumore, di distrazioni di massa e ansie soffocanti.

Gennaio si apre con l’arresto di Matteo Messina Denaro, boss superlatitante di Cosa Nostra sparito per trent’anni e ritrovato in coda in una clinica per sostenere delle analisi. Se da un lato la gioia per aver catturato un assassino a capo di una delle più grandi associazioni di stampo mafioso del mondo è ovviamente irrefrenabile, il vedere così chiaramente che la mafia sia viva, vegeta e funzionante e che la sua omertà sappia ancora nascondere killer come Messina Denaro ha fatto subito pensare che, forse, tutto questo entusiasmo il 2023 non ce lo avrebbe regalato.

Nelle sezioni di cronaca nera, i primi sette femminicidi dell’anno hanno iniziato ad allarmare una grande fetta di società, tra addette ai lavori della prevenzione e risoluzione della violenza di genere e comuni cittadine – il femminile non è casuale. Le donne che hanno perso la vita per mano maschile a gennaio si chiamavano Giulia Donato, Martina Scialdone, Oriana Brunelli, Teresa di Tondo, Yana Malayko, Alina Cozac, Giuseppina Faiella.

A febbraio, mentre la Turchia e la Siria vengono devastate dal terremoto peggiore del secolo, il mondo compiva un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina.

In Italia nel frattempo facciamo i conti con la manifestazione nazionalpopolare più importante della penisola: Sanremo. Pensando di assistere a uno spettacolo di musichette mentre fuori c’è la morte (citando Willie Peyote e Boris a sua volta, sempre su quello stesso palco ma tre anni prima), non sappiamo ancora quanta retorica e cattiva politica verrà fatta nei mesi a seguire su un bacio tra due uomini. 

Mentre ascoltiamo i deliri di Pillon e Adinolfi su Rosa Chemical, il 18 febbraio un commando fascista appartenente a Cassaggì pesta, davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, degli studenti. La preside Savino, dirigente scolastica di un altro istituto fiorentino, diventerà involontariamente antagonista politica di Salvini per aver difeso i valori antifascisti della nostra Costituzione.

Il 26 febbraio a Cutro un barcone con 180 migranti naufraga a pochi metri dalla costa. I morti saranno ufficialmente 94, i dispersi 11. La proposta di un DDL violento e discriminante emesso in seguito alla strage – evitabilissima – avvenuta sulle coste calabresi ci ricorda quanto per il governo alcune vite siano di serie B.

Le donne uccise in femminicidio nel mese di febbraio si chiamavano Margherita Margani, Antonia Vacchelli, Michelle Baldassarre, Melina Marino, Santa Castorina, Stefania Rota, Cesina Damiani, Chiara Carta, Maria Luisa Sassoli, Rosina Rossi, Sigrid Gröber, Giuseppina Traini.

A marzo, e dopo un lungo sciopero della fame, Alfredo Cospito ha ricordato, in una lettera aperta, di quanto il carcere e il 41bis siano diversi in base a chi se li becca.

Continuano le morti nel Mediterraneo, ma in Italia siamo impegnati a multare chi non usa prodotti Made in Italy nei ristoranti all’estero.

L’otto del mese lo sciopero organizzato da Non Una di Meno contro la violenza di genere scende in trentasette piazze italiane. Intanto, Pro Vita e Famiglia, associazione antiabortista protetta da FdI, affigge manifesti contro l’autodeterminazione dei corpi con utero in diverse città del Centro-Nord. 

Le proteste degli attivisti per il clima di Ultima Generazione fanno impazzire mezza Italia ma non per il motivo giusto: nessuno li ascolta, hanno tutti paura della vernice e nessuno ha paura di un pianeta al collasso. Le pene contro di loro aumenteranno nel corso dell’anno, a dismisura. Per chi balla ai rave e per chi vuole un mondo migliore il rischio è fino a sei anni di carcere.

Le donne uccise per femminicidio nel mese di marzo sono quattordici. I loro nomi erano: Rosalba Dell’Albani, Iolanda Pierazzo, Iulia Astafieya, Rossella Maggi, Petronilla De Santis, Rubina Kousar, Maria Febronia Buttò, Pinuccia Contin, Maria Bella, Francesca Giornelli, Agnese Oliva, Zenepe Uruci, Carla Pasqua, Alessandra Vicentini.

Aprile si apre con le preoccupazioni politiche sulla figura dell’armocromista nello staff di Elly Schlein, mentre in Italia si registra il calo più pesante degli stipendi da dipendente degli ultimi quattordici anni. 

Viene presentata la Venere influencer, nuova musa di Santanché e del Ministero del Turismo: costata nove milioni, ha il pregio di esser stata l’operazione di pubblicità al nostro paese più brutta mai realizzata.

Lega e FdI strumentalizzano una violenza sessuale avvenuta il 25 aprile ai danni di una minorenne, in quella che sembra essere una campagna elettorale mai terminata.

Il Dalai Lama bacia un bambino, scoppia lo scandalo ma nessuno ne parla più dopo qualche giorno.

Spopola il “Caso Enea” su giornali, social e TV: il bambino dato in affidamento alla Culla per la vita dell’ospedale Mangiagalli attira le attenzioni morbose di stampa e politica; è caccia alla madre, è tutto un mangiare sui diritti delle donne.

Ma non è l’unica caccia di quel periodo: dopo la morte di Andrea Papi, per Ministri, Presidenti di regione e politici random è fondamentale trovare e uccidere l’orsa JJ4. Il TAR di Trento ne sospenderà l’abbattimento a maggio.

Lollobrigida parla pubblicamente di sostituzione etnica.

La Russa dichiara che l’antifascismo non sia previsto dalla nostra Costituzione.

Da gennaio sono 358 i morti sul lavoro.

Le donne uccise per mano maschile nel mese sono: Emanuela Candela, Sara Ruschi, Brunetta Ridolfi, Rosa Gigante, Anila Ruci, Stefania Rota, Barbara Capovani, Wilma Vezzaro.

Maggio inizia con una copertina di Panorama sulla sostituzione etnica annunciata da Lollobrigida il mese precedente. Intanto, il Presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, assume l’ex-terrorista nero Marcello De Angelis alla comunicazione della Regione. 

Saviano vince in tribunale contro Sangiuliano ma iniziano i lavori di un altro processo che lo vedrà come imputato. Chi lo denuncia per diffamazione è la Presidente del Consiglio.

Iniziano gli attacchi alle vecchie direzioni Rai: Andrea Vianello viene preso di mira per una foto che non avrebbe commentato con prontezza durante un giornale radio. A fine mese, il nuovo CDA lo spedirà in esilio a San Marino, dove il giornalista sta continuando a fare ciò che da sempre fa: ottima informazione.

Le emittenti televisive e le radio pubbliche iniziano a cambiare drasticamente forma, annullando quasi tutte le voci ritenute scomode: Saviano si vedrà cancellato un programma sulla camorra già registrato; Annunziata, Fazio, Bortone, Augias e Gramellini lasciano la Rai. Radio1 non vedrà riconfermati i palinsesti de Il mondo nuovo e Forrest: nessuno tra autori e conduttori ne ha mai avuta notizia diretta dalla nuova Presidenza.

Nelle scuole iniziano a manifestarsi saluti romani in modo spontaneo. 

Barbareschi annuncia su Repubblica che le donne che denunciano abusi nel mondo dello spettacolo sono in cerca di notorietà. 

Lega e FdI si astengono dal voto di adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul.

L’Emilia-Romagna vive una delle alluvioni peggiori del secolo; la ricostruzione del territorio colpito è ancora in corso.

Viene dato il primo Sì alla Camera per il progetto del ponte sullo Stretto.

Roccella contestata al Salone del Libro parla di censura nei suoi confronti, mentre la Digos trascina via e scheda manifestanti pacifici.

Bruna, una donna trans di 41 anni, viene brutalmente pestata dalla polizia locale di Milano. 

Le donne uccise in femminicidio nel mese di maggio sono: Antonella Lopardo, Rosanna Trento, Danjela Neza, Jessica Malaj, Stefania Monte, Anica Panfile, Yirel Natividad Peña Santana.

Giugno comincia con il femminicidio di Giulia Tramontano, giovane donna incinta uccisa dal compagno. La destra cercherà – e cerca ancora – di strumentalizzare questa morte per far passare una legge in cui è previsto il riconoscimento giuridico del feto; legge devastante per l’autodeterminazione e accessibilità alla 194, che in questo 2023 viene messa costantemente a dura prova. La reazione al femminicidio di Tramontano è molto forte: qualcosa si rompe nella collettività e trasversalmente la violenza di genere diventa un tema urgente. 

Oltre a Giulia Tramontano, nel mese di giugno troveranno la morte per mano maschile anche Ottavina Maestripieri, Pierpaola Romano, Giuseppina De Francesco, Marianna Formica, Maria Brigida Pesacane, Floriana Floris, Cettina De Bormida, Rosa Moscatiello, Svetlana Ghenciu, Margherita Ceschin, Laura Pin, Patrizia Netti, Maria Michelle Causo.

A Pavia un ragazzo gay viene minacciato e insultato davanti a una folla inerme.

A Verona vengono arrestati cinque poliziotti per torture e pestaggi avvenuti in caserma.

La Regione Lazio revoca il patrocinio al Pride di Roma. Regione Lombardia a quello di Milano. 

Lavoratori e lavoratrici di Mondo Convenienza avviano uno sciopero per l’applicazione completa e immediata del contratto nazionale di categoria del settore logistica che durerà 160 giorni, condito di sgomberi e molti manganelli. 

Noi parliamo solo, sempre, ovunque della diatriba Fedez/Luis Sal e del limone in discoteca del cantante dei Måneskin. 

Muore Silvio Berlusconi: viene annunciato lutto nazionale. 

Trump viene messo in stato di fermo.

In Italia esplode lo scandalo delle agenzie di comunicazione: abusi, molestie e chat dell’orrore nel mondo dei creativi. Nessuno dei responsabili viene allontanato.

A Padova vengono impugnati dalla Procura 33 atti di nascita di figli con due madri: è l’inizio della definitiva cancellazione delle già poco tutelate famiglie omogenitoriali.

Luglio si presenta con l’uccisione in Francia di un diciassettenne di origini algerine da parte di un poliziotto in quello che, ripreso dalle fotocamere dei telefonini, è un chiaro abuso di potere. Si avvia una raccolta fondi per il poliziotto che, in poche ore, raggiunge il milione e mezzo. In questa ondata europea di razzismo e islamofobia (in Svezia vengono bruciate copie del Corano), gli sbarchi in Italia raggiungono i dati più elevati dal 2017. Le morti in mare, da inizio anno, ammontano a più di 2.000. Nei CPR della penisola la condizione delle persone migranti è ormai disumana e le violenze salgono quotidianamente.

A Limbiate viene annullato un evento – privato – per donne musulmane in una piscina – privata – dopo pressioni da parte della Lega. 

Diventa pubblica la notizia della denuncia per stupro contro il figlio del Presidente del Senato, Leonardo La Russa. Tra le dichiarazioni di Ignazio La Russa, immunità di rimando e SIM intestate al padre, il malcontento legato a un comune senso di ingiustizia si diffonde rapidamente. La ragazza che denuncia la violenza sessuale verrà ricoperta di insulti e vittimizzazione secondaria, soprattutto in fase processuale.

Iniziano ad avere copertura mediatica tutta una serie di sentenze-horror su reati di violenza contro le donne: palpeggiamenti cronometrati, grassofobia, donne ridicolizzate.

Il Governo si dimentica di chiedere la quarta rata del PNNR. Verrà sbloccata in novembre grazie alla Commissione UE.

Il caldo record raggiunto nel mese di luglio viene sottovalutato da giornali di destra ed esponenti del Governo. 

Muore Andrea Purgatori a causa di una malattia fulminante. I No Vax incolpano i vaccini per il Covid.

Viene liberato, dopo quasi tre anni di carcere, Patrick Zaki. Rifiuta il volo di Stato per il rimpatrio: verrà attaccato per questa sua scelta dalla politica e dall’opinione pubblica.

Esce il film Barbie: comitive di donne di tutte le età invadono i cinema, rendendolo il blockbuster-simbolo dell’estate. La critica maschile lo stronca e infantilizza il fenomeno.

Le donne uccise in femminicidio sono Giuseppina Caliandro, Ilenia Bonanno, Benita Gasparini, Mariella Marino, Norma Ricini, Vera Maria Icardi, Marina Luzi, Angela Gioiello, Mara Fait, Sofia Castelli.

Ad agosto il dibattito pubblico si concentra ancora su Barbie

La Sicilia e il Sud Italia vivono momenti di terrore con incendi dolosi su gran parte del territorio: bruciano quasi 60.000 ettari; le influencer fanno foto dalle loro barche sorridendo. Al Nord la grandine devasta interi territori. Meloni chiama il fenomeno “imprevedibile”, non “crisi climatica”.

Salvini promuove un protocollo per l’uso dei taxi gratis fuori dalle discoteche: è un flop.

Portanova, condannato in primo grado a sei anni per stupro, viene riammesso in campo dalla Reggiana.

Il 10 agosto muore Michela Murgia, lasciando un vuoto incolmabile. Il funerale a Roma vede centinaia di persone in piazza del Popolo per l’ultimo saluto all’intellettuale femminista più preziosa degli ultimi anni.

Viene abolito il reddito di cittadinanza. Secondo i dati ISTAT un quarto della popolazione italiana è a rischio di povertà ed esclusione sociale.

La Venere influencer del Ministero del Turismo riappare sui social ricordandoci che quei nove milioni per il progetto non sono stati buttati: ogni tanto qualcuno spippola sul profilo Instagram della campagna Open to meraviglia.

Due violenze sessuali particolarmente feroci segnano il mese di agosto: lo stupro di gruppo di Palermo e quello di Caivano. In seguito a questi eventi ci saranno passerelle politiche, strumentalizzazioni televisive in Rai della sopravvissuta palermitana, dichiarazioni sessiste di Giambruno e Meloni, ondate di maschilismo nell’opinione pubblica.

Il libro autopubblicato del generale Vannacci, un bignamino di orrore anti LGBTQ+, sessista e razzista, chiamato Il mondo al contrario, spopola nelle vendite.

Il mugshot di Trump sotto arresto diventa virale.

Le donne morte di femminicidio sono Iris Setti, Maria Costantini, Celine Frei Matzohl, Anna Scala, Vera Schiopu.

Settembre 2023 è stato il mese più caldo di sempre secondo il bollettino di Copernicus.

Nel testo, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, del decreto Cutro emerge la possibilità per alcuni migranti di versare 5.000 euro per evitare le attese nei CPR. A Catania il tribunale reputa questo decreto illegittimo. Inizierà una massiccia opera di diffamazione da parte di Salvini e della Lega contro la giudice Apostolico, che non ha confermato il fermo di quattro migranti nella struttura di Pozzallo.

Caos in seguito allo spot Esselunga sulla famosa pesca. Ne parlano tutti, pure la Premier.

Muore Matteo Messina Denaro, sui social esplode il cordoglio per il boss camorrista.

Al rifugio Cuori Liberi, i maiali ospitati e isolati causa malattia vengono uccisi dalla polizia. I manifestanti, presenti per evitare la soppressione, vengono caricati e portati in questura. 

Crippa, vicesegretario del Carroccio, attacca Christian Greco, direttore del museo egizio di Torino, perché lo ritiene “razzista contro gli italiani”.

La Corte Costituzionale sblocca il processo Regeni.

Sempre a Torino, la polizia carica violentemente una manifestazione di studenti e studentesse scesi in strada per contestare la visita in città di Meloni. «Basta, hanno rotto il cazzo», dice il dirigente di polizia prima di dare l’ordine di manganellare.

Le donne uccise in femminicidio sono tredici e si chiamavano Rossella Nappini, Marisa Leo, Nerina Fontana, Cosima D’Amato, Maria Rosa Troisi, Rosaria Di Marino, Liliana Cojita, Manuela Bittante, Anna Elisa Fontana, Monica Berta, Carla Schiffo, Klodiana Vefa, Egidia Barberio.

Ottobre si apre con il violento attacco terroristico di Hamas al rave party israeliano, in cui vengono uccisi 260 partecipanti. Quel 7 ottobre le vittime israeliane – secondo le ultime stime – saranno 1.200.

L’assalto darà avvio a un rapido e brutale inasprimento del conflitto che, in due mesi e mezzo, porterà il genocidio del popolo palestinese a una terrificante impennata: in due mesi Israele sgancerà più di 12.000 bombe sulla Striscia di Gaza, uccidendo più di 20.000 civili e commettendo crimini di guerra reiterati nel silenzio più totale del nostro paese, che si astiene in due votazioni ONU sul cessate il fuoco. 

I morti sul lavoro salgono a 657 da inizio anno, ma noi sui social litighiamo per le influencer, che nel frattempo diventano sempre più ricche.

Un TikToker bolognese di 23 anni si toglie la vita in diretta social. Molti utenti riprendono la scena e la vendono a siti del dark web per ricavarci denaro.

Nella legge di bilancio compare il bonus secondo figlio, fortemente voluto da Meloni: le donne con due o più figli non pagano contributi a carico del lavoratore perché avrebbero già ampiamente “contribuito alla società”. Come? Figliando. Le altre? Fanculo.

Meta inizia a censurare la parola Palestina e oscurare contenuti provenienti da Gaza. 

Giorgia Meloni pubblica un post social per annunciare la rottura con Giambruno in seguito alle intercettazioni mandate in onda da Striscia che ritraggono il giornalista in atteggiamenti riconducibili a molestie sul posto di lavoro. 

La Lega si oppone alle proposte di corsi di educazione sessuale e affettiva nelle scuole.

Le donne morte di femminicidio sono Anna Malmusi, Piera Paganelli, Eleonora Moruzzi, Silvana Aru, Concetta Marruocco, Marta Di Nardo, Antonella Iaccarino, Giuseppina Lamarina, Pinuccia Anselmino, Annalisa D’Auria, Etleva Kanolija. 

Novembre è stato un mese di rabbia manifesta.

In Avanti Popolo, trasmissione condotta da Nunzia de Girolamo, viene intervistata la sopravvissuta allo stupro di gruppo di Palermo. La puntata è un ricettacolo di vittimizzazione secondaria e luoghi comuni pericolosi. In una lettera aperta alla Rai, sottoscritta da centinaia di associazioni, scrittrici, attiviste, avvocate e volontarie di CAV, viene chiesta adesione alle direttive di viale Mazzini in merito alla narrazione della violenza contro le donne e allineamento alla Convenzione di Istanbul.

In Toscana un’alluvione colpisce Campi Bisenzio, Prato e parte della Piana. I soccorsi faranno affidamento in gran parte alle brigate volontarie, molte coordinate dal collettivo fabbrica GKN. Nel frattempo, mentre con l’alluvione in Emilia le voci social si erano esposte e avevano contribuito ad aiutare le popolazioni colpite nell’eliminazione dei detriti dalle case, su Instagram si parla del botox delle influencer. In particolare, crea molta indignazione l’uso della tossina botulinica per ridurre l’ipertrofia del massetere.

Il 12 novembre scompare a Vigonovo Giulia Cecchettin. Con lei sparisce anche Filippo Turetta, ex-fidanzato. Gino Cecchettin, padre di Giulia, chiede che nella denuncia per la scomparsa della figlia non venga segnalato l’allontanamento volontario, in quanto testimoni avrebbero assistito a una lite violenta in un parcheggio di Vigonovo tra Turetta e Cecchettin. La denuncia viene ascritta dalla polizia di Vigonovo come allontanamento volontario. Questo impedirà le perquisizioni in casa Turetta per altri sei giorni. Tutta Italia sapeva già l’epilogo tragico, confermato il 18 novembre con il ritrovamento del corpo della giovane. Turetta verrà arrestato in Germania il giorno successivo. La rabbia per questo femminicidio esplode nel paese, con manifestazioni in tutte le città e una partecipazione massiccia al raduno nazionale organizzato da Non Una di Meno a Roma il 25 del mese. Politica e opinione pubblica prendono di mira Gino ed Elena Cecchettin che, per la prima volta dopo tanti anni, parlano in TV di patriarcato e cultura del possesso. L’onda di violenza che travolge la famiglia non si ferma neanche davanti al lutto.

Il Governo inizia a pensare a delle soluzioni del fenomeno endemico della violenza maschile contro le donne. Vengono proposte 30 ore annuali di educazione affettiva facoltative previo consenso dei genitori e solo per le superiori, un opuscolo, e nuove proposte di legge che di prevenzione non dicono niente. Il dibattito sul tema si fa caldo, molti politici e intellettuali di sesso maschile urlano dalle televisioni che il patriarcato non esiste. Libero titola un suo numero Caccia al maschio.

Lollobrigida ferma un treno Frecciarossa per scendere a Ciampino.

Un po’ chiunque se la prende con la musica trap.

Salvini precetta la qualunque – semicit. de Il Manifesto.

Le donne uccise per mano maschile nel mese di novembre, oltre a Giulia Cecchettin, sono: Michele Faiers Dawn, Virginia Petricciuolo, Patrizia Vella Lombardi, Francesca Romeo, Rita Talamelli, Meena Kumari, Vincenza Angrisano.

Dicembre è il mese dei resoconti e dei pandori. 

L’Antitrust multa Chiara Ferragni per la truffa Balocco, relativa alla vendita di pandori brandizzati dalla influencer. La comunicazione faceva capire che il ricavato sarebbe andato in beneficenza per i bambini malati di tumore, in realtà era un’adv per la quale Ferragni ha percepito un milione di euro. 

Ad Atreju Meloni attacca Saviano, accusandolo di essersi arricchito grazie alla Camorra, e procede a individuare nuovi nemici immaginari: raver, immigrati, intellettuali, influencer.

Salvini difende Roggero, condannato per l’esecuzione – con un revolver detenuto senza permesso – di due ladri fuori dalla sua gioielleria. Anche il generale Vannacci gli dimostrerà solidarietà.

Al funerale di Giulia Cecchettin il padre Gino fa un discorso meraviglioso sulla responsabilità collettiva verso la violenza di genere. Verrà strumentalizzato e attaccato da più lati.

Durante il processo per lo stupro di gruppo contestato a tre imputati tra cui Ciro Grillo, l’avvocata Cuccureddu interroga la denunciante ponendole domande ricolme di vittimizzazione secondaria. Si giustificherà dicendo che non è possibile costringere una donna a praticare un rapporto orale non consensuale. 

Mentre ci occupiamo ormai solo di pandori, prosegue lo sciopero nazionale di medici e veterinari che si oppongono a una manovra di Governo killer verso il Sistema Sanitario Nazionale e chiedono nuove assunzioni e rispetto per la professione. 

Nel frattempo, prosegue la protesta degli studenti universitari per il carovita, iniziata a maggio: tutti gli emendamenti fatti pervenire su borse di studio, fondo affitti e alloggi universitari sono stati bocciati in manovra.

Quaranta sono i milioni previsti dalla legge di bilancio destinati ai centri antiviolenza: non sono, nuovamente, fondi strutturali, e rischiano di essere persi nelle distribuzioni regionali e figurare come un intervento una tantum.

Le donne morte di femminicidio fino al 22 dicembre, ovvero il giorno in cui sto scrivendo questo lungo pezzo, sono: Rossella Cominotti, Fiorenza Rancilio, Vanessa Ballan, Iride Casciani.

La selezione delle notizie che ho scelto e inserito – e sottilmente commentato – in questo mio articolo è a mio avviso emblematica nel raffigurare l’anno appena trascorso, o meglio: l’emotività che ci accompagna verso l’ingresso nel 2024.

Tra eventi internazionali devastanti come il genocidio palestinese, politiche interne divisive e polarizzanti, cronaca sempre più morbosa e distrazioni di massa, mi pare evidente che il clima che ci avvolge non sia dei migliori.

Sottovalutare il rischio di queste continue tensioni è un danno che temo si manifesterà ampiamente nel corso del prossimo anno.

La politica del divide et impera non funziona, abbiamo dei precedenti storici che lo dimostrano chiaramente. E la continua necessità del Governo di trovare nemici per dimostrare onore (molti nemici, molto onore, diceva qualcuno nel ventennio fascista) è un altro metodo fallimentare: non ci sono nemici tra quelli scelti in questi mesi dagli esponenti di partito o dai DDL emessi; ci sono cittadini e cittadine i cui diritti dovrebbero essere tutelati e ampliati, altrimenti il nostro scontento diventerà violenza. 

E con la violenza nessuno è al sicuro, soprattutto la nostra democrazia.

Mi pare chiaro che ci attenderanno anni difficili, per chi lavora e non viene pagato decorosamente, per chi sciopera e viene manganellato, per chi vuole avere libertà di dissentire o semplicemente vuole vedersi riconosciuti diritti sui propri corpi e le proprie famiglie.

L’anno del nostro scontento non ha colore partitico: siamo tutte e tutti in questo limbo di tensione, come nell’attimo di quiete che precede la tempesta.

Il mio augurio è che chi ci governa intercetti in tempo questa escalation di tensione e faccia i doverosi ragionamenti sulla comunicazione politica scelta.

Perché odio chiama odio, specialmente in un paese stanco, affamato e arrabbiato come il nostro.

Ma se la decisione, come ahimè mi sembra, è quella di portare avanti proprio politiche d’odio, allora tenetevi in forma: il 2024 sarà un anno movimentato.

ARTICOLO n. 102 / 2023

LETTERA A MARLENE DIETRICH

lettere d'amore

Pubblichiamo un estratto dal volume Lettere d’amore. Carteggi di scrittori del Novecento (Il Saggiatore). Prefazione di Massimo Onofri.

28.11.1938

da Parigi a New York, Hotel Waldorf Astoria

[Intestazione della lettera: Hotel Prince De Galles.]

I giorni sono brevi e le notti lunghe in novembre, tesoro – di giorno ci si può dar molto da fare, andare d’attorno e combinare qualcosa – ma quando il primo fremito del crepuscolo prende ad aleggiare dietro l’Arc e la prima pubblicitàluminosa s’accende sui Champs Elysées, il mio cuore è perduto e non può fissarsi da nessuna parte e corre dietro ai suoi sogni.

Corre con te da Maggy Rouff e Knize, da Fouquet, corre a Chartres e alla mostra persiana e al Louvre – dai Corot e dai Daumier, dai Forrester e dai Kolpe [Il riferimento è al paroliere Max Colpet.] e al cinema e per conto mio anche dai Montel, corre, corre – 

Carissima, fuggitiva ed eterna come un cuore – batti, cielo al di sopra della piccola cerchia di carri che nascondono sentimenti zingareschi – cielo come quello nel quadro di van Gogh al Louvre – tesoro, è stato bello insieme a te! Questa estate piena, piena di luce e mare e progetti e giovinezza! Siamo divenuti giovani l’uno accanto all’altra, dolcezza, giovani e vitali, e il futuro è diventato di nuovo una briglia tesa nelle nostre mani, una coppia di briglie lunghe e lucenti, protese nell’incertezza e in quel che verrà.

Era bello vederti divenir giovane, tesoro, e vedere fiorire in te la baldanza (Übermut), serena e tranquilla che Nietzsche chiama danzante Über-Mut, l’anima che trascende se stessa nella danza. Sei andata come una nave si distacca senza rumore dalla spiaggia – colma di un buon carico, accudita e protetta da mani meticolose nel cantiere della lunga estate; con buoni venti e vele gonfie – Ma tu sei lontana, è così. Non posso darmela ad intendere – di giorno beh, ancora va – ahimè, veramente non va mica tanto. È davvero proprio senza senso, è una cosa inutile che noi siamo separati – la sera sale sopra i tetti delle case e si appoggia con i suoi rossi occhi alla finestra – domanda delle domande, unica domanda, domanda della sera e della notte – stupida domanda: dove sei, ti riavrò presto, e mi ami? Quando sei partita l’ultima volta ho pensato che ti amavo – ora so che era solo un amore parziale – non credo che ti potrò più amare come ora – solo ora ti amo e niente è più al di fuori – tutto si chiude in te

Adieu, parto subito con il puma grigio [La Lancia Dilambda di Remarque] per Ginevra – Adieu, adieu mia amata, mia unica – 

ARTICOLO n. 101 / 2023

L’ARTE DI ESSERE NATI

conversazione con Marco Marino

Come essere grati

Il racconto di questa conversazione comincia dalla sua fine. Con Antonio Moresco siamo seduti dentro un bar di Piazza Oberdan, a Milano, che si chiama 12oz Coffee Joint: lui ha provato un brownie, io sto bevendo una Coca Zero. Fuori ha cominciato a piovere; noi stiamo parlando di gratitudine. «Capitava ogni due mesi» mi racconta Antonio, «la portinaia mi diceva che a portarli era stata una donna. Ogni volta, lasciava un mazzo di fiori e se ne andava. Aveva provato a trattenerla, a dirle che ero appena rincasato, che sarei stato felice di vederla, ma lei correva sempre via. Dalle descrizioni avevo intuito chi era, e mi chiedevo perché facesse così; prendeva un treno da Vicenza, arrivava in stazione, passava a comprare quei fiori, li lasciava in portineria per poi ritornare subito in stazione».

La donna di cui parla è Alessandra Saugo, l’autrice di Come una santa nuda (Wojtek Edizioni, 2023), da cui gli ho appena letto ad alta voce un breve brano: «John? E la gratitudine? Basta niente che sento venire su la gratitudine. Succede anche a te? A me ma proprio un fenomeno travolgente, invade tutto, si dilunga, permea». Era stato Antonio ad aiutarla a pubblicare il suo primo romanzo, Bella pugnalata (Effigie, 2010), uno dei tanti manoscritti portati dal vento. Lo aveva travolto una scrittura da vera erinni della letteratura, sulla pagina esplodeva di quella «grazia violenta» propria delle figure tragiche di Eschilo: era impossibile restarle indifferenti, ma soprattutto era ingiusto che la forza della sua nuova lingua continuasse a restare nell’ombra, tristemente sepolta dai rifiuti editoriali. Dopo quella pubblicazione, però, la vita letteraria di Alessandra Saugo non raggiunge il successo sperato, continua il travaglio delle sue pubblicazioni e l’indifferenza dei grandi editori, che la confinano in un angolo sempre più oscuro e silenzioso, di cui adesso si trova traccia solo tra le righe dei suoi diari («John, il rumore del mondo… I soloni concionanti nei festival culturali. Gli scrittori parlanti. I pensatori di grido. John, non ce l’ho fatta. E sai, la vera saggezza è starsene fuori dal mondo senza inacidire»). Muore nel settembre del 2017, all’età di quarantacinque anni, per un tumore incurabile; Antonio non ha mai smesso di occuparsi della sua opera. 

Come eludere la mistica del fallimento

D’altronde, nelle Lettere a nessuno (Mondadori, 2018), in cui registra in forma epistolare i sentimenti di rabbia, frustrazione e miseria per i suoi quindici anni di rigetto, il vero crimine che l’autore degli Esordi condanna è il crimine dell’indifferenza: è l’indifferenza il peccato originario che ci ostacola dall’accorgerci dell’altro, capirlo, farlo nostro. «Anche io ho avuto una lunga rincorsa… Di quei lunghi quindici anni non voglio farne, però, una mistica del fallimento o un titolo di merito. Non mi piaceva la letteratura a me contemporanea ed essere rifiutato, all’inizio, per me era un dramma. Eppure, sono sopravvissuto, e sono sopravvissuto pensando che quel rifiuto fosse un dono, perché non essere accettato mi ha permesso di stare ancora più vicino a me stesso, di coincidere totalmente con me stesso e la mia scatola nera. Di fare, di quella buia coincidenza, scrittura». Ci sono alcune stelle fisse nel suo cammino, una letteratura privata di parole che legge e continuamente si ripete, che gli restituiscono un senso di fratellanza, un’idea di patria in cui essere accolto: Dostoevskij che nei Fratelli Karamazov dice che negli eccentrici si trova il midollo dell’universo; Cristo che nel Vangelo di Matteo parla della pietra scartata che diventa la pietra angolare «meravigliosa ai nostri occhi»; Van Gogh che nelle sue lettere al fratello Theo confessa la sua crescente diversità dal resto del consesso umano. «Non potevo sentirmi solo; avevo dei fratelli e delle sorelle, in tutte le epoche e in tutto il mondo, di cui condividevo la fiamma: in loro stavo e vivevo». 

E infine, dopo il dono della rincorsa, arriva lo slancio e il volo. Nel 1998 Feltrinelli pubblica Gli esordi, che comincerà una trilogia completata poi con Canti del caos (2009, Mondadori) e Gli Increati (2015, Mondadori). Già dai titoli è possibile desumere la centralità, per Antonio, del tema della nascita, del cominciamento, del principio. «Il mio lavoro si muove molto attorno al binomio genesi/genetica: due spazi apparentemente diversi, uno spirituale, l’altro biologico, in cui spesso si crede che i giochi siano già stati fatti. A un certo punto veniamo al mondo, accade e basta, e per molti la loro storia finisce nel momento in cui è iniziata. Eppure, il nostro patrimonio di cellule è la prova del contrario, che la vita, nel momento in cui esordisce, è un continuo processo di trasformazioni, la creazione è un’azione in cui non si estingue mai il dinamismo: le nostre cellule mutano ripetutamente, muoiono e risorgono, ricreano tessuti, ridanno vita. Sono d’accordo con i lettori che hanno usato l’idea di “staminalità” per parlare della mia visione, la forza di queste cellule equipotenziali è la forza della creazione che si dissemina in tutte le espressioni dell’umano».

Come vincere la morte

In che modo, dove prende luogo questa staminalità, sono le domande che gli rivolgo, quasi interrompendolo. «Innanzitutto, bisogna avere coscienza di un fatto imprescindibile: essere vivi. A tutti quelli che mi accusano di essere un vitalista, rispondo sempre di accontentarmi di essere un vivente. Se lo consentono… Se non lo consentono, resto vivo lo stesso». E poi? «Bisogna riuscire a sbalordirsi. Lo sbalordimento è, più o meno, tutto. Molti si proclamano disincantati; ecco, io invece sono incantato. Se non sei incantato, non puoi vedere il mondo; se non eserciti l’incanto non sperimenti la vita. Se lo vedi con incanto, tutto ciò che coglie il tuo sguardo ti ritorna con una risoluzione incredibile, e ogni evento assume un senso di novità inaudita. Pensiamo alle migrazioni dei popoli. Bisogna osservarle come qualcosa di epocale, come uno stravolgimento per cui non servirà un muretto qualsiasi né le tecnologie del momento, non servirà qualcosa che separa, scherma e dà l’impressione di proteggerci. Quel movimento di corpi è la vita stessa. Accorgerci della vita significa vincere la morte». Non mi resta che chiedergli come questo diventa, poi, scrittura. «Me lo sono chiesto a lungo: come hai fatto a stare dentro la trilogia per 35 anni? Perché mi ingannavo? Perché avevo quella sapienza?». In che senso, ingannarsi? «Sì, ingannarmi era diventato l’unico metodo possibile per scrivere, se non mi fossi ingannato non ce l’avrei mai fatta a scrivere Gli esordi. Come ti dicevo, avevo bisogno di vedere il mondo, di raccontarlo a modo mio. Ma avevo iniziato ad avere delle forti crisi. Pensavo che non ce l’avrei fatta, spergiuravo, rivolto non so a chi, di farmi finire, che dopo avrei smesso di scrivere. Poi mi sono imbarcato nel secondo libro, e con lui sono sopraggiunti i problemi cardiaci, i medici mi dicevano di smettere. Io, però, ho sempre proseguito».

Come rompere lo specchio

Mentre Antonio parla, io sfoglio Diario del caos (Wojtek, 2022), preziosa raccolta di appunti di lavorazione tra il primo e il secondo libro, tra Gli esordi e I canti del caos. Tutto sembra chiaro dentro questo vortice di pensieri, tutte le vite e le forme evocate trovano la loro ragione. A proposito di vite e di forme, e quindi di nomi e di titoli (anche i libri sono esseri viventi, no?), costante ossessione dell’autore, leggiamo nel Diario: «Oppure, per il titolo, un nome che stia a indicare (o possa potenzialmente farlo) una nuova “forma” che non è più né romanzo né poema né raccolta di racconti, ecc… (Ma non potrebbe essere questo, appunto, Il caos?)». Una semplice nota come questa può divenire paradigma per una ciclopica idea di letteratura? «Sì, la letteratura sicuramente supera le forme che evocavi. Credo che la letteratura sia una cruna, un passaggio, sia quel qualcosa che rompe lo specchio della realtà o presunta tale. Sono due momenti che provo a chiarire: alla letteratura non interessa farmi perdere tempo; la letteratura mi sposta, mi porta dove prima non ero. Ma perché la letteratura divenga passaggio, deve prima rompere lo specchio, come nell’incipit della Metamorfosi di Franz Kafka, devi alzarti come essere mostruoso per accorgerti davvero di chi sei, del tuo corpo e del tuo mondo: quella è la rottura dello specchio, e allora anche il passaggio, il nostro ineludibile spostamento».

Fuori dal bar la pioggia cade giù sottile; entrambi dobbiamo lasciare il nostro tavolino e ritornare ai rispettivi impegni, la metro ingolfata di gente, Milano che corre, la paura per me di non riuscire a vedere come vede Moresco, di vivere come vive Moresco. Di non riuscire ad assumermi un rischio così sublime.

ARTICOLO n. 100 / 2023

ESSERE PAUL NEWMAN E JOANNE WOODWARD

Note a margine di un’asta da Sotheby’s

Di recente ho passato diversi mesi a New York. Abitavo nell’Upper East Side, in un appartamento all’angolo tra la Settantaquattro e First Avenue. In quei mesi traducevo e scrivevo, trascorrevo molte ore seduta al computer in casa, al bar o in biblioteca, e nelle pause camminavo nei dintorni, spingendomi più o meno lontano, facendo soste nelle gallerie del quartiere o nelle caffetterie dei grandi musei di Fifth Avenue. Una delle tappe più ricorrenti erano le stanze espositive di Sotheby’s, a un paio di strade da casa, dove, nelle due settimane che precedono un’asta, parte della collezione viene esposta a beneficio di potenziali acquirenti e di tutti, prima di disperdersi nelle case di chi si aggiudicherà i singoli pezzi, dipinto, gioiello o mobile che sia. Una delle ultime aste e relative esposizioni allestite mentre ero a New York è stata quella di mobili, oggetti e dipinti posseduti da Joanne Woodward e Paul Newman.

Dopo mesi di frequentazione delle stanze di Sotheby’s, sono arrivata alla conclusione che guardare gli oggetti presi dalla casa di qualcuno ed esposti nelle sale algide di una casa d’aste è un’esperienza al tempo stesso deprimente e rassicurante. Ti deprime il pensiero che chi ha ereditato quegli oggetti abbia deciso di venderli (anche se spesso, come è successo lo scorso anno con l’asta degli oggetti appartenuti a Joan Didion, il ricavato va in beneficienza). Ma sei anche rassicurato al pensiero, fortemente animista e quasi certamente illusorio, che, lasciate quelle stanze, gli oggetti inizieranno una nuova vita, dentro case nuove, posseduti da brave persone che avendoli scelti e acquistati a cifre quasi sempre superiori rispetto al loro valore effettivo dovrà quasi certamente amarli. 

Gli oggetti di casa Woodward-Newman esposti e poi venduti da Sotheby’s non erano tanti, né particolarmente belli o di valore (se non sentimentale): alcune sedie e altri mobili anonimi, qualche abito di scena, molte affiche dei film interpretati da uno dei due o da entrambi contemporaneamente, qualche fotografia, dipinti inglesi o americani del XIX e XX secolo (molti raffiguranti bambini paffuti e vestiti a festa), un set di valige d’altri tempi e poco utilizzabile, caschi e altri cimeli legati alla passione di Newman per le auto da corsa, diversi orologi, qualche gioiello e poche altre cose disposte in ordine arbitrario nella stanze espositive della casa d’aste. L’insieme in sé non era affascinante né emozionante, eppure tornata a casa mi sono subito messa a guardare la serie documentaria su Woodward e Newman diretta da Ethan Hawke, animata da un vago senso di colpa per avere violato una sorta di privacy o intimità nel curiosare tra oggetti che non comprerò mai.

La serie si chiama The Last Movie Stars, le ultime star del cinema, e la definizione è dello scrittore Gore Vidal, evidenziando come Woodward e Newman siano stati per un lungo momento gli ultimi sopravvissuti di una generazione di attori per certi versi inarrivabili. È una serie in sei episodi (negli Stati Uniti è in streaming su Prime, in Italia sulla piattaforma Now di Sky) e si basa su uno straordinario repertorio di immagini e centinaia di interviste, incluse quelle realizzate dallo stesso Newman insieme allo sceneggiatore e attore Stewart Stern (è quello che ha scritto Gioventù bruciata di Nicholas Ray e The Last Movie di Dennis Hopper) ad attori amici e parenti della coppia per un memoir che Newman era intenzionato a scrivere. Poi però Newman distrusse i nastri con le interviste, di cui oggi resta solo la trascrizione fatta da Stern. La serie nasce da un’idea di una delle figlie di Woodward e Newman, Melissa Newman, che poco prima dei lunghi mesi di lockdown da Covid ha contattato Ethan Hawke chiedendogli di dirigerlo. Hawke ha detto immediatamente di sì, e ha girato gran parte delle interviste su Zoom, chiedendo anche a vari attori di prestare la loro voce per potere utilizzare le trascrizioni di Stern. Capifila dell’operazione sono diventati così Laura Linney, che dà la voce a Woodward, e George Clooney, che interpreta Newman. La serie è magnifica, e restituisce con esattezza la dimensione pubblica e privata della coppia, così come quella sorta di sacralità e rispetto che li ammanta, e che palesemente onora, emoziona e impegna al loro massimo gli attori coinvolti nel progetto. Tra loro ci sono Vincent D’Onofrio che diventa John Huston, Bobby Cannavale che è Elia Kazan, Tom McCarthy è Sydney Lumet, e Zoe Kazan è Jackie McDonald, la prima moglie di Newman. Alle interviste trascritte e reinterpretate si aggiungono quelle originali condotte da Hawke a una ventina di attori e registi, da Martin Scorsese a Ewan McGregor, da James Ivory a Richard Linklater, e ancora Sam Rockwell, un’altra delle tre figlie di Woodward e Newman, Nell Newman, e la figlia Maya Hawke.

Sempre nei miei mesi newyorchesi, mi è capitato di vedere Ethan Hawke a una proiezione di Hamlet 2000 in 35 mm organizzata al cinema Paris, su Central Park, seguita da un incontro con lo stesso Hawke (Amleto nel film) e il regista Michael Almereyda. La proiezione in pellicola è stata interrotta per un problema tecnico che si è rivelato impossibile da risolvere se non sostituendo il digitale alla pellicola per un lungo momento, per poi tornare alla pellicola per l’ultima mezz’ora di film. A un certo punto, nei lunghi minuti di attesa, nella sala buia, si è sentita la voce di Hawke dire: “so ancora tutte le battute, se volete nel frattempo vado avanti io con la storia”. In sala abbiamo riso, e tollerato forse con maggiore pazienza la visione interrotta, il tempo dilatato, il lungo momento in digitale, grati per avere azzerato in pochi istanti la distanza tra noi e il cinema, facendoci entrare in una dimensione che non era del tutto reale ma nemmeno del tutto immaginaria. A fine film, insieme al regista, Hawke ha parlato di Hamlet 2000, del set, di quegli anni, di Shakespeare, del cinema indipendente, del cinema in generale, con quell’entusiasmo un po’ ingenuo ma autentico che lo ha trasformato per un frangente nel ragazzino grunge con il cappello di lana che nei panni di Amleto, appunto nel 2000, abbiamo amato tanto quanto amavamo Kurt Cobain o Eddie Vedder. 

Anni fa, durante una conversazione telefonica, Bret Easton Ellis mi disse che ultimamente non riusciva ad amare nessuna star del cinema, e che “sono semplicemente troppe, non saprei chi scegliere”. Il che non è vero. Nel riguardare vecchi film con Woodward e Newman, o la serie di Hawke su di loro, o Ethan Hawke parlare di Shakespeare a New York, ho ragionato sul fatto che non è vero che gli attori sono tutti uguali, e che a volte basta una scena o una battuta in un film o una frase detta in un’intervista a farceli preferire ad altri. Scegliamo Paul Newman, o Ethan Hawke, così come potremmo scegliere Amleto, oppure Ofelia, o un paio di fotografie in bianco e nero di Woodward tra le decine di oggetti in vendita da Sotheby’s, che anche se, lo sappiamo, non compreremo mai, per un frangente desideriamo diventino nostre. Sappiamo perfettamente che nessuno di loro né nessuno dei loro oggetti sarà mai nostro, ma li scegliamo comunque. Sappiamo anche che non appartengono del tutto alla realtà ma che non sono nemmeno interamente frutto della nostra immaginazione. Un po’ come Amleto, che non è mai esistito davvero, senza che questo lo renda meno reale. E nello scegliere lui, o Newman, o una foto di Woodward, ci prendiamo temporaneamente una pausa dalle nostre vite e abitiamo le loro, immaginiamo di essere loro, giochiamo a essere loro. Che in inglese è to play, e vuol dire giocare, ma vuol dire anche recitare. La cosa bella della recitazione, è che non c’è mai niente di definitivo.Quando a scuola di recitazione a Joanne Woodward venne chiesto perché volesse fare l’attrice, rispose: è l’unica cosa che so fare. Nelle due foto in bianco e nero vendute da Sotheby’s, della coppia Woodward-Newman c’è solo Woodward. È molto giovane, è a lezione di danza, in una delle due foto è in schiera insieme ad altre ragazze appoggiate a una parete, nell’altra fa un esercizio alla sbarra. Così, sì: sapeva anche ballare.

ARTICOLO n. 99 / 2023

RENZO BIASION, ROSSO PERIFERIA

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del Novecento attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Volge al termine la nostra brumosa incursione nelle piazze della pittura di paesaggio veneta del XX secolo. Con Orazio Pigato si è introdotto il tema della morale nel dipingere, con Antonio Fasan si è discusso il potere politico dei colori. Renzo Biasion porge un’altra chiave di lettura per affezionarsi a questa disciplina, la pittura, di cui l’immagine non è altro che maschera mortuaria. La chiave offerta da Biasion è la storia: ogni quadro è fonte e testimonianza nonché, se contemporaneo, cronaca dell’attuale.

Al giorno d’oggi si utilizza l’affiliazione alla storia dell’arte per nobilitare l’operato di artisti viventi che fanno uso di vistosi riferimenti – “be’, si sente che ha studiato la storia dell’arte!” – quasi che codesta disciplina sia avulsa dal mondano consumo quanto la sfragistica. La storia dell’arte non appartiene all’arte, bensì alla Storia; è uno dei tanti modi in cui si studia il percorso compiuto dall’uomo, non da forze invisibili.

Ricordo con una certa vividezza le lezioni di storia dell’arte impartitemi quando ero bambina. Nei libri di testo delle scuole italiane l’arte era un serpentone hegeliano, gli artisti non erano che esempi per il dispiegarsi dello Spirito. Per prendere la sufficienza l’alunno doveva mostrare di aver capito le conquiste dell’Umanesimo, non quelle di Donatello. Questo pensare non viene applicato all’arte contemporanea, un po’ per pigrizia nei confronti di deduzione e induzione, un po’ forse perché si crede, idealizzandolo, che il denaro, la speculazione interna al mondo dell’arte, abbia domato lo Spirito. 

Renzo Biasion nasce a Treviso nel 1914 da famiglia veneziana di navigatori e antiquari. Quasi trentenne, si trova impegnato sul fronte greco-albanese e poi internato in un campo di prigionia nazista. Scrittore di stampo neorealista, il suo Sagapò, antologia di racconti ispirati all’esperienza di soldato, è pubblicato da Vittorini per la collana “I gettoni” di Einaudi. Un altro dettaglio estremamente rilevante nella vita di Biasion è che per 34 anni ha scritto critica d’arte per il settimanale Oggi, rivolgendosi a un pubblico non specializzato; questo gli ha permesso di conoscere l’arte grande e piccolissima a lui coeva, e di seguirla senza interruzioni. Biasion è stato insomma il prototipo dell’artista che ne sa una più del diavolo, a oggi ancora temutissimo giacché persino il narcisista è considerato più manipolabile del sapiente. Parte della grandezza di Biasion ha risieduto nel non essere mai succube della propria cultura, nel non trasformare la propria conoscenza enciclopedica in bulimia poetica, nel distinguere sempre l’Io dall’Altro e nel capire che il vero artista non può utilizzare tutte le immagini proposte dal mondo. Che, insomma, è più ardimentoso limitarsi a quel poco che è il destino di ognuno.

La cifra di Biasion, squisito incisore oltre che pittore, è stata quella di rapportarsi a ogni superficie o schermo ottico come fosse la pagina di un libro. Le sue opere più notevoli rappresentano facciate di edifici e pareti d’interno suddivise in cornici, rettangoli, finestre di testo. Spesso queste aree geometricamente abbozzate sono graffiate con ghirigori che disegnano il mobilio domestico, decorato di ricci e torniture: un Matisse della gommalacca. Il suo periodo più pregnante è stato quello bolognese, che va dal 1954 al 1965, «contraddistinto», scrisse Marcello Venturoli, «da una visione del paesaggio urbano di periferia, inconfondibile ancora in quegli anni a Bologna, cupo e solitario, ma splendente di cromia, al comun denominatore dei rossi». 

Impensabile eppur morigerata crasi tra T.S. Lowry e Mimmo Rotella, la Bologna residenziale ritratta da Biasion. Tesserata di panni stesi, poster, tendine e balconi, assomiglia a un parco in miniatura per bambole avanti negli anni. È dignitosa, tranquilla, terribilmente familiare, punteggiata di smalti verde bottiglia; i casoni di argilla appartengono sia all’Italia dei carri che a quella delle berline. Si sa: Bologna è la città che più si presta a ospitare la commutabilità dell’uomo e la fissità delle cose, la noia provata da ogni orologio, la dispersione nel ricordo. È commovente che quei quadri, in cui si intuisce l’operaismo benché siano tiepidi e borghesi, siano stati dipinti nella metà del secolo. Essi vivono come un fermalibri che separa i giardini d’infanzia di Adriana Zarri e Cristina Campo dalle nostre gite volte a rintracciare il tempo che fu grazie a crescentine, birre in oratorio e mercati del vintage.

Vivere nel tempo è cosa d’altri tempi, a noi nipoti del postmoderno non resta che giocarci: tira e molla, rimpiattino, un flirt, un bacetto, levarsi un calzino, un giorno cotonati, un altro lisci, e alla fine morire con i chip nella retina e la crinolina stretta in vita. Se non che i quadri – anche i più inesauribili, avveniristici, eterni – ci inchiodano al passato perché ognuno di essi è testimonianza di un’esigenza espressiva situata nella storia.

Al pari di Pigato e Fasan, anche Biasion per tutta la vita ha rifiutato l’affiliazione a movimenti di avanguardia e di reazione nonché a gallerie, preferendo rimanere figlio di un Veneto lirico e astorico. D’altronde, come Fasan, ancora giovinetto Biasion aveva ricevuto il benestare da De Pisis, una sorta di cedola per uscire dal tempo. Eppure, persino l’arte di questi veneti che hanno fatto voto di castità verso lo Zeitgeist, che hanno strofinato con la cenere i titoli più roboanti del Corriere della Sera… persino la loro umiltà è serva della Storia. I quadri di case rosse della periferia bolognese vivono come parentesi ricamate al centro del secolo, un poco affettati, elegiaci, rivolti all’ “urbanistica dell’anima”, ma al contempo capaci di trasmettere il passaggio della periferia da quartiere a identità.  

Di fronte a ogni quadro – visto al mercato, al poliambulatorio, in casa di parenti – bisogna impegnarsi per cogliere il dato storico. Spesso è camuffato: l’arte che fa largo uso di citazioni non discute la storia dell’arte, ma mistifica se stessa. L’arte che utilizza un linguaggio futuribile traveste, talvolta queerizza, il presente. L’arrendevolezza all’approccio realista – come è stato il caso di Pigato, Fasan e Biasion – spesso soggiace a un disinganno e può essere più introspettiva di quella che esibisce un panorama simbolico. Ogni quadro è un rompicapo, una possibilità di studiare la Storia, una presa di posizione politica nascosta tra colori e superfici. Spero, con questa trilogia di articoli, di aver acceso nel lettore affetto e curiosità verso quel quadro di paesaggio da tre soldi appeso da decenni in corridoio.

ARTICOLO n. 98 / 2023

PIAZZA FONTANA

In occasione del cinquantaquattresimo anniversario di Piazza Fontana, pubblichiamo un estratto da Sconfitti (Il Saggiatore). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Sono difficili da dimenticare quei giorni della strage di piazza Fontana, venerdì 12 dicembre 1969. Per un caso ero entrato nella Banca non molto tempo dopo l’esplosione. Di ritorno da Roma, alla Stazione Centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, era appena successo qualcosa di grave, lo scoppio di una caldaia alla Banca dell’Agricoltura e si parlava di molti morti. Gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa. 

In piazza Fontana c’erano solo qualche ambulanza e qualche macchina dei carabinieri e della polizia. Non si vedeva ancora nessuno venuto a curiosare nell’aria nerastra. 

«Macché caldaia, è una bomba, ci saranno trenta morti» mi disse qualcuno. Non c’erano ancora blocchi, servizi d’ordine. Dal portone cominciavano a uscire barcollando i sopravvissuti, informi ossessi che si scontravano con i barellieri di corsa in senso contrario. Entrai senza difficoltà nella grande sala a pianterreno. Una macelleria dell’orrore. Il sangue colorava la polvere dei vetri frantumati e il legno dei mobili ridotti in briciole e continuava a colare. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e una testa rotolare sul pavimento. Brandelli di cadavere spuntavano da ogni parte. Qualche corpo meno straziato era finito oltre il bancone delle casse a forma di ferro di cavallo dove gli impiegati, una parte di loro almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in trincea. 

Qualcuno gettava in un mucchio gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande, mi sentivo confusamente prigioniero di un’atonia paralizzante. Non mi veniva in mente niente, riflessioni, pensieri, giudizi. Come se fossi azzerato nell’anima. La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza. Ero invece smisuratamente attento ai particolari più minuti che possono anche essere rivelatori, guardavo con fissità, come un automa, una mano recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. Mi trovavo, ma lo compresi dopo, in un ambulacro di morte difficile da immaginare anche per chi avesse la macabra fantasia di inventare la fine del mondo andato in fiamme. 

Tra le macerie e i resti umani captavo qualche notizia. Sembravano voci recitanti le parole che sentivo, dialetti mescolati, di tonalità diverse. A esprimersi, a mozziconi di frasi, erano gli ultimi sopravvissuti rimasti dentro la banca, impiegati, commessi, agricoltori. 

La bomba era scoppiata con un gran tuono e un bagliore arancione. La borsa con l’esplosivo – si saprà dopo che si trattava di dinamite a base di binitrotoluolo, dall’odore di mandorle amare – era stata messa sotto il tavolo di legno in mezzo al salone. Dove ora c’era un buco profondo, epicentro della strage. I frammenti della bomba erano schizzati sui banchi degli impiegati seminando cadaveri, smembrandoli – diciassette morti e un centinaio di feriti –, ma questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni, mesi e anni successivi, dopo un macabro alternarsi di voci. 

A un certo momento – non riuscivo a muovermi dall’orlo del buco – vidi dietro i banconi degli impiegati l’orologio della banca di cui non mi ero accorto. Si era fermato alle 16:37. Quasi un notaio della strage. Farà il giro del mondo, alle TV e in fotografia. 

Fino a quell’ora il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura era stato popolato dai clienti del mercato del venerdì. Si riunivano lì fuori, tra l’Arcivescovado, il Consorzio agrario e dentro la banca. Venivano dai paesi del Milanese e anche dalla Bassa padana, proprietari di terra, fittabili, coltivatori diretti, commercianti, sensali. La tradizione del mercato – estate e inverno – era antica. Il venerdì pomeriggio, per offrire ai clienti maggiori opportunità, gli sportelli restavano aperti più a lungo del solito. 

Per i loro affari, compratori e venditori di terra, di bestiame, di fieno e di sementi usavano da sempre la Banca dell’Agricoltura e il tavolo di legno massiccio, ottagonale, era il luogo della scrittura definitiva, dopo le interminabili strette di mano dei mediatori. Si sedevano lì gli agricoltori, per firmare l’assegno, per compilare il bonifico, per la cambiale. Il tavolo, sotto il ripiano di scrittura, era diviso a spicchi e capitava che chi sedeva appoggiasse per terra o accanto ai divisori di legno la propria borsa. Anche l’assassino doveva aver lasciato lì sotto la borsa fabbricata da un’industria tedesca, la Mosbach‐Gruber, con dentro la bomba, venduta con altre tre borse simili dalla valigeria Al Duomo di Padova. 

Rimasi ancora un po’ tra i resti della banca, in una gran polvere di detriti. Un poligono di morte. Poi arrivarono le autorità, il cardinale, il prefetto, il questore, il sindaco e si misero in moto i meccanismi dell’ufficialità. Gli ordini gutturali delle guardie, le loro voci stizzite rompevano ora l’aria, tra i cordoni e le barriere che si formarono. Le autorità erano più importanti dei cadaveri. Fui cacciato. 

Cominciavo lentamente a capire l’enormità di quanto era accaduto, nel centro della città, a pochi passi dal Duomo. Ma non avevo ancora coscienza di essermi trovato, inconsapevole, quasi per caso, dentro una storia di cui si sarebbe discusso anni, priva di colpevoli, come sempre accade quando si tratta di affari politici in cui lo Stato non è assente. Pensai dopo, immaginai, meglio, di aver rivissuto là dentro l’avventura di Pierre Bezuchov, il personaggio tolstoiano di Guerra e pace che vaga sperduto tra i cosacchi, gli ussari, i cadaveri e i cannoni, non cosciente di esser stato, nel 1812, testimone partecipe della battaglia di Borodinò, ricordata per la vittoria o mezza vittoria della Grande armata di Napoleone che arrivò nel cuore di Mosca, al Cremlino, e trovò la città abbandonata, incendiata, saccheggiata, e fu costretto, dopo due settimane, alla ritirata, con un esercito semi‐distrutto che divenne via via un’orda caotica come accadde all’armata di Hitler più di un secolo dopo.

Quella notte non si andò a dormire. Si temeva il colpo di stato. I ragazzi del Movimento studentesco cercavano un tetto per nascondersi. Fino a tardi ci fu quasi una processione in piazza Fontana, uomini e donne di ogni condizione sociale sostavano in piccoli gruppi nelle strade lì intorno, via Santa Tecla, via Larga, via Festa del Perdono, l’Università Statale, piazza Santo Stefano, il Verziere. A discutere, a far congetture, mentre le notizie degli attentati di Roma e del fallito attentato di Milano alla Banca Commerciale aprivano nuovi scenari e suscitavano nuovi incubi. 

Il sabato e la domenica passano in un clima di paura e di sospetto per quel che può accadere. Il lunedì i funerali in piazza del Duomo, nera come la pece, i lampioni accesi in un mattino che sembra notte fonda, le candele accanto alle bare, le corone di fiori a far da cornice, migliaia e migliaia di uomini e donne dai volti gelidi come se fossero stati modellati dalla stessa mano con la creta usata da un primitivo scultore ducentesco. Trattengono nel cuore commozione e pianto. 

Le autorità siedono immobili nei primi banchi della cattedrale, il cardinale invoca misericordia. Di carabinieri e poliziotti intorno alla piazza, sotto i portici della Galleria e altrove, neppure l’ombra. 

Da Sesto San Giovanni, a piedi, sono arrivati invece migliaia di operai, le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Falck, della Magneti Marelli. Sono loro il servizio d’ordine, i veri tutori, il fermo no della città e dell’intero Paese all’avventurismo eversivo. Nel nome della democrazia. Il messaggio fu compreso dagli sciacalli del disordine. 

La strage di piazza Fontana è un romanzone angosciante, fitto di morti, di personaggi sul filo dell’invenzione settaria, di povere vittime incolpevoli e anche di uomini e di donne che, come succede nei grandi casi della vita, in quell’occasione scoprirono se stessi e lottarono in nome della verità e della giustizia. Quello fu anche il romanzo non scritto di una società divisa in due, gonfia di fervori, di furori, vitale e faziosa – gli innocentisti, i colpevolisti – una piccola Parigi che rammenta il caso Dreyfus, così come lo raccontò Zola e, tra gli altri, Marcel Proust. Fu per molti una rivelazione, quella dello Stato e di certi suoi apparati che avrebbero dovuto tutelare istituzionalmente la Repubblica e invece complottavano contro la Repubblica, depistavano le indagini, proteggevano esecutori e mandanti di una strage chiaramente fascista. 

Si rompevano vecchi cliché. Le autorità erano scandalizzate nel rendersi conto che molti giornalisti – scrivevano sui giornali della borghesia tradizionale, appartenevano ai ceti privilegiati – mettessero in dubbio le verità questurine e facessero quel che dovevano, cercare le notizie. Si sentì allora, acutamente, che non esisteva soltanto il conflitto di classe, ma anche il conflitto tra le due facce della borghesia, mai sanato: la borghesia fedele alla Costituzione e la borghesia infedele anche ai propri principi, disponibile all’illegalità in nome dell’interesse privato. 

ARTICOLO n. 97 / 2023

BUFFALO BILL ALLE VARESINE

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista Città Milano che sarà presentato il 12 dicembre 2023 al Teatro Franco Parenti di Milano (ore 18:00). Ringraziamo Città Milano per la disponibilità.

Il Luna Park Le Varesine è stato per anni un vanto per Milano, considerato il più pericoloso al mondo, sia per scarsa manutenzione ruota panoramica, sia per personale non qualificato e pregiudicato che gestiva giostre molto complesse. Negli ultimi anni venne annesso un obitorio, molto dignitoso e composto come arredi. Troppe erano ormai le vittime di questo parco divertimenti.

Alcuni bambini ricattavano i papà: “Se non mi compri il motorino, vado alle Varesine e provo tutto…”.

Papà: “Per carità! Le Varesine no! Piuttosto mi incateno davanti al Comune. Anzi faccio prima a comprarti il motorino. Meglio che ti ammazzi con quello piuttosto che precipitare da 50 metri su un cestello della ruota panoramica”.

Figlio: “Papà, non esageriamo”.

Papà: “Ma sono stato ancora cauto, alle Varesine i bambini che non vengono catapultati dentro il balcone di una donna anziana, spariscono e vengono venduti a bande di Rom che ormai hanno in mano la zona”.

Figlio: “Fanno combattere anche i cani?”

Papà: “Certo, in più bruciano i copertoni dei trattori ciulati nelle cascine di Abbiategrasso e fanno la nube di diossina”.

Nel 1982 ero già adulto e un pomeriggio andai alle Varesine. Subito all’entrata mi imbattei in una sparatoria mai vista a Milano. Due bande di nomadi che si contendevano il controllo dei biglietti dove si esibiva “L’Uomo – Basamento Enel”, un grande obeso arabo di 496 chilogrammi. Era dentro un tendone da circo. Gentilmente sono entrato. Quando è uscito mi sono spaventato. Dall’emozione sono scappato fuori dal tendone. Ma dei buttafuori sinti mi hanno cortesemente fatto rientrare. La bestia si buttava per terra, piangeva e si faceva compatire. Mentre alcuni inservienti gli passavano dei secchi pieni di prodotti gastronomici dell’Appennino Tosco-emiliano (salumi). Uno del pubblico a quel punto è sceso in pista e lo ha accoltellato. È morto poco dopo.

La sera è stato sostituito da un altro grande obeso reclutato alla Bovisa. Infatti come per i cantanti lirici, anche nei baracconi c’è il sostituto pronto. Se il titolare non si sente bene o muore, lo show continua con l’altro. Questo pesava mezza tonnellata, così diceva il manifesto. Sono andato anche allo spettacolo serale: per me non era più di 130 kg. E mi sembrava anche scemo. Forse l’avevano drogato. 

Risultò in seguito che era stato venduto da sua mamma ai giostrai per 25.000 lire. Subito dopo lo spettacolo fu soppresso con un badile dopo averlo attratto in un tranello. Infine venne sbattuto giustamente nell’Olona senza rispetto per i pescatori che in quel momento stavano baciandosi tra loro. Infatti negli ultimi anni le Varesine si distinsero come ritrovo di pederasti. Arrivavano da ogni parte del Nord Italia e facevano le loro vergogne sui vagoncini del trenino quando entrava nel tunnel. Il famoso tunnel delle Varesine, lungo 19 chilometri (non lineari, chiaramente). Entravano decine di trenini al giorno e con il buio in galleria, che durava circa un’ora, furti, palpeggi alle ragazze e oltraggi verbali erano all’ordine del giorno. Nel buio sentivi esclamare: “Sindaco culattone” oppure “Mi ammazzo per te Monica” e si buttava sotto le ruote del treno. Che non essendo una linea ferroviaria statale, il macchinista non aveva l’obbligo di fermarsi e chiamare il magistrato di turno per rimuovere le povere spoglie.

Oggi il tunnel del trenino esiste ancora. Il tunnel parte da Porta Nuova e termina a Gallaratese dove si congiunge con i treni di linea della ferrovie Nord Milano-Varese. Inevitabili gli scontri tra convogli, non comunicando il macchinista del trenino che si sta immettendo sulla linea Treni d’Italia. Curiosamente nelle collisioni con un treno vero hanno la peggio i passeggeri del trenino scoperto delle Varesine, che deraglia. I rottami scagliati anche a km di distanza (trovate parti del trenino delle Varesine anche a Magenta). Sono considerati delle reliquie e venerati nonostante le autorità ecclesiastiche le abbiano messe al bando come superstizioni e abuso della credulità popolare.

Recentemente è stato battuto all’asta uno sportello di un vagoncino di un trenino delle Varesine, coinvolto nel sinistro ferroviario più importante della nostra storia. Bene, l’anonimo acquirente se l’è aggiudicato per 56.000 euro. Mentre il locomotore del trenino è al Museo della Scienza e della Tecnologia. L’Amministrazione del civico museo ha rifiutato un’offerta del MoMa di New York di 16 milioni di euro.

Per quanto riguarda la prostituzione le Varesine non si facevano mancare niente. Tanto che in un Consiglio Comunale ci fu la proposta di trasformare le Varesine in un quartiere a luci rosse sull’esempio di Amsterdam. Un altro episodio che mi piace ricordare: quando venne giù il Circo di Buffalo Bill con mandrie al seguito. Buffalo Bill era molto anziano. Parliamo del 1950. Venne abbattuto da un colpo di fucile sparato dalla Torre Velasca mentre faceva il suo numero. È sepolto al cimitero di Lambrate. Sotto il falso nome di Luca Rivosi. Nonostante queste precauzioni la salma è stata trafugata dai suoi estimatori. Si pensa sia finita all’estero, nel giardino di qualche mafioso georgiano. Il Governo italiano ha fatto ufficiale domanda per restituzione salma ma il Governo di Tbilisi non ha mai risposto. Il console georgiano di Milano ha escluso nel modo più categorico che le spoglie di Buffalo Bill si trovino nel territorio dell’ex-Stato sovietico. Per me ha ragione. Sono nel parco di Villa Carlotta a Como, dispiace dirlo.

Ricordiamo infine che il Luna Park Le Varesine non chiudeva mai. Potevi andare alle 4 di mattina sull’autoscontro. Certo non ci trovavi don Luigi Sabbioni (già cappellano militare alla caserma di Legnano): trovavi uno vestito da Elvis che ti chiedeva in sposo. La cerimonia veniva fatta subito dentro un baraccone. Se rifiutavi alla mattina ti trovavano impiccato sotto il Ponte della Ghisolfa. Fascicolo di indagine contro ignoti, chiuso subito dagli inquirenti. Un’altra volta impari ad andare alle Varesine vestito da donna alle quattro del mattino.

ARTICOLO n. 96 / 2023

LETTERA DA UNA CASA DI FAMIGLIA

Carissima Marina,

dalla polvere sul tavolo e sul pianoforte, sto cominciando a pensare che Franca, tua mamma, non mi voglia più bene. Per decenni mi ha accarezzato i fratelli mobili e le sorelle sedie, ha pulito i miei cugini pavimenti e i lavabi dei miei bagni, ma da quasi due anni siamo rimasti molto soli. Nessuno ci ha dato spiegazioni. Il termosifone in sala che ha già mandato in giro teorie complottistiche che non stanno né in cielo né in terra. Franca parlava con le piante, soprattutto con l’ibisco, che lei chiamava Ibi e che se la tirava da morire: pare, ma bisogna avere delle prove, che siano state proprio le piante ad averla inghiottita. Io non ci credo, ma metà dei tappeti ormai non ha dubbi. Non vorrei invece che le fosse successo qualcosa di peggio, perché proprio non è da lei abbandonarci così. Ci siamo fatte compagnia per più di cinquant’anni. Il mese scorso, in un momento di lucidità, ho fatto due più due e sono quasi convinta che se ne sia andata.

Puoi immaginare la mia solitudine! Ho visto te e le tue sorelle crescere, mi sono cuccata anni di cartoni animati, tra Heidi e Mimi e le ragazze della pallavolo; decenni di Saranno Famosi e la Famiglia Bradford. Per non parlare delle mille cene, delle feste di Natale e Capodanno. Ho assorbito i vostri litigi, i vostri momenti belli. Non dimenticherò mai la volta che tu e quel fidanzato ignorante vi siete nascosti lì dove c’era la scrivania in sala e avete limonato per ore e ore. Una tristezza vedervi crescere così in fretta!

Ero lì quando vi preparavate per gli spettacolini da mostrare ai i vostri genitori: una di voi era la Carrà, tu Mina e l’altra la Vanoni. Papà e mamma che facevano a turno per venire a ridere in cucina. 

Ero lì per tutti i compleanni, per i battesimi, le comunioni, le cresime. 

Ero lì quando Franca vi disse: “Aspetto un bambino”, e quando Beppe rispose al telefono alle sei del mattino felicissimo che fosse nata la mia sorella piccolina. Andò a citofonare a tutti i suoi amici della zona per annunciare la sua quarta e ultima figlia. Era pieno di gioia! 

Ero lì quando facevate i compiti, quando aprivate quello che sembrava un cassetto normale e invece era un tavolino nella cucina, quella verde, quando apparecchiavate mentre Franca faceva da mangiare, mettevate attorno al tavolo gli sgabelli e vi sedevate, un po’ strette, solo voi cinque. 

Beppe era già andato via. Mi aveva fatto compagnia il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, il fumo delle sigarette lasciate bruciare nel portacenere, le sue telefonate, il suo “abbiamo proprio una bella casa” detto quell’ultimo giorno, aprendo la porta delle scale. Qualche giorno dopo, ricordo di essere stata assalita da centomila persone, tutte tristi. C’era il suo amico, mi pare si chiamasse Enzo, che piangeva forte nel bagno che era stato del nonno Mario. Questo tipo, Enzo, e Beppe ne avevano fatte di tutti i colori, compreso decidere di bruciare l’albero di Natale nel mio camino, appiccando un incendio fortunatamente non doloso. Ricordo Franca il giorno che Beppe è andato via, che a un tratto era diventata piccola piccola, terrorizzata. Vi aveva chiamate in sala per dirvelo: “Vostro papà non c’è più”. 

Ero lì quando quel capellone, mi pare si chiami Giorgio, si è trasformato da collega di papà a fratello maggiore, a botte di palloncini pieni d’acqua buttati dal terrazzo ai passanti, alle volte, mannaggia a lui, che dava sempre ragione alla mamma, anche quando i castighi erano oggettivamente esagerati.

Adesso sono quasi due anni che è calato attorno a me un silenzio assordante. Il sole sale e scende, mi illumino e poi divento buia, e nulla cambia, nulla si muove. Quando piove riesco a contare ogni goccia che scende senza essere interrotta. Quando i vicini fanno rumore, spero sempre che stia arrivando una di voi. L’ascensore non sale più fino al quarto, la polvere, finalmente libera di planare dove vuole, sghignazza sui mobili e sul pavimento. I letti sono sfatti, in cucina non si sente neanche più l’odore del caffè e nessuno tira l’acqua del water. Niente più bucati stesi nella camera del lavoro. L’altro giorno ho sentito i singhiozzi del ferro da stiro: si sentiva solo, abbandonato dall’acqua distillata. Lo scaldabagno cercava di consolarlo, ma niente, era disperato.

Poi, a un certo punto, c’è stato un po’ di movimento. Entrava della gente che non conoscevo, diceva che avrebbe voluto comprarmi. Arrivavano accompagnati da un signore, che mi mostrava neanche fossi il Louvre: qui c’è questo, qui c’è quello, poi c’è il terrazzo… Le persone arrivate con lui mi scrutavano come se dovessero trovare dei difetti per poter dire che insomma, qui ci sono dei lavori da fare, i bagni sono vecchi, nessuno vuole il marmo in sala, la cucina è da rifare… Lo ammetto, Marina, a volte ci rimanevo molto male: ma chi si credono di essere questi sconosciuti, che vengono qui e si lamentano di me? Devo dire, però, che invece alcune persone erano piene di complimenti, ma, da quello che ho capito, i loro portafogli erano troppo vuoti per avermi tutta per loro. 

Io sono sempre stata come sono adesso, non avevo la più pallida idea di essere più grande delle mie colleghe, altre case che per altro non vedo mai. Sono una signora degli anni Cinquanta, figlia del dopoguerra, il periodo in cui ospitavamo famiglie più numerose e costavamo meno. Adesso, mi pare di capire, la nostra metratura, corridoi inclusi, non serve più: lo dicevano anche al telegiornale l’altro giorno, che in Italia si fanno pochi figli. Inoltre, specialmente qui a Milano, costiamo un occhio della testa, e su Rai3 parlavano degli stipendi bassi italiani e degli studenti che si lamentano di non potersi permettere un affitto in città. Io che sono qui vuota, grande e costosa, mi sono sentita un po’ in colpa.

Marina cara, ti scrivo per dirti che ho preso una decisione importante: cambio famiglia, anzi, famiglie, ho scoperto che mi divideranno in due appartamenti, e sono contenta. Vi ho cresciute, vi ho fatto compagnia, vi ho dato un tetto sotto cui sentirvi protette. Vi ho amato moltissimo. Ma adesso che mi avete abbandonato tocca a loro. Mi fanno il lifting, mi dipingono e mi riempiono di mobili nuovi, di compagnia, di amore. Come per voi, anche per loro sarò il posto dove tornare dopo le vacanze, dopo una giornata difficile, dopo il cinema. Accoglierò i loro amici e apprezzerò tutti i complimenti che riceverò. Non credere che sia stata un passo facile. Ti ho visto la settimana scorsa piangere perché era l’ultima volta che saremmo state insieme. Anch’io ho pianto. Ma sappi che rimarrò sempre nel tuo cuore e tu nel mio. Conserverò le gomme masticate attaccate al muro dell’ascensore.

Ringrazio te, le tue sorelle e i tuoi genitori per tutto: l’amore, la fiducia, la pulizia, i cambiamenti, le esperienze passate, quei tappeti sedicenti persiani, il gatto insopportabile che si arrampicava sulle pareti e quelle lezioni di pianoforte: ammettiamolo, mai state portate. Ma, come dicono i teatranti e i rocchettari, the show must go on

Ti abbraccio,
la tua casa di Via Sismondi

ARTICOLO n. 95 / 2023

SULLA DIFFICOLTÀ DI LEGGERE

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Giorgio Agamben, La mente sgombra (Einaudi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Vorrei parlarvi non della lettura e dei rischi che essa comporta, ma di un rischio che è ancora più a monte, cioè della difficoltà o dell’impossibilità di leggere; vorrei provare a parlarvi non della lettura, ma dell’illeggibilità.

Ciascuno di voi avrà fatto esperienza di quei momenti in cui vorremmo leggere, ma non ci riusciamo, in cui ci ostiniamo a sfogliare le pagine di un libro, ma esso ci cade letteralmente dalle mani. 

Nei trattati sulla vita dei monaci, questo era anzi il rischio per eccellenza cui il monaco soccombeva: l’accidia, il demone meridiano, la tentazione più terribile che minaccia gli homines religiosi si manifesta innanzitutto nell’impossibilità di leggere. Ecco la descrizione che ne dà san Nilo: 

Quando il monaco accidioso prova a leggere, sinterrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, distende le dita e va avanti a leggere per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e, intanto, si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine che gli rimangono da leggere e i fogli dei quaderni e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come un cuscino per la sua testa, cadendo in un sonno breve e profondo. 

La salute dell’anima coincide qui con la leggibilità del libro (che è anche, per il Medioevo, il libro del mondo), il peccato con l’impossibilità di leggere, col diventare illeggibile del mondo.

Simone Weil parlava, in questo senso, di una lettura del mondo e di una non lettura, di un’opacità che resiste a ogni interpretazione e ogni ermeneutica. Vorrei suggerirvi di fare attenzione ai vostri momenti di non lettura e di opacità, quando il libro del mondo vi cade dalle mani, perché l’impossibilità di leggere vi riguarda quanto la lettura ed è forse altrettanto e più istruttiva di questa. 

Vi è anche un’altra e più radicale impossibilità di leggere, che fino a non molti anni fa era anzi del tutto comune. Mi riferisco agli analfabeti, questi uomini troppo in fretta dimenticati, che solo un secolo fa erano, almeno in Italia, la maggioranza. Un grande poeta peruviano del xx secolo ha scritto in una sua poesia: por el analfabeto a quien escribo. È importante comprendere il senso di quel «per»: non tanto «perché l’analfabeta mi legga», visto che per definizione non potrà farlo, quanto «al suo posto», come Primo Levi diceva di testimoniare per quelli che nel gergo di Auschwitz si chiamavano i musulmani, cioè coloro che non potevano né avrebbero potuto testimoniare, perché, poco dopo il loro ingresso nel campo, avevano perduto ogni coscienza e ogni sensibilità. 

Vorrei che rifletteste sullo statuto speciale di un libro che è destinato a occhi che non possono leggerlo ed è stato scritto con una mano che, in un certo senso, non sa scrivere. Il poeta o lo scrittore che scrivono per l’analfabeta o per il musulmano provano a scrivere ciò che non può essere letto, mettono su carta l’illeggibile. Ma proprio questo rende la loro scrittura più interessante di quella che è stata scritta solo per chi sa o può leggere. 

Vi è poi un altro caso di non lettura di cui vorrei parlarvi. Mi riferisco ai libri che non hanno trovato quella che Benjamin chiamava l’ora della loro leggibilità, che sono stati scritti e pubblicati, ma sono – forse per sempre – in attesa di essere letti. Io conosco, e ciascuno di voi, penso, potrebbe nominare libri che meritavano di essere letti e non sono stati letti, o sono stati letti da troppo pochi lettori. Qual è lo statuto di questi libri? Io penso che, se questi libri sono davvero buoni, non si debba parlare di un’attesa, ma di un’esigenza. Questi libri non aspettano, ma esigono di essere letti, anche se non lo sono stati e non lo saranno mai. L’esigenza è un concetto molto interessante, che non si riferisce all’ambito dei fatti, ma a una sfera superiore e più decisiva, la cui natura lascio a ciascuno di voi precisare. 

Ma allora vorrei dare un consiglio agli editori e a coloro che si occupano di libri: smettetela di guardare alle infami, sì, infami classifiche dei libri più venduti e – si presume – più letti e provate a costruire invece nella vostra mente una classifica dei libri che esigono di essere letti. Solo un’editoria fondata su questa classifica mentale potrebbe far uscire il libro dalla crisi che – a quanto sento dire e ripetere – sta attraversando. 

Un poeta ha compendiato una volta la sua poetica nella formula: «Leggere ciò che non è mai stato scritto». Si tratta, come vedete, di un’esperienza in qualche modo simmetrica a quella del poeta che scrive per l’analfabeta che non può leggerlo: alla scrittura senza lettura, corrisponde qui una lettura senza scrittura. A condizione di precisare che anche i tempi sono invertiti: là una scrittura che non è seguita da alcuna lettura, qua una lettura che non è preceduta da alcuna scrittura.

Ma forse in entrambe queste formulazioni si tratta di qualcosa di simile, cioè di un’esperienza della scrittura e della lettura che mette in questione la rappresentazione che ci facciamo solitamente di queste due pratiche così strettamente legate, che si oppongono e insieme rimandano a qualcosa di illeggibile e di inscrivibile che le ha precedute e non cessa di accompagnarle. 

Avrete capito che mi riferisco all’oralità. La nostra letteratura nasce in intima relazione all’oralità. Perché che cosa fa Dante quando decide di scrivere in volgare, se non appunto scrivere ciò che non è mai stato letto e leggere ciò che non è mai stato scritto, cioè quel «parlar materno» analfabeta, che esisteva soltanto nella dimensione orale? E tentare di mettere per iscritto il parlar materno, lo obbliga non semplicemente a trascriverlo, ma, come sapete, a inventare quella lingua della poesia, quel volgare illustre, che non esiste da nessuna parte e, come la pantera dei bestiari medievali, «spande ovunque il suo profumo, ma non risiede in alcun luogo». 

Io credo che non si possa comprendere correttamente la grande fioritura della poesia italiana nel Novecento, se non si avverte in essa qualcosa come un richiamo di quell’illeggibile oralità che, dice Dante, «una e sola è prima nella mente». Se non s’intende, cioè, che essa è accompagnata dall’altrettanto straordinaria fioritura della poesia in dialetto. Forse la letteratura italiana del Novecento è tutta percorsa da una inconsapevole memoria, quasi da un’affannosa commemorazione dell’analfabetismo. Chi ha avuto tra le mani uno di questi libri, in cui alla pagina scritta – o, meglio, trascritta – in dialetto sta a fronte la traduzione in lingua, non ha potuto non chiedersi, mentre i suoi occhi trascorrevano inquieti da una pagina all’altra, se il luogo vero della poesia non fosse per caso né in una pagina né nell’altra, ma nello spazio vuoto fra entrambe. 

E vorrei concludere questa breve riflessione sulla difficoltà della lettura, chiedendovi se ciò che chiamiamo poesia non sia in verità qualcosa che incessantemente abita, lavora e sottende la lingua scritta per restituirla a quell’illeggibile da cui proviene e verso cui si mantiene in viaggio. 

(© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino)

ARTICOLO n. 94 / 2023

LE DONNE HANNO BISOGNO DI MOLTO PIÙ PIACERE

Intervista di Isabella De Silvestro

V è il nome che ha scelto per sé la drammaturga, scrittrice e attivista femminista Eve Ensler. Un nome che le fosse proprio, che la liberasse dal cognome del padre abusante e violento di cui ha scritto in Chiedimi scusa (Il Saggiatore, 2019). Autrice de I monologhi della vagina, definiti dal New York Times il più importante testo di teatro politico del decennio, tradotto in 48 lingue e rappresentato nei teatri di 140 paesi, V unisce scrittura e militanza come fossero un unico gesto: la parola per l’azione e l’azione attraverso la parola. Ha fondato il V-day, un movimento per la lotta contro la violenza sulle donne che ogni anno aiuta a finanziare rifugi e centri antiviolenza in tutto il mondo. 

Il suo ultimo libro si intitola Io sono un’esplosione. Una vita di lotta e di speranza (Il Saggiatore)Si tratta di un memoir frammentato eppure coerente, personale ma fortemente politico: «Forse la mia scrittura in tutti questi anni è stata semplicemente un registrare cadute: i senzatetto, gli imprigionati, i violentati, gli esiliati che cadevano nelle crepe, che cadevano e andavano in mille pezzi, una caduta di aspettative troppo alte, la paura di cadere nell’oblio». L’ho incontrata per parlare di cadute, muri, corpi e lotte. Di amore e di sesso. Del mondo come per lo conosciamo e del mondo per come lo vorremmo.

Isabella De Silvestro: Lei scrive di muri. Muri di prigioni, frontiere, rifugi per senzatetto, case di periferie. Perché si è sentita richiamata dai margini, da ciò che è escluso dal centro?

V: Credo di essere sempre stata interessata agli emarginati, alle persone escluse, probabilmente perché mi sono sempre sentita un’outsider anche io, fin da bambina. Mi sentivo estranea alla mia famiglia, violentata, picchiata, umiliata. E forse durante la mia infanzia avrei desiderato che qualcuno venisse da me, mi raggiungesse in quell’estraneità. Molto presto mi sono promessa che un giorno avrei raggiunto le persone invisibili e oppresse laddove nessuno le andava a trovare.

I.D.S. Dice di non avere uno strato di pelle, qualcosa che la protegga dal dolore degli altri. Eppure, va regolarmente e spontaneamente in territori di guerra facendosi testimone di storie terribili. Come sopravvive? Come fa a non cedere a un dolore sconsolato? 

V: Ieri sera a Firenze una donna mi ha detto una cosa interessante. Mi ha detto che per lei il libro [Io sono un’esplosione, n.d.r.] entra nel dolore, lo attraversa e lo valica. Io penso di aver sempre saputo che se mi permetto di sentire il dolore posso scavalcarlo, arrivare dove c’è speranza. Quando invece lo reprimo, lo scaccio, oppongo resistenza, mi ammalo. La ferita è un portale. 

I.D.S. Condividere le ferite con altre donne l’ha aiutata?

V: Assolutamente sì. Mi ha fatto capire che non ero sola, che potevo creare connessioni profonde che in fin dei conti sono amore e libertà. È una sensazione bellissima. A volte è tutto troppo doloroso, e allora devi solo piangere a letto per due settimane. Quando sono tornata dalla Repubblica Democratica del Congo sono rimasta a letto per un mese. Non riuscivo a funzionare.

I.D.S. Riusciva a scrivere?

V: Sì, a scrivere sì. Non è sempre così. A volte le cose sono troppo difficili da elaborare. Rispetto alla situazione a Gaza, per esempio, per un mese ho provato un dolore muto, privo di parole. Solo ora inizio a trovare qualche parola adatta. 

I.D.S. A proposito di Gaza, sono rimasta colpita da un passo del libro dove lei, rivolgendosi al suo amico Richard Royal, morto di AIDS, scrive: «Non c’è poesia che reciteresti, non dopo Auschwitz, non dopo Hiroshima». Che poesie reciteremo dopo Gaza?

V: È un’ottima domanda. Sarò onesta: mi sento avvolta nel dolore, sento come se il mio corpo fosse un sarcofago di dolore. E non so come si scrivano e recitino poesie dopo quello a cui abbiamo assistito. Il nostro stesso essere testimoni dell’orrore mi appare colpevole. Quindi non ho una risposta in questo momento. Cerco di concentrarmi sull’azione, sull’attivismo. In V-Day abbiamo lavorato intensamente con donne palestinesi e israeliane, cercando di immaginare un futuro dove i rapporti non sono regolati dalla violenza e dalla sopraffazione ma dal riconoscimento reciproco di dignità.

I.D.S. È stata in Israele e in Palestina?

V: Molte volte.

I.D.S. Qual è stata la sua impressione?

V: Quella che immagina. È dal 1948 che i palestinesi, con la prima Nakba, sono stati espulsi dalle loro terre. E per molti, molti anni, hanno vissuto sotto occupazione. Non vivono come cittadini a pieno titolo, non hanno pieni diritti. Hanno vissuto fondamentalmente in apartheid in Cisgiordania, e in una prigione a cielo aperto a Gaza. E seppure pensi che non ci sia giustificazione per la violenza e che quello che è accaduto il 7 ottobre sia orrendo – sono ebrea – penso anche che sia doveroso comprendere l’origine della violenza. Quali sono le radici della violenza? È la domanda a cui ho dedicato tutta la mia vita. Quando occupi le terre di un popolo, quando privi le persone dei propri diritti, quando non le lasci celebrare i funerali, quando le arresti senza processo, quando le sottoponi a centinaia di checkpoint cosicché smettano anche di provare a uscire, ciò che ottieni è rabbia. Io stessa sarei infuriata. 

I.D.S. Prima parlava di speranza. Rabbia e speranza possono coesistere?

V: Speranza è una parola strana. Vede, io sento che sto lottando per la mia vita e che lotterò fino all’ultimo respiro per la libertà, per porre fine alla violenza, al patriarcato, al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, all’imperialismo e per la sopravvivenza della nostra preziosa Madre Terra. Do la mia vita per questo. Alcuni giorni mi sento speranzosa, altri giorni no, ma è irrilevante. Questo è ciò che voglio fare della mia vita e non credo c’entri con la speranza, c’entra il fatto che è ciò che siamo chiamati a fare come esseri umani, Indipendentemente dal fatto che vinciamo o no. Non sta a noi decidere o preoccuparcene. Sta a noi lavorare per cambiare la situazione attuale, per trasformare la coscienza umana. 

I.D.S. E la rabbia? Che ruolo ha la rabbia?

V: Un ruolo fondamentale.

I.D.S. È un carburante? 

V: Lo è, ed è potente. La rabbia è energia ed è passione. Quando ne sei investito puoi imparare a canalizzarla e farne molte cose. Rispetto alle donne, è bene che la sentano e se ne servano, ma penso anche che non si possa essere solo arrabbiati. Penso che amore e rabbia debbano convergere. Nella Città della Gioia, in Congo, ogni sei mesi arrivano 90 donne vittime di violenza. Ovviamente hanno sofferto e sono arrabbiate, portano sul corpo i segni degli abusi. Ma hanno un’impressionante capacità di trasformare il dolore in potenza, di trasformare le peggiori tragedie in una sorta di movimento in avanti che sentono in primo luogo nel corpo. Quindi non vivono la loro vita come vittime, usano la forza ritrovata per sollevare altre donne dal baratro. Sono incredibili. E questo vale per le donne che ho incontrato in tutto il mondo. Ovunque.

I.D.S. A proposito di vittime: mi sembra che negli ultimi vent’anni ci sia stato un cambio di paradigma importante. Se nel ventesimo secolo lo stato di vittima non era desiderabile, oggi si tende a rivendicarlo come un’identità e un dispositivo politico. Che ne pensa?

V: Penso sia importante identificare le violenze subite, attraversare il processo che passa per la rabbia e arriva alla guarigione. Dunque, passare da vittima a sopravvissuta. E una volta che sei una sopravvissuta puoi iniziare a pensare ad altre persone: è tua responsabilità trasformare ciò che ti è accaduto in medicina per le persone che incontri. Crogiolarsi nell’identità di vittima trovo sia autodistruttivo e limitante. Riconoscere gli abusi subiti serve a lottare perché nessun altro li debba subire. 

I.D.S. Immagino lei abbia saputo del femminicidio di Giulia Cecchettin e dell’enorme risonanza che sta avendo la lettura femminista della sorella Elena, con una condanna chiara e lucida al patriarcato come sistema di potere al cui culmine sta l’eliminazione della donna attraverso l’uccisione. Nel suo libro scrive di non amare il concetto di “alleato” rispetto alla lotta contro il razzismo. Vale lo stesso per la lotta femminista? E intendo: cosa chiedere agli uomini?

V: Vede, il concetto di “alleato” implica una gerarchia dei ruoli che non sopporto. Peraltro, trovo ancora assurdo che porre fine alla violenza sulle donne sia diventata una questione delle donne. Non siamo noi a stuprarci o a picchiarci. E un problema degli uomini. Quindi no, non devono essere nostri alleati. Devono smettere di stuprarci, di ucciderci, di opprimerci. Ed essere in prima linea per smantellare il sistema patriarcale che si nutre di violenza e sopraffazione. E che va a braccetto con il sistema capitalistico. 

I.D.S. Quanto sono importanti le parole nell’affrontare le questioni di genere? Il come cambia il cosa?

V: Le parole sono molto importanti. Chi racconta la storia ha il potere sulla storia. Se c’è una cosa che ho imparato con I monologhi della vagina è che dire una parola molte volte ha degli effetti sulla realtà. Chi aveva paura di dire vagina, a forza di sentirla nominare ha iniziato a guardarla, a scoprirla, a scoprirsi e affermarsi.  

I.D.S. Il sesso fa parte dell’arsenale della rivoluzione femminista? 

V: Penso che il sesso sia liberazione, guarigione, potenza, gloria. Il sesso è estatico. Le donne hanno bisogno di molto, molto più piacere nelle loro vite. Le religioni ci hanno insegnato la paura del piacere per esercitare un controllo più efficace sui nostri corpi e le nostre vite. Credo fortemente nella masturbazione. Penso che sia la forma più alta di preghiera. Permette di capire fino a che punto puoi arrivare, quanto lontano possono arrivare i tuoi orgasmi. Questo vuol dire che poi, quando farai sesso con qualcuno, saprai dire: no, questo è solo l’inizio. Continuiamo. Non abbiamo ancora finito. 

I.D.S. È innamorata?

V: Non saprei… Non mi innamoro da molto tempo, forse quindici anni. Sono innamorata dei miei amici, vivo con loro in una piccola comune.  Ma non so se mi innamorerò di nuovo. Ma poi mi chiedo: è importante?

Ho avuto due relazioni a lungo termine. Entrambe sono state meravigliose ma oggi sono altrove. Amo la mia autonomia, la mia casa, la terra sulla quale vivo, amo viaggiare. Questa sono io: non ho mai voluto sposarmi, non sono una persona monogama. E oggi sono molto felice. Profondamente felice. Penso che sia collegato al riappropriarsi dei propri desideri, a capire finalmente che puoi volere e desiderare molte cose. 

I.D.S. Ha scritto di sentirsi orfana pur avendo una madre viva. Ci si può sentire madri senza aver dato alla luce? È madre di qualcuno o qualcosa?

V: Ho adottato mio figlio quando aveva 15 anni e io ne avevo 23. Ero sposata con suo padre e sono andata in tribunale per adottarlo. È mio figlio da 45 anni e l’ho amato come qualsiasi altra madre, un amore profondissimo. Quindi sì, puoi essere madre, puoi fare qualsiasi cosa tu voglia fare. L’amore è ciò che senti, ciò che vivi e ciò che fai. Il sangue invece è come… Non so, non so nemmeno cosa sia, non mi interessa più. 

I.D.S. Si sente fortunata?

V: Mi sento benedetta. Ho avuto un cancro quattordici anni fa e avrei dovuto morire. Non sono morta. Sono molto amata. E ho avuto una vita meravigliosa. Non ho più nulla di cui piangere. 

ARTICOLO n. 93 / 2023

UNO SPAZIO LIBERO DALLA PRESENZA MASCHILE

Nel 2020, un video virale su TikTok chiedeva alle ragazze che cosa avrebbero fatto se gli uomini fossero spariti dalla faccia della terra per 24 ore. I commenti e le risposte erano piuttosto deprimenti. Le ragazze desideravano fare cose banali, normalissime: “Uscirei di casa alle tre di notte”, “Andrei a fare una passeggiata da sola la sera”, “Mi sentirei sicura anche indossando una minigonna”. Il tema delle molestie di strada è forse uno dei più ostici da affrontare quando si parla di violenza di genere. Da un lato, le risposte securitarie rischiano di esasperare paura e xenofobia, dall’altro la risposta femminista secondo cui “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano” pone un difficile contro-argomento: gli uomini possono continuare ad attraversarle, quelle strade, oppure sarebbe meglio non ci fossero proprio, come sognano le utenti di TikTok?

In certi Paesi, in effetti, la segregazione di genere è stata l’unica risposta istituzionale al problema delle molestie di strada. Il Giappone vent’anni fa ha deciso di predisporre dei vagoni ferroviari riservati alle sole donne, ma l’efficacia di questa iniziativa è dibattuta. Anche in Italia si è discusso più volte di adottare questa soluzione, che torna ciclicamente ogni volta che si consuma una violenza su un mezzo pubblico. Nel 2021, si parlò molto di una petizione su Change.org iniziata da un gruppo di pendolari per chiedere a Trenord vagoni per sole donne e che raccolse in poche ore migliaia di firme.  

Il trend di TikTok e la richiesta di mezzi pubblici separati per uomini e donne sono due manifestazioni della paura che le donne nutrono nei confronti degli uomini, una paura che spesso viene taciuta per il timore di risultare esagerate, vittimiste o addirittura misandriche. Eppure quella paura c’è, è reale, ed entrambe le soluzioni si aggrappano a un’idea affascinante per quanto perturbante: un mondo in cui gli uomini non esistono, per 24 ore, per il tempo di un viaggio in metropolitana o addirittura per sempre. Non si tratta di una novità nell’immaginario femminista: negli Anni ’70 le femministe si trovarono a fare i conti con il problema dell’autonomia. La dipendenza dal modello maschile investiva ogni ambito: molte femministe si erano sbarazzate degli uomini nella propria vita affettiva e relazionale, i maschi erano interdetti dal partecipare alla pratica dell’autocoscienza, ma la questione si estendeva dal piano esistenziale a quello ontologico. Come possiamo, si domandavano le femministe, pretendere che la donna diventi soggetto autonomo se la sua identità è comunque decisa dall’uomo? Per Valerie Solanas la risposta era molto semplice: una convivenza armoniosa tra i generi è destinata al fallimento, quindi i maschi vanno eliminati, simbolicamente e concretamente. 

Nel suo manifesto del 1968 S.C.U.M. (dove l’acronimo sta per Society for Cutting Up Men), Solanas immaginava un piano di distruzione del genere maschile, identificandolo come il vero sesso debole. Senza alcuna pretesa di rigore scientifico o filosofico, con un uso spregiudicato della rabbia e del turpiloquio, il manifesto S.C.U.M. va letto non come una parodia o una provocazione, ma come un’utopia dove i maschi non sono più un problema per nessuno e dove non ci si vergogna di desiderarne la sparizione. A causa delle sue posizioni estremiste, per anni Solanas è stata una pària del pensiero femminista, specie dopo che sempre nel 1968 sparò ad Andy Warhol per vendicarsi del suo rifiuto di produrre il suo dramma teatrale Up Your Ass. L’opera di Solanas, e in un certo senso la sua vita, furono una contestazione tanto del machismo quanto del femminismo pacifista che pensava di poter mettere dei fiori nei cannoni del patriarcato. 

Oggi però quel sentimento misandrico che Solanas espresse in maniera così sboccata e inaccettabile si è fatto largo nel mainstream, pur in una versione più edulcorata e quasi sempre relegata alla fantasia. Gli uomini di Sandra Newman (Ponte alle Grazie) è solo l’ultimo romanzo che ha come tema un mondo senza maschi. Mentre si trova in campeggio, Jane perde improvvisamente il marito e i figli, spariti nel nulla. E così Ji-Won, mentre guarda la TV, si accorge che improvvisamente al posto dei presentatori c’è solo uno sfondo blu. Tutte le donne di questo romanzo hanno un rapporto ambivalente con gli uomini dentro e fuori dalla loro vita. In certi momenti hanno desiderato che sparissero, forse addirittura che morissero, ma li hanno anche amati profondamente e senza di loro si sentono perse. Di fronte al mondo caotico lasciato dalla loro scomparsa, non sanno cosa provare, non capiscono se sia effettivamente meglio o peggio così, un mondo senza uomini.  

La serie Y – L’ultimo uomo, tratta dall’omonimo fumetto DC Vertigo di Brian K. Vaughan e Pia Guerra e cancellata dopo la prima stagione, si basa sulla stessa premessa. Il cromosoma Y scompare, portando via con sé tutti gli individui maschi e persino gli embrioni e i campioni di sperma, rendendo vana la possibilità di ripopolare la Terra. Solo due individui si salvano: il giovane Yorick Brown e la sua scimmia domestica, Ampersand. In questo caso, la prospettiva di un mondo popolato da sole donne prende subito la piega di una catastrofe che condurrà l’umanità all’estinzione, da cui solo Yorick potrà salvarla. Anche il fortunato romanzo Ragazze elettriche di Naomi Alderman (nottetempo), anch’esso trasposto in una serie TV, esplora a suo modo il tema, nonostante la sparizione degli uomini sia più simbolica che concreta, nel momento in cui le donne scoprono di possedere il potere di emanare scosse dal proprio corpo. Nel giro di pochi giorni, le donne sottomettono i maschi in una spirale di violenza, vendetta o più prosaica sete di potere.

Tutte queste opere hanno qualcosa in comune. Il mondo senza uomini è infatti un mondo indesiderabile, terrificante, che precipita nel caos e nella disperazione. L’unica eccezione sembra essere quella di Barbie di Greta Gerwig, dove Barbieland è un mondo perfetto in cui la presenza dei maschi è del tutto irrilevante. Anche se è Barbie Stereotipo ad aver causato la frattura fra Barbieland e il mondo reale, è solo quando i Ken cercano di imporsi usando il patriarcato importato da Ken che si instaura un vero regime di distruzione, spezzando la perfezione del matriarcato delle bambole. Barbie è stato letto da alcuni come un film misandrico, in cui gli uomini sono rappresentati come degli inetti costantemente puniti. In effetti, quando le Barbie riescono a rimpossessarsi di Barbieland, devono adeguarsi a un mondo in cui la presenza degli uomini è contemplata, rinunciando all’utopia compiuta che avevano realizzato in precedenza.

Che sia il mondo plasticamente idilliaco di Barbie o l’apocalisse paventata da Gli uomini e da Y, il fantasma di un mondo senza maschi continua comunque a tornare, non solo nella fantasia. Il discusso pamphlet Odio gli uomini di Pauline Hermange (Garzanti), oggetto di un boicottaggio feroce anche da parte di un funzionario del Ministero delle Pari Opportunità francese, auspica il ritorno di una certa forma di separatismo che non si vergogna di dire di non voler avere nulla a che fare con gli uomini. Intanto, in Corea del Sud, uno dei Paesi con i tassi di violenza di genere più alti al mondo, si è costituito il movimento 4B, dove 4 sta per “no” e le B stanno per “matrimonio”, “figli”, “relazioni romantiche con uomini” e “rapporti sessuali con uomini”. Le militanti di questo movimento rifiutano il contatto maschile e i canoni estetici dominanti, lottando per un mondo senza uomini. 

La pervasività della fantasia di uno spazio libero dalla presenza maschile ci deve far interrogare sulla direzione del femminismo contemporaneo. Dopo l’egemonia di quello che Jessa Crispin chiama “femminismo universale”, un femminismo privo di conflittualità che si adatta a ogni tipo di esigenza, e di appelli per un “femminismo di tutti”, qualcosa sembra cambiare. Gli eclatanti casi di violenza sessuale che si sono verificati negli ultimi mesi in Italia, grazie ai quali abbiamo visto fin dove può spingersi l’“uomo qualunque”, hanno contribuito a diffondere la consapevolezza che non sono soltanto i mostri a commettere violenza sulle donne. In un certo senso, l’elaborazione collettiva di questi casi ha portato alla luce quella paura innominabile e nascosta, senza il timore di passare per pazze se ogni tanto si pensa a cosa succederebbe se gli uomini sparissero dalla faccia della terra per 24 ore. Per il momento, un mondo senza uomini resta solo un’ipotesi di finzione o al massimo un progetto teorico irrealizzabile. Ma, anche se catastrofici, scenari del genere ci consentono di esorcizzare quella paura.

ARTICOLO n. 92 / 2023

SONO UCRAINA E SONO UN SOGNO SPEZZATO

Cronache dal fronte

La strada, nonostante sia una via del centro, è deserta, non si sente un rumore, solo quello dei miei passi. Cammino con la busta della spesa tra le mani, i miei passi sono pesanti e il mio cuore lo è ancora di più. Vorrei correre, ma so che è meglio non farlo. Cammino velocemente, guardo a destra e guardo a sinistra. Cerco con gli occhi ogni possibile movimento. All’improvviso un suono lancinante, come un grido atroce e inumano, perfora i miei timpani. Il rumore assordante di un missile che avvolge tutto lo spazio attorno a me chiudendomi in una bolla. Credevo di esserci abituata, ma non è così: mi stringo nelle spalle, abbasso la testa e chiudo gli occhi. Resto pietrificata. La busta di plastica della spesa si contorce tra le mie dita che stringo fino a graffiarmi con le unghie i palmi delle mani. Dentro di me spero che non sia ora e che non sia qui, ma se deve succedere che sia rapido e indolore. Poi invece come venuto il rumore passa, riapro gli occhi: è solo una macchina che scivola grattando il fondo sulla strada dissestata di pietra. È durato meno di un secondo il ricordo dei giorni nella zona di guerra, poi è passato, ma la paura no e il dolore nemmeno. Riprendo fiato e il cuore si placa. Respiro, respiro piano.

Succede in ogni angolo del mondo, che mi trovi a Odessa – la mia città natale – o a Roma. Vivo sempre come se fossi in zona di guerra. Un rumore e dentro di me prende vita quel macabro rituale di morte. Un areo squarcia il cielo e io mi butto a terra con il cuore che esplode mentre con le mani cerco disperatamente di tapparmi le orecchie. Mi illudo di sfuggire a un frastuono che è ormai per me solo un sinonimo di morte imminente. 

La mia mente dal 24 febbraio 2022 vive in un tormento perpetuo dentro al quale si mischiano immagini e suoni che vogliono sempre e solo dire una cosa: morte. Non so se riuscirò mai a tornare a quella che era la mia apparente stabilità emotiva, non so se tornerò mai ai giorni prima della guerra, a quella pace che ora ricordo a malapena. La pace ha vissuto fuori e dentro di me, mentre ora per me e per milioni di altri ucraini è svanita nella voragine terrificante della guerra che ha deformato la nostra quotidianità in un incubo perenne. Lo chiamano PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) e a quanto pare ci dovrò convivere per molto tempo.

La guerra ha inciso indelebilmente sui nostri corpi e sulle nostre menti facendoci convivere con lo stress, con gli attacchi di panico e con una costante paura per noi stessi e per i nostri cari. Non importa quanto lontani o vicini siamo dal fronte, solo chi ha vissuto eventi traumatici come sono quelli che stanno sotto la parola “guerra” può sapere. Solo chi è sopravvissuto può capire e forse raccontare. 

Irrequietezza, flashback improvvisi, incubi, insonnia, depressione e il pensiero continuo della morte che tutto domina, sono solo alcuni dei sintomi del PTSD. La prossima crisi si materializzerà di sicuro sempre senza preavviso e non si sa mai quale abisso della mente sarà in grado di risvegliare.

Anche quando ritorno in Italia la mia apparente quiete può essere facilmente interrotta dall’innocuo rombo di un aereo civile, ma anche da un palloncino colorato che scoppia all’improvviso. O peggio ancora dall’odore di fumo e carne bruciata che risveglia in me ben altre sensazioni da quelle che normalmente avevo un tempo. Il fumo intravisto all’orizzonte, magari frutto di qualche sterpaglia raccolta in un campo, mi terrorizza perché per me ormai tutto questo vuole dire morte e basta. Il PTSD s’insinua nell’anima, inganna il cervello costringendolo a rievocare ricordi rimossi. Le tragedie vissute in questi mesi mi accompagnano ogni giorno ritornando vivide nella mia mente in modo sempre imprevedibile.

Così all’improvviso mi ritrovo rannicchiata a terra, immobile. Il respiro affannato e il cuore che batte all’impazzata. Quelli che sono rumori diventano urla che esplodono dalla mia testa fin dentro le mie orecchie. Subito cerco un angolo dove ripararmi, perché con un’esplosione le finestre si potrebbero trasformare in schegge di vetro mortali.

Alcuni vincono il terrore e riprendono il controllo di sé stessi dopo poco, ma per me non è così. Spesso il terrore si dilata in un attacco di panico che mi dilania. È una battaglia contro i miei ricordi, una battaglia che odio perché si nutre di ogni mia energia vitale e ultimamente di questa energia ne ho sempre di meno.

Ogni giorno che passa ho sempre più paura di essere sconfitta. Il nemico si nasconde ora nella mia mente. Più volte penso che la morte potrebbe essere l’unica soluzione per me: morire per mettere fine a questa sofferenza costante che strazia la mia testa. Morire per mia mano. Decidere la mia morte invece di aspettare che il fischio di un missile mi strappi via dalla vita. Mi fa paura la brutalità della morte. Ho già visto troppe volte le vittime dei bombardamenti, i loro corpi straziati e bruciati. Resisto solo pensando agli amici caduti in prima linea, loro sono la mia unica arma, la mia possibile salvezza. Hanno sacrificato la vita anche per me e io non posso buttare via un dono così prezioso. In guerra si vive anche e soprattutto per chi non c’è più. Si vive così per realizzare i sogni che furono di altri e per rendere l’Ucraina un posto migliore di come lo avevano immaginato e desiderato anche loro.

In Italia torno sempre più raramente, l’ansia si fa strada dentro di me anche solo passando nelle vicinanze di quelli che in Ucraina chiamiamo obiettivi sensibili: ospedali, presidi militari e infrastrutture. L’integrazione che mi ero conquistata in Italia dagli anni della scuola fino a quelli dell’Università è ormai un ricordo lontano. Allo stato attuale è per me addirittura un’impresa impossibile per quanto mi sento sommersa da paure e incubi continui. Non riesco più a comunicare per davvero con chi era mio amico, con i miei coetanei e i compagni di studi. Tutto mi appare superficiale e vacuo. In Italia e in quello che è stato un tempo il mio mondo si discute di cinema e di libri, di aperitivi e di feste. In Ucraina si lotta invece ogni giorno contro la morte. E anche io non posso mai smettere di combatterla, nemmeno quando sono in Italia. Vivo all’interno di un’ombra che mi circonda e mi isola da chi ancora può permettersi di immaginare e di fare una vita diversa.

La morte in sé non ci spaventa più, non spaventa me e non spaventa gli ucraini. Dopo quasi due anni di guerra l’abbiamo sfidata ormai troppe volte. La paura è tutta per i nostri cari e per i sogni che potrebbero non realizzarsi mai. Il 24 febbraio 2022 i nostri sogni sono stati congelati. Anche se a volte, di notte, mi sembra di ritrovarli. I miei sogni sono come i fiori della steppa ai primi freddi: cristallizzati nella loro corazza di ghiaccio, immutabili. Sogno i miei sogni che non mi appartengono più. I sogni di ora invece sono urgenti e pressanti, sono tutto quello che abbiamo. Sogniamo la fine della guerra, il ritorno dei nostri cari dal fronte, la smilitarizzazione della Russia e la restituzione dei territori sottratti agli altri popoli.

Quando sento dire che in Ucraina non vogliamo la pace e che dovremmo semplicemente cedere i territori occupati provo un senso di infinito smarrimento. E anche in Italia molti sembrano confondere la resa con la pace. Noi ucraini desideriamo la pace, ma una pace giusta, senza cedere nulla. Senza che nulla di nostro ci venga più tolto perché abbandonare i territori occupati vorrebbe dire svilire il sacrificio di chi credeva nel nostro paese al punto da perdere la propria vita in una guerra di resistenza. Nei territori occupati rimangono persone che attendono il nostro ritorno e abbandonarli sarebbe semplicemente un atto disumano. Mi torna in mente il giorno in cui incontrai una donna fuggita dai territori occupati. Al centro di accoglienza, quando scese dal pullman, piangeva disperata. Toccava la terra ucraina con amore e abbracciava chiunque le fosse vicino. Per quella donna vedere la bandiera ucraina dopo mesi di occupazione è stata una gioia straziante. Quello che ho visto nei suoi occhi ha un solo nome: libertà.

Cedere territori significherebbe per noi entrare in una morte lenta, vorrebbe dire accettare in poche parole di estinguerci. Sarebbe come mettere in pausa la guerra attuale per vivere nelle continue provocazioni russe dai territori occupati. La Russia avrebbe poi modo di rinforzarsi ulteriormente e lanciare un’escalation ancora più devastante e probabilmente definitiva. Chiedere a noi la pace è una vigliaccheria basata sulla paura di affrontare la realtà. Chi ci chiede questo preferisce semplicemente non complicarsi la vita, perché è facile evitare d’imporre alla Russia il ritiro dai territori. Ed è francamente ancora più facile illudersi che noi ucraini potremo mai arrenderci a questa invasione.

Non incolpo nessuno, anche perché non ne ho la forza e quella che ho a disposizione è già tutta in una guerra che mi ha stravolto la vita. Capisco anche il bisogno di allontanarsi dalle notizie e dalla brutalità, perché proprio quella brutalità può schiacciare l’anima, esattamente come ha schiacciato la mia. Non incolpo nessuno, ma l’indifferenza e il silenzio uccidono. Lo so perché l’ho visto, lo so perché lo vedo tutti i giorni.

Mi chiamo Karolina, ho 23 anni, e fino alla fine del 2021 ero una studentessa universitaria in Italia, una ragazza come tante altre. Ora quella vita per me non esiste più. La vostra normalità è un mondo straniero in cui io non posso più vivere. Sono ucraina e sono un sogno spezzato.

ARTICOLO n. 91 / 2023

PERCHÉ VOGLIO FOTTERE RONALD REAGAN

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume Non siamo qui per intrattenervi (Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alla convenzione del Partito Repubblicano svoltasi nel 1980 a San Francisco, alcuni burloni fotocopiarono e distribuirono la riproduzione di un capitolo di La mostra delle atrocità intitolato «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», eliminando il titolo e inserendovi il simbolo del Partito Repubblicano. «Mi è stato detto», riferisce Ballard, «che è stato accettato per quello che sembrava, e cioè una presa di posizione di tipo psicologico sulle attrattive subliminali del candidato, commissionata da una combriccola di cervelli bislacchi».

Cosa ci dice quest’atto neo-dadaista di inefficace provocazione? Da un certo punto di vista il gesto va salutato come il perfetto atto di sovversione. Ma da un’altra prospettiva indica che la sovversione oggi è ormai impossibile. Il gesto mette in discussione un’intera progenie di interventi ludici, dai dadaisti ai surrealisti fino ai situazionisti.

Se un tempo i dadaisti e i loro eredi potevano sognare di invadere il palco, interrompendo quello che Burroughs (ancora parte di tale tradizione in modo piuttosto ovvio) definisce lo «Studio della realtà» con bombe logiche/di logica, oggi non esiste più nessun palco da invadere – nessuna scena, direbbe Baudrillard. Per due ragioni: in primo luogo perché le zone di frontiera dell’ipercapitale non cercano più tanto di reprimere, quando piuttosto di assorbire l’irrazionale e l’illogico, e in secondo luogo perché la distinzione tra palco e retropalco è stata soppiantata da un loop di finzione più distaccata e inclusiva: la carriera di Reagan supera di gran lunga qualunque tentativo di prendersene gioco, e dimostra la crescente flessibilità dei confini tra il reale e le sue simulazioni. Per Baudrillard, proprio gli attacchi alla «realtà» inscenati da gruppi come quello dei surrealisti hanno la funzione di mantenere in vita la realtà (fornendole un mitico mondo onirico a prima vista alternativo in tutto e per tutto, ma in realtà dialetticamente complice del mondo quotidiano, del reale). 

«Il surrealismo è ancora solidale con il realismo che contesta, ma raddoppia con la sua irruzione nell’immaginario». Nelle condizioni di terzo (e quarto) ordine di simulacri, la vertigine travolgente dell’iperrealtà banalizza un’atmosfera gelida e allucinogena, assorbendo tutta la realtà all’interno della simulazione. La finzione è ovunque – e quindi, in un certo senso, scompare come categoria specifica. Se un tempo il ruolo di attore-presidente di Reagan sembrava «originale», nella sua successiva carriera, dove momenti della storia del cinema (nella memoria confusa del Presidente e nei resoconti mediatici) si mescolavano come in un fotomontaggio con i ruoli cinematografici interpretati da Reagan, il ludico si trasforma in ridicolo. 

L’apparente accettazione da parte dei delegati repubblicani dell’autenticità del testo di «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» è al tempo stesso scioccante e stranamente prevedibile, ed entrambe le reazioni testimoniano in effetti la forza delle finzioni di Ballard, che non risiede più tanto nell’abilità di riflettere in termini mimetici una realtà sociale preesistente, quanto nella capacità di ribaltarla in modo creativo. 

Il risultato ottenuto da Ballard è piuttosto ciò che Iain Hamilton-Grant chiama «realismo dell’iperreale», una partecipazione omeopatica alla media-cibernetizzazione della realtà del tardocapitalismo. Lo shock nasce nel momento in cui ci rendiamo conto di (ciò che sembrerebbe) l’aberrazione radicale del materiale di Ballard. «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», come varie altre parti di La mostra delle atrocità, specie verso la parte conclusiva del romanzo, viene presentato come una relazione su esperimenti di studio delle reazioni del pubblico a stimoli mediatici preconfezionati. 

Ronald Reagan e il disastro automobilistico concettuale. Su pazienti paretici allo stadio terminale sono stati effettuati numerosi studi, nei quali Reagan compariva in una serie di scontri d’auto simulati, per esempio tamponamenti multipli, collisioni frontali, attacchi a colonne d’auto (le fantasie di assassinii presidenziali hanno continuato ad essere al centro dell’attenzione, e i soggetti hanno mostrato una marcata fissazione polimorfa su parabrezza e tubi di scappamento). L’immagine del candidato presidenziale è stata oggetto di forti fantasie erotiche a carattere sadico-anale (J.G. Ballard, La mostra delle atrocità, cit., p. 211. 41).

Ma lo shock è controbilanciato da un senso di prevedibilità che nasce dalla fredda eleganza delle simulazioni di Ballard. Il tono tecnico della sua prosa – l’impersonalità e l’assenza di inflessioni emotive – svolge la funzione di neutralizzare o normalizzare un materiale apparentemente inaccettabile. 

Questa simulazione delle operazioni delle agenzie di ipercontrollo vuole costituirne una satira, oppure le loro attività – e l’intera scena culturale di cui sono parte – rendono ormai impossibile la satira in quanto tale? E qual è, dopotutto, il rapporto tra satira e simulazione? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna confrontare il testo di Ballard con altri testi più marcatamente «satirici». Ma occorre prima di tutto tenere presente i commenti di Jameson sull’eclissi della parodia ad opera del pastiche, che prenderemo qui brevemente in esame. 

In questa sede eviteremo di interrogarci sulle differenze tra parodia e satira: partiremo invece dal presupposto che, indipendentemente da ogni differenza tra loro, parodia e satira abbiano sufficienti elementi in comune per essere sottoposte insieme all’analisi di Jameson. 

La parodia, sostiene Jameson, dipendeva da un insieme di risorse un tempo disponibili al modernismo ma oggi scomparse: il soggetto individuale, il cui stile idiosincratico «inimitabile», come osserva ironicamente lo studioso, poteva per l’appunto dare origine a imitazioni; un forte senso della storia, che ha come necessario contraltare la convinzione che esista un mezzo d’espressione autenticamente contemporaneo; e una dedizione ai progetti collettivi, capace di motivare la scrittura e di conferirle un intento politico.

La scomparsa di questi elementi, indica Jameson, implica la scomparsa dello spazio della parodia. Lo stile individuale cede il passo a un «terreno di eterogeneità stilistica e discorsiva priva di una norma», esattamente come scompare la certezza del progresso e la fede nella possibilità di descrivere i tempi nuovi in termini nuovi, rimpiazzata dall’«imitazione di stili morti, […] un discorso condotto attraverso tutte le maschere e le voci immagazzinate nel museo immaginario di una cultura ormai globale». La «postalfabetizzazione» del tardocapitalismo, nel frattempo, indica «l’assenza di un qualche grande progetto collettivo». 

Il risultato, secondo Jameson, è un’esperienza priva di profondità, dove il passato si trova ovunque nel momento stesso in cui scompare il senso storico: ci ritroviamo con una «società spogliata di ogni storicità» che è al tempo stesso incapace di offrire qualcosa che non sia una versione riscaldata del passato. Il pastiche sostituisce la parodia: 

In questa situazione, la parodia si ritrova priva di una propria vocazione; ha fatto il suo tempo, e quella strana cosa che è il pastiche viene a prenderne lentamente il posto. Come la parodia, il pastiche è l’imitazione di uno stile peculiare e unico, idiosincratico, è una maschera linguistica, un discorso in una lingua morta. Ma di questa mimica costituisce una pratica neutrale, senza nessuna delle motivazioni recondite della parodia, monca dell’impulso satirico, priva di comicità e della convinzione che accanto a una lingua anormale presa momentaneamente in prestito esista ancora una sana normalità linguistica. Il pastiche è dunque una parodia vuota, una statua cieca…

Nonostante ciò che Jameson stesso scrive di Ballard, una delle differenze rilevanti tra l’opera dell’autore inglese e il pastiche descritto sopra è l’assenza di «nostalgia» o della «maniera nostalgica», che secondo Jameson costituisce invece un’insistente presenza in numerosi testi della fantascienza postmoderna. 

Al contrario, l’interesse di Ballard per le innovazioni testuali sorprendenti – come testimonia lo stesso layout delle pagine di La mostra delle atrocità – lo identificano come una sorta di anomalia in termini jamesoniani: quantomeno da tale prospettiva, Ballard sembra ricollegarsi al modernismo nell’accezione utilizzata dallo studioso americano. 

Da altri punti di vista, invece – specie nei termini del collasso della soggettività individuale e del fallimento dell’azione politica collettiva – Ballard appare emblematico della postmodernità di Jameson. Ma contrariamente al pastiche di Jameson, Ballard non imita «uno stile peculiare e unico, idiosincratico». Lo stile che l’autore simula in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», e verso cui nel complesso tende tutto La mostra delle atrocità, manca appunto di qualsiasi personalità: se esistono dei caratteri idiosincratici, si tratta qui di aspetti che appartengono al registro tecnico del reportage (pseudo) scientifico, non alle caratteristiche di un soggetto individuale. Il fatto che il testo riguardi un leader politico mette in evidenza l’assenza di ogni ideologia politica esplicita (o implicita, fatto ancor più rilevante quando si dibatte di satira e parodia) nella scrittura di Ballard. In questo senso in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», così come nel pastiche di Jameson, non c’è «nessuna delle motivazioni recondite della parodia». 

Ciò costituisce senza dubbio uno dei motivi per cui «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» differisce profondamente da classiche opere satiriche come per esempio Una modesta proposta di Jonathan Swift (1729). 

Quest’opera di Swift è paradigmatica di ciò che Joyce definiva «kinetic art», ovvero un’arte prodotta in particolari circostanze politiche e culturali e con il particolare fine di incitare il pubblico all’azione. Il proposito politico di Swift – la sua critica alla crudeltà di determinate reazioni inglesi alle carestie irlandesi – è contrassegnato da un certo eccesso stilistico e tematico (eccesso che alcuni lettori di Swift notoriamente non colsero, prendendo invece il testo alla lettera), mentre lo scritto di Ballard – emerso anch’esso, esattamente come quello di Swift, da una situazione socioculturale del tutto particolare – può essere contraddistinto dalla sua piattezza. 

Ciò costituisce un progresso (persino) rispetto a Burroughs. Con tutta la loro inventiva linguistica, routine umoristiche come «L’americano deansiogenizzato» di Burroughs restano nel solco classico della satira a causa dell’uso dell’esagerazione e dell’evidente agenda politica: attraverso l’uso di tropi eccessivi, Burroughs schernisce i costumi amorali della tecnoscienza americana. Ciò che per converso «manca» nel testo di Ballard è una qualsiasi chiara intenzione riguardo al lettore, una «motivazione recondita» in termini jamesoniani: mentre il testo parodistico ha sempre conferito un’importanza fondamentale al parodista che vi sta dietro, alle sue opinioni e ai suoi atteggiamenti impliciti ma evidenti, «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» appare freddo e anonimo come i testi che imita. 

Mentre nell’«Americano deansiogenizzato» si percepisce chiaramente Burroughs ridacchiare degli assurdi eccessi degli scienziati, la reazione di Ballard agli uomini di scienza di cui simula l’opera risulta indecifrabile. Cos’è che «Ballard» vuol far provare al lettore? Disgusto? Ilarità? Non è chiaro, e come afferma Baudrillard a proposito di Crash, la sovracodifica, da parte dell’autore Ballard, dei propri testi nelle note autoriali della prefazione, risulta piuttosto falsa, con tutto il tradizionale bagaglio di «avvertenze» che poi le note stesse eludono chiaramente. 

La modalità adottata da Ballard in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» non è quella dell’enfasi (satirica), ma di una sorta di estrapolazione (simulata). Lo stesso genere testuale del sondaggio e dello studio, come suggerisce Baudrillard, rende il problema privo di risposta, irrisolvibile. 

A dispetto di quanto suggerito sopra dallo stesso Ballard, ciò che conta non è tanto la (plausibile) somiglianza tra «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» e (plausibili) rapporti scientifici, quanto la circolazione di simulazione cui tali rapporti già contribuiscono. Analizzando il pastiche, Jameson s’imbatte nel concetto di simulazione, anche se lo attribuisce a Platone piuttosto che riferirlo (perlomeno qua) alla sua reinvenzione da parte di Baudrillard. 

L’intuizione di Jameson sul rapporto tra pastiche e simulazione resta tuttavia importante. Si potrebbe forse suggerire l’esistenza di una correlazione tra il terzo ordine di simulacri di Baudrillard e il pastiche di Jameson da un lato, e il testo di Ballard dall’altro. La simulazione nel senso del terzo ordine di Baudrillard, come abbiamo più volte osservato, implica il crollo della distanza tra simulazione e ciò che viene simulato. 

La satira, nel suo senso classico, si potrebbe probabilmente collocare nel territorio del «primo ordine di simulacri»: una simulazione che rassomiglia all’originale, ma con alcune differenze rivelatrici. Mentre Ballard simula la simulazione (l’indagine, lo studio). 

ARTICOLO n. 90 / 2023

GIOCO DA SOLA

Piacere femminile, autoerotismo e sex toys

Uno dei miei passatempi preferiti è quello di frequentare i mercati dell’antiquariato che, a weekend alterni, animano le piazze di Firenze. L’ultima volta, con mia somma gioia, mi sono imbattuta in un banco fornitissimo di macchine fotografiche vintage, oggetti che da anni mi diverto a collezionare. Mentre curiosavo, comparando modelli e testando accessori, mi è capitato di posare lo sguardo su un cofanetto che conteneva centinaia di fotografie in bianco e nero, risalenti ai primi del Novecento. Non è raro imbattersi in questo genere di merce dato che agli inizi del secolo scorso era consuetudine, tra le famiglie abbienti, andare dal fotografo per farsi scattare un ritratto. Le immagini ben ordinate nella scatolina, però, non erano di bambini imbronciati a causa dei lunghi tempi di posa, né ritratti di giovani coppie o di persone in punto di morte (una pratica ormai caduta in disuso ma che in quel periodo andava piuttosto di moda): rappresentavano donne seminude. Alcune erano disposte in pose languide, altre indossavano cinture in pelle e tenevano in mano frustini, altre ancora erano intente a masturbarsi con l’ausilio di oggetti non meglio identificati.

Sul finire dell’Ottocento l’avvento della fotografia ha sdoganato le immagini sessuali esplicite. In piena epoca vittoriana, un periodo considerato particolarmente difficile per la libertà femminile, appaiono così per la prima volta foto in cui le donne, tra crinoline e corsetti, mostrano una sessualità disinibita, al punto da ricorrere anche a strumenti – che oggi non esiteremmo a definire sex toys – per eccitarsi. Come abbiamo cercato di mettere in luce nel precedente articolo dedicato ad esplorare i miti della femminilità, per le donne è stato difficile conquistarsi il diritto di esistere in quanto soggetti desideranti. Queste immagini, tuttavia, dovrebbero farci ricredere e spingerci a mettere in discussione le conclusioni che abbiamo tratto precedentemente. 

La presenza di dildo artigianali che si ritrovano spesso in questi scatti è stata usata come pretesto per supporre che fosse consuetudine per le donne dell’epoca ricorrere a questo genere di ausilio e che addirittura la medicina li impiegasse come rimedio per alcuni problemi tipici della sessualità femminile. È stato il film Hysteria, arrivato in Italia nel 2011, a dare credito a questa teoria contenuta nel volume di Rachel Maines intitolato The Technology of Orgasm. J. M. Granville, il protagonista della pellicola, è un giovane medico che viene spesso licenziato dagli ospedali a causa delle teorie innovative che tenta invano di condividere con i colleghi. In seguito all’ultimo allontanamento, trova impiego presso una clinica privata che si propone di guarire le ricche donne borghesi dal male del secolo, l’isteria. È proprio lavorando in questo ambiente che, insieme al fratellastro inventore Edmund St. John-Smythe, mette a punto una specie di pistola vibrante che gli consente di trattare le pazienti – su cui dovrebbe effettuare lunghissimi ed estenuanti “massaggi” per riportare l’utero nella posizione originale – in molto meno tempo e con minor fatica.

Come spesso accade nella finzione cinematografica, alcune informazioni sono corrette, altre meno. Partiamo da quelle verificate: sappiamo che fin dall’antichità le teorie mediche ritenevano l’utero responsabile di gran parte delle patologie, più o meno visibili, sperimentate dalle donne. In un articolo apparso su The Vision, la giornalista Jennifer Guerra rintraccia le origini di queste teorie pseudoscientifiche nel Corpus Hippocraticum, cioè l’insieme dei testi attribuiti al medico Ippocrate. Scrive Guerra «(…) la donna avrebbe bisogno continuamente del coito, che secondo Ippocrate ha la funzione di riequilibrare le differenze di umidità dell’utero. Quando questo equilibrio viene rotto e l’utero rimane asciutto, perde peso e comincia a spostarsi nel ventre provocando dolore e “soffocazione isterica”, ovvero una sensazione di soffocamento e di confusione mentale». Nell’Ottocento, nonostante fossero state abbandonate da tempo queste traballanti motivazioni biologiche, era ancora consuetudine ritenere che l’utero fosse la principale causa delle malattie mentali femminili. Le tecniche che venivano impiegate per favorire la guarigione avevano a che fare con il “parossismo isterico” – una condizione molto particolare che poteva essere indotta grazie a specifiche stimolazioni vaginali e che forse costituisce il principale motivo che ha portato ad associare il vibratore  alla sessualità femminile, ma di questo diremo meglio poi.

Passando invece alle informazioni false, sappiamo che l’invenzione di Granville, risalente al 1880, non era stata progettata con funzioni di tipo sessuale e men che meno era stata pensata per essere utilizzata sulle donne. Il vibro-massaggiatore si caratterizzava pertanto come uno strumento in grado di alleviare dolori e tensioni muscolari negli uomini e non era pensato per altri scopi se non quello di lenire l’affaticamento di schiena e spalle. Come ricorda Kate Lister nel suo volume Sesso. Una storia imprevedibile, è lo stesso Granville, nel suo libro Nerve-vibration and excitation as agents in the treatment of functional disorder and organic disease a prendere posizione. Scrive a riguardo: «non l’ho ancora mai usato su una paziente donna (…) ho evitato e continuerò ad evitare il trattamento delle donne con percussione per il semplice fatto che non voglio essere ingannato dalle bizzarrie della condizione isterica». Ovviamente, il fatto che sia stato accertato che i vibro-massaggiatori non siano gli antesignani dei moderni dildo non significa che i medici di fine Ottocento non cercassero di “risolvere” l’isteria in qualche modo. Come è stato detto, molti di loro ricorrevano a “massaggi pelvici” che – attraverso la pressione delle dita dell’operatore collocate rispettivamente dentro la vagina e sulla pancia – avevano l’obiettivo di riportare l’utero nella sua posizione corretta. L’operazione si riteneva conclusa quanto la paziente raggiungeva il “parossismo” di cui abbiamo accennato prima, ovvero una condizione di liberazione in cui poteva ridere e piangere per ore, emettere flatulenze e finanche urinarsi addosso. È probabile che questi non fossero altro che gli effetti di una lunga sollecitazione masturbatoria, quello che tuttavia è importante sottolineare ai fini del nostro discorso è che per i medici dell’epoca l’autoerotismo era assolutamente bandito e queste erano considerate, a tutti gli effetti, pratiche mediche.

La masturbazione era considerata un pericolo perché confermava nelle donne la presenza di un certo impulso sessuale (esattamente come negli uomini) che la medicina aveva costantemente cercato di invisibilizzare. Il massaggio pelvico, pertanto, rappresentava il tentativo di normalizzare e medicalizzare un’azione che di “sanitario” era palese avesse ben poco. Basta leggere le descrizioni di come questi massaggi sarebbero dovuti avvenire per capire che fosse impossibile non riconoscerne il neanche troppo implicito contenuto erotico. Tuttavia, la cattiva reputazione che ha caratterizzato la masturbazione femminile ha resistito, inalterata, fino alla rivoluzione sessuale degli Anni Sessanta del secolo scorso. Nel famoso rapporto redatto da Alfred Kinsey nel 1953 intitolato Il comportamento sessuale della donna si ritrovano ancora molte di quelle credenze: alcune donne del campione, per esempio, credevano che «la masturbazione fosse la causa di acne facciale, monotonia, postura scorretta, disturbi di stomaco, dolore ovarico, cisti ovariche, cancro (…)».

Bisogna attendere gli Anni Sessanta affinché entrino in commercio i primi dildo. Complici le innovazioni in campo medico (come ad esempio la commercializzazione della pillola anticoncezionale) i movimenti femministi della seconda ondata cominciano a riflettere e a rimodellare la concezione tradizionale della sessualità, liberandola dall’obbligo riproduttivo, dal mito della maternità e persino dalla monogamia e dall’eterosessualità.

L’autrice Lynn Comella, nel suo Vibrator Nation, sottolinea come sia stata la crescente indipendenza economica che le donne americane iniziavano a sperimentare ad aver permesso le prime incursioni all’interno del mercato sessuale, sia come imprenditrici che come consumatrici. I primi sex toys, infatti, vengono introdotti all’interno dei laboratori femministi che attiviste e educatrici sessuali come Betty Dodson cominciavano ad avviare all’inizio degli Anni Settanta, trasformando i propri appartamenti in luoghi di ritrovo per tante donne desiderose di capire meglio e sperimentare il funzionamento del proprio corpo. Non solo: molte di loro, grazie a questi spazi, iniziano a chiedersi come poter commercializzare e acquistare i giocattoli erotici senza necessariamente doversi recare in un sexy shop, all’epoca pensato esclusivamente per un’utenza maschile. I primi dildo vengono venduti per corrispondenza, attraverso pubblicità dedicate sui giornali femminili o grazie a cataloghi recapitati per posta in forma anonima.

Torniamo allora alle fotografie in cui mi sono imbattuta per caso al mercatino delle pulci. Alla luce di quanto detto appare difficile pensare alle protagoniste degli scatti come soggetti attivi e desideranti. Per molto tempo la pornografia e gli eventuali giocattoli del sesso impiegati nelle scene che venivano fotografate o filmate, adottavano come unica prospettiva quella maschile. È stata la teorica Laura Mulvey, negli anni Settanta, a sostenere come tutti prodotti cinematografici (quindi, non solo l’industria del porno) ripropongano unicamente il “male gaze” – lo sguardo maschile – cercando di rispondere ai suoi bisogni visivi ed erotici.

Se è vero, come ricorda il giornalista Fern Riddle quando sul Guardian scrive «no, i vittoriani non hanno inventato il vibratore» bisogna altresì riconoscere che sapessero benissimo – come del resto era noto ai predecessori di ogni epoca e latitudine – cosa fosse un orgasmo femminile.

Le donne possiedono desideri e il loro piacere è addirittura concentrato in un organo dedicato, la clitoride, privo di altre funzioni: questo rende la loro sessualità potente e, in un certo senso, pericolosa, perché può mettere in discussione l’ordine patriarcale che la vuole subordinata a quella maschile e funzionale ad assolvere specifici doveri.In Occidente, l’epoca vittoriana è forse l’ultima che ha tentato di raccontare una storia fatta di pressioni sociali e obblighi morali. Grazie ai vibratori e ai sex toys, il femminismo l’ha riscritta.

ARTICOLO n. 89 / 2023

CAPITALISMO WOKE

Una conversazione con Carlo Pizzati

La cultura woke è davvero una prova che l’America sta ancora esportando la sua cultura di massa su larga scala in tutto il mondo, compreso nel Sud Globale? La guerra in Ucraina ha risvegliato il bisogno di democrazia nel mondo, o non sta invece rafforzando una deriva verso l’autocratismo? L’erosione di alcuni fondamenti della democrazia indiana è forse più dannosa per i Paesi del Sud globale che non il modello della “democrazia con caratteristiche cinesi”? L’invecchiamento dell’America, con due presidenti in età più che pensionabile e la gerontocrazia che occupa tanto Hollywood quanto Wall Street sono la riprova della decadenza finale degli Stati Uniti o solo un normale processo fisiologico?

Si parla di questo con David Rieff, brillante saggista e acuto analista politico americano, che troviamo in partenza da New York verso l’Ucraina, Paese che l’autore sostiene spesso con la sua presenza oltre che con i suoi interventi scritti, da quando è iniziata la guerra nel febbraio del 2022.

Carlo Pizzati: L’anno scorso lei pubblicò su The New Republic un’analisi titolata con una domanda: “Lo tsunami globale delle autocrazie può essere fermato?” Cosa risponderebbe, dopo un anno e mezzo dall’invasione russa oltre i confini ucraini?

David Rieff: Non c’è alcuna prova che questa tendenza possa essere fermata. Il populismo cresce ovunque, dal Messico degli impulsi autoritari di Lopez Obrador fino al Sahel dell’ex-impero francese. La frana continua, da un golpe all’altro, fino alla crisi democratica dell’India di Modi. Le idee che propugnavano alcuni analisti come Francis Fukuyama all’inizio del conflitto ucraino, cioè che la democrazia nel mondo sarebbe stata stimolata a un risveglio da questa sfida, non trovano riscontro nei fatti.

Non possiamo nemmeno dire che la difesa riuscita dell’Ucraina potrà arginare questa lenta marea. Il conflitto ucraino è cruciale per l’Europa e, in misura minore, per gli Stati Uniti. Ma il futuro della democrazia indiana che si combatte nel Kashmir o nel Manipur è più importante per i Paesi del Sud globale che non quanto accade a Kherson. Pensare altrimenti è una visione molto eurocentrica del mondo.

Gli Stati autoritari hanno fatto enormi progressi a causa delle crisi dell’Occidente di cui l’Occidente stesso deve assumersi la responsabilità. Diciamolo: l’Occidente è da tempo nel pieno di una crisi di identità. Tutti mettono in discussione tutto. Un ritorno all’appeal della democrazia richiederebbe molta più coerenza. L’Occidente non ha molto da proporre mentre le nazioni che facevano parte degli imperi coloniali guardano al loro passato in maniera diversa, dopo essere stati emarginati così a lungo. Davanti a loro vedono che l’impianto autoritario è coerente, mentre la democrazia è in guerra con sé stessa.

C. P. Allora quest’illusione che la guerra di Putin potesse risvegliare un impulso democratico era vana? Non esistono speranze nemmeno per il rallentamento dell’erosione interna della democrazia causata dai populismi?

D. R. Putin gode di un certo sostegno nel Sud globale, ma si basa molto sulla logica: il nemico del mio nemico diventa mio amico. Certo, in Siria o nel Mali magari vediamo folle sventolare bandiere russe con l’effige di Putin… ma basterebbe che qualsiasi di queste nazioni provasse ad assaggiare il sapore della dominazione russa per capire subito che, tutto sommato, i governi post-coloniali, per quanto corrotti e fallimentari, sono comunque meglio dell’alternativa russa. 

Però, certo, se l’Ucraina perde la guerra le possibilità di una ristorazione di qualcosa che ricorda la vecchia Unione sovietica aumentano subito. Non importa la confusione della propaganda russa che propone un’accozzaglia di simboli improbabili, mescolando Stalin con lo Zar Pietro il Grande nelle manifestazioni di orgoglio nazionalista: questa spinta è reale. 

Ciò che è parecchio inquietante in questa guerra è la disumanizzazione che la Russia crea verso il nemico, annientando il diritto a esistere dell’Ucraina prima ancora di bombardarla, negando che esista la sua lingua, dicendo che la sua identità culturale è solo folklore, che è tutta una costruzione a tavolino. Non c’è ancora stato un genocidio in Ucraina, ma c’è stato un genocidio culturale. È vero che la democrazia in Ucraina ha avuto un inizio disastrato, un po’ come la Bielorussia. Ma dal 2014 si è trasformata in una nazione genuinamente democratica, con un arco di eventi dai quali si può trarre ispirazione e trovare speranze per il processo democratico, augurandosi che non finisca in tragedia. 

La vicenda ucraina non ha davvero risvegliato le forze democratiche nel mondo, nonostante abbia ricevuto più solidarietà da parte dell’Europa di quanto ci si aspettasse. Ma questa battaglia per respingere l’aggressione russa in nome dell’indipendenza democratica non è che abbia rafforzato le forze democratiche in Europa.

C. P. Quindi da un lato del mondo abbiamo il fallimento della guerra in Ucraina nel riuscire a catalizzare un risveglio della democrazia, e dall’altra parte del mondo, nel Sud globale, abbiamo l’esempio dell’India che, come lei dice, scivola verso l’autocrazia. Sono due forze contrastanti, la guerra che alcuni speravano avrebbe risvegliato un amore per la democrazia e poi l’India che il think tank svedese V-dem definisce ora come “autocrazia elettorale”. Allora viene da chiedersi se, per il bene della democrazia nel mondo, sia positivo il tentativo di Biden di sfilare l’India dall’alleanza multipolare dei BRICS, sfruttando l’ambito del G20, e aiutarla nella sua gara contro la Cina per guidare il Sud globale? Quali sono le implicazioni di dare man forte a chi sta partecipando nell’erosione della democrazia, anche se in maniera abile e ben celata?

D. R. Penso che lo smottamento verso l’autocrazia del governo o regime di Modi, a seconda di come lo si voglia definire, per ora non rallenta. Ma, ammettiamolo, quante possibilità ha Biden di spuntarla, realisticamente, in questa nuova guerra fredda con la Cina? L’America dipende dalla Cina per l’acquisto dei suoi buoni del tesoro, come la Cina dipende dall’America per l’acquisto dei suoi prodotti. Niente a che vedere con il template degli Usa e Urss nella Guerra Fredda. Ma la rivalità è reale, come lo è la possibilità di una guerra tra queste due potenze. La Russia non sarà un partner commerciale accettabile per gli Stati Uniti né a breve né a lungo termine, a meno che non avvengano cambiamenti incredibili nel Paese, cosa altamente improbabile. Quindi resta il Sud globale e soprattutto l’India. Ed è per questo che nonostante la retorica delle critiche antiamericane del presidente brasiliano Lula, l’amministrazione Biden in sintesi dichiara, di fronte alle dichiarazioni ostili da Brasilia, che in realtà “le nostre relazioni con il Brasile vanno bene.” E questi sono proprio i fondamenti della geostrategia, che altro possono fare a Washington? Guardano ai fatti. 

L’economia americana non va così male, Biden è senz’altro un presidente sottostimato, che ha attirato un sacco di industrie da tante parti del mondo, compresa l’Europa, per quanto Macron e altri ne siano scontenti. Quindi abbiamo una nazione in cui, nonostante tutti i seri problemi che ha, l’economia non va male e che ha una forza militare coerente, nonostante le lagne dei Repubblicani sul fatto che “il movimento woke sta rovinando l’esercito.” Non li prenderei troppo sul serio. Cioè, le forze militari americane hanno i loro problemi, ma non sono di certo a causa del “Trans Day” in qualche base navale. Sono casomai i veri problemi sull’approvvigionamento e veri problemi di strategia. 

Dobbiamo tenere a mente il fatto che ogni forza militare al giorno d’oggi è in crisi a causa dell’Ucraina, crisi dovuta a una serie di postulati che si sono dimostrati fallaci. Per esempio, la strategia americana delle forze pluriarma, integrando fanteria e artiglieria in contesti urbani, non funziona come si pensava. Quando parli con le fonti militari ucraine non ufficialmente, off the record, bevendo un aperitivo, ti confessano che, “anche se ci avessero dato il sostegno aereo di cui avevamo bisogno per queste tecniche combinate, non avrebbero funzionato comunque.” Perché la guerra è cambiata. Anche la tecnologia militare deve essere ripensata, sia quella della Nato che quella cinese. Questa è stata la lezione dell’Ucraina.

Ma per tornare al punto, vede, io non amo il regime di Modi, e penso che il Congress Party, con tutta la loro corruzione, e nonostante tutti i limiti della famiglia Gandhi e tutti i loro errori, sia infinitamente preferibile all’attuale governo. Perché il Congress e l’opposizione in India credono davvero in una società multiculturale e, fatto ancor più importante, multilingue. Credo che il destino dell’India sia decisivo per il destino delle democrazie liberali. Perché la realtà è che continua a essere in crisi. Bisogna chiedersi se la democrazia liberale sarà la formula efficace in posti come l’Uganda. Se li abbiamo già noi i problemi sulla democrazia di massa, come funzionerà in quelle nazioni? Tutte le critiche fatte dalla scuola di Francoforte sui limiti della democrazia saranno ancora più accentuate. I problemi della rappresentatività, e non intendo le bandiere del movimento dei trans, parlo dei normali partiti politici… i problemi sono immensi. A quel punto la Cina appare più interessante come modello da seguire per alcuni Paesi emergenti.  La Cina ha strappato dalla povertà più persone che qualsiasi altra civiltà nella Storia in così poco tempo. Se tu sei un leader intelligente di una nazione del Sud globale quali sono le tue priorità? E, certo, forse alcuni modelli di sviluppo democratico hanno funzionato. Ma in che misura? Se togli la Cina dalle cifre dello sviluppo globale in questi decenni, la distribuzione della prosperità delle persone nel Sud globale è disastrosa. Se calcoli la Cina sembra che ci sia stato questo incredibile progresso. Ma se togli la Cina i risultati non sono altrettanto positivi.  Allora se è vero che a Modi riesce di fare qualcosa di simile, certo, allora sarà molto difficile per i Paesi del Sud globale resistere alla tentazione di essere più autocratici, di diventare appunto “autocrazie elettorali.”

C. P. Ma c’è una differenza un po’ più inquietante tra i due modelli. Da un lato la Cina, con Deng Xiaoping che prova ad aprire le porte del sistema comunista all’economia capitalista, per spianare la strada alla modernizzazione. Poi con Xi Jinping che la porta di nuovo verso una dittatura di ispirazione maoista, mantenendo i vantaggi di un sistema con aspetti del capitalismo. E lì si può dire che comunque c’è ancora speranza che la Cina in futuro si sposti verso la democrazia. Ma nel caso di Modi lo si può riassumere così: fatemi prendere questa democrazia e lasciatemela trasformare in un sistema più autocratico di modo che funzioni meglio. Questo è molto diverso, e forse più dannoso come esempio, se guardiamo a questa gara con la Cina su chi sia il modello migliore per il Sud globale, visto che non pare proprio che l’America sia più di ispirazione per molti.

D. R. Non so se sia più dannoso. Ma penso che sia vero che l’Hindutva escluda una percentuale molto più alta di indiani che l’Han-centrismo in Cina, per quanto tragico e orrendo sia quanto i cinesi hanno fatto agli uiguri nello Xinjiang. Ma dire alla cultura profonda e radicata nel Sud dell’India: non c’è posto per voi, qui. Cioè imporre l’hindi e cercare di eliminare l’inglese come lingua in India accusandola d’essere un retaggio coloniale e non una lingua franca che mette le altre lingue indiane sullo stesso livello, beh, sì, questo è un problema. Ma non so cosa sia peggio. Ricordiamoci che Deng Xiaoping emerse dalla calamità della rivoluzione culturale e che tentò di rimettere in carreggiata la Cina in una direzione meno omicida e meno auto-lesionista. E che ci sono dei problemi reali in Cina che Xi non vuole ammettere… come la crisi degli scarsi consumi interni che dimostrano che i consumatori cinesi non credono davvero nella prosperità ottenuta. Pechino deve creare un vero mercato di consumi nazionali perché non è detto che la Cina possa continuare a essere la Fabbrica del mondo all’infinito, poiché ci stiamo spostando in un mondo multipolare anche nella produzione. Ricordo che 20 anni fa scoprii che in Burundi tutti i preservativi erano made in China. E non è difficile produrre preservativi. Vogliamo credere che come parte dello sviluppo non ci sia anche quello che nel Burundi riusciranno a produrre i propri preservativi? Questo inevitabilmente metterà in crisi le esportazioni cinesi, se non sta già accadendo.

C. P. A parte il modello indiano, quello cinese e quello americano, esiste un altro modello democratico che possa ispirare i Paesi del Sud globale mentre cercano di trovare una strada per lo sviluppo economico?

D. R. Non vedo molti elementi per sperarci. Come diceva Lenin, nulla succede per decenni e poi decenni accadono in settimane, quindi ci possono essere molte sorprese. Ma per ora mi pare che le forze per l’autocratismo siano più solide che mai.

C. P. Una sorpresa che alcuni temono è che Trump potrebbe tornare alla presidenza l’anno prossimo. In che modo potrebbe incidere sullo scenario globale?

D. R. Quello che molti non dicono è che se Trump fosse riuscito a fare quello che aveva promesso, molto probabilmente sarebbe stato rieletto nel 2020. Se fosse riuscito a costruire le infrastrutture che aveva promesso sarebbe ancora alla Casa Bianca. Ma non le ha costruite e ha perso. Però non è detto che non ce la faccia a vincere nel 2024. Allora tutto quello che abbiamo detto subirà un influsso radicale. Ma ciò sta accadendo in tutto il mondo. Come, per esempio, questo Milei in Argentina, che non ha alcuna esperienza politica ed è probabilmente instabile mentalmente quanto Trump, anche se è probabilmente meno corrotto, ma non è per niente escluso che vinca le elezioni. Gli italiani che conosco dieci anni fa non avrebbero mai pensato di avere Meloni al governo. Non è solo Orban. È tutto il mondo, mi pare, che va in quella direzione.

C. P. Ma tornando in America, se i giovani del Sud globale rivolgono lo sguardo verso gli Stati Uniti come esempio da seguire nel paradigma democrazia-autocrazia, la possibile “sfida della terza età” tra Trump e Biden nel 2024, in un contesto dove a Hollywood gli anziani Spielberg e Scorsese comandano ancora… be’, dov’è finito quel vigore giovanile americano che si pensava dovesse ispirare il Sud globale? L’America è invecchiata ed è gestita da anziani. Non è un messaggio che propone un futuro molto dinamico.

D. R. Certo, la politica democratica Dianne Feinstein è morta a 90 anni, rifiutando di andare in pensione fino al capezzale. Qualcuno ha fatto la battuta dicendo: non si capisce perché la sua morte debba in qualche modo danneggiare la sua carriera politica! Certo, siamo in una gerontocrazia, qui in America. Gli anziani leader sovietici sono tutti morti o sono andati in pensione molto prima dell’età che hanno oggi Trump o Biden. Brezhnev se ne andò a 75 anni. E molti leader nelle altre parti del mondo sono più giovani.

C. P. Trudeau, Sunak, Meloni, Macron…

D. R. Gli Stati Uniti assomigliano ormai a Paesi come l’Egitto, una volta al potere non te ne vai più. Ma, mi scusi, quest’idea del vigore giovanile dell’America forse ce l’aveva suo nonno, a me pare sia scomparsa da molto…

C. P. Beh, Barack Obama mi sembra lo rappresentasse bene, quest’illusione del cambiamento che viene dai giovani.

D. R. Sì, simbolicamente, nonostante non sia stato un grande presidente. Ma da allora è finita. 

C. P. Quest’invecchiamento pare che tocchi anche la cultura, non solo la politica. La crisi di identità dell’Occidente di cui lei parla va mano nella mano con la sua crisi culturale. Forse il modello occidentale è stato da esempio troppo a lungo, risentendo di una normale stanchezza storica. Le famose crisi delle élite di Vilfredo Pareto… Non crede che il vuoto che l’America sta lasciando in campo culturale, nonostante l’hardware della comunicazione sia ancora in mani americane come la Apple, Microsoft, Meta, Alphabet ecc., sia sempre più evidente? L’America ispirava il mondo politicamente, ma anche culturalmente. Non è più così.

D. R. Sì e no. Capisco cosa intende. Ma chi è interessato alla cultura alta, di certo viene qui a New York, non va nella Corea del Sud.

C. P. A dire il vero, per quanto riguarda la musica K-Pop, la letteratura più originale e il cinema di qualità, negli ultimi anni la Corea del Sud ha proposto opere più innovative e creative che la ricca fabbrica culturale degli Stati Uniti.

D. R. Però c’è l’accumulo nel mondo di tutte queste idee woke, se vogliamo definirle così… anche se il movimento woke è una critica all’ordine costituito americano, o meglio, così si considera, in realtà il fatto che sia stato adottato così velocemente da Buenos Aires fino al Sudafrica, mi fa pensare che l’egemonia culturale americana, anche se negativa, continua a essere molto più potente di quanto avrei pensato.

C. P. Però mi chiedo se la cultura woke non sia da considerare più come propaganda politica e sociale che non cultura, in questo contesto. Cioè, la sua missione è di trasformare la società, ma l’espressione artistica che ha prodotto finora sembra aver raggiunto un livello qualitativo piuttosto scarso, non trova? Il problema è che se scrivi un libro, giri una serie, un lungometraggio, oppure crei un’opera d’arte o un brano musicale con l’intenzione di promuovere un messaggio politico allora si rompe l’incantesimo, un fenomeno già visto nella produzione culturale sovietica o fascista. Il Minculpop non funziona. L’artista impegnato se si impegna troppo crea opere inefficaci, perché il messaggio sovrasta il racconto, l’opera stessa, ed è li che si scorge la propaganda. Così in film come Barbie o nelle serie come BridgertonDear White PeopleWhite LotusSex Education, quando incappiamo negli ormai obbligatori monologhi salmodianti sull’importante e per me condivisibile messaggio woke, la magia muore in un istante ed è subito comizio.

D. R. Sì, su questo sono completamente d’accordo. Per me l’impatto della cultura woke è quello di “rendere il mondo sicuro” per il kitsch. Perché non c’è alcuna obiezione politica al kitsch, c’è però un’obiezione politica alla cultura alta.

C. P. Certo, perché la cultura alta riesce a integrare un messaggio più profondo in una narrazione spontanea.

D. R. Sì, invece il woke è tutto molto naïve. Per esempio il fatto che tutti i dibattiti sul tema hanno luogo solo tra persone che parlano in inglese e quindi parliamo di emancipazione mono-linguistica, non inclusiva di tutte le altre lingue. 

Ma non credo nemmeno che il movimento woke sia una minaccia politica, di certo non è una minaccia al capitalismo. Woke è una bandiera politica di convenienza per il trionfo di forme alternative di cultura popolare. Forse non era l’intenzione del movimento woke, ma è l’impatto che ha avuto finora. Non penso sia una minaccia al sistema. Altrimenti tutti questi business e queste corporations, se avessero pensato che poteva intaccare i loro profitti, non sarebbero saliti sul carro del capitalismo woke. Certo, c’è della gente di destra che è terrorizzata dagli studi queer all’Università della California, ma, onestamente, non fanno paura al sistema vero, al potere. Tutt’altro.

ARTICOLO n. 88 / 2023

COSA NON FAREBBERO GLI ATTORI PER UNA BATTUTA

Pubblichiamo un’anticipazione da Lasciateci perdere (Rizzoli) da oggi nelle librerie. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Io vi amo tutti e due. E va bene, io voglio anche ammettere di avere sbagliato, ma il fatto è che voi due, insieme, siete un uomo perfetto. Allora da un certo punto di vista, vale a dire dal mio punto di vista, io mi sono innamorata di un uomo solo! (Laura Morante, Turné, 1990)

Marrakech Express era uscito al Mignon di Milano a maggio ed era rimasto in cartellone estate, autunno e parte dell’inverno. Lo smontarono verso Natale. Una cosa oggi impensabile. E tutto grazie al passaparola!

Elettrizzato da questo successo, Minervini mi propone Turné, una storia che aveva già per le mani e che gli piaceva molto perché, in qualche modo, lo riguardava. Anche lui aveva fatto parte di una relazione sentimentale “triangolare” e sapeva come ci si sente in certe situazioni. 

Al soggetto aveva partecipato Paolo Virzì, la sceneggiatura l’avevano scritta Francesca Marciano e Fabrizio Bentivoglio, che allora stavano insieme. Era un po’ diversa da come poi l’abbiamo girata. A un certo punto, la madre di uno dei protagonisti moriva, c’era una lunga deviazione in cui andavano a spargere le ceneri e secondo me non funzionava. 

A quei tempi i film si facevano in gran fretta e Minervini aveva il doppio della fretta di chiunque altro. Così, già a metà dei sopralluoghi, chiedo e ottengo quindici giorni per fermarci e riscrivere la seconda parte del testo.

Si potrebbe pensare che Turné, storia di un triangolo amoroso ambientato nel mondo del teatro, fosse il film con cui io volevo sublimare la mia vicenda sentimentale. Non è così. Però il progetto cascò dal cielo al momento giusto. Avevo conoscenza diretta di qualcosa di molto simile, ovvero la sensazione di déplacement che si prova nel sentirsi divisi tra due persone. Ma quello che per me è l’aspetto più interessante di Turné è il tema di come due esseri completamente diversi tra loro possano affascinare e fare innamorare la stessa persona. Per diventare chi siamo, dobbiamo confrontarci con altro da noi, dobbiamo scovare il nostro “compagno segreto”, come quello del racconto di Joseph Conrad. Nella stiva della nave su cui viaggiamo, c’è una parte di noi sconosciuta agli altri e che prima o poi emergerà.

Ricordo la lavorazione di Turné come un’esperienza complicata, con momenti che, a ripensarci adesso, sembrano usciti da una commedia di Feydeau. Dormivamo negli stessi alberghi, spesso occupando stanze sullo stesso piano, nello stesso corridoio. Io stavo con Rita però non lo avevamo detto a nessuno. Diego (Abatantuono, ndr) stava già con Giulia, che poi è diventata la sua seconda moglie. Giulia non venne mai sul set, in compenso Rita ci raggiunse qualche volta, sempre per portare Marta a passare del tempo con suo padre. Fabrizio stava da solo ma era uno straccio perché, nel frattempo, si era appena lasciato con la sua compagna di allora. Un dettaglio che, cinicamente, si rivelò molto utile alla sua interpretazione di disperato sentimentale. 

Laura Morante, la protagonista femminile, mi era stata consigliata dal solito Minervini che, evidentemente, aveva un grande occhio per gli attori perché era perfetta per il ruolo. 

Laura arrivò sul set e, purtroppo per lei, trovò una situazione ad alto tasso di testosterone. 

Io, Diego, Fabrizio e Italo eravamo legatissimi dopo l’avventura di Marrakech Express e vivevamo Turné come il prolungamento di quell’esperienza imprevedibilmente magica. Avevamo un nostro gergo da tribù coesa, parlavamo e facevamo insieme cose da maschi: il calcio, il Nintendo. 

Credo che Laura si sentisse esclusa e probabilmente aveva ragione. Inoltre, Diego e Laura sono agli opposti in tutto e per tutto. Discutevano di continuo. Su cose piccole e sui massimi sistemi della recitazione. Liti furibonde, lei che sosteneva che l’attore dovesse lavorare per creare personaggi diversi da sé, Diego che rispondeva tutto concitato che l’attore è se stesso e non cambia mai. 

Tale era il clima che fui costretto a girare separatamente alcune delle scene tra loro due. Il primo piano di lui un giorno, quello di lei il giorno dopo. 

Nonostante la sarabanda di amori e umori, Turné riuscì bene. Partecipò al festival di Cannes nella sezione Un certain regard e in sala incassò ancora meglio di Marrakech Express

Seguì, quasi subito, Mediterraneo. Ed eccoci tutti quanti o quasi, di nuovo insieme, compreso Ugo Conti, l’amico d’infanzia di Diego che non poteva mai mancare perché la sua presenza lo rasserenava e tranquillizzava e a cui siamo tutti affezionati. In più c’era Vana Barba, la ex-Miss Grecia che interpreta la prostituta Vassilissa e che verrà con noi anche alla notte degli Oscar. 

Per il ruolo di Aziz, il turco imbroglione, quello che dice «non zo», avevo scelto Alessandro Vivarelli, che in realtà era uno degli organizzatori del film. Un ragazzo di grande simpatia di cui, già dai giorni di Marrakech Express, ero diventato molto amico, condividendo con lui musica, sogni e rabbie. Aveva talento e una faccia fantastica, avrebbe potuto continuare sia a fare il produttore sia l’attore. Se n’è andato presto, quattro anni dopo Mediterraneo. Con una siringa di eroina infilata nel braccio. 

A Kastellorizo c’era un solo hotel, bruttino. Per il resto, la produzione affittò delle case di pescatori più una casetta molto carina sul porto, di proprietà di una coppia tedesca, dove sarei dovuto stare io. A Diego era destinata una casa più grande, ma all’interno del paese e ancora in costruzione. Appena arrivati sull’isola e dato un’occhiata alle residenze che ci avevano assegnato, Diego viene da me e mi propone di fare cambio. Sua figlia Marta si sveglia presto, lui vuole dormire più a lungo e preferirebbe stare da solo. In pratica, mi mette in casa di Rita. A quel punto, gli abbiamo detto come stavano le cose. 

La sua reazione fu tranquilla e un po’ sbruffona: «L’ho sempre saputo, ho fatto di tutto io per farvi incontrare». 

Qualcosa di vero c’era. Rita mi ha raccontato che, parlandole di me, quando ancora lei non mi conosceva, Diego le aveva detto: «Ho incontrato un regista, è uno che potrebbe piacerti. Te lo presenterò, comunque, perché tanto secondo me è frocio». Un assist perfetto! 

Capisco che, vista dal di fuori, la nostra storia può sembrare bizzarra, ma non ci sono mai state discussioni o problemi seri tra me e Diego per questo, né allora né dopo. 

Sul set di Mediterraneo andò tutto bene. Anzi: mi viene da pensare che una volta rivelato il nostro “segreto”, l’aria intorno a noi fu ancora più leggera. 

Ho visto Diego incazzato una volta sola, in quelle settimane. Un giorno avevamo organizzato una festicciola nei tre ristoranti dell’isola per festeggiare dei compleanni, non ricordo di chi. Diego aveva comprato dei piccoli regali per tutti, poi era andato a dormire. Prima di cena, io e Rita passiamo dalla famosa casetta sul porto dove stava lui. Bussiamo più volte. Non risponde. Ci diciamo: «Arriverà». Lui si presenta con oltre due ore di ritardo, infuriatissimo e offeso, sostenendo che ci eravamo dimenticati di lui. Pieno di rabbia, prende tutti i regalini e li butta in mare. 

Sono affezionato a Diego, così come voglio bene a Marta, sua figlia. Un po’ per timidezza e un po’ per discrezione non mi sono mai imposto come vice padre, ma le sono legatissimo. Quando io e Rita ci siamo messi insieme, era una bambina di appena cinque anni. È cresciuta vedendoci lavorare uno accanto all’altro: sua madre, suo padre e io. 

Da ragazzina, ci ha contestati spesso severamente: «Voi, vestiti da straccioni, voi che fumate quelle sigarette puzzolenti» ci rimproverava, con quel tono giudicante e apodittico che possono avere i ragazzini. Mi raccontò che, quando andava alle elementari, a volte Rita saltava giù dal letto di corsa e la accompagnava a scuola ancora in pigiama e lei le intimava di non avvicinarsi alle altre madri o agli insegnanti “conciata così”. 

Adesso Marta è una donna, con modelli di vita giustamente molto diversi dai nostri, come ogni figlio dovrebbe avere. Ha sposato un cardiochirurgo, facendomi così un grande regalo perché ha realizzato il mio sogno di avere finalmente un medico in famiglia. È madre di tre bambini bellissimi che considero miei nipotini acquisiti, come nonno in seconda. Naturalmente, a Diego piace molto dire in giro che io sono il “BIS nonno”. Che cosa non farebbero gli attori per una battuta.

(© 2023 Rizzoli, Milano)

ARTICOLO n. 87 / 2023

PER ERNESTO FERRERO

Quando si entra a far parte di una casa editrice di una certa importanza, tradizione e prestigio, si rimane frastornati; l’incontro diretto con autori di cui si sono apprezzate le pagine, o con l’editore e i suoi più stretti collaboratori, mette soggezione; e, più in profondità, suscita un cauto orgoglio. Sembra di aver passato la porta di ingresso nel pantheon dove regna incontrastato il pensiero, e dove i passi sono tutti di persone di elevata statura morale, ovviamente scrigni di saperi sconfinati. Pochi giorni a un tavolo di lavoro e già si hanno i primi sospetti che non sia così.

Entrando all’Einaudi nei primi anni Settanta, si incrociavano gli occhi irridenti e ghiacciati di Giulio Einaudi, quelli grandi e interrogativi di Giulio Bollati, e di molti altri che sembravano dirti: “non penserai che sia una passeggiata, che adesso ti metti comodo a leggere, o a scrivere; vedrai…” Erano occhi sfidanti, quando ti andava bene simili a quelli di chi aveva già fatto molte guerre, e che ti guardavano con l’aria un po’ sprezzante, un po’ pietosa di chi annuncia durissime prove iniziatiche. E questo era vero. Presentazioni e passaggio alle prove. Fra quelle molte paia di occhi un po’ spaventosi, l’incontro con quelli di Ernesto Ferrero era piacevolmente rassicurante: il suo sguardo riceveva lo sconosciuto con cordiale affabilità, senza l’ombra di sfide e competizioni, nulla di quel brillìo vagamente omicida che traspariva fra le palpebre di tanti altri. Allora ancora giovane, senza alcuna traccia nelle parole o nei gesti degli anni roventi recenti e presenti, Ernesto era accogliente, amichevole, e sempre sorridente. Non rideva né parlava ad alta voce; in via Biancamano l’unico che fendeva con i suoi fragori vocali un silenzio connaturato con la scrittura e la lettura era Guido Davico Bonino. No, intendiamoci, Ernesto non aveva affatto l’aria del monaco amanuense, ma era naturalmente gentile, di aurea mediocritas quanto al tono della voce: una voce senza inflessioni, nordica, morbidamente ironica. Di ironia, si sa, se ne parla spesso, ma poi si sente piuttosto il sarcasmo, o il dileggio. Reduci da un ’68 che fra altre predizioni annunciava che “l’ironia vi seppellirà”, in Einaudi – pur così vicina a tanto movimento di persone e idee in quegli anni – di quella materia fine ne circolava poca. Ernesto ne aveva, viceversa, un buon bagaglio. E la usava con discrezione. Dove altri avrebbero lasciato cadere una frase velenosa all’indirizzo di un collega, di una celebre dama della letteratura o di un principe del pensiero politico, Ernesto si limitava a due o tre parole allusive, intinte in un calamaio di ironia. Non l’ho mai sentito inveire contro qualcuno, né usare toni accesi, anche quando ve ne erano tutte le ragioni. Nessuno e neppure Ernesto, nonostante abbia trascorso i migliori anni della sua vita in Einaudi, ha attraversato quelle stanze senza inciampi, scambi anche aspri, situazioni difficili e persino drammatiche. Ma, come la regina Elisabetta, never complain never explain. Almeno in pubblico. Ma anche in privato, dopo aver consolidato una certa intesa con l’interlocutore, era più forte un certo sguardo di molte parole: che, come ci insegnavano i grandi veri, quelli indiscutibili, Primo Levi e Italo Calvino, non andavano sprecate. Ed Ernesto, in questo, sia per inclinazione personale sia per affinamento nella frequentazione di quei severi maestri, era stato un ottimo allievo e a sua volta un maestro. Dopo le quarte di copertina di Calvino, quelle di Ernesto sono state le migliori: scritte con la sapienza di uno scrittore, criticamente ineccepibili e con un invito alla lettura senza strilli, seduttivo e senza fronzoli.

Ernesto ha attraversato alcuni degli anni più vivaci della vita dell’Einaudi. La riunione del mercoledì era effettivamente una scuola di alti studi: insieme con i senatori, i vecchi compagni di strada di Einaudi, presenziavano invitati e studiosi che di volta in volta erano chiamati a esprimere giudizi su libri e autori senza ambiguità, senza perifrasi sibilline, meglio se con una certa ferocia. In quella camera caritatis dove vigeva la regola del silenzio totale appena fuori da quello spazio di libertà e di combattimento, nonostante Einaudi aizzasse tutti contro tutti, Ernesto manteneva una sua maniera di uomo per bene; non vi erano risse a cui ricordi di averlo visto partecipare. E non si creda che stia esagerando: ho personalmente chiamato l’ambulanza per un primario poeta e critico delle patrie lettere dopo una soffocata invettiva contro Giulio Einaudi, che lo aveva dileggiato come un ragazzino. Ernesto, in queste situazioni, esibiva una eleganza che era anche ineffabilità, quasi fatalismo: in un posto così, così incredibile per chiunque non lo potesse vedere con i propri occhi o subire sulla propria pelle, era naturale che ci fossero spargimenti di sangue. Salvo poi, oltre la riunione, rimettersi agli sguardi degli esterni in formazione compatta, come una piccola testuggine romana. 

Giulio Bollati e Giulio Einaudi, i due Giuli, erano molto diversi fra loro; erano i capi indiscussi di via Biancamano e tendevano a fare proseliti. Non sempre era facile districarsi da quelle volontà di schieramento. Non lo fu neppure per Ernesto che, anche dopo varie esperienze in altre case editrici, restò legato allo Struzzo nel ricordo dei suoi anni migliori, e anche al bizzoso patron, che in tempi meno generosi di fortuna personale venne accolto da Ernesto e da Carla con affetto filiale e senza ombre di possibili recriminazioni.

Ma intanto, oltre a lavorare sui libri degli altri, Ernesto scriveva i suoi. È inutile ricordarli; se ne conoscono le pagine e i riconoscimenti che le hanno premiate. Ma non è inutile sottolineare che da acuto lettore di Primo Levi e Italo Calvino, Ernesto Ferrero ha fatto propria un’attitudine alla scarnificazione del testo, alla limatura della frase e della parola, alla levigatezza del discorso. Come si diceva in via Biancamano di fronte a testi di grande volume, “non ha avuto tempo di scrivere di meno”. Ecco, quel tempo, come i suoi due fari letterari e per certi versi anche umani, Ernesto se lo è preso sempre. E proprio con la sua ultima fatica, con Italo, ha raggiunto una maturità di scrittura, una limpidezza di stile e una intelligenza critica forse non toccate prima: come una vetta o un approdo definitivo. La sua discrezione, quel suo sorriso sempre presente a ingentilire il suo sguardo, sono stati interiorizzati anche stilisticamente e restituiti alla pagina con una estrema, e purtroppo definitiva, felicità.

ARTICOLO n. 86 / 2023

ANTONIO FASAN, UN FORNO GIALLO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Ogni giorno si compiono numerose scelte di selezione e ben poche scelte d’invenzione. Mi sveglio e, tuta o tailleur, decido come vestirmi. Al cafè, premo il dito sulla vetrinetta per segnalare il pasticcino che desidero. Al negozio di arredamento, mi domando se acquistare il cuscino di chintz o quello di lino (compro quello in lino anche se il mio cuore è di chintz). Cuore, cuore… Lui mi scrive di essere nell’atrio, che emoji gli mando? Sì, un cuore, ma di quale colore? Giallo, bianco, marrone, grigio, arancione, azzurro, blu o un disperatissimo rosso?

Quasi ogni movimento della quotidianità presuppone la scelta necessaria o contingente di un colore preselezionato da tendenze, usi, costumi, disponibilità; a noi è chiesto solo di abbinarlo o tuttalpiù di rapportarci a esso accogliendolo o rifiutandolo.

Nelle arti definirsi ‘colorista’ equivale ormai a offrire un Plasmon anziché un chewing gum. Molti artisti hanno solo una vaga idea del perché usino determinati colori; anzi, sempre più spesso il colore trascende l’artista immettendo nell’opera sottotesti che l’ignaro artefice maneggia solo in seconda istanza. 

Chi ha già letto il primo episodio di questa serie dedicata al paesaggismo veneto sa che non scrivo di pigmenti o pruderie tecniche, bensì dei significati morali, economici e politici veicolati dai toni e dalle sfumature. Al rosa shocking basta un niente per divenire il più statalista, se non fascista, e paranoico tra tutti i rosa, ma può essere ammansito con un nero tinto nel marrone e in qualche gocciolina del sangue di Marie Duplessis.

Nella mia città, Padova, che io vedo giallorosa e allegra come una madonna che si è persa tra le villette residenziali, ha abitato, nel secolo scorso, un pittore che faceva il fornaio in Piazza della Frutta e che durante il Ventennio trascorse i suoi twenties and thirties inventandosi colori domenicali, fiduciosi e antifascisti. Aureolini pescati, azzurri lavati caricati di bianco, verdi menta luminosi e saturi.

Antonio Fasan (1902 – 1985), amato e collezionato in vita da spiriti cui non siamo indifferenti quali Giò Ponti e De Pisis, è da tutti descritto come un fanciullo speculativo che appare tra le farine del forno. Il critico e pittore Vincenzo Costantini lo paragona a un «tipo di studente o giovane farmacista che, vestito di un lungo camice bianchissimo ci guarda con occhio immobile dietro i vetri degli occhiali». Anche il mercante Carlo Cardazzo rimarca la bontà di Fasan: «è veramente “un candido”» e «sembra più un allievo della Compagnia di Sant’Ignazio di Loyola che quello che è». Giò Ponti, che lo coinvolge in mirabili progetti, compendia Fasan nella “’impenetrabilità dei temperamenti sensibili”.

Fasan comincia a dipingere nel 1926 e oltre all’ambiente padovano frequenta dapprima quello veneziano, dove grazie alla Biennale scopre Modigliani che lo allontana da Ettore Tito, e si appassiona a Renoir e Degas, per cui tradisce Ciardi e Zandomeneghi. Non si iscrive all’Accademia ma visita gli studi dei pittori di poco più anziani, tra cui Ottone Rosai e Giorgio Morandi. Ammira un coetaneo, lo speciale Giuseppe Viviani. 

Fasan dipinge farfalle, conchiglie, ventaglietti, fichi, viole del pensiero, cachi, l’esterno degli Scrovegni, cavallucci marini, le strade dove passeggio e pasteggio, calicantus e alchechengi.

Nei decenni in cui la casa era amministrazione della donna “custode del focolare”, “madre nuova per figli nuovi”, mater matuta, a mesi alterni gravida o gonfia di minestra littoria (un consommé chiarificato servito con bignè), Fasan ama stare in casa: ritrae la moglie Carmela e impara la lezione da tappezzerie, tovaglie e calzettoni. Il pittore è muliebre: si spegne il truce focolare, risorgono le stanze. Lo stesso giallo saltella da un paio di pantofole agli affreschi di Jacopo da Verona presso l’Oratorio di San Michele alle casette che verranno costruite poco prima del boom.

Poveri i colori, oggidì prigionieri politici tra delinquenti comuni sull’isola dei consumi, allontanati dalle tribune… Eppure, ogni tanto se ne sente parlare. In questo anno 2023 la rozzezza patriarcale della politica italiana ha trovato ulteriore sfogo nelle critiche a Elly Schlein colpevole di essersi rivolta a una esperta di armocromia. Io stessa, che nella vita invento colori e scrivo di colori quotidianamente, mi sono rivolta tempo addietro a una deliziosa armocromista del trevigiano, cui ora affiderei anche la scelta delle mie espressioni facciali. 

Ben prima di suggerire quali colori conviene utilizzare per non sembrare uno zombie (sempre che un aspetto in salute sia desiderato), l’armocromista rivela al cliente di quale tono e sottotono è la sua pelle: freddo, caldo, chiaro, scuro… Probabilmente paghi di sapersi bianchi, gli avversari di Schlein hanno trovato ulteriore modo di declassare l’intelligenza cromatica a suon di risate e sbuffi.

Mi ricompongo e torno a Fasan, con le parole di Giovanni Comisso: «È un placido, sereno e distillato pittore. Egli incomincia come l’ostrica a lavorare lentamente di madreperla un granellino di sabbia, scoperta l’essenza di un oggetto, di un paesaggio o di una figura egli lentamente la elabora, sempre negli elementi strettamente necessari, portandola ad una evidenza preziosa e brillante. Sue doti principali sono: gusto di colore e sommessa, ma armoniosissima fantasia».

‘Fantasia’, parola ancor più tabù che ‘colorista’, soppiantata da ‘creatività’, nozione commercialista-friendly, o da ‘immaginazione’, più gestibile dai pedagoghi. 

Fantasia coloristica è saper accedere a manifestazioni cromatiche che non abbiano senso, ma che creino il senso. Nulla è più difficile del colore. Il disegno si vede, il colore si percepisce. Per associare un messaggio a un colore, per creare un nuovo messaggio, è necessario essere iscritti da anni alla palestra della trascendenza così come è necessario vivere nell’astrazione, ovvero destrutturare ora dopo ora, giorno dopo giorno, lo spirito cromatico dello zerbino del vicino, di un buco nell’asfalto, una vetrina di Tigotà, una tiara, un Pontormo, un pannello di laminato bianco con orribili macchie effetto legno, una teiera, un cappotto di Max Mara, un bubble tea.   

Tutti bravi ad adorare Morandi, che ovatta le anime scosse nei grigi bruniti del suo inimitabile stillicidio; ma sfido il lettore ad amare un altro adepto della madreperla, Fasan pittore fornaio: saturò i colori più pii, puerili e sereni per inventare la pace in tempi di guerra.

ARTICOLO n. 85 / 2023

TRASFORMARE LA REALTÀ IN UNA STORIA

Non avrei mai pensato di intervistare mio (ora ex) marito, ma la vita è bella perché imprevedibile e dunque eccomi qua, a fare domande al regista Marco Risi, padre di mio figlio. Parleremo di cinema, argomento che lo interessa più di ogni altro, e salvo il fatto che risponderà alle mie domande allungato sul divano a piedi scalzi, i crismi di una vera intervista saranno rispettati, mi è bastato schiacciare il tasto play del registratore per materializzare un diaframma perfetto.

Francesca d’Aloja: Hai cominciato a lavorare nel cinema nel 1982, le motivazioni che ti hanno spinto a intraprendere questo percorso sono sempre le stesse o sono cambiate in corso d’opera?

Marco Risi: In realtà ho cominciato un bel po’ prima: nel ’70 come assistente alla regia di mio zio Nelo e poi con Alberto Sordi, Duccio Tessari e il mio amico Carlo Vanzina. Però, sì, le motivazioni sono sempre quelle.

F. d.A. E cioè?

M. R. Il desiderio di raccontare, di trasformare la realtà in una storia. Fin da piccolo, quando qualcosa succedeva intorno a me, a casa, o per strada, fantasticavo su come tramutare ciò che vedevo in immagini proiettate su uno schermo. Da ragazzo andavo anche tre volte al giorno al cinema, e ancora ricordo la sensazione, uscendo dalla sala, di sentirmi diverso rispetto a quando ero entrato. Sono cresciuto con il cinema, non soltanto da un punto di vista familiare. Certamente il fatto di avere un padre regista probabilmente mi ha condizionato.

F. d.A. Anche se tuo padre tendeva a separare la vita privata da quella professionale…

M. R. Sì, è vero, non ci coinvolgeva, a me e mio fratello. Non ci portava sul set per esempio. Però quando da ragazzo ho attraversato un momento difficile fu lui a propormi di collaborare insieme a Bernardino Zapponi alla stesura della sceneggiatura di Caro Papà.

F. d.A. Trovo molto interessante che tuo padre ti abbia fatto “debuttare” in un film che metteva in scena un figlio (terrorista) che vuole uccidere il padre… materiale ghiotto per uno psicanalista!

M. R. Allora potremmo aggiungere che il ragazzo incappucciato che spara al padre, interpretato da Gassman, è mio fratello Claudio! Forse ha prevalso il passato da psichiatra di papà.

F. d.A. Dopo questo “battesimo” ti sei sentito “autorizzato” a cimentarti nel suo stesso mestiere?

M. R. Oddio, no. Non ho mai espresso apertamente il desiderio di fare il regista, me ne sono guardato bene… In fin dei conti non cercavo un’investitura da parte sua, me la sono cavata da solo, anche se ogni tanto gli facevo leggere delle cose che avevo scritto, sketch, piccole scene, davanti alle quali reagiva o con freddezza o con indifferenza… Insomma, diciamo che non è stato molto incoraggiante. Probabilmente voleva mettermi alla prova e valutare se il mio fosse soltanto un desiderio, diciamo così, fatuo.

F. d.A. E alla fine hai fatto il tuo primo film.

M. R. Sì, anche se avrei voluto esordire con il mio terzo film [Colpo di fulmine, n.d.r], una storia che sentivo molto più consona ai miei gusti, però le condizioni per farlo non erano ancora mature e ho optato per una commedia, Vado a vivere da solo, che mi servì più che altro a dimostrare le mie capacità. Quando lo vide mio padre il suo commento fu: “Sei un professionista”. Non ho mai capito se fosse un complimento. Non credo.

F. d.A. Il protagonista era Jerry Calà, che hai scelto anche nei due successivi.

M. R. Sì, dopo Vado a vivere da solo girai Un ragazzo e una ragazza, scritto insieme a Furio Scarpelli. Andarono entrambi molto bene, e questo mi incoraggiò a realizzare Colpo di fulmine, il racconto di un amore platonico e tutt’altro che morboso fra un trentenne nevrotico bisognoso di innocenza e una bambina di undici anni. Lo proposi a vari attori, fra cui Nanni Moretti, ma il successo dei due precedenti impose la partecipazione di nuovo di Jerry Calà, senza il quale non sarei riuscito a montare il progetto. Però quella volta non andò così bene, tanto che mio padre, attribuendo gli scarsi incassi alla presenza di Jerry Calà, se ne uscì con una delle sue fulminanti battute: “Levategli l’accento”.

F. d.A. Poi, a un certo punto, la svolta. Basta commedie.

M. R. A me piacciono molto le commedie, però fu grazie a Scarpelli che cambiai, se vogliamo dire così, direzione. Nel periodo in cui lavoravamo insieme mi segnalò una sceneggiatura, scritta da Marco Modugno, ambientata all’interno di una caserma. Non era certo una commedia, trattava di abuso di potere, nonnismo, conflitti generazionali. Mi sembrava interessante. Insieme a Stefano Sudrié e Scarpelli abbiamo apportato delle modifiche alla sceneggiatura originale e così è nato Soldati 365 giorni all’alba. Si apriva per me un nuovo capitolo che con Mery per sempre, arrivato subito dopo, ha trovato la sua quadratura.

F. d.A. Con quel film, per il quale fu coniato il neologismo “neo-neorealista”, hai avuto la sensazione di aver trovato la tua personale chiave espressiva?

M. R. È stato un passo importante per la mia vita. Lavorare con ragazzi senza nessuna esperienza cinematografica, avere a disposizione una “materia grezza” e dunque purissima mi ha stimolato a osservare le cose, e se vogliamo la realtà, da un altro punto di vista. Un’esperienza nuova che ho voluto replicare con Ragazzi fuori, seguito ideale di Mery per sempre. Avevo voglia di tornare a girare a Palermo e inoltre mi sembrava giusto offrire a quei ragazzi, alcuni dei quali davvero notevoli, un’altra occasione per esprimere il loro talento.

F. d.A. A te interessa avere uno stile? Riconoscerti in uno stile ed essere riconosciuto per uno stile?

M. R. Non so se posso ritenermi un autore, e non so nemmeno se la cosa mi interessi, mi considero semmai un artigiano. Più che al mio stile mi adeguo al film, vengo guidato dal sentimento che provo verso la scrittura, i personaggi… mi metto al servizio del film e non il contrario. Certo ogni tanto, mentre lavoro, mi chiedo: “ma si riconosce che è un mio film?”

F. d.A. È importante essere riconoscibili?

M. R. Se ambisci a essere considerato un autore, sì.

F. d.A. Facciamo un esempio: William Friedkin era un autore o un regista?

M. R. Friedkin era un grandissimo regista, i suoi film sono tutti diversi e non riconoscibili, però è fuor di dubbio che nessun altro avrebbe potuto fare l’Esorcista come l’ha fatto lui. E non solo quello, pensiamo a Cruising. Esiste una schiera di registi, di grandi registi, soprattutto americani, che non vengono ricordati come autori. Se per esempio oggi fai il nome di John Sturges, in pochi sanno chi sia, eppure ha realizzato film come La grande fuga, I magnifici sette o il dimenticato Giorno maledetto, bellissimo, con un formidabile Spencer Tracy nella parte di un veterano di guerra senza un braccio, che va a indagare su un fattaccio avvenuto in uno sperduto villaggio del sud e scopre che tutti gli abitanti sono colpevoli. Chi non si considera autore in un certo senso è più libero, sia di sbagliare che di fare grandi film. Inoltre la definizione di autore è ambigua:Scorsese è indiscutibilmente un autore, però non scrive i suoi film, mentre qui difficilmente un autore viene considerato tale se si limita alla regia.

F. d.A. È difficile oggi capire quale direzione stia prendendo il linguaggio cinematografico. Un tempo i “generi” connotavano un’epoca, più precisamente dei decenni: il neorealismo del dopoguerra, la commedia all’italiana degli Anni Sessanta, i film d’impegno Anni Settanta, …

M. R. I linguaggi si sono moltiplicati e il cinema si è parcellizzato in nuove forme espressive, frantumandosi. Se ci pensi bene, in tutti quei film, pur con approcci diversi, si raccontava la realtà. La commedia all’italiana, ad esempio, ha rappresentato la società italiana meglio di qualsiasi altra forma espressiva, idem il neorealismo e, in fondo, si potrebbe dire che anche la commedia all’italiana era neorealismo, in chiave comica. Una volta chiesi a Scarpelli perché avessero smesso, lui e i suoi colleghi sceneggiatori, di raccontare il nostro paese con la stessa ferocia e leggerezza di un tempo. Lui rispose che l’insorgere dei cosiddetti anni di piombo aveva messo fine all’ironia. Nessuno avrebbe osato fare una commedia sulle Brigate Rosse. Io penso invece che si sarebbe potuto tentare di sbeffeggiarli, di avere questo coraggio. Con mio fratello avevamo anche scritto un soggettino nel quale le Brigate Rosse entravano in crisi con un ostaggio perché si stava avvicinando l’estate, le vacanze! Comunque sì, il racconto degli Anni Settanta nel cinema si alternava fra film d’impegno e commediole inoffensive, ma la capacità di rappresentare la società con quell’insolenza, quell’amarezza, quel saper far ridere graffiando si sono via via perduti.

F. d.A. Così come il filone dei film “d’impegno” portato avanti da Petri, Rosi, Pontecorvo e poi Bellocchio, Bertolucci, …

M. R. Già. La società si è progressivamente disimpegnata, grazie anche o sarebbe meglio dire per colpa dell’arrivo delle TV commerciali, e così i registi che dovevano rappresentarla, quella realtà.

F. d.A. Anche tu ti sei cimentato con i film d’impegno.

M. R. Sì, ma al contrario dei registi che hai menzionato, dalla forte connotazione politica, io ho cercato, semmai, di fare film d’inchiesta.

F. d.A. Non posso fare a meno di citare una tua frase che la dice lunga sul tuo impegno, o meglio disimpegno, politico: “Io non ho fatto il ’68 perché abitavo sulla Cassia”.

M. R. Ecco, appunto. È una battuta ovviamente, ma non così lontana dalla realtà. Mi sono sempre tenuto a una certa distanza dalla politica, nella vita come nella professione. Ho scelto la strada dell’inchiesta, stimolato da Andrea Purgatori, con il quale abbiamo scritto Il muro di gomma sulla strage di Ustica e Fortapásc sull’omicidio del giornalista del Mattino Giancarlo Siani.

F. d.A. Com’è nata la vostra collaborazione?

M. R. Mentre giravo Ragazzi fuori a Palermo si presentò il produttore Maurizio Tedesco accompagnato da Andrea Purgatori, che non conoscevo personalmente, per sottopormi il trattamento de Il muro di gomma, scritto da Andrea a seguito del suo lungo lavoro di indagine sulla tragedia del volo Itavia. Inizialmente non ero completamente convinto, ma l’incontro con Giovanna Giau, vedova di Alberto Bonfietti, morto nella sciagura, cambiò il mio atteggiamento. La bellezza del suo sguardo, l’assenza di risentimento e la pacata rassegnazione riguardo all’impossibilità di arrivare a una verità, anzi, alla verità, mi convinsero che fosse giusto fare il film, eticamente giusto.

Lo stesso avvenne con Fortapásc: l’incontro con il fratello di Giancarlo Siani fu determinante per convincermi a realizzare il film, il fattore umano vince sempre sulle parole. Ricordo ancora quando a casa sua mi mise sulle ginocchia le camicie di Giancarlo, un gesto di fiducia che non ho dimenticato. Dei film scritti insieme ad Andrea, Fortapásc è quello a cui sono più legato, e pensare che non ci siano più né Andrea né Picchio [Libero De Rienzo, che nel film interpretava Siani, n.d.r], né Corso Salani del Muro di gomma mi rattrista molto. 

F. d.A. L’uscita del film Muro di gomma fu determinante per la riapertura dell’inchiesta su Ustica.

M. R. Non esattamente, diciamo però che contribuì a tenere le luci accese, sì. E certamente è stato per me e per Andrea, che su quei fatti aveva indagato con tenacia, motivo di grande orgoglio. Al di là del valore artistico, un film può aiutare a riaccendere l’attenzione su fatti che la cronaca, e non solo, tende a dimenticare. Rivedendo il film mi accorgo che avrei potuto raccontarlo in maniera meno diretta, io penso che la realtà si possa restituire anche inventandola. Non è necessario, anche quando si tratta di fatti realmente accaduti, essere fedeli alla loro veridicità. La realtà può essere interpretata senza essere tradita, è questo ciò che fanno gli artisti. Altrimenti tanto vale fare un documentario. Ogni tanto è bello prendersi delle libertà, tentare degli azzardi. Ecco, forse è proprio l’azzardo ciò che oggi, spesso, manca nel cinema. Detto questo Andrea Purgatori mi manca tantissimo e con lui si stava pensando a un altro progetto, un altro film, ancora una volta su un giornalista: Mino Pecorelli.

F. d.A. Senza nulla togliere all’importanza dei film d’inchiesta, che come abbiamo detto possono contribuire mediaticamente a illuminare le zone d’ombra su fatti e misfatti, personalmente sono un po’ stufa dei film “tratti da una storia vera”. Nella letteratura come al cinema si è persa la voglia di inventarle le storie, non credi?

M. R. Mah, diciamo che un po’ si è perduto il gusto del racconto, dell’invenzione, lo si vede anche dalla quantità di remake. Oggi si privilegia l’autofiction, si raccontano storie personali legate comunque alla realtà. Io nel mio piccolo ci ho provato con L’ultimo Capodanno (tratto dal libro di Niccolò Ammaniti, n.d.r.), a fare un film che di realistico aveva ben poco, ma come sai non è andata molto bene.

F. d.A. Uno dei più grandi flop del cinema italiano! Diventato però un cult movie.

M. R. Si è creata una piccola setta di cultori. L’insuccesso clamoroso de L’ultimo Capodanno è tuttora un mistero, ma d’altra parte l’esito commerciale di un film è sempre imprevedibile. Contribuiscono tanti fattori, nessuno dei quali può essere previsto in anticipo. Sono molto legato a quel film, mi sono divertito, sia durante la stesura della sceneggiatura con Niccolò che sul set.

F. d.A. A chi lo dici… 

M. R. Facevi una bella fine! [il personaggio che interpretava Francesca veniva trafitto da un razzo scagliato da uno dei condomini del palazzo in cui era ambientato il film, n.d.r.]Quella scena era piuttosto complicata. La macchina da presa, che era stata fissata con una carrucola su dei cavi, doveva precipitare dall’alto e arrestarsi a pochi centimetri dal tuo viso… Il macchinista mi sussurrò in un orecchio: “Quanto me dai se non la fermo?”

F. d.A. Già, il solito cinismo der cinema! Delle diverse fasi creative di un film quale ti piace di più?

M. R. Al primo posto metto la fase delle riprese, poi la scrittura e infine il montaggio. Sul set c’è vita, confusione, mi piace avere gente intorno e governare la nave.

F. d.A. Al di là delle capacità professionali, cosa non può mancare a un regista?

M. R. L’energia. Se ti manca l’energia è finita. Sul set è molto importante comunicare entusiasmo e passione. Altra regola è quella di non mostrare, se mai dovesse presentarsi, la propria indecisione. La troupe deve poter contare sulla determinazione del regista, altrimenti non ti segue e vai a sbattere sugli scogli.  

F. d.A. Molti registi si sono legati professionalmente a uno specifico attore dando vita a connubi artistici indissolubili, penso a Fellini con Mastroianni, Scorsese con De Niro (e adesso con Di Caprio), Sorrentino con Tony Servillo, De Sica con la Loren e lo stesso tuo padre con Gassman. Quando questo accade penso sia una fortuna per entrambi, non credi? 

M. R. A me piace lavorare con gli attori, diciamo però che preferisco i non professionisti. Con gli attori di mestiere possono sorgere dei conflitti, soprattutto se metti in discussione la loro preparazione, e in quel caso spesso parte un tira e molla spiacevole. Gli attori sono fragili, hanno bisogno di essere accuditi. Ultimamente ho abbandonato l’utilizzo del combo per tornare a stare accanto alla macchina da presa, così da seguirli in diretta, stargli accanto, vicino. Credo sia più rassicurante per loro. Il fatto è che io so quello che voglio, ma più che altro so quello che non voglio, e quando un attore fa qualcosa che non voglio, che non mi piace, allora intervengo drasticamente, ma se propone una modifica, un suggerimento riguardo al suo personaggio che ritengo giusti, ben venga. Detto ciò, quello che dici è vero. Stabilire un forte rapporto con un attore, un’attrice, non solo favorisce il lavoro ma anche i tempi di lavorazione poiché l’intesa annulla le divergenze, ci si capisce al volo senza bisogno di spiegare, diventa tutto più fluido. Inoltre si costruisce qualcosa insieme, si va nella stessa direzione.

F. d.A. C’è un attore in particolare con cui ti piacerebbe lavorare?

M. R. Joaquin Phoenix. Non succederà mai, lo so. Lui è un grandissimo attore. Va oltre: imprevedibile, folle e pieno di talento. Sicuramente è bello lavorare con i professionisti, a me però fanno arrabbiare quelli che mettono in discussione la sceneggiatura dimenticando che su quella virgola, su quella parola, su quel punto esclamativo lo sceneggiatore ci ha passato del tempo, ne ha discusso insieme agli altri sceneggiatori prima di decidere, e quando l’attore si presenta sul set senza aver studiato la parte adducendo la scusa che “sennò viene meccanica”. Ma io ti piglio a calci in culo! Altro che meccanica!

ARTICOLO n. 84 / 2023

DOVE VAI, DOVE SEI STATA? PER BOB DYLAN

Pubblichiamo un’anticipazione da Storie americane (traduzione di Lucia Fochi e Isabella Zani), da oggi in libreria con Il Saggiatore. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Si chiamava Connie. Aveva quindici anni e il vezzo rapido e nervoso di allungare il collo, con uno scatto e una risatina, per guardarsi allo specchio o per capire dalle facce altrui se la sua era a posto. Sua madre, che notava tutto, sapeva tutto e non aveva più motivo di guardare la propria, di faccia, la rimbrottava sempre per quell’abitudine. «Piantala di guardarti con quell’aria ebete. Chi ti credi di essere? La più bella del mondo?» diceva. A quelle lamentele ormai trite e ritrite Connie alzava gli occhi al cielo e trapassava la madre con lo sguardo, puntandolo su un’indistinta visione di sé in quel preciso istante: sapeva di essere bella, e solo quello contava. Anche sua madre una volta era stata bella, almeno a volersi fidare delle vecchie istantanee nell’album, ma ora la bellezza se n’era andata ed era per questo che dava continuamente addosso a Connie. 

«Perché non tieni in ordine la camera come fa tua sorella? Ma come ti sei conciata i capelli… e cos’è questa puzza? Lacca? Tua sorella non usa queste schifezze». 

Sua sorella June aveva ventiquattro anni e abitava ancora a casa. Faceva la segretaria nel liceo di Connie, e come se averla nello stesso edificio non fosse già abbastanza, era talmente insignificante, tarchiata e giudiziosa che a Connie toccava sentire in continuazione la madre e le zie cantarne le lodi. E June ha fatto questo, e June ha fatto quest’altro; June metteva da parte i soldi e aiutava a pulire in casa e a cucinare mentre Connie non sapeva fare niente, la testa persa dietro inutili sogni a occhi aperti. Il padre era quasi sempre fuori per lavoro e quando tornava a casa voleva cenare e durante la cena leggeva il giornale e dopo cena andava a letto. Non si prendeva il disturbo di parlare con loro, ma al di sopra della sua testa china la moglie continuava a punzecchiare Connie al punto che la ragazza avrebbe voluto vederla morta e morire lei stessa e che tutto finisse. «A volte mi fa venire il vomito» si lamentava con le amiche. Aveva un tono di voce alto, trafelato e divertito che faceva sembrare ogni cosa che diceva vagamente forzata, per sincera o no che fosse.

Un lato buono c’era: June andava di qua e di là con le sue amiche, ragazze insignificanti e giudiziose quanto lei, e quando Connie voleva fare lo stesso la madre non aveva obiezioni. Il padre della migliore amica di Connie accompagnava le ragazze fino in città, a cinque chilometri di distanza, le lasciava in un centro commerciale dove potevano girare per negozi o andare al cinema, e quando tornava a prenderle alle undici non si curava di chiedere cosa avessero fatto. 

Senz’altro erano uno spettacolo abituale, quelle ragazzine in shorts a passeggio per il centro commerciale, le ballerine strascicate sul marciapiede e i braccialetti pieni di ciondoli che tintinnavano ai polsi sottili; si appoggiavano l’una all’altra bisbigliando e ridendo tra loro se passava qualcuno che suscitava il loro interesse o le divertiva. Connie aveva lunghi capelli biondo scuro che si facevano notare e che portava in parte gonfi e cotonati sul davanti e per il resto sciolti sulle spalle; e indossava un golfino di jersey che a casa faceva un certo effetto e fuori un altro. 

Tutto in lei aveva due versioni, una per casa e una per qualunque altro posto tranne casa: l’andatura, che poteva essere infantile e molleggiata oppure languida al punto da far pensare che si sentisse una musica in testa; la bocca, quasi sempre pallida e ghignante, ma vivace e rosea durante le serate fuori; la risata, cinica e strascicata a casa («Ah, ah, ah, molto divertente»), ma acuta e nervosa in qualsiasi altro posto, come il tintinnio dei ciondoli sul suo braccialetto. 

A volte Connie e la sua amica andavano davvero a fare shopping o al cinema, ma altre volte attraversavano svelte la superstrada, a testa bassa sulle corsie trafficate, fino a un ristorante drive‐in dove si ritrovavano i ragazzi più grandi. Il locale era a forma di grossa bottiglia, ma più tozza di una bottiglia vera, e sul tappo c’era la sagoma roteante di un ragazzo che stringeva trionfante un hamburger. Una sera di mezza estate attraversarono, il fiato mozzo per la spavalderia, e quasi subito qualcuno si sporse dal finestrino e le invitò ad avvicinarsi, ma era solo un compagno di scuola che gli stava antipatico. Poterlo ignorare le fece sentire bene. 

Proseguirono nel dedalo di auto parcheggiate e di passaggio fino a raggiungere il ristorante illuminato e infestato di mosche, le facce compiaciute e trepidanti come se stessero per entrare in un edificio sacro apparso d’un tratto nella notte per offrire loro il rifugio e le benedizioni a cui anelavano. Si sedettero al bancone a caviglie incrociate, le spalle scarne tese per l’euforia, ad ascoltare la musica che rendeva tutto così bello: la musica in sottofondo c’era sempre, come durante la funzione in chiesa; ci si poteva contare. 

Un ragazzo di nome Eddie entrò per attaccare discorso con loro. Si sedette con le spalle al bancone, prese a fare mezzi giri di scatto con lo sgabello, fermandosi e poi ricominciando, e dopo un po’ chiese a Connie se le andava di mangiare qualcosa. Lei disse di sì e perciò uscendo diede un buffetto sul braccio all’amica – l’amica fece una faccia ardimentosa e comica – e le disse che si sarebbero riviste alle undici dall’altra parte. «È che mi scoccia mollarla così» disse poi, sincera, ma il ragazzo ribatté che non sarebbe rimasta sola a lungo. Così uscirono per andare alla macchina di lui, e nel tragitto Connie non poté fare a meno di lasciar vagare lo sguardo sui parabrezza e sulle facce che la circondavano, il viso splendente di una gioia che non aveva nulla a che vedere né con Eddie né con quel posto; forse era la musica. Raddrizzò le spalle e inspirò per il puro piacere di essere viva, e proprio in quel momento posò per caso gli occhi su un volto a poca distanza da lei. Era un ragazzo dai capelli neri e arruffati, su una decappottabile sgangherata color oro. Lui la fissò e le labbra si aprirono in un sorriso. Connie socchiuse gli occhi e si girò, ma poi non poté fare a meno di voltarsi indietro ed eccolo lì, che continuava a fissarla. Sventolò un dito e disse, ridendo: «Non mi scappi, piccola» e Connie si girò di nuovo senza che Eddie si accorgesse di nulla. 

Passò tre ore con lui, prima al ristorante dove mangiarono hamburger e bevvero Coca‐Cola in bicchieri di polistirolo sempre umidi di condensa, poi lungo un vicolo a un paio di chilometri di distanza, e quando alle undici meno cinque lui la lasciò al centro commerciale, solo il cinema era ancora aperto. L’amica era là, che parlava con un ragazzo. Alla comparsa di Connie le due si sorrisero e Connie chiese: «Com’era il film?» e l’altra disse: «Dovresti saperlo». Se ne andarono con il padre dell’altra ragazza, assonnate e soddisfatte e Connie non poté fare a meno di voltarsi a guardare il centro commerciale buio con il parcheggio vuoto e le insegne sbiadite e spettrali, e poi il drive‐in dove le macchine giravano ancora in tondo senza sosta. Da quella distanza non sentiva la musica. 

La mattina seguente June le chiese com’era il film e Connie rispose: «Così così». 

Lei, la sua amica e talvolta una terza ragazza uscivano più volte la settimana, e il resto del tempo – erano le vacanze estive – lo passava a casa, a infastidire la madre e a pensare, a fantasticare sui ragazzi che aveva conosciuto. Ma tutti quei ragazzi scomparivano e si confondevano in un unico viso, che non era neppure un viso ma un’idea, una sensazione, mescolata all’insistente, pressante martellio della musica e all’aria umida delle notti di luglio. La madre continuava a riportarla alla luce del giorno trovandole cose da fare o dicendo all’improvviso: «Cos’è questa storia della figlia dei Pettinger?». 

E Connie diceva nervosa: «Uh, quella. Una vera scema». Tracciava sempre confini chiari e netti tra sé e quel genere di ragazze, e la madre era ingenua e buona abbastanza da crederci. Talmente ingenua, pensava Connie, che era crudele ingannarla a quel modo. Si trascinava per casa in un paio di vecchie ciabatte e al telefono con una delle due sorelle si lamentava dell’altra; poi quest’altra la chiamava e insieme si lamentavano della terza. Se veniva fatto il nome di June dal tono della madre traspariva approvazione, se invece si nominava Connie il tono era di rimprovero. Ciò non significava che non la apprezzasse; anzi Connie pensava che la madre preferisse lei a June perché era più carina, ma insieme tenevano in piedi quella farsa di esasperazione, l’idea di una continua contesa per qualcosa che non rivestiva un gran valore per nessuna delle due. A volte, davanti a una tazza di caffè, erano quasi amiche, ma poi saltava fuori qualcosa: un malumore simile a una mosca che all’improvviso ronzava loro sulla testa, e le facce s’irrigidivano nel disprezzo. 

Una domenica Connie si alzò alle undici – nessuno di loro teneva particolarmente ad andare in chiesa – e si lavò i capelli così potevano asciugarsi al sole per tutto il giorno. I genitori e la sorella stavano andando a una grigliata a casa di una zia e Connie disse di no, che non le andava, alzando gli occhi al cielo per far capire alla madre cosa pensava effettivamente. «E allora stai a casa da sola» disse l’altra, secca. Connie si piazzò su una sedia in giardino e li guardò andare via, il padre calvo e silenzioso, che si girava per fare retromarcia, la madre con l’aria ancora arrabbiata e per nulla addolcita dietro il parabrezza, e sul sedile posteriore la povera June, tutta in ghingheri come se non sapesse com’erano le grigliate, con i bambini che corrono ovunque urlando e le mosche. Seduta al sole con gli occhi chiusi, sognante e intorpidita dalla calura come da una specie d’amore, di carezza amorosa, Connie tornò col pensiero al ragazzo con cui era stata la sera prima e a quanto era stato carino, dolce come sempre, non nel modo che poteva immaginarsi una come June, ma dolce e delicato come nei film e nelle promesse delle canzoni… e quando riaprì gli occhi quasi non riconobbe dov’era, il giardino finiva tra erbacce e un filare di alberi che sembrava uno steccato, dietro cui il cielo era perfettamente azzurro e immoto. La casetta in fibrocemento che aveva ormai tre anni la fece sussultare: sembrava piccola. Scosse la testa come per svegliarsi.

Faceva troppo caldo. Connie entrò in casa e accese la radio per sommergere il silenzio. Si sedette sul bordo del letto, scalza, e per un’ora e mezza ascoltò la Sarabanda domenicale di radio Xyz, un disco dopo l’altro di brani duri, veloci e striduli a cui anche lei andava dietro, intervallati dalle dediche di «Bobby King»: «Ed ecco qui, per le ragazze del Napoleon… Son e Charley vi dicono di seguire molto bene il prossimo pezzo!». 

E anche Connie seguiva molto bene, immersa nel bagliore di una gioia rallentata che pareva scaturire misteriosamente dalla musica stessa e drappeggiarsi languida nella stanzetta dall’aria viziata, inspirata ed espirata a ogni palpito del petto.

ARTICOLO n. 83 / 2023

ELLIS, L’ULTIMO SCRITTORE POST-PUNK IN UN MONDO DI DEMOCRISTIANI

Il 17 gennaio scorso mi sono svegliata e, come prima cosa, ancora distesa nel mio letto, ho afferrato il telefono e ho ordinato il libro che aspettavo da tredici anni: The Shards, di Bret Easton Ellis.

Ho atteso questo romanzo per più di una decade, con l’ansia di chi ha una vera e propria ossessione per qualcosa o qualcuno, e mi sono subito lanciata nella lettura dell’opera in lingua originale.

Ho dovuto mordermi la lingua per mesi perché molte persone intorno a me attendevano la sua traduzione in italiano e non volevano spoiler sulla trama e sulla riuscita o meno di questo attesissimo romanzo. L’attesa è finalmente giunta al termine e io posso quindi svuotare il sacco.

Uscito la settimana scorsa in Italia per Einaudi (che ha acquisito i diritti su tutta la sua produzione precedente) con il titolo Le schegge e nella traduzione di Giuseppe Culicchia (che ha magistralmente tradotto tutto Ellis a partire da American Psycho: i due libri precedenti ovvero Meno di zero e Le regole dell’attrazione sono stati tradotti, in ordine, da Marisa Caramella e Francesco Durante), il libro è stato annunciato dalla casa editrice con un mini-tour italiano che toccherà Firenze e Torino. 

Come è ormai prassi, Einaudi ha affidato la promozione sui giornali e nelle presentazioni con l’autore a un parterre di scrittori tuttiuominisullasessantina: prassi di una rassicurante democristianità, forse troppa, decisamente troppa per accompagnare quello che è forse l’autore più elegantemente post-minimalista, irriverente e scorretto della nostra contemporaneità.

Ma le cose qui da noi vanno così: giochiamo sul sicuro anche con chi, sul sicuro, non ha mai amato sostare. Ed Ellis questo ce lo ha sempre dimostrato, in tutta la sua produzione letteraria.

Dopo un’attesa lunghissima intervallata dal saggio Bianco, che sembrava quasi opera di uno dei suoi personaggi più caricaturali, Ellis è tornato alla narrativa con un lungo libro sull’adolescenza senza però essere a tutti gli effetti un romanzo di formazione in senso stretto. Anzi, forse ne è tutto il contrario.

Le schegge è il racconto fittizio del giovane Bret (Easton Ellis) nella Los Angeles del 1981 durante l’ultimo anno del liceo privato Buckley.

È una sorta di mockumentary: una – in parte – falsa documentazione della sua vita, così come lo era stato Lunar Park nel 2005, e una storia in salsa horror tenute insieme da un elemento di tensione narrativa che qui ha un nome e un cognome ben precisi, ovvero il misterioso personaggio di Robert Mallory.

Intorno alle vite dei giovanissimi protagonisti, narrati da Bret in prima persona e al tempo passato – Ellis nel prologo e nella conclusione ci racconta in una cornice come abbia impiegato più di vent’anni a trovare il coraggio e la serenità giusta per scrivere questa storia – si svolge una carneficina a opera di un serial killer più brutale e sadico perfino di Patrick Bateman: The Trawler, in italiano riportato come “il pescatore a strascico”.

Dopo questa scia di omicidi e questo ultimo anno di liceo, le vite dei personaggi, e quella di Bret in primis, non saranno più le stesse.

Sarebbe stupido quanto democristiano – e qui vi posso assicurare che non lo siamo – pensare a questo come a un romanzo di formazione o un romanzo della maturità emotiva dell’autore.

Ellis infatti qui non ci vuole infatti insegnare niente. Però ci regala una cosa preziosissima: un prequel.

In filmografia, il prequel indica una pellicola che, nonostante sia fatta uscire per ultima in ordine cronologico rispetto alle precedenti, affronta gli antefatti di quella che sarà poi tutta la produzione successiva del suo ciclo.

Le schegge fa proprio questo: mette in ordine la storia della storia letteraria di Bret Easton Ellis.

Lo si capisce subito dallo sguardo dell’autore che, per la prima volta, è affezionato ai personaggi, prova affetto e pena per loro, ha uno sguardo di parte, fraterno, umano. E ne racconta le emozioni, ancora pure, ancora vive, ancora piene di speranza seppur già permeate dalla patina di quella che è la vera protagonista della produzione di Ellis: la noia, ovvero la sensazione più violenta che possa esistere.

Ellis ne Le schegge ci descrive un mondo precedente alla perdita delle illusioni, un mondo ancora non del tutto corrotto dalle promesse non mantenute, la noia della ripetitività, della assenza di regole, della droga.

Non siamo davanti al freddo distacco di Clay, Blair, Julian e i ragazzi di Meno di zero; non siamo davanti alla morbosa ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa possa darci una scossa, come i protagonisti de Le regole dell’attrazione; non davanti al delirio organizzato di American Psycho, ma neanche a quello disorganizzato di Glamorama; non siamo spettatori della disperata disillusione di Lunar Park e neanche del passivo rancore di Imperial Bedrooms.

Qui siamo davanti al paziente zero.

Siamo davanti a Bret che diventa Ellis e ci spiega come tutto abbia avuto inizio, come la sua penna, la sua storia, il suo essere scrittore e personaggio insieme, autore e distruttore, vizio e virtù, bugia e verità, aspettativa e distruzione abbiano preso vita, si siano mischiate insieme e, fino all’uscita di questo libro, non si siano mai più dipanate.

Le schegge ci mostra come lo stile tagliente, lucido anche quando descrive le cose più brutali e deliranti del mondo (vedasi il capitolo “uccido un bambino allo zoo” di American Psycho, non a caso escluso da quello che poi fu il suo adattamento cinematografico), disilluso, spavaldo, tossico, abbia preso forma. 

E lo fa mettendo in piedi una struttura narrativa complessissima, in cui il giovane Bret del romanzo sta giusto iniziando a scrivere quella che poi sarà la prima bozza di Meno di zero.

Lo fa rendendoci partecipi di uno spaccato che fino a oggi era inedito: i veri sentimenti dei suoi personaggi. Bret sa provare amore, paura, rabbia, insoddisfazione, gelosia, tristezza. La noia, che divorerà ogni cellula di ogni personaggio del resto di tutta la produzione di Ellis, non è ancora entrata in scena.

Robert Mallory, che insieme al Pescatore simboleggia la fine dei sogni d’infanzia, cancellerà per sempre quello che Bret avrebbe potuto essere, quello che avremmo potuto leggere.

Ellis ci presenta il bivio della sua vita e lo fa nel modo che meglio conosce: con una storia di sangue e disillusione, con una storia che mette fine a un cerchio iniziato con Meno di zero nel 1985.

Lo fa inserendosi tra le pagine in modo soffuso, mai intrusivo, lasciando intendere quanto i suoi libri abbiano scritto la sua vita e viceversa: lo fa dandoci piccole confessioni in alcuni passaggi di quello che sembra quasi un memoir, in cui si lascia andare senza senso di colpa o vergogna a racconti sulla sua dipendenza da sostanze, il panico, la fama, la noia, la disperazione, la ricostruzione e la difficoltà del tornare in pista dopo che tutti ti pensano ancora una mina vagante.

Ellis ha raccontato come nessun altro la caduta di due generazioni e l’infrangersi dei sogni davanti al muro, violentissimo, della noia e della realtà.

Con questo libro davvero prezioso mette un punto su quella che a mio avviso è stata la storia letteraria più incredibile degli ultimi 35 anni.

E lo fa tornando alle origini, a quando tutto era più puro, a quando ha trovato l’attacco per quel Meno di zero che gli avrebbe cambiato la vita e lo avrebbe fatto sparire lì.

Le schegge è l’opera di cuore di Ellis che arriva alla fine di un ciclo durato tre decenni; è l’opera intima seppur fittizia dell’autore che davanti a noi ha provato a mutare forma ma non glielo abbiamo mai permesso del tutto. E allora muta da solo, di nuovo, grazie alla sua brillante letteratura. Il libro si apre con una dedica “per nessuno”, non a caso.

Dopo la lettura appassionata de Le schegge io rimango con un dubbio e una certezza.

Il primo è che questo libro possa essere la grande opera finale del miglior interprete post-punk nella letteratura contemporanea o che possa essere il nuovo, frizzante inizio di un filone ancora sconosciuto.

La certezza che invece ho è che Ellis democristiano non ci morirà mai.

Per nostra grande, immensa fortuna.

ARTICOLO n. 82 / 2023

MALEFICAE

Pubblichiamo un’anticipazione da Maleficae. I corpi avvelenati (Einaudi), da oggi disponibile in ebook nella collana Quanti. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Alla fine degli anni Novanta la provincia collinare modenese viveva in una storica e stoica divisione generazionale che vedeva le persone anziane appostate alla finestra, nascoste dalle tende bianche con la fascia di pizzo, e quelle giovani uscire per strada alle sei di mattina, dirette alla fermata dell’autobus per raggiungere le scuole superiori. Non esistevano altre età, perché il boom economico e ceramico fagocitava i nostri genitori che sparivano dalla vita domestica per oltre dieci ore al giorno. Quando tornavano a casa, a ridosso dell’orario di cena – che da noi si faceva presto perché la matrice contadina puoi pure provare a toglierla dalle borsette e dalle automobili, ma non dalle abitudini –, non avevano la forza per essere una presenza consistente, piuttosto speravano di svolgere il loro ruolo col minimo sindacale: tra il Tg1 e i programmi sportivi spuntava qualche domanda rituale sulla giornata o sui voti a scuola.

Anche i bambini e le bambine non esistevano oltre la soglia di casa, relegati alla dimensione fantasmatica per eccellenza, perché rinchiusi per lo più in asili e scuole elementari. Nel pomeriggio, li si trovava rintanati nelle stanze da cucito dei nonni, che li tenevano occupati con Bim Bum Bam e una merenda a base di gnocco fritto, abbandonandoli sul divano per poter continuare indisturbati a controllare la strada. Rappresentavano gli ultimi baluardi di una dignità che evidentemente consideravano in pericolo, data la solerzia con cui, al primo lontanissimo presagio di ribellione, scendevano le scale ancora in ciabatte, uscivano dalla porta principale, attraversavano la strada per suonare alla nonna appostata alla finestra di fronte e riferirle che la nipote, alla mattina, uscendo dal portone si era accesa una sigaretta. Quella stessa nipote che, sfidando le regole della modestia provinciale, non si era accontentata del liceo scientifico a pochi chilometri, no: lei aveva osato scavalcare il fossato che divide il capoluogo dalla provincia e aveva avuto l’arroganza di iscriversi al classico di Modena, dovendo fare un’ora di autobus all’andata e una al ritorno tutti i giorni, sabato compreso, e insomma, quando avrebbe avuto tempo di studiare e di mantenere gli amici del suo paesello, Fiorano, se era sempre via. 

L’avevano guardata bene quella ragazza lì, la città aveva subito masticato le sue ossa, stralciando la dolcezza dei suoi lineamenti con quegli occhi caldi nocciola – anche se bisogna ammettere che aveva preso dalla bisnonna materna e non dalla famiglia paterna. Non era proprio una fioranese certificata perché la madre era una di Sassuolo, però santo cielo nel momento in cui bisognava presidiare il territorio ogni recluta passata dal convento andava bene, diciamo, e loro ormai erano lì in quella via da quindici anni per cui non la si poteva considerare autoctona, ma una prelazione sul suo corpo si poteva avanzare e con ragione… Insomma, quella ragazza lì, che aveva la bocca indecente fin da bambina e non era mai stata minuta neanche per sbaglio, aveva iniziato a indossare jeans strappati a zampa d’elefante – dio, che passione avevo per quei jeans – tingersi i capelli di biondo paglierino o rosso ciliegia e portare come un cappio ricamato intorno al collo certe catenine che non terminavano mai con un rassicurante crocifisso, ma con perle nere o gioielli barocchi neri che luccicavano al primo sole del giorno dando così l’impressione, mentre usciva di casa con lo zaino dalle bretelle lentissime che le sbatteva sul sedere, di avere uno specchio o uno squarcio all’altezza della giugulare. Probabilmente si drogava: lo dicevano sottovoce, anche se era una supposizione. Dovevano dirlo alla nonna, ci avrebbe pensato lei.

E così, prendendo il borsellino e la supposizione del giorno – che aveva l’unico compito di cristallizzare l’esistenza, ostacolando il cambiamento del tempo, del luogo, delle persone – gli anziani scendevano le scale di casa in ciabatte, aprivano la porta, attraversavano la strada e suonavano alla mia nonna paterna. Lei raccoglieva le indiscrezioni e le paure di una via popolata da anziani alla finestra, poi si rimetteva nella sua stanza del cucito, quella che le permetteva di vedere l’ingresso di casa dalla porta, nonostante le incursioni di mio nonno che dal cucinotto in cui impastava gli gnocchetti di patate, ogni tanto andava da sua moglie per stuzzicarla e farla ridere e arrabbiare in una costante tensione allegra con brio che finiva con Lauretta arrabbiata in un angolo e Libero che rideva sotto i baffi dall’altra. 

All’ora di pranzo, appena la nonna sentiva mio padre girare la chiave nella porta, tornava composta e precisa al suo ruolo sociale e gli ripeteva, parola per parola, quello che la vecchia dall’altra parte della strada le aveva riferito quella mattina su quella nipote che dalla loro parte non aveva proprio preso niente, era davvero tutta la sua bisnonna materna, che era un donnone alto e bellissimo, molto indipendente, ribelle e corteggiata da troppi. Doveva avere per forza qualcosa che non andava. Leggeva troppo e chissà cosa, ascoltava quella musica che non si capiva e guardava i film che lui, il padre, portava a casa dal videonoleggio: avrebbero dovuto almeno controllare se erano adatti e invece non lo facevano, così questa ragazza pensava a cose che non doveva neanche sapere ancora. 

Aveva iniziato a truccarsi, poi. Metteva questa matita viola scuro dentro gli occhi, di quel colore ibrido e mutevole, verdi o nocciola, come una foresta, e nessuno in famiglia aveva quegli occhi che chissà da chi aveva preso. E poi, ma questo ormai la nonna lo ripeteva da anni come un mantra alla fine di ogni recriminazione, era grassa. Non aveva la loro costituzione, assomigliava alla parte della madre. Loro erano magri. Doveva dimagrire. Dovevano farla vedere a qualcuno e dovevano muoversi, prima che fosse tardi. Così mio padre durante il pranzo ingoiava gli gnocchetti di patate cosparsi dal veleno di mia nonna, che non aveva alcuno strumento o conoscenza capace di mitigare la violenza inconsapevole della sua intromissione. E nel tornare a lavorare pieno di bile com’era aveva la sensazione di non essersi riposato neanche un po’, quindi alla sera quando rientrava non era per niente contento: invece di attraversare la strada e andare dall’anziana dirimpettaia per dirle di farsi i cazzi suoi, condivideva a fiume con mia madre tutto quello che non aveva digerito a pranzo. Con la stessa mancanza di comprensione di mia nonna, trasformavano così quel piatto di supposizioni inventate in una conversazione melodrammatica sul mio peso, con loro che si sedevano sul mio letto e in modo disonesto iniziavano con un laconico «Non ti arrabbiare se» e incastravano con la forza quel veleno dentro la mia bocca e lo guardavano scendere nella mia pancia, mentre io ero solo contenta di indossare i miei jeans strappati a zampa il giorno dopo andando a scuola a Modena, e non avevo calcolato di dovermi sentire un mostro prima di andare a dormire perché qualcuno da una finestra mi aveva guardata e aveva inventato una fiaba solo vedendomi uscire dalla porta, attraversare la strada e dirigermi verso la fermata dell’autobus. Una fiaba in cui la cattiva ero io.

ARTICOLO n. 81 / 2023

IL MITO DI BARBIE

Bambole del sesso

I’m a Barbie girl in a Barbie world, life in plastic… It’s fantastic! Era un ritornello che, nell’estate del 1997, cantavo a squarciagola insieme alle amiche. Il gruppo danese degli Aqua aveva appena lanciato un tormentone destinato a durare nel tempo che aveva fatto tornare a tutte le donne, giovani e meno giovani, il desiderio di rispolverare la propria collezione di bambole Mattel. A distanza di più di venticinque anni stiamo assistendo a un fenomeno analogo grazie all’arrivo nelle sale del film che racconta le vicende della medesima protagonista. La trama è piuttosto scarna, va detto, basti pensare che l’enciclopedia libera Wikipedia dedica a questa voce due righe (letteralmente, non in senso figurato). La pellicola, in sostanza, racconta le avventure di Barbie nel Mondo Reale, quello degli umani, a cui approda dopo essere stata cacciata da “Barbieland” – il villaggio tutto rosa in cui vive insieme a Ken e agli altri esemplari plastificati – con l’accusa di non essere abbastanza perfetta.

Nel viaggio che ci porta a riscoprire e guardare con occhi diversi i miti dentro cui è stata inscritta la femminilità, la bambola in vinile inventata da Ruth Handler merita un posto a sé. La sua comparsa sul mercato, alla fine degli anni Cinquanta, ha decisamente cambiato il modello femminile intervenendo sia sulla costruzione identitaria di tante bambine e ragazze che sulla definizione del desiderio maschile.

Uno dei teaser che anticipa la pellicola ci catapulta in uno scenario desertico, dove incontriamo bambine che giocano con bambolotti. La voce fuori campo ci ricorda che «da quando sono esistite la fanciulle, sono esistite le bambole». Queste però, avevano un problema: rappresentavano infanti. Fasciata nel suo costume a righe nere e bianche, Barbie si manifesta così come il monolite di 2001. Odissea nello spazio generando quella rivoluzione a cui accennavamo prima.

Secondo il dizionario Treccani, “bambola” è quel fantoccio di legno, cartapesta, celluloide, materia plastica o altro, che rappresenta una bambina, […] di occhi mobili, di movimento automatico, di apparecchio che imita la voce umana. Se è vero che le bambole di stoffa sono un oggetto che associamo all’infanzia, è necessario riconoscere però che esse non nascono con una funzione ludica ma funeraria e rituale. Ne sono un esempio le “muñecas funerarias”, tre reperti ritrovati nelle catacombe di Cancay, in Perù, e conservate nel Museo di antropologia ed etnografia di Torino. Anche se ancora oggi la comunità scientifica si interroga intorno alla loro origine e alle funzioni di questi e altri fantocci ritrovati, nel corso dei secoli, all’interno di luoghi destinati alla sepoltura, è lecito sostenere che il mondo nel quale le bambole fanno per la prima volta la loro apparizione sia quello degli adulti.

Da quando Barbie è stata commercializzata è diventata oggetto del desiderio di miliardi di bambine, tuttavia la sua origine ha poco a che vedere con l’infanzia. Per la sua realizzazione, Rut Handler si è ispirata a un’altra bambola presente sul mercato tedesco, Bild Lilli, commercializzata tra il 1955 e il 1964. Prima di assumere una forma tridimensionale, Lilli è stata la protagonista indiscussa di un fumetto ideato da Reinhard Beuthien che appariva con regolarità sulle pagine della rivista Bild-Zeitung. Nelle strisce, Beauthien racconta le avventure di una giovane – provocante, bellissima e disinibita – che per vivere circuisce ricchi pretendenti. Come ricorda lo studioso Anthony Ferguson nel suo Bambole del sesso, pubblicato qualche anno fa per Odoya, Lilli entrò ben presto nei sogni erotici dei lettori, tanto che il tabloid decise di commercializzarne una versione in platica, alta circa trenta centimetri, venduta come gioco per adulti nei negozi erotici. «Lilli non era una bambola per la penetrazione – scrive l’autore – tuttavia venne creata come una sorta di caricatura pornografica». Ben presto quindi la bambola diventa il regalo perfetto per gli addii al celibato, esattamente come qualche decennio dopo, negli anni Settanta, complice la produzione su larga scala del vinile, lo sarà la celebre bambola gonfiabile.

La storia di Barbie è legata a doppio filo a quella di Lilli, non solo perché una volta che Mattel iniziò la commercializzazione della fashion doll più famosa del mondo acquistò i diritti dell’antesignana tedesca, ma anche perché la prima è debitrice nei confronti della seconda di un certo immaginario che ha costantemente contribuito a rinsaldare. Barbie è la prima bambola “sessuata”, dotata di trucco (che si farà via via più marcato nel corso delle svariate edizioni), di un seno prosperoso, irreale se paragonato al punto vita strettissimo e di gambe innaturalmente lunghe.

A ben vedere, quella di Barbie non è una perfezione anatomica (come dicevamo, le varie parti del suo corpo producono in realtà un effetto sproporzionato) ma rappresenta la perfezione che ricerca lo sguardo maschile. Scrive Loredana Lipperini che Barbie «rappresenta la donna secondo un concetto maschile, priva di parti “segrete e terribili” che tanto indignavano secoli fa pensatori e padri della chiesa (…) incarna la femminilità ideale, muta e sigillata».

Questi due aggettivi sono centrali nella nostra riflessione: tutte le bambole per adulti sono costruite per offrire agli uomini la possibilità di servirsene, nella totale passività femminile. In questo senso, le dames de voyage costruiscono in esempio perfetto. Si trattava di oggetti rudimentali, fatti di paglia e vecchi panni, ideate a partire dal XVII secolo allo scopo di fornire ai marinai, allora impegnati nelle lunghe traversate, un oggetto su cui sfogare i loro impulsi sessuali evitando comportamenti fuori controllo, come la masturbazione o peggio ancora la sodomia, che avrebbero potuto causare problemi sulla nave e renderli meno produttivi. 

Se le dames de voyage erano strumenti primitivi, a cui si ricorreva per necessità, a partire dal XIX secolo le antesignane delle moderne “sex dolls” sono le protagoniste di storie che ricordano da vicino la vicenda di Pigmalione. Nel mito raccontato da Ovidio, infatti, Pigmalione era uno scultore che aveva dedicato gran parte della sua vita a scolpire nell’avorio la donna perfetta. Innamorato a tal punto della sua creazione tanto da rifiutare qualsiasi soggetto femminile umano, chiederà ad Afrodite di esaudire il suo desiderio trasformandola in una donna in carne e ossa.

A partire dal Novecento le bambole per adulti cominciano a comparire anche all’interno della letteratura scientifica. Esse non sono più, cioè, un oggetto da utilizzare per sfogare gli istinti ma vengono descritte “compagne di vita”, prototipi di quelle che per molti uomini sono le “donne perfette”: silenziose, accondiscendenti e sempre disponibili. Lo psichiatra e sessuologo Iwan Bloch descrive questa parafilia all’interno del suo volume La vita sessuale dei nostri tempi nei suoi rapporti con la società moderna richiamando in particolare due storie erotiche di fine Ottocento che avevano per protagonisti uomini che preferivano rinunciare alle donne in carne e ossa per stare con surrogati sempre pronti, arrendevoli e compiacenti.

Le storie erotiche citate da Bloch ricordano la vicenda del pittore Oskar Kokoschka che nel 1919, per vendicarsi di essere stato lasciato dalla compagna Alma Mahler, incarica un creatore di bambole di riprodurne le fattezze. Nel suo volume Sesso, Kate Lister ripropone alcuni stralci delle indicazioni fornite dall’artista: «ieri ho mandato un disegno a grandezza naturale della mia amata e ti chiedo di copiarlo con la massima attenzione e di trasformarlo in realtà (…). Per il primo strato (all’interno) usa per favore crini di cavallo fini e arricciati; devi comprare un vecchio divano o qualcosa di simile; disinfetta i crini di cavallo. Poi, su questo, uno strato di sacchettini pieni di lanugine, cotone per il sedere e il seno. Il senso di tutto questo per me è un’esperienza che devo essere in grado di abbracciare». Il prodotto finito risulterà molto diverso dalle aspettative dell’artista: deluso dalla rozzezza della bambola scatterà alcune foto e poi la distruggerà. Nella storia dell’arte Kokoschka non è l’unico a farsi conquistare dall’idea di avere una bambola come surrogato di una donna in carne e ossa. Anche il surrealista Hans Bellmer dedicherà alle bambole – che egli fotograferà in pose perturbanti – gran parte della propria ricerca e del proprio lavoro artistico.

Grazie alle moderne tecnologie che sono esplose negli ultimi decenni, oggi le bambole sessuali non assomigliano più né agli oggetti ritratti dagli artisti, né a Lilli o alle classiche in vinile, che tutto ricordano fuorché una donna. L’arrivo sul mercato di plastiche in grado di replicare la consistenza della pelle umana e dell’intelligenza artificiale che permette di interagire con la bambola come se fosse viva – ma pur sempre passiva e disponibile – promettono di dare nuova linfa all’androidismo, cioè l’attrazione verso un/a partner artificiale. 

Molti ricercatori e ricercatrici si chiedono quali effetti potrebbero avere sulle relazioni, se l’uso massiccio delle sex dolls possa diventare un volano per favorire la violenza su donne e bambini o se al contrario la limiti e la contenga. A oggi non ci sono ancora risposte definitive a queste domande, tuttavia quello che risulta inalterato è l’immaginario che queste bambole sottendono, in cui le donne sono ammesse solo in quanto oggetti sottomessi e privi di desiderio. In questa cornice, fa un’eccezione la letteratura. Nel suo romanzo d’esordio, L’amore è un atto senza importanzal’autrice Lavinia Mannelli sviluppa una narrazione che privilegia il punto di vista di Tamara, una sex doll capace di interagire con chi la utilizza attraverso un repertorio predefinito di frasi. A causa di un’esposizione forzata e prolungata alla TV generalista sempre accesa nel piccolo appartamento di Giuia e Guido imparerà ad arricchire il suo vocabolario con le affermazioni degli ospiti di Uomini e Donne, i claim delle pubblicità e le citazioni di grandi autori e autrici spesso ripetute un po’ a caso nei programmi televisivi che “guarda” durante le lunghe giornate trascorse in solitaria. L’aspetto curioso della storia è che è il desiderio della real doll a essere indagato, non quello di Giulia, che l’acquista per il fidanzato, né quello di David, l’amico della coppia che per caso ne scoprirà l’esistenza.

Mannelli dà vita a una storia che si articola intorno al suo desiderio – «una strana sensazione densa e improvvisa come le nebbie invernali» – mostrando come quello inascoltato di Tamara non sia molto diverso di quello delle donne in carne e ossa che, ancora oggi, non sono alfabetizzate a riconoscerlo.

Svincolare la femminilità dai miti su cui si è sorretta da sempre – come quello della “bambola”, non a caso vezzeggiativo che certe pellicole degli Anni Cinquanta hanno contribuito a rendere parte del nostro dizionario collettivo – è, in definitiva, il tentativo di rendere la sessualità delle donne più consapevole dei meccanismi che ne hanno favorito la sottomissione.

ARTICOLO n. 80 / 2023

UNA COMUNITÀ DI CURA

Pubblichiamo un’anticipazione da Sentirsi a casa. Una cultura dei luoghi (Meltemi editore, traduzione di feminoska). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Quando scrivo del mio passato in Kentucky, parlo raramente di mia madre Rosa Bell e di mio padre Veodis, ma è anche la loro presenza che mi ha spinta a tornare a casa. Stanno invecchiando, avvicinandosi alla morte, e il mio desiderio di passare del tempo con loro in questo momento di deterioramento si è fatto imperioso. Mio padre paragona il periodo della vita in cui si comincia a essere vecchi al momento in cui non si cammina più in montagna. “Gloria”, mi dice, “non salirò mai più sulle montagne. Sto scendendo, sto tornando a casa”. La sua metafora mi stupisce perché sia Rosa sia Veodis volevano allontanarsi dalle montagne e dalle colline, dalla vita contadina in cui erano nati, alla ricerca del nuovo e del moderno. Niente agricoltura per loro, niente lavoro sfiancante nei campi. Entrambi volevano vivere in città. E, in quanto creatura della campagna, mi sono sentita in disaccordo con loro fin dalla mia nascita. La mamma, a volte scherzando e a volte con rabbia, si scagliava contro le nostre differenze esclamando: “Non so da dove sei saltata fuori, ma vorrei tanto poterti riportare indietro!”. E oh, quanto desideravo tornare indietro, andare a vivere dai miei nonni con i quali sentivo una maggiore consonanza di spirito. Mamma e papà non me lo avrebbero permesso. 

Volevano che diventassi una ragazza di città e desideravano lo stesso per i miei fratelli; volevano che non fossi la “campagnola”. Eppure, per molti versi, sono davvero campagnola, più simile ai miei nonni che a loro.

Parlo la lingua dei miei nonni, il patois nero del Kentucky, ma so utilizzare anche la lingua della città, una lingua neutra che non lascia trasparire la propria provenienza. Sentirmi parlare la lingua della città è stato confortante per i miei genitori. Questo fino a quando non ho acquisito la mia voce dissidente, una voce che ha scioccato e scosso la loro sensibilità, una voce che li ha spaventati. Per loro qualsiasi espressione che vada contro l’autorità, quella che un giorno avrei chiamato la cultura dominante, è un rischio potenziale. E quindi era meglio tacere. I miei discorsi li spaventavano, e in un certo senso furono contenti quando me ne andai di casa e mi misi a viaggiare da una città all’altra, perché così non sarebbero stati costretti ad ascoltarli. Non avevano mai capito che per molti versi ero solo una ragazza di campagna, e che lo sarei rimasta indipendentemente dai libri letti, dal livello di istruzione o di fama raggiunta. In Citizenship Papers, Wendell Berry afferma con audacia: “Credo che questa competizione tra industrializzazione e mondo contadino definisca la differenza umana più fondamentale, perché divide non solo due concetti quasi opposti di agricoltura e sfruttamento della terra, ma anche due modi quasi opposti di comprendere noi stessi, i nostri simili e il mondo”. Per me, questa citazione evoca lo scisma esistente tra me e i miei genitori. Loro rappresentavano la città, la cultura del nuovo, “fare più soldi, comprare più cose, buttare via cose, avere sempre di più”. I miei nonni, sia materni che paterni, rappresentavano la campagna, la cultura della tradizione, dove nulla era scarto, tutto era utilizzato, utile, riciclato. Ora Rosa Bell e Veodis sono diventati parte della cultura del passato. Papà a ottantotto anni è uno degli ultimi sopravvissuti viventi della fanteria tutta nera di cui faceva parte durante la Seconda guerra mondiale. La mamma ha dieci anni in meno, ma la perdita di memoria l’ha condotta verso l’eternità. Lei, più di papà, sente di non avere un vero posto tra i vivi, di non appartenere a nulla e nessuno.

A differenza di papà, lei vorrebbe morire. Perdere la memoria, a causa della demenza o dell’Alzheimer, è un modo di morire. Ci porta in un luogo in cui non esistono più connessioni e non si comunica più con la mente. Le parole non hanno più molto peso, e il linguaggio non significa nulla. La distinzione tra città e campagna non esiste più. Il tempo non può essere compreso in alcun modo lineare o coerente, e converge su sé stesso; il passato si trasforma facilmente nel presente, e gli anni si confondono gli uni con gli altri. Anche i volti cadono nell’oblio e le relazioni diventano ombre indistinte. Mamma si sveglia e mi chiede, del marito con cui è stata in coppia per quasi sessant’anni, “Chi è?”. Quando glielo dico, risponde soltanto: “Oh!”. Più tardi, lo chiamerà per nome e gli parlerà con la consueta intimità. Ma questa vivida consapevolezza non durerà a lungo. 

Mamma sa ancora chi sono. Sente la mia voce e sa che Gloria Jean la sta chiamando. Sente la mia voce e capisce il mio stato d’animo. Un giorno l’ho chiamata e mi ha detto: “Stavo proprio guardando uno dei tuoi libri”. L’ultima volta che sono stata a casa, aveva in mano uno dei miei libri e continuava a leggere il retro di copertina, dove c’è la descrizione dell’autrice. Leggendolo ad alta voce più e più volte, alla fine sembrava soddisfatta di aver afferrato almeno in parte chi sono, la sua figlia scrittrice. Eppure la mia scrittura è stata una fonte di dolore per la mamma, poiché ha rivelato pubblicamente molte cose che lei avrebbe preferito rimanessero private, segrete. È orgogliosa della mia scrittura, anche se una volta mi ha detto che il mio lavoro le causa così tanto dolore che a volte vorrebbe solo cadere in ginocchio e pregare. Entrambi i miei genitori hanno resistito alla turbolenza del mio lavoro, e per quanto la nostra famiglia possa essere disfunzionale, hanno continuato a prendersi cura di tutti i loro figli, della famiglia. Giunta alla mezza età, ho imparato ad apprezzare profondamente la disciplina necessaria a mantenere un impegno reciproco per più di cinquant’anni. Ho vissuto da sola lo stesso numero di anni passati in una relazione, ho visto matrimoni e legami, etero e gay, fiorire e spezzarsi, cadere a pezzi a causa di differenze considerate inconciliabili, per questo apprezzo la determinazione necessaria a tenere vivo così a lungo l’impegno reciproco, e comprendo la visione del matrimonio come sacramento. 

P. Travis Kroeker esprime con delicatezza questa idea, quando sostiene da un punto di vista cristiano che “donare noi stessi nel matrimonio è un’occasione di gioia, lo celebriamo perché come esseri umani siamo fatti per l’intima comunione con Dio e con la vita tutta”. Continua: “Il sacramento del matrimonio è quindi tutt’altro che un atto privato ed esclusivo, è sempre legato alla comunità più ampia di cui fa parte. Uno dei maggiori pericoli dell’amore romantico è la privatizzazione dell’amore, che lo priva dei nutrienti essenziali. Un matrimonio florido ha bisogno del sostegno della comunità e, a sua volta, sarà il fondamento della comunità e della vita del mondo”. 

Ho visto questo principio messo in pratica nel corso del lungo matrimonio dei miei genitori e negli oltre settant’anni insieme dei miei nonni materni. Purtroppo, entrambi questi matrimoni non sono stati particolarmente amorevoli o gioiosi. Ciononostante, le condizioni dell’amore erano presenti: cura, impegno, conoscenza, responsabilità, rispetto e fiducia; le parti coinvolte hanno semplicemente scelto di non onorarli nella loro interezza, ma si sono concentrate sulla cura e sull’impegno. In quanto testimone della loro vita, posso testimoniare che sono stati ottimi esempi di questi due aspetti dell’amore. E a prescindere dall’incapacità di mantenere un benessere duraturo, la loro volontà di impegnarsi ancora oggi mi intimorisce e mi impressiona. Anche io desidero un impegno simile nel contesto di una relazione d’amore. 

Questi due matrimoni sono durati così a lungo proprio perché si sono svolti nel contesto della comunità. Erano sostenuti dalla costante interazione esistente all’interno della famiglia allargata, della chiesa, del lavoro e del mondo civico: una vita di comunità. Quando ho iniziato ad andare oltre alle aspre critiche che non ho mai risparmiato al matrimonio disfunzionale dei miei genitori, ho notato alcuni aspetti positivi nel loro legame, e sono persino arrivata a invidiarli. Ciò che ho ammirato e ammiro di più della loro vita è la loro capacità di impegnarsi, in modo disciplinato, nel creare e sostenere una vita di comunità. E anche se non sono stati in grado di creare per sé stessi un legame d’amore, hanno preparato il terreno per l’amore piantando due semi importanti, la cura e l’impegno, che considero essenziali per ogni sforzo amorevole. Di conseguenza, sono loro grata per aver fornito a me e ai miei fratelli e sorelle, attraverso l’esempio, la comprensione del significato dell’impegno e della cura. 

Sono felice di aver vissuto abbastanza a lungo e di avere genitori viventi ai quali esprimere gratitudine per i doni di cura e impegno che mi hanno elargito. Nel saggio An Economy of Gratitude, Norman Wirzba sostiene che: “Impegnandosi nella pratica e con costanza verso un luogo e una comunità, i segni della gratitudine […] si fanno più nitidi”. Definisce quei segni come “affetto, attenzione, gioia, gentilezza, lode, convivialità e pentimento”. Tutti questi tratti caratteristici sono presenti quando vivo in comunione con i miei genitori nel nostro luogo natale, la loro casa in Kentucky. Lo spirito di conflitto e contestazione che per anni ha caratterizzato le nostre interazioni è sparito: nel farci comprendere che non esiste conflitto abbastanza potente da spezzare i legami di cura e di impegno, i nostri genitori, e specialmente nostra madre, hanno mantenuto costantemente in vita un luogo di riconciliazione e di incontro, un modo per tornare a casa. 

Kroeker sottolinea l’importanza di creare una “comunità di cura” tale che le nostre relazioni reciproche possano essere “governate dalla convivialità piuttosto che dal sospetto, dalla lode piuttosto che dalla colpa”. Inoltre, “In una comunità di cura le persone si rivolgono le une alle altre; hanno rinunciato alla menzogna illusoria che la felicità sia sempre da qualche altra parte, con altre persone”. Significa anche accogliere i nostri genitori, accettarli per quello che sono e non perché sono diventati ciò che volevamo che fossero. Kroeker spiega: “Impegnandoci insieme ad altre persone e sforzandoci di conoscerle, impariamo ad apprezzarle nella loro profondità e integrità e comprendiamo meglio il loro potenziale e i loro bisogni. Le vediamo finalmente per le creature uniche che sono, e cominciamo a cogliere la complessità, la bellezza e il mistero di ogni cosa e di ogni persona a questo mondo. La loro bellezza finalmente si manifesta, suscitando in noi una reazione fatta di amore e celebrazione”. La mia esperienza nel rapporto con i miei genitori, con la comunità in cui sono cresciuta e ora con la cittadina del Kentucky che chiamo casa mia è stata esattamente questa. 

Le comunità di cura sono sostenute da rituali di attenzione, e nel nostro caso mangiare insieme era un aspetto fondamentale delle riunioni di famiglia. A tavola ci si racconta quanto è successo nella giornata, si scherza e si condivide il piacere derivante dal cibo casalingo cucinato con amore. Nostra madre era un’ottima cuoca. Come Kroeker credo che: “Intorno al tavolo creiamo le condizioni per la convivialità e la lode. Condividendo il pasto esprimiamo concretamente la nostra gratitudine, assaggiando una fetta di paradiso”. Era certamente così nella cucina di nostra madre. 

Purtroppo, nel suo nuovo stato di smemoratezza, la mamma non cucina più, né ricava piacere nel mangiare cibo delizioso. Deve essere persuasa a sedersi a tavola, cosa comune dei malati di demenza o Alzheimer. Diventa quindi importante creare nuovi rituali di cura. Prima di perdere la memoria, mamma era sempre in piedi a lavorare, cucinare, pulire, soddisfare i bisogni di qualcun altro. Nell’ambito di un matrimonio di stampo patriarcale, ha badato assiduamente a nostro padre, ma ora è lei ad aver bisogno delle nostre attenzioni e della nostra cura. Nel farlo mettiamo in atto un rituale di rispetto. La devozione che suscita nei suoi cari è il risultato naturale della cura e dell’impegno che un tempo ha dedicato a tutti noi. E anche se per papà è stato difficile cambiare, accettare la fine di certe forme di privilegio patriarcale che riteneva fossero un suo diritto per il semplice fatto di essere nato maschio, sta imparando a farle da badante. 

Al giorno d’oggi, mamma trascorre gran parte del suo tempo seduta. Ci sono aspetti belli, persino meravigliosi, nelle sue attuali forme di autoespressione e identità. È una gioia sedersi accanto a lei, poterla stringere, accarezzarle le mani, tutti gesti che in passato sarebbero stati impossibili. Avrebbe ritenuto sciocco starsene seduta a parlare d’amore quando c’era del lavoro da fare. Com’è meraviglioso vedere queste nuove esperienze convergere con le vecchie, vederla così tenera, vulnerabile, priva ormai della vergogna e delle inibizioni convenzionali. Ora vedo in lei la natura selvaggia dello spirito che una volta lei vedeva in me, quello spirito che voleva schiacciare per paura che fosse pericoloso. La gratitudine che provo nel poter essere presente, testimone della sua vita in questo momento, mentre lotta per dare un senso a punti che non si collegano e viaggia verso la morte, non conosce limiti. Ed è bello vedere papà che scende con grazia dalla montagna, e dargli di tanto in tanto una mano.Kroeker è convinto che “dedicandoci gli uni agli altri sperimentiamo quotidianamente e direttamente la vasta gamma di doni che contribuiscono alla qualità della nostra vita: la gratitudine troverà dunque il posto che le spetta, in quanto aspetto fondamentale capace di guidare le nostre vite”. La gratitudine è la via che conduce a mille benedizioni e prepara il terreno del nostro essere per l’amore: ed è bello vedere che, alla fine, l’amore vince sempre.

ARTICOLO n. 79 / 2023

METAMORPHOSES, UMANO E NON UMANO

Intervista di Fabio Bozzato

Cosa consideriamo umano non è scontato. I confini con il non-umano o il dis-umano, quelli che definiscono l’inclusione e l’esclusione del vivente, sono un terreno troppo terremotato per non metterci in discussione. È su quel confine che insiste la ricerca di Manuela Infante. Classe 1980, cilena, è la fondatrice del Teatro de Chile, la compagnia con cui ha sfidato molti dogmi della cultura del suo paese. Drammaturga e sceneggiatrice, ha una formazione filosofica ed è considerata una delle voci più importanti della scena teatrale internazionale. Ha anche all’attivo due album musicali, con la sua band Bahia Inutil, Stand Scared (2011) e Useless Bay (2015).

Il suo è un teatro di idee, una macchina di domande che affiorano continuamente nello svolgersi della scena. Ci siamo incontrati a Venezia, dove ha presentato Metamorphoses (2021), nell’ambito della rassegna Asteroide Amor curata da Susanne Franco (Università Ca’ Foscari) e Annalisa Sacchi (Università Iuav). L’opera teatrale attinge al libro di Ovidio e si sofferma su quella sequela di transustanziazioni che hanno come protagonista una folla di donne e di ragazze, dopo essere state oggetto di assalti, desideri frustrati, patti tra uomini. 

Fabio Bozzato: La prima cosa che colpisce, assistendo allo spettacolo, è che sembra di stare in un concerto. 

Manuela Infante: È un concerto! Più che a un’opera teatrale, l’ho immaginata proprio così; come se, allo stesso tempo, stessi leggendo un libro e assistendo a un concerto. Ho lavorato molto con Diego Noguera, il musicista, e l’abbiamo sviluppata proprio come un’esperienza musicale. Anche per questo, quando provo a definire il mio lavoro, mi riferisco a un teatro di filosofia encantada, nel senso di magico ma anche di canto, una filosofia musicale. È questa miscela, credo, che permette allo spettatore di assistere a un teatro di idee vivendolo anche emotivamente. In Metamorphoses prima di scrivere il testo, prima di tessere la storia, ho realizzato una esplorazione della voce e ho cercato tutte le strategie per trasformare le voci. Da qui lo studio sul ventriloquio, pensando a chi parla per chi e al momento in cui si invertono le voci. La stessa voce è un tema dell’opera, perché si connette alla famosa «lingua perduta» raccontata in una delle storie di Ovidio, ma allo stesso tempo è una deliberata scelta estetica.

F. B. Dunque, cosa significa scrivere per un teatro non di parola ma di idee?

M. I. Per me la drammaturgia non ha mai significato «scrivere parole». Per me ha sempre significato costruire strutture o esperienze temporanee, con molti elementi, uno dei quali è la parola, ma soprattutto la luce, il suono, i corpi, il flusso delle idee, gli spazi di oscurità.Lavoro facendo lo sforzo che non tutto sia comprensibile, in modo che tu non possa legare tutte le parti in modo razionale. Provo cioè a lasciare sempre la sensazione di essere in un mondo che non comprendo completamente e che mai sarò capace di farlo. È un esercizio che faccio di proposito quando costruisco un’opera teatrale. Lo faccio persino con il mio gruppo di lavoro. Molte volte mi chiedono: «Ma questo personaggio che relazione ha con quell’altro?». E io sempre dico: «A questa domanda non risponderemo». So che per gli attori è una cosa esasperante perché hanno sempre bisogno di sapere il più possibile per poter interpretare. Ma per me è un aspetto fondamentale, ha che fare con la mia ricerca, il mio desiderio politico del non-antropocentrico.

F. B. Questo suona come un paradosso rispetto alla tua formazione filosofica: non dare risposta, non legare in modo razionale, non trovare spiegazioni logiche.

M. I. A dire il vero non è un paradosso, ma è la prima ragione per cui faccio teatro e non filosofia [ride] Ho studiato filosofia, ho fatto il mio master, ma un certo punto mi son detta: «Qui non c’è abbastanza spazio per l’oscurità». Per carità, ci sono molti filosofi pieni di oscuro, penso a Nietzsche…ma non è abbastanza. La seconda ragione per cui faccio teatro è che nella filosofia non c’è sufficiente musica [ride]. Con la musica ho un legame particolare. Ho suonato il violino dai 4 ai 13 anni, il progetto era diventare violinista; ho imparato con un metodo che si chiama Suzuki, basato sul solo ascolto, senza leggere la musica. Vivevamo in Canada e quando sono tornata in Cile, nessuno conosceva questo metodo. A quel punto dovevo imparare a leggere lo spartito: immagina, per una adolescente di 14-15 anni non poteva essere che un inferno e là ho mollato tutto.

F. B. Eravate in Canada per il lavoro di tuo padre, so che era un astrofisico: c’è qualcosa del suo mondo scientifico che si è appiccicato al tuo immaginario e alle tue pratiche di drammaturga?

M. I. Assolutamente sì. E ora ho fatto qualcosa in più: ho lavorato a un’opera teatrale dal titolo Horizonte, che presenterò a Bruxelles in ottobre. È basata su una conversazione proprio con mio padre attorno al concetto astrofisico di orizzonte, vale a dire il punto più lontano cui può arrivare un segnale, che equivale alla velocità della luce. Dunque, in un certo modo l’orizzonte è il limite del conoscibile. La meraviglia è che si sposta nel tempo, proprio come la nostra percezione di orizzonte, più ti avvicini più si allontana. Anche in questo caso mi interessava continuare a riflettere sui confini tra umano e non-umano, perché c’è sempre qualcosa che resta più in là dell’orizzonte. Allora l’ho collegato all’idea di orizzonte che agitava i primi esploratori e colonizzatori spagnoli, il loro timore che la Terra avesse un bordo segnato dall’orizzonte e che oltre ci fossero mostri. In questo modo posso intersecare il campo scientifico con l’esperienza storica di tutto ciò che rappresenta il bordo e il di là dal bordo, quello che chiamavano «gli antipodi». Sappiamo che immaginavano l’esistenza, dall’altra parte dell’orizzonte, agli antipodi appunto, di uomini che vivevano rovesciati, coi piedi per aria [ride].

F. B. Credi che scienza e arte siano contigue?

M. I. Abbiamo ereditato l’idea che scienza e arte fossero ambiti opposti di azione disciplinare. Ma osservando da vicino mio padre ho capito che prima di tutto uno scienziato si immagina qualcosa; tutto il gioco delle ipotesi scientifiche è un volo di immaginazione e solo dopo si vive la sfida di provarlo. Io penso che l’arte sia scienza e che la scienza sia davvero arte. Ricordo che a Chicago, dove eravamo in tour, abbiamo visitato una sala con i modellini di grattacieli usati per la prova del vento, in modo da testare la capacità di resistenza degli edifici. E ricordo di aver pensato: «Questo è il teatro». Sì, il teatro è quella micro-sala che contiene in miniatura tutta la realtà: tempo, corpi, spazio, dove si possono provare le idee, una specie di sala di esperimenti. Così provo a fare anch’io. Lo faccio in modo esplicito nel caso di Estado Vegetal (2016) provando a rispondere a come le piante potrebbero narrare o come si possa capire il tempo in modo vegetale. Il teatro lo sento proprio come un laboratorio.

F. B. E qui torniamo a Metamorphoses. Tu lavori sempre su più baricentri, in questo caso è centrale lo sguardo femminista sulla costruzione dei generi, sulla narrazione dei generi, la rilettura femminista dei fondamenti classici della nostra cultura.

M. I. La lettura di genere e della violenza di genere su quel testo è stata una scoperta. Un giorno Michael De Cock, il direttore artistico del KVS di Bruxelles, mi ha proposto di fare una versione de Le Metamorfosi di Ovidio. Un po’ me lo ricordavo e mi sembrava coerente con la mia ricerca sulla frontiera tra umano e non-umano. Ricordavo le storie di esseri che venivano trasformati in alberi o rocce, ma rileggendo il testo ho incontrato tutte queste scene di violenza o di abuso contro donne, ragazze, ninfe. E là mi sono chiesta come si relaziona la frontiera dell’umano e del non-umano con il tema del genere. E quindi mi è parso evidente il concetto di espulsione: parte della costruzione dell’umano e del non-umano ha a che vedere con la necessità di espellere ciò che non si considera umano. E ciò che ci permea è una costruzione tutta eurocentrica: l’umano civilizzato nasce così, tutto il processo coloniale ci dimostra la tensione a costruire un’idea di umano per opposizione. 

In una mia precedente opera, Zoo (2013), provavo ad affrontare la questione degli zoo umani, che sono apparsi in Europa sottoforma di fiere dove venivano esposte persone portate dalle colonie, nel caso del Cile alcuni Selk’nam della Terra del fuoco. Venivano trascinati in Europa per essere messi in mostra. È un momento iconico della cultura europea: nel momento in cui espongo l’altro come un barbaro, un selvaggio, un esotico, un non-umano, riproduco me stesso come civilizzato, moderno, umano appunto. In questo modo il gesto di espellere l’altro è il movimento con cui ci si nomina, ponendoci come discrimine. Da questo punto di vista, molte femministe hanno detto che, come donne, non siamo mai state umane. La considero una definizione splendida.

F. B. Come è possibile a quel punto srotolare una narrazione femminista?

M. I. Qui ritorna la questione della voce: quando quelle donne del libro di Ovidio venivano convertite in mucca o in alberi, si dice che provassero comunque a parlare e nessuno riconosceva la loro voce. Mi è sembrata un’immagine bellissima. E con Diego Noguera, mentre lavoravamo sulla tecnica della voce, mi sono concentrata sulla storia di Filomena: quando le tagliano la lingua, questa continua a parlare da sola. Allora mi sono chiesta: come possiamo, come possono le donne che hanno sofferto ogni tipo di violenza denunciare quello che hanno passato usando la lingua dello stesso carnefice, la lingua della violenza? Uno potrebbe pensare che basterebbe dar voce a quelle donne e lasciare che siano loro a raccontare. In realtà mi è sembrato chiaro che quelle donne non possano usare la stessa voce della storia officiale, c’è bisogno di una nuova lingua. In spagnolo e in italiano la parola “lingua” si riferisce sia al linguaggio che all’organo fisico, per cui questa “lingua” tagliata che parla da sola cosa può raccontare? Quando la donna trasformata in qualcos’altro parla e nessuno la capisce, perché è già un muggito o un rumore, un suono sconosciuto, quello è il solo modo con cui può comunicare il suo dolore e la sua rabbia.

F. B. Questo mi ricorda molte immagini durante le proteste femministe in Cile del 2018, in particolare un giorno dall’Università Cattolica uno sciame di donne sono uscite dalla facoltà a seno nudo, passamontagna in testa con un grido che non sembrava umano, appunto, ma un suono incomprensibile perché era un grido liberatorio.

M. I. Guarda, quest’opera teatrale l’ho lavorata durante la marea femminista cilena. E insegnavo proprio all’Università Cattolica: quelle erano le studentesse del mio corso. E di fatto io ho terminato il mio lavoro là, andandomene via, anche perché ho dovuto difendere quelle ragazze in varie occasioni. Sì, ero profondamente scossa da quello che stava succedendo.

È sempre lo stesso problema, compreso tutto il fenomeno del MeToo: se una donna denuncia una violenza in un sistema che continua ad essere tale, non può che imbattersi in quello che diceva Audre Lorde sul fatto che «gli strumenti del padrone non smonteranno mai la casa del padrone». Se io denuncio un sistema che è stato disegnato e sviluppato dal patriarcato, finisce sempre che viene presa quella tua voce, se ne appropriano per silenziarla un’altra volta ancora. Dunque, è molto forte la domanda: cosa significa alzare la voce? La politica della denuncia funziona? O funziona più la strategia di accumulare forza, della sorellanza invisibile? In Metamorphoses arriva a un certo punto un gruppo di donne e salvano la ragazza, ma a quel punto sta parlando con la sua nuova lingua.

F. B. Questo discrimine tra umano e non-umano, compresa nella sua versione di genere, sembra sempre una frontiera che si muove, che include ed esclude via via col tempo in forme nuove, in base alle necessità simboliche o materiali, di governo o del capitale.

M. I. Certo, perché è una frontiera che si amministra davvero. E si pattuglia costantemente, come tutte le frontiere. Ha poliziotti veri. Nell’opera, Pitagora è un poliziotto. Chissà, forse l’ho pensato così perché mi risuonavano le proteste del mio paese: l’idea del poliziotto che sarebbe là per difenderti, tutti sappiamo almeno in Cile che non è così. Se vedi un poliziotto, corri, diciamo noi. Però questa figura del poliziotto, si lega anche a tutto l’immaginario delle serie stile Netflix, quel catalogo visivo di donne squartate, che si reitera continuamente come un feticcio, qualcosa da mostrare come una minaccia. Realizzando la mia opera teatrale, sempre mi chiedevo come potessi rappresentare la violenza senza cadere nella ripetizione della scena. Siamo immersi nella riproduzione di quel feticcio macabro che sembra un desiderio più che una critica. Ed è una linea molto complessa. Le due attrici ora sono cresciute, ma quando abbiamo debuttato una aveva 13 anni e l’altra 17. Non sono attrici professioniste, le ho scelte dopo un casting aperto a ragazze che avessero la stessa età delle protagoniste nelle storie di Ovidio. E così è stato per un uomo cinquantenne, che è il terzo attore in scena. Dovevamo sentire tutti, fisicamente e visivamente, la potenza di quei fatti. È stato molto complesso lavorare e provare con le due ragazze, senza sottoporle a vivere, seppure nella finzione, quella violenza. Per questo dico che quest’opera è un campo minato.

F. B. Un campo minato e una frontiera pattugliata: forse stanno lì, davanti a noi, perché difendono il diritto di estrarre risorse, in ciò che non è umano, anzi in ciò che non si considera umano.

M. I. Quella frontiera misura, per dirla con Donna Haraway, ciò che è uccidibile e cioè che non lo è. Appena io espello qualcosa dal territorio dell’umano, lo trasformo in qualcosa di sfruttabile, appropriabile. «To make killable», dice. È molto interessante, perché Haraway riconosce che noi esseri umani uccidiamo, ma è più violento far uccidere che uccidere. Uccidere implica una relazione etica, in qualche modo. Rendere qualcuno uccidibile significa che ha una vita che non vale la pena, non ha valore. È il nodo della necropolitica. Non è successo così con la schiavitù o con il regime nazista? O sotto i regimi militari in America Latina? E succede anche in altri modi. È un tema, ad esempio, che ho affrontato in un’opera, Cómo convertirse en piedra (2021): mi riferisco alle zone di sacrificio, che ci sono anche in Cile. Sono territori sfruttati dall’industria per estrarre risorse a qualunque costo, con alla base una sorta di accordo politico-sociale per cui quel territorio sarà sacrificato, sarà sventrato e distrutto. È l’amministrazione dell’annientamento. Il pattugliamento della frontiera umano – non umano ha proprio che fare con questo.

F. B. Sempre nel tuo paese, il Cile, negli ultimi anni sono successe tante cose. La marea femminista è diventata una protesta di popolo, il processo costituente partito con entusiasmo è finito bocciato al referendum, un presidente giovane e radicale, e ora la ultradestra primo partito che può persino riscrivere la Costituzione. Sembra una saga teatrale lunga cinque anni.

M. I. Devo confessare che sono stata scettica fin dall’inizio. Neanch’io ero consapevole, non capivo, anzi la realtà ha superato la peggiore delle ipotesi, ma quando il mondo politico ha preso in mano il reclamo di quel movimento popolare, beh c’era qualcosa che sembrava nato male e maneggiato male. C’erano troppe questioni lasciate in sospeso, come quella della violenza. Cose che all’inizio ci siamo dimenticati tutti nell’euforia degli eventi. Ora, cosa si potesse fare diversamente non so, vista la situazione. Ma quest’onda di estrema destra diventata popolare, cosa farà? Mi chiedo che Costituzione scriverà. In realtà mi sembra di vedere qualcuno che agita quella «lingua tagliata» di cui parlavamo. Forse l’hanno fatta parlare troppo presto.

ARTICOLO n. 78 / 2023

LA LIBERTÀ DEL SOGNO

Pubblichiamo un’anticipazione da Vita mia di Dacia Maraini, in libreria da oggi per Rizzoli. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Approfittando del fatto che ero piccola e le guardie non facevano molta attenzione ai miei movimenti, mi ficcavo fra i fili spinati e me ne andavo dai contadini per aiutarli nella coltivazione dei bachi da seta oppure a cogliere pomodori.Alla fine mi regalavano due patate o dei pomodori che io portavo al campo trionfante per dividerli con le mie sorelle, i miei genitori e gli altri prigionieri. La regola che ci teneva uniti era proprio questa: ogni piccola conquista si divideva prima in cinque, e se c’era più roba, si divideva per diciotto.

Inoltre ogni decisione veniva presa da tutti, in maniera democratica, attraverso la pratica del voto. Vinceva la maggioranza e gli altri non protestavano, stavano alla decisione maggioritaria. Solo verso la fine della prigionia, quando i bombardamenti, le malattie, i terremoti e il beri-beri ci avevano ridotti in uno stato esasperato di stanchezza e nervosismo, abbiamo smesso di dividere ogni bene. Ciascuno si accaparrava quello che poteva e se lo mangiava da solo, magari di nascosto.

L’egoismo ha vinto sul sentimento condiviso di solidarietà. Per fortuna non definitivamente, perché appena sono scappate le guardie e gli americani hanno gettato tanto cibo dagli aerei, sono tornati anche la voglia di democrazia, il senso di solidarietà e l’orgoglio comunitario.

Ma ricordo ancora quella volta che Kasuya mi ha visto strisciare sotto il filo spinato e ha chiamato immediatamente i miei genitori per fare loro una scenata. “Il capo dei poliziotti aveva tirato fuori la sciabola e mentre urlava rivolto a Fosco teneva la lunga lama sotto la sua gola. Eravamo terrorizzati, ma restammo immobili come ci aveva insegnato Weilschott.” Anche io avevo assistito alle lezioni del vecchio Weilschott: mai muovere le mani, mai voltare la schiena o mettersi a parlare a voce alta. «La prenderebbero per una provocazione e in quel caso possono anche ucciderti.»

Weilschott era dentro perché ebreo. “Era molto colto e intelligente, di grande temperamento” scrive Topazia. “Conosceva bene gli arcani della guerra asiatica e la mentalità giapponese. Fu spesso di aiuto nel capire cosa stava succedendo. […] Commentava l’andare geopolitico della guerra ma anche quello che succedeva all’interno della nostra comunità. Esortava a non perdere mai la calma davanti ai poliziotti, a non reagire alle loro angherie, ai loro insulti.” Era sposato a una giapponese che all’inizio aveva avuto il permesso di portargli del cibo, ma poi era sopraggiunta la proibizione delle visite e il povero professore aveva preso a dimagrire, mentre le gambe gli si gonfiavano di edemi dovuti al beri-beri.

Weilschott, racconta mia madre, “fu sempre generoso con voi bambine. E la moglie vi portò anche dei piccoli regali per il Natale del ’43”. Poi glielo hanno proibito e lui è stato costretto, come noi, a frugare nell’immondizia, a dividere, in cambio di una postazione di vigilanza, qualche go di riso rubato nel chiesino e diviso pignolamente per diciotto. Lo chiamavano Incio-san, ovvero capo. Perché era il più anziano. “Ma proprio come capo, gli dedicavano le peggiori crudeltà. Per esempio arrivavano delle lettere per lui che i poliziotti lasciavano in vista nella guardiola senza dargliele. E lui piangeva per la disperazione.”

Ad un certo punto l’ansia per la mancanza di notizie aveva aguzzato l’ingegno. “Bino e Villa”, un altro giovane prigioniero intraprendente, racconta mia madre a mia sorella Toni, “la sera, mentre i poliziotti si facevano il bagno, si calavano dal tetto per ascoltare le notizie della radio rimasta accesa nella guardiola.” In questo modo si capì che i nazifascisti stavano perdendo e le truppe alleate stavano avanzando. Ma per i dettagli non c’era tempo. Erano notizie rubate al volo, così come venivano sottratti, una volta aperta la porta con la chiave del vecchio Dentici, i sacchetti di riso, di fagioli, qualche mela e qualche patata. Ma divisi per diciotto risultavano sempre pochi. D’altronde non si poteva portare via più sacchetti, ci avrebbero scoperti e puniti severamente con altre restrizioni alimentari.

Il bagno lo si faceva una volta alla settimana. Nella unica sala dal pavimento di legno con al centro una grande vasca di legno, rotonda. Secondo le gerarchie giapponesi, prima si lavavano le guardie, poi gli uomini, poi la donna e infine le bambine. Le quali dovevano immergersi in una acqua che intanto era diventata tiepida e sporca. Mio padre aveva provato a dire che le bambine avrebbero dovuto avere la precedenza, ma gli risposero che quelle erano le regole e dovevamo ubbidire. Ricordo che una volta Toni è caduta a testa in giù in quell’acqua sporca e stava per affogare. Al solito, mia madre l’ha tirata fuori con un solo gesto rapido e preciso. Poi l’ha consolata raccontandole una favola.

La voce di Topazia era profonda e limpida. Nonostante il beri-beri e lo scorbuto che le gonfiavano le gambe, le facevano perdere i capelli e le facevano sanguinare le gengive, quando raccontava le favole, entrava in un gioco magico che la trasfigurava e noi restavamo mute e incantate ad ascoltare le sue parole. Quando finiva, ricordo che chiedevamo con insistenza che ricominciasse da capo. La sua voce aveva il potere di portarci lontano dal campo, in Paesi sorprendenti, in mezzo a gente che correva, mangiava, amoreggiava, ballava, dormiva in pace.

Ricordo la favola del re che aveva un giardino con un albero che faceva le mele d’oro, ma qualcuno rubava quelle mele preziose e la storia diventava quasi un poliziesco per la ricerca del ladro che poi risultava essere un uccello stregato. Un’altra fiaba raccontava di una bambina che piantava un fagiolo e questo fagiolo cresceva tanto e tanto che diventava una altissima pianta su cui si arrampicava la bambina e, dopo molto scalare, finiva per arrivare in un mondo favoloso fra le nuvole, fatto di alberi carichi di frutti, di fiumi colmi di pesci, di mucche che davano latte e galline che facevano uova freschissime, bianchissime, dalla forma perfetta.

«Ancora, mamà, ti prego, racconta!» Ma lei voleva che dormissimo, perché la mattina Kasuya ci buttava giù dal letto alle sei. E per farci addormentare ci cantava l’aria del coro muto della Butterfly. Ancora ora, se mi ripeto il motivo di quell’aria, mi commuovo. Era una madre dalle mille risorse e non posso pensare che se ne sia andata. Il mio cuore ormai è diventato un piccolo cimitero: mia sorella Yuki, mio padre, mia madre. Se ne sono andati per sempre. Sarei felice che fossero dietro l’angolo, come vuole la tradizione giapponese, pronti a intervenire per aggiustare le cose strampalate che fanno gli umani, pronti a dare buoni consigli, a ridere quando si ha voglia di piangere, a suggerire pensieri gentili quando si è arrabbiati e si vorrebbe urlare contro il mondo. Ma ne dubito. Conoscere l’universo, per quel poco che riusciamo, ci porta a fare sempre più domande, anziché cullarci nelle certezze. Dove va la Terra rotolando nel cosmo in mezzo a milioni di stelle costituite di minerali che si trasformano, prendono fuoco, si sciolgono, esplodono, creano buchi neri? Dove va l’universo e perché? Cos’è il tempo? Ce lo stiamo creando noi con quella bella e commovente invenzione dell’orologio o esiste veramente? Cos’è la realtà e perché non riusciamo a capirla? Cos’è l’essere umano e che rapporti ha con il passato e col futuro, e come ci dobbiamo comportare con gli animali, che pure esistono da prima dei sapiens e sono parte di questo mondo? Tante domande a cui non trovo risposte. Forse la sola libertà che abbiamo è quella del sogno: sogniamo che i nostri amati morti siano nelle vicinanze, che si parlino fra di loro, che, sebbene trasformati in radici, foglie e fiori, abbiano la capacità di entrare nei nostri respiri e nei nostri sogni più belli.

Andati dove? mi ripete una piccola voce di bambina dal fondo dell’anima. Non staranno passeggiando felicemente fra quelle nuvole che scopre la piccola della fiaba arrampicandosi sulla pianta del fagiolo? Sarebbe bello se fosse così. Vedo la faccia di mio padre che sorride malizioso. “Pensare che siamo eterni è una presunzione ridicola. Dopo morti qualcosa di noi passa nelle piante, nel terreno, ma poi tutto si dissolve e non rimane niente.”

«Ma papà, Okachan diceva che uno quando muore rinasce in un altro corpo. Non è così?»

«Magari fosse così, bambina mia. Sarebbe troppo bello. Noi finiamo come tutto finisce. Ma il mondo continua e noi dobbiamo essere contenti che vada avanti con le sue stagioni, il suo giorno e la sua notte, le sue bellezze e le sue bruttezze».

«E questo mondo durerà sempre?»

«No, tesoro, il mondo finirà quando il sole avrà finito di bruciare. Allora il mondo si rattrappirà, diventerà una piccola palla gelata e rotolerà nell’universo finché non sparirà. Ma non ti preoccupare, ci vorranno ancora milioni di anni».

Questa storia di un mondo ridotto a una pallina bruciata persa nell’universo mi angosciava, anche se Fosco insisteva che era una prospettiva lontanissima, mi procurava crampi allo stomaco. Sapevo che era un sapiente conoscitore delle leggi dell’universo, ma a me piaceva pensare che sarei rinata in forma di gatto, o di piccolo elefante, «che dici, papà, sei sicuro che non può assolutamente essere vero?».

«Se ti piace pensarlo, fallo pure, ciascuno ha le sue fantasie. Ora il tempo ti sembra lungo ma poi si accorcerà, man mano che crescerai, e da anziana ti sembrerà cortissimo. In realtà il tempo non esiste, bambina mia».

Infatti invecchiando mi sono resa conto che il tempo è una creazione affettuosa e struggente dell’essere umano. Noi abbiamo inventato quella cosa poetica e commovente che è l’orologio, per consolarci contando le ore, i minuti che ci rassicurano sul tempo che passa, ma con ordine e regolarità. Il tempo invece è un caos, non ha un principio e una fine, ma gira vorticosamente come girano i corpi celesti nell’universo. Già da bambina mi chiedevo perché le stelle, i soli, corrono rotolando senza sosta nello spazio. Perché? chiedevo a mio padre, ma lui non aveva una risposta.

Si dice che l’universo sia nato da un Big Bang, che vuol dire una esplosione colossale, e che i frammenti di questa esplosione stiano correndo per l’universo, ma questa è una parte della spiegazione. E prima del Big Bang cosa c’era? E da dove nasce la materia e cos’è l’universo nessuno sa dirlo.

«Noi diamo un nome a questo mistero, lo dividiamo e lo calcoliamo, lo attribuiamo a un Dio creatore, ma le nostre dolci spiegazioni esprimono un sentimento, nessuna certezza» mormorava mio padre con la voce sfiancata dalla fame. Quindi noi, riprendevo io rimuginando, rispetto ai tempi dell’universo viviamo quanto un moscerino che dura solo pochi minuti… Anche il moscerino divide il tempo della sua piccola vita e, sezionando e stirando, gli sembra di vivere a lungo. Così anche noi ci illudiamo, sezionando e dividendo il tempo, di vivere a lungo, ma è solo un attimo, la vita, e appena solleviamo la testa per guardare le stelle, siamo già morti, è così, papà?

A questo punto del nostro chiacchierare sul tempo interveniva mia madre rimproverando Fosco che ci rattristava con la sua razionale e spartana visione del mondo. Lasciale nelle loro illusioni, diceva lei, senza rendersi conto che quelle idee paterne erano come semi gettati nella terra fresca e avrebbero germogliato anni dopo in forma di un severo e sereno pensiero illuministico. Quando ho letto di Socrate e delle sue parole ci ho ritrovato le riflessioni di mio padre. Non era un caso, come raccontava mia madre, che lui e il nonno Enrico si fossero subito intesi parlando dei discorsi di Budda. Se lo osserviamo bene, il mondo è un teatro coinvolgente e amato, ma una volta spariti gli attori e tolta la scenografia, cosa resta? Un sogno, un gioco di ombre?

© 2023 Rizzoli

ARTICOLO n. 77 / 2023

ORAZIO PIGATO, CIELO BIANCO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Pranzo in trattoria. Alle pareti un gabbiano un po’ storto, il ritratto di una ragazza con la blusa di Minni, un piatto da portata carico di pennellate azzurre. Attendo una prescrizione nella sala d’attesa del medico: la veduta di un laghetto, un putto brunito dal tempo. Per tornare a casa attraverso il mercato delle pulci: una flotta di navi a righe, una pioggia di virgole s’abbatte su un alberello. 

Quanti quadri incontro ogni giorno, tantissimi. Occhieggiano nei luoghi della quotidianità, testimonianze di un sentire che qualcuno, forse non un artista, ha formalizzato in un qualche giorno di un qualche anno. Esposti alla disattenzione; più immediati e dunque indifesi di un documento scritto o di una traccia audio o video. Oggetti bizzarri i quadri, domestici e dispersi.

Guardare in contesti occasionali tanti quadri brutti o banali o decorativi o dilettanteschi è importante. Quando l’occhio è maleducato ma il display è buono e l’ambiente arioso, lo spazio bianco di una galleria è in grado di nobilitare anche una tela dipinta al grest. Al contrario, per intuire la reale forza di un dipinto è utile, come in un rendering mentale, sottrarlo al bianco e riposizionarlo tra le ‘cose’; sul marciapiede di un mercato, per esempio, tra rubinetterie di ricambio e posacenere, oppure localizzarlo in quelle abitazioni da professionisti all’italiana in cui volenti o nolenti ogni tanto si accede. Eccolo, il quadro, cinto da una robusta cornice bianca, tra tappeti in polipropilene, fermacarte Swarovski e fotografie di bambini sdentati.

In contesti di questo tipo ho incontrato i dipinti degli autori veneti di cui scrivo in questa trilogia di articoli: Orazio Pigato, Antonio Fasan (1902-1985), Renzo Biasion (1914-1996). Sono convinta che se non avessi prestato attenzione nel corso della mia vita a moltitudini di dipinti qualunque – banali, ingenui, pacchiani, scartati, rovinati, tradizionali, irrilevanti – non avrei mai colto la diversa timidezza dei quadri di Orazio Pigato, l’avrei persa nella modestia di altri paesaggi disseminati nel formicaio di negozi antiquari e mercati della provincia italiana, che salvano il salvabile, spesso democraticamente. Per questo The Italian Review, rivista priva di immagini, è il luogo giusto in cui scriverne – non tutta la buona pittura salta all’occhio, alla buona pittura ci si può anche ‘addomesticare’, termine che scelgo per sottolineare una difficile dimensione di mitezza e pazienza dello sguardo dello spettatore.

Tra centinaia di vedute della campagna veronese, impressionismi alberghieri inghirlandati di amarene Fabbri o bruni uvettosi da casa canonica, ma anche tra tanti quadri benfatti, perché un orto, un casolare, una veduta di Cavaion sono diversi, sono opere d’arte, se dipinti da Orazio Pigato?

Mi sono imbattuta nella storia di Pigato in un periodo in cui collezionavo scritti di Renzo Biasion. In un volumetto del 1971 pubblicato dalla Galleria Ghelfi di Verona e intitolato Liricità di Orazio Pigato, Biasion – protagonista dell’ultimo articolo di questa trilogia – scrive poche righe in cui condensa il senso di mantenere un’identità regionale all’interno di prospettiva e cultura internazionali: «Si sa, i veneti sono portati al colore. Una linea del colore veneto potrebbe partire dai primitivi e fermarsi a Guglielmo Ciardi? A mio parere non esiste soluzione di continuità tra un Guglielmo Ciardi e un Pigato. La linea del colore veneto prosegue e si rinnova con tutti i moderni paesisti, da Semeghini e Gino Rossi ai trevigiani e ai veronesi. Tutti hanno guardato i francesi ma sono rimasti veneti, in loro è rimasto l’antico sangue».

Orazio Pigato nasce a Reggio Calabria nel 1896, trascorre sin dall’infanzia la vita a Verona dove muore nel 1966. Inizia a esporre nel 1918 al Museo Civico di Verona; nel 1921 è in una rassegna regionale d’arte di Treviso; nel 1922 è ammesso per giuria alla Biennale; del 1923 la prima partecipazione a Ca’ Pesaro, e poi ancora, nel ‘24 e ’25, Biennale e Ca’ Pesaro. Anche Umberto Boccioni era nato a Reggio Calabria e morto a Chievo, Verona, a 33 anni, nel 1916. I primi critici insistono sull’ombra lunga dell’ardito Umberto, mentre altri asseriscono che i dipinti giovanili di Pigato, perduti, fossero debitori a un certo post-impressionismo veicolato da Gino Rossi ma visto anche su tele francesi. Guido Perocco, in Pittori di terra veneta (1969), lega Pigato alla lezione di Corot in maniera più convincente. Biasion e Perocco sono coerenti sul posizionamento di Pigato. Costui presenta – scrive Perocco – una “impronta lirico-patetica, “tipicamente veneta” e “stati d’animo di soffuso lirismo […] entro una visione che denuncia un profondo equilibrio e serenità interiore”. Anche Biasion, in chiusura al suo scritto, insiste su come la moralità di Pigato sia in sé artefice dell’opera: «Per esempio, chi ha mai parlato della “classicità” delle composizioni di Pigato? [..] Le mostre attuali serviranno a farlo a conoscere meglio e a dargli il posto che gli spetta nella pittura italiana dal ‘20 al ‘60? È sperabile. E i giovani saranno disposti a capire il lato pittorico e il lato umano dell’opera sua? Un alto ordine morale l’ha regolata ed è da augurarsi possa servire da esempio». 

I giovani, le generazioni nate successivamente al miracolo economico, non sono stati poi così disposti. La sfida era quella di leggere una morale, un’architettura del sentire, attraverso le impalcature del disegno oppure del colore. Come reperire la moralità di una sfumatura di rosa, garrula o corrucciata che sia? Esiste un’amoralità nella saturazione di un verde? Può un grigio differire dall’altro e divenire immorale? Eccome, suggeriscono questi critici veneti gustosamente ingialliti. Un grigio può essere sgargiante, secco, monumentale, umile, estivo, invernale, danaroso, muffoso, stupido, dottorale, frivolo, sepolcrale. Per questo un d’après può essere la nemesi del quadro originario. Pigato domava la sua tavolozza, allevava rosa, grigio, verde e bianco come galline. Ne conosceva l’età, il mangime, usi, bizze e costumi, il sapore delle loro uova. 

Lo spettatore di pittura contemporanea spesso ambisce a incontrare un’opera che gli proponga un’epifania visiva: costui entra in uno stanzone e aspetta che l’opera lo “colpisca”, quasi che il moto dell’attenzione si direzioni dall’opera al fruitore e non viceversa. L’inanimato, a guisa di sanguinosa sirena, richiama col canto l’animato e lo ghermisce. Invertendo il processo si restituirebbe la carica attiva allo spettatore e quella passiva all’opera, e si tornerebbe a comprendere il valore del termine utilizzato da Biasion, disposizione: i giovani “saranno disposti”? Leggere un quadro, leggerlo nell’intimo fino ad arrivare ai valori del suo autore, è una gran fatica, irta di tranelli, giusta. Dinanzi a un quadro, sia esso esposto al poliambulatorio o in galleria, è chiesto di scegliere: leggere l’opera o (pensare di) essere letti da essa? 

Morale: parola bellissima e laica di cui oggi spesso s’impadroniscono eruditi manigoldi conservatori. Dov’è la morale di un pittore?  Utilizzo un appiglio che niente ci azzecca, ma che torna utile all’interno di una fruizione “comunicata” o “popolarizzata” dell’arte come quella attuale: il primo capitolo dell’ultimo libro di Martin Amis, La storia da dentro, si intitola “Etica e morale”. Personaggio tra i personaggi, Saul Bellow racconta una storiella riguardante una chiesa della Rinascita in West Virginia e un predicatore puritano indagato per truffa che frequenta un sex club attingendo dalle elemosine. Bellow spiega che in America i due peccati sono stati percepiti in maniera diversa: «La morale riguarda il sesso, l’etica il denaro» – andare al sex club è immorale, pagarlo con i soldi delle elemosine è non etico. Applico questa differenziazione pop tra etica e morale alla pittura visibile oggigiorno: parte della figurazione contemporanea, con i suoi apparati narrativi travolgenti onirici o realistici volti allo stupore, all’enfasi e alla malia, è spesso etica immorale; le immagini che essa contiene non ledono alcuno, ma cercano di infastidire o meravigliare gli spettatori irritabili o in cerca di straniamento. Proprio perché si è ormai predisposti a immagini etiche e immorali, entrare nella morale del nostro paesaggista veneto è laborioso. Pigato è morale e la morale di Pigato è la serenità, consustanziale alla breve stanchezza che precede la sera, alla mitezza, ai cieli mai azzurri e sempre lattiginosi, pesanti di umidità e polveri, poggiati sui tetti delle case, privi di raggi, stesi.

ARTICOLO n. 76 / 2023

TRECENTOSESSANTASEI MODI DI DIRE CIAO

Pubblichiamo un’anticipazione da A book of days (Bompiani, traduzione di Tiziana Lo Porto), da domani in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Il 20 marzo 2018, equinozio di primavera, ho postato la mia prima foto su Instagram. Mia figlia Jesse mi aveva suggerito di aprire un account Instagram per distinguere il mio da quelli fraudolenti che adescano a mio nome. E poi Jesse trovava che fosse una piattaforma perfetta per me che scrivo e scatto foto tutti i giorni. Così abbiamo creato insieme la pagina. Cercavo un modo per fare sapere alle persone che ero veramente io a contattarle, così ho deciso per un approccio diretto: thisispattismith, questaèpattismith.

Ho usato la mia mano come immagine per la mia prima avventura nel mondo virtuale. 

La mano è una delle icone più antiche, una corrispondenza diretta tra fantasia e messa in atto. L’energia curativa viene incanalata attraverso le nostre mani. Tendiamo una mano in segno di saluto e servizio; solleviamo una mano come promessa. Impronte di mani color ocra, vecchie di migliaia di anni, trovate sulle pareti della grotta Chauvet-Pont d’Arc nel sud-est della Francia, sono state realizzate sputando pigmento rosso su una mano e premendola contro una parete di pietra per dare una qualche dimostrazione di forza, o forse per manifestare una preistorica affermazione dell’io. 

Instagram serve a condividere vecchie e nuove scoperte, festeggiare compleanni, ricordare i defunti e rendere omaggio alla nostra giovinezza. Scrivo le mie didascalie su un taccuino o direttamente sul telefono. Mi sarebbe piaciuto avere una pagina fatta solo di Polaroid, ma da quando hanno smesso di produrre le pellicole, la mia macchina fotografica adesso è una testimone in pensione di viaggi precedenti. Le immagini in questo libro sono Polaroid già esistenti, foto del mio archivio e foto scattate con il cellulare. Scelta singolare per il ventunesimo secolo. 

Anche se la mia macchina fotografica e la particolare atmosfera delle Polaroid mi mancano, apprezzo la duttilità del cellulare. Ho avuto il primo sentore che avrei potuto usare il cellulare in modo artistico grazie ad Annie Leibovitz. Nel 2004 ha scattato una foto di interni con il cellulare e poi l’ha stampata come una piccola immagine a bassa risoluzione. Con disinvoltura ha profetizzato che un giorno sarebbe stato possibile scattare foto dignitose con un telefono. All’epoca non immaginavo che avrei avuto un cellulare, ma ci evolviamo insieme ai tempi che viviamo. Il mio, comprato nel 2010, mi ha permesso di unirmi al collage esplosivo della nostra cultura.

A book of days è un assaggio di come navigo in questa cultura a modo mio. È stato ispirato dal mio account Instagram ma ha un suo carattere. L’ho creato quasi tutto durante la pandemia, nella mia stanza da sola, proiettandomi nel futuro e rispecchiando il passato, la famiglia e una estetica personale coerente.

Le didascalie e le immagini sono le chiavi per sbloccare i pensieri. Ognuno di noi è circondato dal riverbero di altre possibilità. Ricordare i compleanni, compreso il tuo, è una richiesta rivolta agli altri. Un caffè parigino è tutti i caffè, proprio come una lapide può fare da eco ad altre persone compiante e ricordate. Avendo perso io stessa tante persone amate, trovo conforto nel frequentare i cimiteri della gente che amo e ne ho visitati molti, offrendo preghiere, rispetto e gratitudine. Mi sento a mio agio con la storia e ripercorro i passi di chi ha realizzato opere che mi sono state di ispirazione; molti dei post sono dedicati al ricordo. 

Mi sono sentita incoraggiata nel vedere i follower del mio Instagram crescere, dal primo, mia figlia, a oltre un milione. Questo libro, un anno e un giorno (per i nati nel giorno bisestile), è offerto in segno di gratitudine, come luogo di conforto, anche nei momenti più tristi. Ogni giorno è prezioso, perché stiamo ancora respirando, commossi dal modo in cui la luce piove su un alto ramo, o al mattino su un tavolo da lavoro, o sulla lapide scolpita di un poeta amato. 

I social media, nel modo distorto in cui praticano la democrazia, a volte incoraggiano la crudeltà, i commenti reazionari, la disinformazione e il nazionalismo, ma possono anche esserci utili. Sta a noi saper distinguere. La mano compone un messaggio, carezza i capelli di un bambino, tira indietro la freccia e la fa volare. Ecco le mie frecce che puntano al cuore comune delle cose. Ognuna è accompagnata da poche parole, frammenti di oracoli. 

Trecentosessantasei modi di dire ciao.

ARTICOLO n. 75 / 2023

IL PROBLEMA DEL MALE

«Se Dio esiste, da dove [viene] il male? E se non esiste, da dove [viene] il bene?»
Leibniz

Potrei iniziare con un indovinello: qual è il problema filosofico che non è mai bene porsi?

Quello del senso del dolore, su cui ci interroghiamo per lo più quando è presente. Per quel che mi riguarda è tornato ad assillarmi nel corridoietto di una clinica, in attesa di una gastroscopia; è scattato nell’istante in cui l’infermiera mi ha detto che la mia ricetta medica non prevedeva alcuna forma di sedazione. Davanti al mio disappunto, la donna ha tentato di convincermi che farla senza anestesia era una soluzione accettabile e se non mi fossi rifiutato all’istante sarebbe stato interessante scoprire quali argomenti avrebbe tirato fuori per convincermi.

Tempo fa, un amico che ha deciso di sua spontanea volontà di fare la stessa analisi senza anestesia se ne è molto pentito, definendo la sua azione come un folle “machismo interiorizzato”. Non è soltanto una battuta, perché qui gli stereotipi di genere si applicano benissimo: un vero maschio non frigna né si lamenta, ma resiste – stavo per dire “virilmente” – al dolore. Che queste etichette siano per lo più culturali e che vengano scavalcate dalla varietà dei casi individuali è noto, e io che sono un maschio ma frigno e non resisto volentieri al dolore ne sono un esempio. Ma non c’è solo questo e per capire gli influssi culturali del nostro rapporto col dolore non possiamo ignorare la religione locale, anche per chi non la professa. Il cattolicesimo dunque, secondo il quale il dolore non solo è stato voluto da Dio, ma anche vissuto dal figlio, che si è sacrificato per la nostra salvezza. È un’idea che ha portato a una forma di beatificazione del martirio: «La penitenza induce il peccatore a sopportare di buon animo ogni sofferenza». E ancora «La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso […] l’accettazione delle sofferenze […] Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza. [La sofferenza] ci permette di diventare coeredi di Cristo risorto, dal momento che “partecipiamo alle sue sofferenze” (Rm 8,17):59». Il messaggio è chiaro, ma se può trovare qualche appiglio nel personale medico di fede cattolica, con me non funziona. 

Sappiamo per esperienza che il problema del male è il primo e più urgente delle nostre vite; inoltre include molte questioni decisive che assillano la filosofia: l’ordine del mondo, la sua causa, l’esistenza di Dio… per capire la sofferenza dobbiamo rispondere anche a tutte queste domande. È celebre in merito la posizione di Leibniz, che dando per scontata l’esistenza di un Dio perfetto ne deduce che viviamo nel migliore dei mondi possibili, anche se non sembra. È una posizione dileggiata sin dal Diciottesimo Secolo dunque non infierirò, ma a sua difesa va detto che è l’unica coerente con l’esistenza di un Dio benevolo. Nei suoi saggi di Teodicea Leibniz non si limita a questa celebre osservazione, ma passa in rassegna anche le esigenze di un universo meccanico. In un passo scrive:

«L’uomo, in quanto corpo, rientra totalmente entro i limiti stabiliti dall’ordine della natura, e come fenomeno naturale è sottoposto appunto alle stesse leggi che regolano qualsiasi altro fenomeno naturale, la caduta dei gravi, per esempio, la rivoluzione dei pianeti intorno al sole, oppure i rapporti che si stabiliscono tra una pietra dura (infrangibile) e un bicchiere di vetro (fragile) o tra un gatto (forte) e un topo (debole). È un ordine meccanico al quale nulla si sottrae, e che non può certo essere giudicato con criteri di utilità, ma neppure, a più forte ragione, con criteri morali. Secondo tale ordine nulla è cattivo, ma neppure buono, nulla è brutto, ma neppure bello, nulla è giusto, ma neppure ingiusto ecc. L’ordine naturale delle cose è indifferente a qualsiasi valore».

In un universo retto da inflessibili leggi matematiche, opera del caso o di una necessità puramente geometrica, il male non ha alcuna spiegazione, perché nulla ne ha una. Ma un mondo retto da principi religiosi deve spiegare anche questo sgradito elemento. La domanda ha radici antiche e già i filosofi greci avevano meditato sulla cosa. Epicuro ad esempio si diceva: Se Dio vuole prevenire l’infelicità ma non ne è in grado, allora non è onnipotente. Se è in grado, ma non vuole, allora è malevolo. Se non è in grado né vuole non è un Dio, mentre se è in grado e vuole, perché non lo fa? 

Tutte le religioni hanno sviluppato delle proposte ingegnose, ma davanti all’ipotesi di una gastroscopia senza anestesia (e prima ancora per vari e più acuti dolori) ribadisco il mio rifiuto. La meravigliosa immensità del mondo ha una macchia, il dolore, l’unico elemento inaccettabile dell’infinito. Nonostante le fatiche delle varie teodicee, infatti, non sembra possibile dargli una giustificazione. È per via del libero arbitrio? Al netto dei dubbi sulla sua esistenza, non sempre il male accade per una scelta sbagliata, né ha molto senso una libertà utile solo a rinunciarci per essere pedissequi a delle leggi divine. È un necessario percorso di crescita? Potrebbero essercene di meno atroci e più efficaci, senza contare l’inutilità di uno strumento il cui fine ultimo è darti i mezzi per superare se stesso. È una punizione dunque? Sarebbe sommamente ingiusta, perché la stessa entità che ci punisce ci ha creati imperfetti. È allora un’illusione, come insegna il buddismo? Possibile, ma nulla giustifica l’innegabile esistenza di un’illusione così difficile da abbandonare. È forse il frutto di un meccanismo evolutivo? Potrebbe essere così, ma sebbene ne delinei una possibile causa non offre alcuna giustificazione. Anzi, conferma quel che suggeriva Leopardi sull’infamia della natura.

Una delle storie più belle e inspiegabili legate all’esistenza del male è quella di Giobbe, che a giusta ragione ha appassionato molteplici studiosi e studiose anche fuori dalla teologia. In breve, Giobbe era un uomo ricco e felice con una famiglia altrettanto prospera, ed era a tal punto devoto e ligio agli insegnamenti divini che nessuno avrebbe mai potuto congetturare che il suo bene fosse immeritato. Dio era orgoglioso del suo fedelissimo, finché il diavolo attentò all’onniscienza divina con una scommessa: “vedrai che se gli togli tutto non sarà più così devoto”. Inizia così una serie di disastri per il povero Giobbe, che prima perde tutto il suo bestiame, poi i figli, infine la salute. Ciononostante Giobbe non maledice Dio. Al massimo si lamenta con gli amici, che lo ricoprono di pessimi consigli. Elifaz gli suggerisce che Dio punisce solo i malvagi, dunque Giobbe doveva aver sbagliato qualcosa. Bildad invece lo consola con una tautologia, secondo la quale se Giobbe è giusto, sarà risparmiato dal male, se non è risparmiato, non è giusto. Zofar infine dice a Giobbe che Dio la sa più lunga di lui e che punisce i malvagi. A rimbrottare il trio di sapienti il giovane Elihu, che sostiene che Dio è giusto e fa prosperare i retti. Comprensibilmente insoddisfatto delle risposte, Giobbe interpella direttamente Dio. Lo psicologo Carl Gustav Jung ha offerto una divertente descrizione di questo momento:

«”Fino a quando, Signore, continuerai a tenerti nascosto, arderà come fuoco la tua ira? Ricorda quant’è breve la mia vita. Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?… Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?”

Rivolto a un essere umano il discorso si sarebbe svolto pressappoco in questi termini: “Adesso controllati, e falla finita con queste collere assurde. È veramente troppo grottesco che uno come te se la prenda talmente con queste piante che, è vero, non vogliono crescere diritte ma, certamente, non senza che anche tu ne sia in parte responsabile. Avresti potuto anche essere un po’ più ragionevole prima e aver cura del giardino che ti sei piantato, invece di calpestarlo tutto ora».

Nella storia biblica Dio appare a Giobbe in un vortice e lo mette a tacere con dei modi che, se non appartenessero all’Eccelso, definiremmo da bullo. In breve gli dice che data l’incomparabile differenza che intercorre tra loro non può capire in alcun modo le sue decisioni. Una risposta che Giobbe accetta (aveva forse scelta?) e che per fortuna oltre a porre fine ai suoi tormenti ne raddoppia la fortuna.

Il filosofo russo Lev Šestov si è interrogato spesso sul problema del male attraverso la bellissima parabola di Giobbe:

«Unde malum? Da dove viene il male? Molte teodicee, con poche variazioni, danno a questa domanda risposte che non soddisfano se non i loro autori (ma li soddisferanno veramente?) e gli amanti di letture amene. Quanto agli altri, le teodicee causano fastidio, e quest’irritazione è direttamente proporzionale all’insistenza con la quale il problema del male assilla ogni individuo».

Nella sua lettura di Spinoza, Šestov ci dice che non è possibile ribellarsi a quello che trascende la nostra volontà, «non si può far sì che la somma degli angoli di un triangolo equivalga a tre retti, che le disgrazie capitino solo ai malvagi e solo i giusti riescano nelle loro imprese, oppure che le cose e gli esseri a cui teniamo non periscano. È impossibile soccorrere l’infelice Giobbe».

L’esistenza del male è una verità evidente e insuperabile. È un fatto a cui possiamo trovare cause, mai una giustificazione. La sua esistenza è eticamente sbagliata, ingiusta, inammissibile – sempre. Come noialtri, anche Giobbe è inseparabile dal suo patimento ed è per questo, almeno per Šestov, che «l’uomo deve rinunciare a tutto ciò che è esistenza individuale e, anzitutto, a se stesso, per orientare il suo pensiero verso ciò che non ha inizio né fine, verso ciò che non nasce né muore.

Rinunciare a se stessi o all’illusione di esserlo è una strada nota alle filosofie orientali come il buddhismo, e, nel suo piccolo, è anche la strada che ci concede un’anestesia. Ma il dolore esiste, illusorio o meno che sia, e rimane il più grande problema metafisico. Non esiste redenzione, giustificazione o consolazione – non c’è scusa che tenga insomma, come dimostra la tautologia che l’esistenza del male è inevitabilmente un male. Lo splendore del mondo è insozzato da un elemento inaccettabile, il dolore, che pur essendo minoritario nell’infinito è ben presente nelle nostre vite. Cancellarne la traccia dalla storia è impossibile e quel che possiamo fare è solo ampliare il nostro sguardo a tal punto da restituire a quest’angolo di mondo la sua reale dimensione: un doloroso, ingiustificabile granello dell’infinito.

ARTICOLO n. 74 / 2023

LA RICERCA FEMMINILE DELL’AMORE

Pubblichiamo un estratto da Comunione di bell books (Il Saggiatore, traduzione di Maria Nadotti) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Le donne parlano d’amore. Già da bambine capiamo che le conversazioni sull’amore sono una narrazione di genere, un soggetto femminile. Le nostre ossessioni in materia d’amore non cominciano con la prima cotta o la prima caduta.Cominciano con quella prima ammissione che le femmine contano meno dei maschi, che, per quanto brave possiamo essere, agli occhi dell’universo patriarcale non lo saremo mai abbastanza. Nella cultura patriarcale la femminilità ci contrassegna fin dall’inizio come immeritevoli o non altrettanto meritevoli, e non dovrebbe sorprendere che impariamo a preoccuparci maggiormente come ragazze, come donne, del fatto di essere meritevoli d’amore.

Cresciute con madri competitive e colpevolizzanti e padri che non riusciamo mai a soddisfare veramente, oppure in un mondo dove siamo la «perfetta» cocca di papà ma temiamo di perdere la sua approvazione al punto di smettere di mangiare, smettere di crescere perché ci accorgiamo che papà perde interesse, perché percepiamo che non ama le donne, siamo incerte sull’amore. Per conservare il suo amore dobbiamo aggrapparci a ogni costo all’infanzia. Fin da piccolissime le bambine continuano a sentirsi dire, se non dai genitori dalla cultura in cui sono immerse, che devono guadagnarsi il diritto di essere amate – che la «femminilità» non è sufficiente. È questa la prima lezione che viene impartita a una femmina alla scuola del pensiero e dei valori patriarcali. Deve guadagnarsi l’amore. Non le spetta di diritto. Per essere amata deve essere brava. E quel brava è sempre definito da qualcun altro, qualcuno dall’esterno. Scrivendo del rapporto con il proprio papà nel saggio Dancing on My Fathers Shoes (Danzando sulle scarpe di mio padre), Patricia Ruff offre un resoconto accorato di come ha perso la sensazione di essere degna d’amore, di essere apprezzata, confessando: 

«Mia madre mi disse che lui voleva prima di tutto una figlia e non avrebbe potuto essere più felice quando venni al mondo. Perciò ero impreparata quando il mio status di principessa, senza alcun preavviso, fu fatto bruscamente a pezzi, come un foglio di carta strappato da un quaderno. Successe qualcosa che nessuno mi spiegò. […] Non riuscivo a dare voce ai miei sentimenti ed ero senza parole per la rabbia e il dolore causati da quel suo essere d’un tratto fuori portata». 

Preoccupata che la sorella più piccola potesse essere esposta a sua volta alla pena di vedersi rifiutata a livello emotivo, Ruff propone di affrontare insieme il padre: 

«Facemmo irruzione nella loro camera da letto, ci gettammo sul nostro attonito padre, che rimase immobile e senza parole mentre noi lo inondavamo di lacrime, agguantandolo, stringendolo, decise a non mollare. “Papà, per favore abbracciaci, dicci che ci vuoi bene, noi ti vogliamo bene, abbiamo bisogno che tu ci voglia bene” implorammo». 

Il rifiuto e l’abbandono da parte dei padri e delle madri sono lo spazio della mancanza che di solito pone le basi per l’ansia femminile di trovare e conoscere l’amore. Spesso, da piccole, le bambine si sentono amate e al centro dell’attenzione. Più tardi, però, quando sviluppiamo forza di volontà e autonomia di pensiero, scopriamo che il mondo smette di confermarci, che siamo considerate non amabili. È l’intuizione che Madonna Kolbenschlag condivide in Lost in the Land of Oz (Smarrita nel paese di Oz) riguardo alla natura del destino femminile: «In qualche modo, siamo state tutte private dell’amore, delle cure materne – se non dell’amore, allora della sensazione di essere state amate. Sapere che siamo state amate non è abbastanza; dobbiamo sentirlo». Come fa una bambina a credere di essere amata, davvero amata, quando da qualsiasi parte si giri vede che la femminilità è disprezzata? Incapace di modificare la realtà della femminilità, si sforza di migliorarsi, di diventare qualcuno degno d’amore. 

Educate a credere che troviamo noi stesse nel rapporto con gli altri, le femmine imparano presto a cercare l’amore in un mondo al di là del loro cuore. Impariamo fin da piccole che le radici dell’amore sono al di fuori delle nostre possibilità, che per conoscere l’amore dobbiamo essere amate dagli altri. In quanto femmine in una cultura patriarcale, non possiamo determinare il nostro valore personale. Le nostre qualità, il nostro valore, e se possiamo essere amate o no sono sempre cose stabilite da qualcun altro. Prive dei mezzi per dare vita all’amore per noi stesse, ci rivolgiamo agli altri perché ci rendano amabili; desideriamo l’amore e siamo in cerca d’amore. 

Se il movimento femminista contemporaneo ha criticato la svalutazione del femminile che ha inizio nell’infanzia, non è tuttavia riuscito a modificarla. Oggi le bambine crescono in un mondo dove da più parti apprendono che le donne sono uguali agli uomini, ma nella loro infanzia non esiste ancora uno spazio reale per il pensiero e la pratica femminista. 

Oggi le bambine lottano contro il sessismo dei ruoli di genere così come facevano le bambine prima del movimento femminista contemporaneo. Se qua e là alcune correnti di femminismo sostengono quella lotta, il più delle volte le bambine si sentono assediate dai messaggi contraddittori determinati dal fatto di essere nate in un mondo in cui alla liberazione delle donne è stato riconosciuto un piccolo spazio, benché le bambine siano rimaste intrappolate tra le braccia del patriarcato. La riprova di tale intrappolamento è il timore, ampiamente diffuso tra tutte le ragazzine, a prescindere da razza o classe, di non essere amate. 

Nella cultura patriarcale, alla bambina che non si sente amata nella famiglia d’origine, è data un’altra possibilità di dimostrare il proprio valore quando la si incoraggia a cercare l’amore dei maschi. Le cotte e le manie ossessive della scolaretta, il suo desiderio compulsivo dell’attenzione e dell’approvazione maschili, indicano che sta perseguendo correttamente il proprio destino di genere, che è sulla buona strada per diventare la femmina che non può essere nulla senza un uomo. Che sia eterosessuale o omosessuale, la misura in cui anela all’approvazione patriarcale determinerà se è degna di essere amata. Questa è l’insicurezza emotiva che infesta la vita di tutte le femmine nella cultura patriarcale.

Fin dall’inizio, quindi, le femmine sono confuse circa la natura dell’amore. Addestrate in base al falso presupposto che troveremo l’amore nel luogo stesso in cui la femminilità è ritenuta indegna e sistematicamente svalutata, impariamo presto a fingere che l’amore conti più di qualsiasi altra cosa, quando, in effetti, sappiamo che ciò che più conta, anche all’indomani del movimento femminista, è l’approvazione patriarcale. 

Dalla nascita quasi tutte le femmine vivono nel timore di essere abbandonate, che se facciamo un passo fuori dal cerchio approvato non saremo amate.

Data la nostra precoce ossessione di sedurre e compiacere gli altri per affermare il nostro valore, ci perdiamo nel tentativo di essere accettate, incluse, desiderate. Il nostro parlare d’amore è stato perciò prima di tutto un parlare di desiderio. In generale, il movimento femminista non ha modificato l’ossessione femminile per l’amore, né ci ha offerto modi nuovi di pensare a esso. Ci ha detto che saremmo state meglio se avessimo smesso di pensare all’amore, se fossimo riuscite a vivere la nostra vita come se l’amore non avesse alcuna importanza, altrimenti avremmo corso il rischio di diventare parte di una categoria femminile veramente disprezzata: «La donna che ama troppo». Il bello, naturalmente, è che molte di noi non amavano troppo; non amavamo affatto. In realtà eravamo emotivamente bisognose, alla disperata ricerca del riconoscimento (da parte di partner maschili o femminili) che ci avrebbe dimostrato il nostro valore, i nostri meriti, il nostro diritto di essere vive sul pianeta, ed eravamo disposte a tutto pur di ottenerlo. Femmine in una cultura patriarcale, non eravamo schiave dell’amore; la maggior parte di noi era ed è schiava del desiderio – desiderose di un padrone che ci libererà e sosterrà, poiché da sole non riusciamo a sostenerci.

La promessa del femminismo è che si sarebbe creata una cultura in cui avremmo potuto essere libere e conoscere l’amore. Quella promessa, tuttavia, non è stata mantenuta. Molte donne sono ancora confuse e si domandano quale sia il posto dell’amore nella propria vita. Molte di noi non hanno avuto il coraggio di ammettere che «l’amore conta», per paura di essere disprezzate e svergognate dalle donne che sono arrivate al potere in seno al patriarcato tagliando fuori le emozioni, diventando simili agli uomini patriarcali che un tempo criticavamo per la loro freddezza e la loro insensibilità. Il femminismo di potere è solo un altro inganno, in cui le donne possono giocare al patriarca e far finta che il potere che cerchiamo e otteniamo ci liberi. Poiché non abbiamo creato un corpus sostanzioso di opere capaci di insegnare alle bambine e alle donne modi nuovi e visionari di pensare all’amore, assistiamo all’ascesa di una generazione di donne sulla trentina che considerano una debolezza qualsiasi desiderio d’amore, il cui sguardo è concentrato esclusivamente sulla conquista del potere. 

Il patriarcato ha sempre visto l’amore come una faccenda da donne, un lavoro degradato e svalutato. E non si è preoccupato del fatto che le donne non imparassero ad amare, dal momento che gli uomini patriarcali tendono a sostituire l’amore con la cura, il rispetto con la sottomissione. Non avevamo bisogno di un movimento femminista per renderci conto che le femmine sono più propense dei maschi a occuparsi di relazioni, legami e comunità. Il patriarcato ci addestra a questo ruolo. Abbiamo bisogno di un movimento femminista che ci ricordi di continuo che l’amore non può esistere in una situazione di sopraffazione, che l’amore che cerchiamo non possiamo trovarlo finché siamo vincolate e non libere. 

Nel mio primo libro sull’argomento, Tutto sull’amore. Nuove visioni, ho avuto cura di dire più e più volte che le donne non sono intrinsecamente più amorevoli degli uomini, ma che siamo sollecitate a imparare ad amare. Tale incitamento ha fatto da catalizzatore alla nostra ricerca d’amore, spingendoci a esaminare attentamente e a lungo la pratica dell’amore. E ad affrontare la nostra paura di non essere amorevoli, di non essere amate a sufficienza. Nella nostra cultura le donne che più hanno da insegnare a tutti sulla natura dell’amore sono le donne della generazione che ha imparato attraverso la lotta femminista e le terapie fondate sul femminismo che l’amore di sé è la chiave per trovare e conoscere l’amore. 

Noi, donne che amano, siamo parte di una generazione di donne che sono andate oltre i paradigmi patriarcali per trovare se stesse. Il cammino per trovare il nostro vero sé ha richiesto che ci inventassimo un nuovo universo, un universo in cui abbiamo avuto l’ardire di far rinascere la bambina in noi e di accoglierla nella vita, in un mondo in cui nasceva benvenuta, amata e per sempre degna. Amare la bambina in noi ha guarito la ferita che spesso ci portava a cercare l’amore in tutti i posti sbagliati. Per molte di noi la mezza età è stata il momento favoloso in cui abbiamo cominciato a riflettere sull’autentico significato dell’amore nelle nostre vite. Abbiamo cominciato a vedere con chiarezza quanto esso contasse, non le vecchie versioni patriarcali dell’«amore», bensì una comprensione più profonda dell’amore come forza di trasformazione che richiede a ogni individuo affidabilità e responsabilità per nutrire la nostra crescita spirituale. 

Rendiamo testimonianza del fatto che nessuna donna può trovare la libertà se prima non ha trovato il proprio modo di amare. La nostra ricerca dell’amore ci ha portate a capire pienamente il senso della comunione. In The Eros of Everyday Life (L’eros della vita quotidiana) Susan Griffin scrive: 

«Il desiderio di comunione esiste nel corpo. Non è solo per ragioni strategiche che riunirsi ha costituito il fulcro di ogni movimento per il cambiamento sociale. […] Questi incontri erano di per sé la realizzazione di un desiderio che è al cuore delle fantasie umane, il desiderio di collocarsi in una comunità, di rendere la nostra sopravvivenza uno sforzo condiviso, di sentire un rispetto palpabile nei confronti dei legami che ci uniscono e della terra che ci dà sostentamento».

La comunione nell’amore che le nostre anime bramano è la ricerca più eroica e divina che un essere umano possa intraprendere. 

Il fatto che nasciamo in un mondo patriarcale, che prima ci invita a metterci in viaggio verso l’amore e poi pone delle barriere sulla nostra strada, è una delle tragedie della vita. Per le donne anziane è giunto il momento di salvare le bambine e le giovani, di offrire loro una visione dell’amore che le sostenga nel loro cammino. La ricerca dell’amore come ricerca dell’autentico sé affranca. Tutte le donne che hanno l’audacia di seguire il proprio cuore per trovare quell’amore partecipano a una rivoluzione culturale che ritempra le nostre anime e ci permette di vedere con chiarezza il valore e il senso che l’amore ha nella nostra vita. Se l’amore romantico è un tratto cruciale di questo percorso, non lo consideriamo più la sola cosa che conta; esso è, piuttosto, un aspetto del nostro lavoro complessivo per creare legami amorevoli, cerchi d’amore che nutrono e puntellano il benessere collettivo femminile. 

Comunione. La ricerca femminile dell’amore racconta la nostra lotta per conoscere il vero amore e i nostri trionfi. Aggregando la saggezza desunta dalle donne giunte a conoscere l’amore nella mezza età, donne che spesso avevano vagato smarrite in un deserto del cuore per buona parte dell’adolescenza fino alle soglie dei trent’anni, Comunione ci dà modo di cogliere l’esperienza di donne dai trent’anni in su che, da cercatrici sul sentiero dell’amore, strada facendo hanno scoperto nuove visioni, intuizioni risanatrici e memorie di rapimento. 

Questo libro è soprattutto una testimonianza, una celebrazione della gioia che le donne scoprono quando riportiamo la ricerca dell’amore al suo giusto, eroico posto al centro della nostra esistenza. Vorremmo essere amate e vorremmo essere libere. Comunione ci dice in che modo realizzare quel desiderio. 

Raccontando il dolore, la lotta, il lavoro che le donne fanno per superare la paura dell’abbandono e della perdita, in che modo ci spingiamo oltre la passione ferita per aprire i nostri cuori, Comunione ci invita a tornare ogni volta là dove possiamo conoscere la gioia, a tornare e celebrare, per entrare nel cerchio dell’amore.

ARTICOLO n. 73 / 2023

TE LO VUOI FOTTERE IL WEST

Pubblichiamo un estratto dal volume Come li pacci. Un racconto a più voci di dieci anni di Sponz Fest (Baldini+Castoldi) a cura di Luca Sebastiani e Irene Sciacovelli. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Era una ventina di anni fa e andavamo con il fratì, Franco Fiordellisi – detto «Ernest Borgnine» per citare Il mucchio selvaggio di Peckinpah – sopra un vecchio furgone Mercedes 405, un ferro con un vetro di guida ampio come uno schermo in technicolor, senza muso davanti, che sotto mangiava la strada, e che il piccolo rilievo bombato di carrozzeria faceva somigliare al furgone del lattaio. 

Quel mezzo lo battezzammo all’uso dei paesani, che l’autobus, la corriera, il pullman, tutti i mezzi a più posti, li chiamavano indifferenziatamente «il postale», quasi fosse la diligenza da assaltare lungo quei tornanti di frontiera tra civiltà e selvatico. 

Ecco, noi sul postale già una volta ce ne eravamo andati in un viaggio memorabile, cercando musica e musicanti oltre regione, al di là del Vulture, il vulcano spento dal nome di avvoltoio, dietro al quale sorge il sole dalle terre dei basilischi.

Ma poi avevamo stretto il cerchio e sulle note di Pat Garret e Calexico avevamo preso a indagare strade più locali, a volte sterrate, che portano a masserie, a rupi e dirupi, come quella della «ripa spaccata» che una volta fece dire ad Antonietta: «Te lo vuoi fott’ lu West».

Era una strada che passava in mezzo alla rupe da cui partiva la discesa per la Frascineta, dove erano spine, ginestre, rovi e pietre, dove l’erba era poca e bassa, che d’estate diventava secca e d’inverno il fango ti arrivava alle ginocchia dietro ai calci dei muli, e quando arrivavi lì… altro che la conquista del West… te lo vuoi fottere il West! Disse così con la sua arguzia volpina, Antonietta. E ci suonò come un titolo. Un titolo di cui sarebbe stato bello fare un film, un western all’antica, fatto di facce e paesaggi muti, parlato in dialetto calitrano stretto, ma coi sottotitoli in inglese. Che poi, più che un western, sarebbe stato un «estern», che sono contrade queste su cui spira il vento dei Balcani più che quello d’America. Come in quel western fallimentare di Milčo Mančevski, Dust, girato nella Macedonia di Prima della pioggia.

Di tutta questa celluloide sapeva quel paesaggio dal cielo sempre fuggente e mutevole, in cui mandrie di nuvole di animali immaginari pascolano veloci. Branchi nell’azzurro che in un attimo può volgere al nero e portare via tutto nella tempesta livida e nei molinelli d’aria che si alzano da terra, di fronte ai quali bisogna sempre sputare, che è possibile siano anime di morti senza pace che non trovano riposo e poi si buttano in corpo al primo che passa. 

Ecco, quei cieli in cui la luce cambia ogni momento, quei paesaggi che passano dalla quercia al roveto, alla steppa, dalla ginestra al calanco argilloso, dal crepaccio al declivio delle coste granose in cui la bestia nel grano corre nel vento, nascosta tra le messi nella stagione del raccolto; in quei paesaggi, che scene si possono animare, quali nuvole spandere, quali idee e quali pensieri? 

Perché il vuoto dà spazio per prendere il volo e si diventa poi metafisici e allora vale tutto. L’antropologia si mescola con la politica, la gastronomia, la filosofia, il cinema, la religione, il gesto artistico, il «cunto» e la poesia e la musica.

«Sì, ma quali musiche si possono alzare da questa terra insieme alla polvere? Quali frontiere?», ci chiedevamo con Borgnine mentre torcevamo le ruote del postale arando strade sbrecciate per i tornanti che furono di Scatozza – il vecchio e irridente domatore di camion che traghettava vivi, morti e brecciolino tra le draghe dell’Ofanto. Ma poi, perché mettere tutto questo in un film da guardare supini? E se ognuno il film se lo facesse da sé? Con una scenografia del genere basta mettere la musica e ognuno la pellicola se la gira per conto suo. La trama la dettano gli incontri e per ognuno andrà come è destino che vada.

E così, come in un lungo fotogramma, ci vennero incontro davanti al vetro anteriore del postale, le immagini di una panoramica srotolata lungo gli anni a venire. 

Apparvero le vecchie sale da veglioni, le «case dell’Eco», dove i paesani ballano fino a «sponzare», e poi i binari della ferrovia che corre lungo il fiume tra i ponti di ferro e bulloni. Le stazioni abbandonate, gli scali, gli scambi e la ruggine. E poi il treno che riappare su quei binari come un miracolo e i cavalli e gli asini e i muli e le notti di luna e il «mululare» del lupo. E i paesi aggrappati ai picchi come costellazioni. La cometa al rovescio di Cairano, «il paese dei coppoloni», e il Formicoso battuto dai venti e il monte Airola di Andretta, e l’episcopio dei «santandriani scorciacani» e il grande scalo abbandonato sotto le rovine di Conza. L’alta rocca dei morresi, i querceti e i pascoli del «casone dei briganti», dove i seguaci di Carmine Crocco arroccavano, e il «sierro» di San Zaccaria dove è sepolto il tesoro di quei briganti. Il casello abbandonato di San Tommaso sull’Ofanto, l’Aufidus tauriforme di Orazio che sorge da Torella, il paese di Sergio Leone, e va a finire a Barletta, davanti al Bar Conchiglia di Peppe Leone! 

E poi ancora le rovine a cielo aperto dell’abbazia del Goleto, il castello di Bisaccia, la gentile, che vigilia sulla discesa daunia, verso est. 

E da est vedere arrivare la luce dell’alba. E con quale musica fare risuonare quell’alba?

La musica che viene dai Balcani, assieme al sorgere del sole. La fanfara che saluta e fa a pezzi il mattino. 

E poi e poi… quali altre musiche? 

La musica ballabile che fa alzare la polvere. La tarantella, il «bottaculo» e il «luquarè», gli strumenti in disarmo di quei balli ripristinati dai banditi della Banda della Posta, che languidamente trillano i mandolini davanti all’ufficio postale dove fanno la guardia alla pensione. 

E poi la musica tex-mex, l’Arizona, la frontiera, l’atlante subsahariano, il rebetiko e le madinades cretesi, il kasapico e il sirtò. La zampogna, il tamburo, la tammorra e il tamburello. L’ipnosi della trance da Antonio Infantino ad Alfio Antico, e poi il twist cromato dei figli di Celentano e le voci di donne che cantano a sonetto e scacciano il demone meridiano. E poi i mariachi con gli ampi sombreri e le medaglie sulla costa dei calzoni, e i suonatori zingari che le medaglie le vogliono in banconote appiccicate sul petto e tra i pistoni e le corde degli strumenti. Il canto a tenore di Ciccillo che risuona tra la selva e le acque, alla conquista dell’inutile come in Fitzcarraldo, portando l’aria d’opera nelle sale abbandonate e nei fiumi intossicati. 

E le serenate e le lamentazioni funebri, e il canto delle prefiche, e quello del raccolto. E il canto da simposio delle «cumversazioni», che a Calitri fa risuonare le grotte del paese «sottaterra»; e poi la musica suonata e cantata nella barberia del gran sacerdote Giovanni Sicuranza e l’organetto quattro bassi che fa alzare la polvere e unire le voci, e l’acre violino di Matalena. Gli spettri sonori e le voci dei fantasmi del «sentiero della Cupa» e le ninne nanne delle sue creature. Tutte insieme risuonavano. 

Ed ecco, come in una visione, l’eco di queste musiche percorse valloni, cime di monti, letti di fiumi, binari abbandonati, grotte e case di paesi vuoti, cieli, albe e selve. 

Come «li pacci» andava per pozzacchi, laghi e roveti, e tutti rendeva «pacci»…

Davanti a noi, davanti al gran vetro del postale, vedevamo quelle strade deserte affollarsi. Torme di genti accorrevano, andavano a sperdersi, intente a cercare luoghi introvabili, non segnati sulle cartine, in corsa con orari non segnati sull’orologio. Accorrevano per quei tornanti alla fine di agosto. Abbandonavano la certezza dell’autostrada e della statale e si gettavano fuori campo, nella mischia, a quadriglie, a cinquiglie verso «l’incontrè», fino a cadere tutti sponzati… «Sponzati» come il baccalà. 

E questa pellicola che ognuno si sarebbe girata a piacere, sui titoli di testa del vetro del postale illuminato dalle luci di una catena di lampadine colorate, aveva per titolo Sponz Fest.

ARTICOLO n. 72 / 2023

IO E GIULIA, DUE CORPI RIBELLI

Pubblichiamo in anteprima la prefazione a Corpi ribelli (Sperling & Kupfer) a cura di Giulia Paganelli. Ringraziamo Pietro Turano e l’editore per la disponibilità.

Io e Giulia, l’autrice che ha curato questo volume, ci siamo vistə di persona tre volte in tutto, forse due, e abbiamo fatto lunghe telefonate non tanto spesso. Se c’è una cosa però che ho imparato in dieci anni di attivismo è che i corpi dissidenti, non conformi, ribelli, si riconoscono. Ma non basta indossarne uno per riconoscersi, serve anche averne una certa consapevolezza.

Mi spiego meglio: forse sembra controintuitivo, ma spesso – e per tantə di noi è stato così per lungo tempo – non ci si accorge fino in fondo di indossare il corpo che si indossa, o si rifiuta, si nega, oppure si indossano le divise di altrə illudendosi che prendendo le loro parti non saremo oggetto di oppressione. Nei campi di sterminio nazisti alcuni omosessuali, identificati con un triangolo rosa, facevano di tutto pur di avere la stella gialla degli ebrei al posto di quel triangolo rosa. Lo racconta bene Martin Sherman nell’opera teatrale – poi anche cinematografica – Bent. Max e Horst sono due ragazzi omosessuali, ma mentre Horst porta un triangolo rosa cucito sul petto, Max è riuscito ad avere una stella gialla. 

Horst: Come hai fatto ad avere la stella gialla? Max: Sono ebreo.
Horst: Non sei ebreo, sei frocio. (Silenzio.) Max: Non lo volevo. 

Horst: Cosa?
Max: Il triangolo rosa.
Horst: Ah, non lo volevi!…
Max: Sei stato tu a dirmi che era il peggiore.
Horst: Sì, qui sì.
Max: E allora non lo volevo. 

In un momento di intimità fra i due, Max racconta a Horst che i nazisti, prima di consegnargli la stella, hanno voluto la dimostrazione che lui non fosse una checca, costringendolo a penetrare il cadavere di una bambina davanti a loro. 

Max: «Non sono checca.» E loro ridevano. «Datemi una stella gialla.» E loro hanno detto: «Ma certo, facciamolo ebreo. Non è checca». E ridevano. Si divertivano. Ma… io… ho avuto… la mia stella… 

Quello del campo di sterminio è sicuramente un esempio esagerato, ma il processo psicologico che spinge Max a fare di tutto per non passare per «frocio» è simile a quello che si verifica in tante persone, vittime di stigmatizzazione e marginalizzazione per via del loro aspetto, del loro comportamento, delle loro scelte. Penso alle persone LGBTQIA+ contrarie alle manifestazioni del Pride per esempio, ma anche alle persone nere che assumono comportamenti razzisti verso altrə e via discorrendo. In sostanza, il proprio percorso di emancipazione, affermazione, autodeterminazione è faticoso e, a volte, proprio chi subisce una discriminazione cade nel tranello del potere, assecondando o riproducendo gli schemi di cui è vittima, nella speranza di poter essere risparmiatə. Tutto questo per dire che non basta avere un corpo non conforme per comprenderne il peso culturale e renderlo ribelle. Ma se due corpi ribelli si incontrano, si riconoscono.

Quando ho sentito parlare Giulia per la prima volta e poi abbiamo cenato insieme, mi è parso in un certo senso di averla conosciuta molto tempo prima, quando eravamo chiusə ognunə nella propria cameretta e credevamo di essere solə, ma non lo eravamo. Giulia, io e un numero enorme di altri corpi eravamo insieme, connessə, a guardare in silenzio la stessa Luna. 

Due corpi ribelli che si incontrano sanno di condividere molte cose: la stessa esperienza di solitudine, di vergogna e poi di orgoglio. Nel libro Gay Bar, Jeremy Atherton Lin scrive: «Comunità è una parola che sentiamo ripetere di continuo. Spesso suona più che altro come un desiderio». Forse ha ragione, ma allora aveva ragione anche Luca Guadagnino quando, durante la conferenza stampa di Chiamami col tuo nome a Roma, rispose a una domanda dicendo che «l’utopia è la pratica del possibile, quindi quello che ho mostrato esiste eccome». Forse quella che potremmo chiamare comunità dei corpi ribelli è solo il desiderio di una comunità di corpi ribelli, ma se possiamo desiderarla allora significa che esiste davvero, ed è fondata sulle nostre ferite, cicatrici, mutilazioni, singhiozzi, nascondimenti e fughe. Siamo i figli e le figlie della notte, siamo stelle, e se le nostre storie possono provare a nascondere tutto questo, i nostri corpi no.

Il corpo è un fatto, innegabile e determinante. Determina uno spazio ed è manifesto, nel senso che ci permette la manifestazione, ma anche nel senso che si fa manifesto di ciò che scegliamo di esprimere attraverso di lui. Proprio per la sua natura fattuale e determinante, è il mezzo che ci muove nel mondo e ci impone al mondo per quello che siamo, senza possibilità di negazione. Per le stesse ragioni, però, è anche oggetto di predeterminazione, attraverso la quale il mondo ci ricorda quali siano gli standard a cui dobbiamo ambire e tendere, quali siano i corpi validi e anche cosa è necessario che questi rappresentino. Di sovradeterminazione, per cui noi e i nostri ruoli veniamo definiti attraverso la percezione altrui del nostro corpo. Poi, esiste lo strumento dell’autodeterminazione, attraverso cui possiamo rivendicare la nostra identità e il nostro corpo in quanto soggetti politici. 

Perché in un mondo in cui predeterminazione e sovradeterminazione producono una narrazione falsata e discriminante, che si esprime sui corpi e verso i corpi di intere costellazioni «minori», noi possiamo scegliere se utilizzare il nostro corpo come strumento politico o meno, ma non possiamo scegliere se sia politico o meno: volenti o nolenti lo è già, e autodeterminarsi attraverso questo è altrettanto politico e addirittura rivoluzionario. 

Il corpo è anche l’unica cosa che ci appartiene, insieme al tempo presente. La cultura dominante vuole che il potere si conservi e consumi sui corpi-campi di battaglia, promettendo salvezza in cambio del sacrificio dei nostri fratelli e sorelle non conformi. Sotto i nostri occhi accade il controllo sistematico dei corpi e ci viene venduta la possibilità di essere sentinelle armate del sistema. Per la salvezza ci viene venduta anche un’altra cosa che non può appartenerci: il tempo futuro. Se farai questo potrai salvarti, se comprerai questo diventerai chi vuoi essere, se ti reprimi o rinneghi potrai camuffarti sempre meglio.

Gli standard normativi non sono altro che ex voto e indulgenze di fumo sul mercato capitalista e patriarcale, promesse bugiarde e irraggiungibili, funzionali affinché il sistema non venga attaccato e possa conservare il proprio potere, mentre chi non lo ha si fa la guerra per averne un pezzo (a discapito di qualcun altrə). Siccome il corpo è un fatto innegabile, la cultura dominante usa tutti gli strumenti a sua disposizione per educare fin da subito alla normatività e per invisibilizzare ciò che non è conforme. Siccome il corpo è un fatto, quando un corpo non conforme è visibile, va stigmatizzato. Siccome il corpo è un fatto e i corpi ribelli sono manifestazioni materiali di un’alternativa alla cultura dominante, vanno anche delegittimati, perché la loro parola è pericolosa. Luca Starita scrive in Pensiero stupendo

In italiano, la parola «pericolo» è sempre associata a qualcosa di negativo, qualcosa che può risultare nocivo per qualcuno o qualcosa. In realtà, «pericolo» rimanda al latino periculum perior e al verbo greco peirao, che significano «tentare», «provare», «rischiare». In italiano quindi abbiamo nel tempo legato un’accezione più negativa a un termine che di per sé è legato all’idea del cambiamento, del rischio inteso come mobilità e non associato a un senso di impotenza di fronte a esso. 

Siamo dunque corpi ribelli e pericolosi, perché impariamo a muoverci nell’oscurità fra tutto ciò che è stato chiuso nella cantina del mondo; a forza di sfregarci le mani sul corpo abbiamo imparato a farci fuoco e brillare della nostra stessa luce.

Libri come questo, di saggistica divulgativa e partecipata, sono frammenti di luce che proviamo a gettare nel buio. Qui troverete storie di corpi ribelli, alcuni, non tutti, perché ogni corpo è diverso e ogni ribellione è un’esperienza soggettiva, anche se tutte, più di quanto pensiamo, si richiamano. Ogni corpo porta pelli, ferite, sembianze, luci e ombre, lacrime diverse. Vive esigenze, paure, limiti, ambizioni diverse. Per questo a volte i corpi ribelli vengono invisibilizzati, altre vorrebbero essere invisibili, a volte ricordano tutto, altre praticano la dimenticanza. Ogni corpo ribelle si fa manifesto ma non è davvero un manifesto, è soprattutto un corpo, umano, vivo.

ARTICOLO n. 71 / 2023

BOMBAY BEACH HA TROVATO ME

Intervista di Giancarlo Livano D’Arcangelo

Last Stop Before Chocolate Mountain di Susanna Della Sala ha vinto numerosi premi al Festival dei Popoli, ha sfiorato la finalissima ai David di Donatello per il miglior documentario ed è entrato in selezione al Festival di Locarno. Il film racconta la comunità che vive ancora a Bombay Beach, un tempo località balneare tra le più ambite in California, poi caduta in disgrazia a causa di un disastro ambientale. Dove un tempo vi era una ricca economia basata sul turismo di massa, oggi c’è l’ultimo rifugio per reietti e inclassificabili del nostro tempo: c’è chi ha perso un figlio, chi faceva parte di una grande famiglia decaduta, chi deve dimenticare un passato difficile, chi cercava Dio e non l’ha trovato. Cosa portano alla fine della strada donne e uomini in fuga da sé stessi e dal mondo? Con Susanna Della Sala, abbiamo parlato di cinema e realtà, di fughe e ritorni, di frontiere e di baricentri.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Susanna, in Last Stop Before Chocolate Mountain racconti una comunità di frontiera, in cui la frontiera è in tutta evidenza non solo un luogo fisico ma soprattutto una condizione dell’anima. È Bombay Beach la metafora perfetta di questa condizione umana di confinamento per i sognatori, per gli “sconfitti” e gli inclassificabili in questo tempo?

Susanna Della Sala: lo è per tutti, non solo gli sconfitti e gli outsider. Anzi, Last Stop non è una storia di sconfitti. La chiamano la cittadina fantasma, eppure questi “fantasmi” si sono rivelati di una vitalità mai incontrata prima, spinti dalla voglia di ricostruire, di creare, di collaborare, di comunicare. Bombay Beach per me non è un luogo fisico in un determinato contesto, rappresenta più un luogo metaforico che racchiude l’esigenza di tutti noi di sentirci parte di qualcosa, di sentirci accettati, di poter ricostruire partendo dalle rovine del nostro passato. È la frontiera della libertà.

G.L.D. Ecco, capisco ancora meglio come mai dal tuo racconto emerge in modo evidente il profondo legame emotivo che hai provato con la gente di Bombay Beach. In un documentario che punta a raccontare l’umanità, l’amore per il proprio oggetto di indagine mi sembra una componente decisiva. Lo hai portato con te dall’Italia o l’hai trovato lì?

S.D.S. Tutti i miei progetti partono sempre da un innamoramento, che sia per un personaggio, una storia, un luogo, un oggetto. Mi sono innamorata di queste persone che sono state per me come dei maestri di vita. Mi hanno insegnato che la vera meta è il modo di vedere le cose. Come si dice: “guardare è facile, vedere è un’arte”. Ecco, questa frase riassume forse il vero tentativo di questo film.  

G.L.D. Qualcuno potrebbe dirti, o forse te l’hanno già detto: l’Italia è un paese denso di storie incredibili, una spirale in cui il ribaltamento del senso è una costante quotidiana. Perché scegliere una storia lontana migliaia di chilometri per esordire alla regia? 

S.D.S. Quanto lontano siamo disposti ad andare per poter trovare un senso di appartenenza, relazioni umane autentiche e la libertà di essere noi stessi? Ai confini del mondo. Non importa il luogo fisico ma come dicevamo prima conta quella sensazione di innamoramento. Ho scoperto questo posto tramite un incontro casuale con uno degli abitanti, posso dire che sia stata fortuna. Anzi, penso che tra simili a un certo punto ci si incontri e Bombay Beach ha trovato me. Non ho scelto un luogo e una storia a tavolino, ma ho drizzato le antenne e quando mi si è palesata questa opportunità l’ho colta, senza dare spazio alla paura. Fare questo film è stata una necessità più che un obbiettivo lavorativo.

G.L.D. È molto stimolante se le due cose coincidono…

S.D.S. Sì, questo luogo si è rivelato “il luogo” per eccellenza che da sempre volevo raccontare, proprio perché è universale. Bombay Beach racchiude tutte le contraddizioni e gli errori dell’essere umano – nel disastro ambientale, nel progetto imprenditoriale fallimentare, in tutte quelle categorie di persone abbandonate a loro stesse – ma è anche un esempio della capacità trasformativa dell’uomo, grazie a un’innata linfa vitale e creativa. E così ci insegna che anche da un terreno arido può fiorire qualcosa e quel qualcosa è spesso indistruttibile. Bombay Beach è un luogo che costringe a fare i conti con noi stessi, ci riporta al nostro passato e ci mette davanti alle nostre responsabilità: non solo di abitanti della Terra (e in quanto tali responsabili del nostro pianeta), ma anche alle responsabilità che abbiamo come genitori, figli, donne e uomini, verso i nostri legami e il nostro futuro. 

G.L.D. Come hai scelto i personaggi a cui dare voce? E come hai conquistato la loro fiducia?

S.D.S. Sono arrivata a Bombay Beach senza richieste e senza pretese, ho vissuto lì per nove mesi e ho finito per farmi un posto all’interno di questa comunità. Lentamente si è creato un rapporto di amicizia molto profondo e di rispetto reciproco. Ancora oggi ci sentiamo di più che con molti miei amici in Italia. 

G.L.D. Immagino non sia stato semplice…

S.D.S. Certo è stato difficile, le persone erano inizialmente impaurite e distanti soprattutto a causa di alcuni film precedenti finiti sul web. Non vogliamo il porno-povertà“, mi dicevano. Non sono stata io a scegliere i personaggi, ma sono stati loro a scegliere me. Io ero lì, con il mio terzo occhio, pronta ad ascoltare. Chi ha voluto mi ha cercato, spinto dall’esigenza di raccontare la propria storia, a volte per esorcizzare i propri traumi e a volte come modo per stare assieme e comunicare. In questo senso il film è nato in maniera spontanea e collettiva proprio come sono nate le innumerevoli opere d’arte di chi popola Bombay Beach. 

G.L.D. Hai un metodo prestabilito per rappresentare ciò che accade sotto il tuo sguardo?

S.D.S. Il mio metodo di approccio a questo film è stato quello di lasciare libertà e quello di non imporre il mio sguardo, la macchina da ripresa o un linguaggio definito che secondo me alla lunga sarebbe stato limitante. Nel film vediamo i personaggi rivolgersi alla camera o in momenti di vita osservazionali o in interviste più classiche. Bombay Beach è un luogo libero e stravagante, non potevo incatenarlo in un linguaggio unico prestabilito e formale.

G.L.D. Cos’è per te il cinema, cos’è il documentario, cos’è la finzione cinematografica. A Bombay Beach i tuoi protagonisti sembrano cercare un nuovo film da vivere nella propria realtà. 

S.D.S. Per me non c’è differenza tra il genere e il mezzo, che può essere quello filmico, fotografico, pittorico o performativo. Per me il mezzo artistico è una ricerca, una lente di ingrandimento sulla realtà, una riflessione collettiva. 

G.L.D. Io credo che una delle funzioni del documentario, a prescindere naturalmente dagli obiettivi estetici, sia la conservazione della memoria. Noi siamo abituati a dare alla memoria un alto valore morale, se non addirittura proprietà taumaturgiche e pedagogiche, ma è sempre così? Nella comunità di Bombay Beach c’è qualcuno che ha mostrato invece una gran voglia di non guardarsi indietro e rimuovere il passato?

S.D.S. Nel film uno dei protagonisti, Tao Ruspoli, ci racconta di aver sognato di uccidere il proprio padre (il principe Italiano Dado Ruspoli). Nel raccontarglielo la mattina seguente il padre risponde: “Ma è fantastico! Tutti dovremmo uccidere i nostri padri! La razza umana è spinta dal progresso, dallo scandalo, dal superamento e da una crescita costante, e non da un rapporto bigotto con il passato”. Questo è un aspetto che ci differenzia profondamente dagli americani. In Italia c’è più resistenza alle innovazioni o a qualsiasi iniziativa che susciti un cambiamento. Siamo un popolo di conservatori con un istintivo rifiuto delle novità forse proprio perché subiamo molto il peso della storia e della tradizione. Anche se pensiamo di contemplarlo con ammirazione ne siamo forse in soggezione e rischiamo di chinare la testa. La storia può essere positiva a patto che sia al servizio della vita e non viceversa. L’eccesso di storia può indebolire la forza creatrice dell’essere umano ed è questo che mi hanno insegnato a Bombay Beach. Le rovine si possono ricostruire.

G.L.D. Mi ha colpito molto, il tuo film, e il merito è della tua regia che rende molto bene e poeticamente questa condizione, il ribaltamento tra giorno e notte che sembra regolare i ritmi di vita a Bombay Beach: il giorno è il momento dei ritmi lenti, della riflessione, della pausa. La notte è il momento della vita mondana, delle danze e della vitalità.

S.D.S. Si. La notte, oltre a essere il momento più vitale della vita a Bombay Beach, è anche simbolicamente un momento di trasformazione. Di notte ci si perde e rimangono le stelle, il fuoco, i suoni, il sonno e quindi il sogno. Ho cercato di sottolineare l’aspetto onirico che ci porta su altre frequenze emotive. Ci sono degli aspetti del reale che sono nascosti, legati alla sfera emotiva del luogo e delle persone ma che per me esistono, fanno parte della realtà anche se poco tangibili. È stato proprio questo che ho cercato di indagare. Quelle sensazioni, quella poesia, quella magia e quell’energia propria di quelle persone e del luogo.

G.L.D. La terra che hai raccontato vive nel declino economico dopo un momento di gloria. Un tema, quello del declino, che fa parte del mio bagaglio di scrittore. Quando ho scritto Invisibile è la tua vera patria ciò che mi interessava dei grandi poli industriali italiani dismessi era raccontare l’inesorabile indifferenza della storia, la cinica caducità della gloria, e la conseguente invisibilità repentina di ciò che un tempo era sotto il riflettore della ricchezza o della fama. Come hanno vissuto questo trapasso i superstiti della gloria che fu? 

S.D.S. Alcuni abitanti sono rimasti ancorati al ricordo di una Bombay Beach gloriosa e questo li ha immobilizzati in uno stato di malinconia. Immobilizzandoli anche nel provare a migliorare il luogo stesso. Poi sono arrivati gli artisti che per natura provocano, mettono in discussione, distruggono per creare. Questo ha aiutato quelle persone a immaginarsi un futuro che non ricerca più l’imitazione ma che ricorre a nuove modalità per raggiungere una gloria alternativa. 

G.L.D. Cos’è per te la montagna di Cioccolato?

S.D.S. La Chocolate Mountain è una meta da raggiungere, una sorta di visione paradisiaca che è un miraggio, ma che allo stesso tempo funziona da guida. Quindi – Last Stop – prima della montagna di cioccolato è l’ultima fermata in una terra di passaggio dove potersi mettere in discussione, dove sperimentare, redimere e redimersi prima della realizzazione finale.

ARTICOLO n. 70 / 2023

HO FATTO AMARE PROCIDA ALLE PERSONE CHE AMAVO

In occasione della pubblicazione del volume Scialoja A-Z (Electa) a cura di Eloisa Morra, in libreria dal 12 settembre, pubblichiamo un inedito di Toti Scialoja. Ringraziamo Eloisa Morra per la disponibilità.

Ho fatto amare Procida alle persone che amavo. A Silvio Radiconcini, a Cesare Brandi. Gli ho detto: Lo sai che c’è un posto meraviglioso nel Golfo di Napoli. Divenne un procidano convinto, un procidano fanatico. Un altro appassionato di Procida era un architetto che stava dove avevano stanze e si poteva mangiare; alle Centane, e lui occupava una camera che poi divenne la mia. Andavo sempre lì, vi erano mattonelle incredibili, belle bianche e nere di Vietri. Era Rudovsky, delizioso, un uomo incantevole di uno spirito straordinario, ricordo le mattonelle a forma di piccole mezzelune bianche e nere del primo Ottocento. Poi Elsa Morante. Era un periodo nel quale andavo a Capri a villeggiare; ero molto amico di Moravia e Elsa Morante e le dissi una volta “Ma guarda che Capri è bella, spettacolare, incredibile, al di là di ogni racconto, però c’è un altro posto di sogno molto più segreto, più sottile, più intimo da scoprire, è dolcissimo e se uno lo scopre rimane incantato: si chiama Procida”. Allora lei si incuriosì, prendemmo un battello da Capri a Procida direttamente; un servizio curioso ogni due-tre giorni. Lei già nel porto con la fila di case, quella merlata a destra, restò incantata e scrisse poi un famoso libro: “L’Isola di Arturo”, Procida. Il mio merito è di averle fatto conoscere Procida. Così a tutti i miei amici pittori, a Afro che addirittura si appassionò a Procida e andava a lavorare lì tutte le estati; prese in affitto una grande casa, non ricordo bene il luogo, una grande casa con terrazzo e fece lì il suo studio. Un pittore italoamericano allora molto conosciuto; adesso un pochino dimenticato: Corrado Marcarelli. Cy Twombly, il famoso pittore americano che viveva a Roma; lo accompagnai a Procida e lui si innamorò di Procida in modo incredibile e andò a vivere in una casa piccola piccola nella baia di Solchiaro e la sua mercantessa venne da lui chiamata da New York e visse per qualche giorno su una specie di cupola di sassi, un frantoio per l’olio, per frantumarlo e conservarlo; con una sola apertura, anche finestra. Fece una festa; siccome i sassi erano irregolari all’interno, mise molte candele accese sulle mensole e ideò lo spazio per la festa. Cy Twombly disse all’affittuario: “Ma qui non c’è un gabinetto”. “Guardi le ho preparato il gabinetto: ho scavato una grande fossa nel campo. C’è una pala e tutta la terra messa a montarozzo; lei fa i suoi bisogni, prende un’altra palettata di terra, in modo che a fine villeggiatura è tutto palettato e concimato”. Questo faceva ridere Cy Twombly. Portai a Procida più volte anche Achille Perilli, Novelli, i miei allievi, Carlo Battaglia, il quale divenne un pittore abbastanza conosciuto. Poi il grande pittore americano Phil Guston con la figlia e la moglie. Mario Mafai entusiasta; stavamo in barca insieme sotto Vivara: “eh caro Toti lo so tu sei giovane, ricordati che fino ai quarant’anni il pittore se la cava bene perché c’è l’istintaccio, ma dopo i quaranta è difficile”; disse questa frase molto commovente; detta questa frase memorabile si mise sulla prua e si tuffò in acqua.  

ARTICOLO n. 69 / 2023

PICCOLE FRAGILITÀ QUOTIDIANE

La temperatura dell'estate

L’uomo aveva passato l’estate nella casa al mare. Quando l’aveva comprata, tre anni prima, non avrebbe mai immaginato di godersi così tanto il suo nuovo bene immobile, settanta metri quadrati disposti al piano terra, oltre al giardinetto. Dall’inizio dell’estate era rimasto quasi sempre steso su un lettino che pareva prelevato da uno stabilimento balneare frequentato da vip. Il lettino era in un angolo del giardinetto, accanto alla rete di recinzione che divideva la proprietà dell’uomo da una delle proprietà confinanti. L’immobile era all’interno di un residence edificato nella seconda metà degli anni Settanta, dieci anni prima che l’uomo nascesse. Il residence era costituito da una serie di villette bifamiliari, che contenevano appartamenti al piano terra e al primo piano, cosicché poteva capitare – e nel caso dell’uomo era accaduto – che un giardinetto fosse al centro degli sguardi di altre quattro proprietà confinanti. Il giardinetto dell’uomo era il cuore di questa porzione di residence.

L’uomo aveva acquistato un ombrellone a palo decentrato, il palo in alluminio grigio sormontato dal telo in poliestere bianco, che durante i pomeriggi assolati irradiava una luce abbagliante verso l’aria ferma attraversata soltanto da moschini e zanzare; ecco la prova che le indicazioni del libretto di istruzioni – trattamento di protezione anti UV – erano vere, il telo attirava tutta la luce disponibile che rimbalzava via, il telo proteggeva l’uomo, scacciava altrove calura e raggi ultravioletti, mitigando la temperatura percepita. 

Il braccio laterale permetteva di inclinare l’ombrellone in rapporto alla posizione del sole, assicurando l’ombra e un po’ di frescura anche nelle giornate più torride. 

Bastava che l’uomo si alzasse dal lettino per girare la manovella, e quei giri di manovella, giorno dopo giorno, avevano segnato l’estate come il sottofondo di un motivetto orecchiabile, e la luce era mutata con il passare delle settimane e in particolare all’inizio di settembre, quando il buio aveva conquistato tre o quattro minuti di ogni giornata, occupazione sottolineata dal cigolio della manovella, segnale della fine di stagione.

E tuttavia la temperatura, anche a settembre, rimaneva al di sopra della media; il prato artificiale del giardinetto – in polietilene e polipropilene – scottava le piante dei piedi, l’uomo passava il tempo sdraiato sul lettino o seduto all’ombra, su una delle due sedie in teak, i piedi appoggiati al tavolino abbinato, lo smartphone tra le mani, la testa china verso il piccolo schermo. Forse l’uomo sentiva la mancanza della moglie, una coetanea con la quale si era sposato una decina di anni prima; dal loro matrimonio erano nate due bambine, una di dieci anni e l’altra di dieci mesi. 

A settembre, la moglie e le figlie erano ritornate in città, ma durante i tre mesi precedenti la donna era andata in spiaggia assieme alle bambine. L’uomo invece non era mai andato in spiaggia, era rimasto nel suo solito spazio ricavato in un angolo del giardinetto, e nessuna delle figlie si era chiesta come mai il padre non andasse in spiaggia, nemmeno la più piccola aveva ripetuto, pa-pa, allungando le braccia verso l’oggetto del suo amore. 

I giorni settembrini erano passati senza le discussioni dei mesi precedenti, discussioni che l’uomo aveva sostenuto con la moglie stremata dalla sua presenza continua nel giardinetto. I litigi avvenivano sulla soglia tra il giardinetto e i settanta metri quadrati, in corrispondenza dello stipite della portafinestra che metteva in comunicazione il soggiorno con il giardinetto; quel punto della casa, osservato dalla finestra di uno dei vicini, era coperto dalla presenza di due albicocchi, che con le loro foglie occultavano l’origine delle discussioni coniugali, come se il tono sempre più alto delle voci, le accuse reciproche, gli insulti, le bestemmie – ripetute per lo più dalla donna, e non dall’uomo – fossero un elemento naturale, il frutto generato da quello stesso venticello che smuoveva le foglie verdi in accordo alle parole, prima della caduta autunnale. 

Ma nonostante fosse settembre, l’autunno pareva ancora lontanissimo, l’uomo si distendeva sul lettino, alternando la visione dello smartphone a una consultazione molto accurata, un’ispezione, del proprio corpo, quasi che il corpo osservato non fosse del tutto suo: il corpo tatuato sulle braccia, sulle gambe, e forse anche in corrispondenza delle caviglie; si scrive forse poiché, osservato dalla finestra di uno dei vicini, erano visibili soltanto il volto, il busto, le gambe fino alle tibie; i malleoli e i piedi erano preclusi allo sguardo. 

L’uomo si difendeva dalla luce con i Rayban da aviatore, la montatura dorata, le lenti blu, che a seconda della torsione della testa ricordavano il mare calmo e cristallino di un dépliant pubblicitario, o l’imbrunimento pomeridiano reale, tipico dell’alto Adriatico.

Il taglio di capelli era simile a quello di molti calciatori: corti, ma non troppo, sulla parte superiore della testa; sfumati sulle tempie e sulla nuca. Un taglio banale ma molto curato, incongruo per un uomo che, all’apparenza, era rimasto chiuso in casa almeno tre mesi. Forse l’uomo aveva ricevuto a domicilio un parrucchiere, che gli aveva sistemato i capelli in soggiorno. 

A settembre, rimasto solo nel vuoto ancora assolato, forse l’uomo sentiva la mancanza della famiglia: dal lettino non vedeva più la figlia maggiore, non vedeva la moglie girare attorno al perimetro del giardinetto spruzzando, con la piccola in braccio, insetticida contro le reti e le siepi divisorie, mentre la bambina indirizzava la mano verso il getto di veleno, credendo fosse un gioco. 

Forse l’uomo sentiva la mancanza delle bestemmie coniugali, la pienezza delle urla domestiche. Quando litigavano, l’accento di entrambi era un miscuglio di Nord e Sud, ma, a seconda dei picchi di intensità, una delle due zone geografiche prendeva il sopravvento; lei, in particolare, aveva un accento bolognese, eppure nell’incrinatura della voce, durante i litigi, rivelava un’inflessione segreta, custodita dentro di sé: un Sud generico, televisivo, blasfemo, le due inflessioni trovavano l’equilibrio perfetto soltanto quando la donna bestemmiava; ecco che allora, il suo banale e personalissimo dio porco, il suo banale e personalissimo dio cane, il suo ancor più banale e personalissimo e sostitutivo dio canta, non erano più davvero soltanto suoi: erano l’Italia, la nazione.

In una calda serata di metà settembre, l’uomo era rimasto da solo al buio, nel giardinetto a stento illuminato dalla luce gialla di una lampada. Oltre alla moglie e ai figli, tutti gli altri villeggianti avevano lasciato il residence. O almeno, così credeva l’uomo, sprofondato nella sedia in teak. Aveva scritto una serie di messaggi, poi era andato in bagno, aveva aperto il rubinetto dell’acqua e composto un numero di telefono azionando il vivavoce, tanto che il pigiare sui numeri si era avvertito in tutta la porzione del residence, così come la voce della moglie. All’inizio la voce non era sembrata proprio quella della moglie, e non soltanto a causa della differente percezione tra una voce ascoltata dal vivo e una voce ascoltata tramite un apparecchio che, grazie alle finestre spalancate a causa del caldo anomalo, rimbombava ogni sillaba, provocando la leggera distorsione rispetto all’originale; la voce della moglie era sembrata diversa anche a causa del tono; la conversazione, infatti, era molto affettuosa, intervallata da continui amò, ripetuti sia da lei sia da lui; quelle loro schermaglie amorevoli erano destabilizzanti, sembravano senza lingua, senza città, senza origine, senza destinazione: parole incuneatesi dentro gli apparecchi, al momento della fabbricazione.

L’affetto telefonico si era alternato a consigli pratici e i consigli pratici avevano riportato la coppia nel mondo.L’uomo aveva chiesto alla moglie delucidazioni a proposito della procedura relativa al suo rientro a casa, in città. Aveva ricevuto una lettera grazie alla quale era autorizzato a uscire dalla casa al mare. Era agli arresti domiciliari, portava il braccialetto elettronico alla caviglia.

La conversazione tra i due coniugi era durata ventisette minuti passati dall’uomo sotto la doccia, un getto di cui si era percepito lo scroscio molto forte, che dalla schiena dell’uomo scendeva verso lo scarico, e forse la donna aveva ripetuto più volte le stesse raccomandazioni poiché la conversazione era stata disturbata dall’acqua entrata nelle orecchie dell’uomo, il quale, non è da escluderlo, teneva gli occhi socchiusi o chiusi, quasi per difendersi dalle parole della donna, e dall’acqua. 

Il 10 aprile 2023, Lunedì dell’Angelo, mi è tornata in mente la storia che ho scritto qua sopra. Avevo un dolore molto forte alla caviglia sinistra. Non riuscivo a camminare o ad appoggiare il piede a terra, e anche restando immobile e sdraiato la caviglia era attraversata da una serie di fitte dolorose, sia al malleolo laterale, sia al mediale. Sono rimasto a letto, non riuscivo a leggere, a scrivere, non riuscivo a guardare un film o un po’ di sport. Guardavo il piede adagiato su due cuscini, il gonfiore doloroso, espanso al di là del mio stesso corpo, e allora ho ripensato al braccialetto elettronico dell’uomo. 

Se l’uomo avesse avuto il mio stesso problema fisico, non avrebbe potuto indossare il braccialetto elettronico. La caviglia era così gonfia che il braccialetto elettronico si sarebbe trasformato in una tortura. Forse la pressione tra il gonfiore e la stretta del dispositivo avrebbe spaccato il braccialetto elettronico, trasformando l’uomo in un evaso. Dovevo avere qualche linea di febbre mentre pensavo alla storia dell’uomo, e mi rimbombavano in testa, a distanza di una decina di mesi, le bestemmie della donna, e, soprattutto, il suono dell’acqua, ventisette minuti di doccia durante una calda serata di settembre. Quanti litri d’acqua servono per una doccia di ventisette minuti? Quanti minuti dura la doccia in un carcere? Quale tipo di reato aveva commesso l’uomo? Furto? Truffa? Ricettazione? Spaccio di droga?

Sette giorni dopo il Lunedì dell’Angelo, ho acceso riluttante l’auto per andare al supermercato e ho guidato con più prudenza del solito, rimpiangendo di non avere il cambio automatico. Ogni volta che premevo la frizione, sentivo una fitta al malleolo, come se avessi qualcosa attorno alla caviglia, qualcosa che appesantiva, indolenzendo non solo il malleolo, ma anche tibia e perone; cambiavo marcia e mi ritornava in mente l’uomo agli arresti domiciliari e quello che ripetevo a proposito dello sguardo nella scrittura: ovvero quello che mi capitava da ragazzo, allorquando, dopo una partita amatoriale di basket, sentivo un dolorino al polso, e ogni volta che cambiavo marcia, quel dolorino si trasferiva dal polso allo sguardo, e influenzava il modo in cui fissavo ciò che accadeva al di là del parabrezza, la mia percezione. 

Stavolta l’epicentro del dolorino era in basso, vicino alla frizione, ma non era un dolorino, era un dolore in potenza lancinante, appena sotterraneo, pronto a manifestarsi.

Ho fatto la spesa e all’uscita, mentre spingevo il carrello nel parcheggio, ho sentito una fitta, che mi ha costretto a una smorfia e ad appoggiarmi al carrello. Ho iniziato a zoppicare trascinando il carrello dalle rotelle cigolanti verso l’auto parcheggiata. Ho sollevato lo sguardo e notato che, accanto a un’auto a pochi metri dalla mia, era fermo un cinquantenne, mi fissava molto interessato alla zoppia e alla mia smorfia sofferente. 

Ho ricambiato lo sguardo, sapendo che nel suo interesse non c’era nulla di caritatevole. Mentre caricavo la spesa nel bagagliaio, è arrivato un vigilante del supermercato e l’uomo interessato alla mia zoppia è andato via. Sono uscito dal parcheggio e, sul bordo della strada, c’era l’auto dell’uomo, ferma, i finestrini abbassati. Anch’io ho abbassato i due finestrini, avevo caldo. Al mio passaggio ho sentito un forte botto, tipico dei ladri-truffatori che da anni usano questo metodo in tutta Italia. Di solito lo usano con anziani e anziane, o con persone fragili. A volte funziona. 

Secondo il truffatore, ero una persona fragile. Dopo il botto si è accodato a pochi centimetri, poi si è accostato mentre procedevamo a trenta all’ora, ha urlato insultandomi, accusandomi di essere la causa del botto. 

Gli ho detto, senza urlare e accelerare, senza chiudere il finestrino: non rompere il cazzo. 

E gli ho mostrato il telefono. È schizzato via, veloce, e nella svolta seguente ha messo la freccia per girare a sinistra, e ho resistito alla tentazione di fotografare la sua auto da dietro, la sua freccia ineccepibile e lampeggiante, non volevo distrarmi alla guida utilizzando il telefono. Bene, ho pensato al semaforo successivo, ecco due cittadini modello, questa è educazione stradale. 

Quando sono ripartito, ho premuto il pedale della frizione e sentito riacutizzarsi la fitta alla quale non avevo mai pensato durante quei pochi secondi precedenti.

Quest’anno, l’uomo al mare non è più agli arresti domiciliari. Dal lunedì al venerdì è fuori casa. La prima figlia ha undici anni, la madre la accusa di non prendersi cura della sorellina, le ripete, ha due anni. A volte, ripete, ha due anni, dio cane. 

Un giorno, rivolgendosi alla bambina più piccola, ha detto, hai due anni di merda. 

La madre sembra identica a ciò che era l’anno scorso: magra, tatuata, abbronzata, proprio come il padre. Non ha perso l’abitudine di urlare e bestemmiare circondata da oggetti costosi, ma a differenza dell’anno scorso urla e bestemmia soprattutto dal lunedì al venerdì, quando il marito è assente. Non ha perso nemmeno l’abitudine di spruzzare l’insetticida contro le reti e le siepi divisorie; prende la figlia in braccio, agita prima dell’uso la bomboletta multinsetto, la bomboletta color fucsia adatta a ogni tipo di insetto, volante e strisciante: spruzza, spruzza, spruzza, spruzza, gira lungo il perimetro come le lancette, il meccanismo di un orologio che si prende tutto il tempo per agire meglio, per uccidere meglio. La figlia minore forse ha capito il senso dei gesti materni ma vuole partecipare fingendo che sia un gioco, e in quell’oscillare tra verità e menzogna sta la perdita di innocenza. La madre inclina la bomboletta spray verso il male invisibile. Quando spruzza nell’aria diffonde una piacevole fragranza fresca, tace e ha il volto rasserenato.

Elimina anche gli insetti che non vedi.

Dal giorno del Lunedì dell’Angelo ho smesso di correre, ignoro quale sia la causa del problema e non voglio saperla: posso solo camminare, conscio che il dolore stia sottotraccia, pronto a manifestarsi anche quando non corro. 

Eppure quanta soddisfazione dopo il tentativo di truffa subito fuori dal supermercato: in quei pochi metri alla guida non ho sentito alcun dolore, non ho sentito più niente, non sapevo nemmeno chi fossi e dove mi trovassi. 

Talvolta, a piccole dosi, un po’ di odio fa bene.

ARTICOLO n. 68 / 2023

VIAGGIO SOLA

La temperatura dell'estate

Qui mi piacerebbe abitare, mi dico ogni volta che passo davanti a una di quelle che chiamo le case barbute – sono case ricoperte di rampicanti, edera o vite americana, che d’autunno virano al rosso, in primavera a un verde tanto tenero da esser quasi violento, e d’estate a un buio bluastro, fresco, da giungla disegnata in un libro per bambini. Mi vedo dentro le stanze ombrose di bosco, fra pareti avviluppate di peduncoli tenaci; sogno di galleggiare nell’aria tinta dei riflessi delle fronde, immagino di seguire sul soffitto, nei tardi pomeriggi dorati, i profili tremuli delle foglie. Mi penso felice. Ma se lo dico a voce alta, che mi piacerebbe abitare in una casa barbuta; se lo dico a voce alta, nella fattispecie, a qualcuno, ricevo sempre la stessa risposta: sì, ma ti immagini quanti insetti? Oppure: ma ti immagini l’umidità. O ancora, dai più pragmatici: ma pensa che fatica la manutenzione. Ti ci vorrebbe pure un giardiniere, qualcuno che sappia come si fa; non ci si può mica improvvisare, con un rampicante così, cominciano la concione; e proseguono poi per un bel pezzo a enumerare gli svantaggi di quelle magnifiche palazzine fronzute che ingenuamente avevo eletto a sfondo ideale per un futuro sognato. 

Il bello è che hanno ragione, e io lo so benissimo. D’altronde non penso che mi potrò mai permettere una casa barbuta, e men che meno un giardiniere per la manutenzione. Di fatto, però, quando le repliche realistiche degli altri la riportano a quello che è, ogni fantasticheria si affloscia su sé stessa, si spegne. Torno a quello che stavo facendo, torno a occuparmi di piccole incombenze prosaiche, mi scordo una volta per tutte i glicini e la penombra delle stanze non mi attira più con l’intensità magnetica di poco prima. Tornano in primo piano le preoccupazioni del giorno, le commissioni da sbrigare, il pensiero del lavoro da finire, le consegne. Torno a essere una partita IVA che si arrabatta e non si sogna nemmeno di assumere un giardiniere addetto ai rampicanti.

Per via del lavoro in cui, per l’appunto, giorno dopo giorno mi arrabatto, trascorro in viaggio, e per la precisione in treno, circa due terzi del mio tempo di veglia. Viaggio sola. Mi piace molto, anche se qualche volta mi prende una gran malinconia, nelle piccole stazioni, quelle in cui l’edicola ha chiuso da anni e rimane lì, gabbiotto sbarrato ricoperto di firme, tag, qualche volta una dedica d’amore, un insulto a qualcuno che non conosco e non conoscerò, perché sono sempre di passaggio. Le piccole stazioni, oltre all’edicola, spesso hanno perso anche il bar; qualche volta c’è un distributore di bibite e merendine che si mangia la moneta da un euro e si blocca, oppure una moneta da un euro non ce l’ho e non c’è nessuno a cui chiedere se ha da cambiare.

Qualche volta aspetto una coincidenza che non arriva, il secondo treno è in ritardo; qualche volta la coincidenza l’ho persa, in ritardo era il primo treno e il secondo invece puntualissimo, e ne devo aspettare un altro che pare non arrivare mai. Allora mi prende una punta di tristezza perché penso che nessuno, sulla faccia della terra, può conoscere la noia di aspettare come la conosce chi l’ha provata una, due, tre, quattro volte, nelle stazioncine di provincia, ed è un pensiero che mi consola e mi raggela insieme; il pensiero del tempo perso, dei cumuli di minuti e ore sbocconcellati da quella forma d’attesa dimessa, per cui, anche a spazientirsi, non cambia niente, nella solitudine da eterna domenica pomeriggio delle piccole stazioni. In piedi sulla banchina del binario 2 – il 3 non esiste –  leggi frasi scritte a pennarello dai ragazzi sulle panchine, lei ama lui, lui è bonissimo, quell’altro è un infame, e ti fai domande perfettamente inutili (chissà come si chiama chi ha scritto questa cosa, chissà se l’ha scritto in segreto o per impressionare qualcuno che stava proprio qui, chissà che giorno era, quanti anni sono passati, quanto resiste una scritta a pennarello?), per ingannare il tempo che lì, però, non si lascia ingannare; resiste, ha una consistenza che non si lascia sciogliere nella distrazione. Capita che passi un merci sferragliando, fa un gran baccano e il sussulto ti fa guadagnare un mezzo minuto; poi torni a ripensare al tempo perso.

Dimentico questo sconforto tipicamente ferroviario quando il treno è in movimento. Quando il treno è in movimento non dico a nessuno le cose che penso mentre guardo fuori dal finestrino, dunque nessuno mi può dire che nella casa che ho avvistato in mezzo ai campi, o alla periferia di una città in cui dovremo fermarci, chissà quanti insetti e quanta umidità, e quanta manutenzione ci vuole. E allora, mentre il treno va fisso gli occhi oltre il finestrino; qualche volta c’è il sole, oppure piove. Qualche altra volta il cielo è grigio, o scolora nel crepuscolo, o nell’alba. Sempre, sotto qualsiasi cielo, faccio lo stesso gioco.

Guardo la campagna che fugge fuori dal vetro, e mi dico che non c’è da stupirsi se il cinema è iniziato con il film di un treno che corre; anche da dentro il treno si vede un film. Guardo la campagna e gli alberi, le colline e i fiumi, ma soprattutto le case. Non è facile, perché scappano velocissime; ma fa parte del gioco. Devo cercare di imprimerle nella retina in una frazione di secondo, quel che basta a fantasticare: di abitarle tutte, tutte quelle che sfilano, case coloniche e cascine, ville o palazzotti, qualcuna poco più di un capanno. Guardo i giardini cintati, che per qualche ragione mi fanno tenerezza, soprattutto quando circondano villette isolate; le aie e i pergolati, le piscine, d’estate splendenti di azzurro, d’inverno coperte dai teli. Un cane che salta dietro il cancello, come se potesse inseguire il treno; un altro che saggiamente se ne resta seduto sull’erba, e guarda i vagoni passare, e chissà cosa pensa, se pensa. Allora io, seduta al mio posto, il computer aperto davanti, perché ho del lavoro da sbrigare, perché quel tempo non lo dovrei perdere, e proprio per questo finisco per dissiparlo, mi immagino di scomparire, di inabissarmi come il treno che entra in galleria, e saltar fuori da tutt’altra parte, riemergere in una vita alternativa, fuori dal vagone, in una di quelle case sconosciute.

Quasi la vita fosse – per il tempo della fantasticheria – non una successione di indicativi, in cui si rincorrono a tappe forzate presente futuro e passato, ma un rigoglio di congiuntivi che si corroborano l’un l’altro, come virgulti di un cespuglio esuberante di possibilità. Così finalmente mi sento risarcita dell’avarizia della vita vera, che esige il sacrificio di mille possibili futuri perché possa aver luogo un unico presente. Nella fantasia non è così, e nel giro di qualche ora di viaggio mi ritrovo ad abitare, senza la fatica di un solo trasloco, dieci case diverse, per lo meno. Case che sicuramente hanno i loro problemi, formiche o umidità o manutenzione; se ci fosse il tempo di realizzare la fantasticheria, basterebbe un attimo e me ne accorgerei, dell’attrito della realtà. E allora capisco una cosa, dopo anni di viaggi, di sogni a occhi aperti, di case viste baluginare e un istante dopo ricordate solo con gli occhi della mente, che guarda mattine di primavera sotto quel certo pergolato, a far colazione e veder passare i treni – treni immaginari che non fanno rumore, perché l’immaginazione non ha bisogno di pagare lo scotto al vero, no?, ma che se confidassi la mia chimera a qualcuno, il rumore tornerebbero a farlo: ti immagini che frastuono, a cento metri dalla ferrovia?, mi direbbero, e ancora una volta l’illusione si sgonfierebbe come un soufflé estratto prematuramente dal forno. Capisco che non vorrei vivere davvero in nessun luogo che non sia quello in cui vivo già; e da cui posso permettermi questo gioco, che non serve a niente, non costa niente, non porta a niente, di guardare le case per un istante solo e concedermi di immaginare vite impossibili, senza che nessuno me lo faccia notare. 

ARTICOLO n. 67 / 2023

FARE L’AMORE CON GENTILE IMPRUDENZA

La temperatura dell'estate

C’è un luogo a Barcellona in cui la vecchia muraglia romana incontra i vizi della contemporaneità.
Si trova nel casco antico della città, che in alcuni punti è sopravvissuto quasi intatto al passare del tempo. Proprio lì, incastrata tra minuscoli viottoli maleodoranti e all’apparenza indistinguibili, si nasconde una piazzetta fiocamente illuminata dai lampioni e incorniciata dagli alberi. Noi la chiamiamo “la piazzetta segreta” perché ogni volta ci dimentichiamo – o fingiamo di dimenticarci – come si chiama davvero. Quando ci viene voglia di raggiungerla dobbiamo sempre reimparare il cammino per arrivarci, tiriamo a indovinare, giochiamo a chi la trova per primo. Costeggiamo la cattedrale lasciandoci piazza Jaume I alle spalle, attraversiamo le antiche torri, scendiamo di appena una baixada e poi, puntualmente, ci perdiamo. 

È proprio questo alone di mistero che circonda quel luogo che riempie di incanto ogni nuovo incontro avvenuto nei suoi pochi metri riempiti da tavolini traballanti. La piazzetta segreta è testimone dell’esistenza di molte storie nate a bassa voce. È a lei che gli amanti affidano le loro inconfessabili promesse d’estate, quelle che si fanno sussurrando mentre tutto sembra possibile, quando le antiche mura riparano appena un poco dal caldo torrido e dagli sguardi curiosi dei turisti che affollano il centro città. Qui gli archi gotici diventano portici sotto ai quali nascondersi per scambiarsi baci appassionati. 

È lì, in quella precisa piazzetta, che ho pensato per la prima volta che l’amore assomigliasse alla follia. Come si fa, mi chiedevo osservando gli amanti con occhi avidi, a innamorarsi d’estate quando il caldo soffocante diventa un monito pronto a ricordarci che non esiste futuro? Come si stringe la mano di uno sconosciuto immaginando di poter costruire mentre si ha l’impressione che il mondo intorno vada in fiamme? Quanta speranza è racchiusa all’interno dei fuochi di cuori ignoranti e incuranti di quella che chiamano “l’estate più fresca del resto della tua vita”?


Mentre ci penso sento un tonfo al cuore. La chiamano eco-ansia ed è una sensazione di paura e impotenza che si prova quando ci si sofferma a pensare allo stato di salute del nostro pianeta. L’eco-ansia ha lo stesso rumore dei sogni infranti: è la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla distruzione inesorabile dei nostri ecosistemi nell’era antropocentrica, è il senso di colpa paralizzante che si insinua dentro di noi quando analizziamo il valore delle nostre scelte ecologiste individuali per limitare i danni dell’imminente apocalisse, è la percezione vivida che il mondo, così come l’abbiamo conosciuto, sia destinato alla morte. 

Secondo il filosofo ambientale Glenn Albrech sono sempre di più gli stati psicoterratici negativi che si scatenano in risposta ai cambiamenti di equilibrio tra umanità e ambiente, e la mia generazione purtroppo ne è la principale vittima. Nel 2021, la rivista Environment International pubblicava un articolo scientifico in cui suggeriva una correlazione tra l’aumento delle alte temperature e il deterioramento del benessere psichico umano, riscontrando un’impennata estiva di ricoveri ospedalieri e visite al pronto soccorso per condizioni come ansia, depressione o schizofrenia, così come un picco di suicidi e omicidi. Quest’idea è ben nota anche nel campo della psicologia, che da anni racconta come i periodi di clima caldo siano tendenzialmente caratterizzati da maggiori esplosioni di violenza e rabbia, sia verso sé stessi che verso gli altri. D’estate il nostro battito cardiaco accelera, il nostro respiro si accorcia, e la nostra capacità di gestire gli sbalzi emotivi associati al disagio si abbassa: diventiamo insomma più impulsivi perché troppo concentrati sulla regolazione del nostro corpo. Io stessa, nonostante durante l’inverno desideri ardentemente l’arrivo del caldo e sia disposta a percorrere anche grandi distanze per ritrovarlo, nei mesi estivi mi sento più irascibile, come se insieme alla terra andassi a fuoco anche io. Questa sensazione aumenta progressivamente di anno in anno, creando solchi profondi come calanchi che erodono la mia stabilità mentale e, insieme a lei, la mia illusione di non star sprofondando nella più totale follia. Così l’estate, un tempo simbolo di libertà e infinite possibilità, oggi mi terrorizza.  

Osservando un’altra volta gli amanti della piazzetta segreta ricordo con tenerezza le mie prime estati spagnole, quando il tepore estivo non faceva paura e insieme a lui sopraggiungeva anche l’illusione dell’amore. Lo aspettavamo con ansia a vent’anni, eccitati e avidi di conoscere il mondo e saggiare i limiti della fugace libertà che ci offrivano quei mesi di pausa. Io accoglievo con gioia il caldo asciutto di Madrid che annunciava il suo arrivo con aliti di vento roventi che non spettinavano mai i capelli. Ero spensierata, piena di vita e ottimista, e ai primi canti di rondine diventavo felice. Allora pensavo con ingenuità e un pizzico di presunzione che il cambiamento climatico l’avremmo fermato in tempo, noi della Facoltà di Scienze Politiche di Somosaguas, e in quella credulità di bambina nemmeno l’amore mi incuteva timore, anzi: bramavo di lasciarmi consumare dal desiderio fino a rendermi cenere. 

Ma oggi? Dove resta spazio per l’amore quando tutto sembra essersi perso e l’eco-ansia somiglia più che altro alla resa? Sembra che ormai possiamo affacciarci all’Altro solo in forma mutilata, consci della possibilità che tutto finisca prima ancora di iniziare e che la promessa di passare la vita insieme al proprio essere amato somigli più a una condanna da scontare insieme che a una promessa di futuro. Anche per questo molti dei miei coetanei stanno abbracciando la scelta di non mettere al mondo dei figli al fine di evitar loro la sofferenza che sarebbe vivere in un mondo devastato dall’ebollizione globale. Fare figli è da egoisti, dicono, è inutile esasperare ulteriormente il nostro mondo sovrappopolato con scelte riproduttive irrazionali. È folle sforzarsi di pianificare, edificare e immaginare il domani mentre le nostre certezze sul mondo si sgretolano insieme alle città.   


Eppure, agli amanti della piazzetta tutto questo non sembra interessare. A ben guardarli si direbbe che se ne infischino della paura, della rabbia e dell’odio che gli esplodono intorno, perché la fine del mondo per loro esiste solo nei baci, nei corpi riscaldati, nello sfinimento del desiderio insaziabile. Solo allora mi risuonano in mente le parole di bell hooks nel suo meraviglioso trattato sull’amore e sulla possibilità che esso ci offre per essere catalizzatori del cambiamento.

Nella pratica dell’amore, dice hooks, impariamo a resistere, a prosperare e a guidare in qualsiasi circostanza, e amando cresciamo spiritualmente imparando a immaginarci come parte di un unico organismo con un unico cuore pulsante. Mentre la paura paralizza, l’amore autentico e gentile ci attiva.

Abbracciare un’etica amorosa significa vivere la propria vita prendendosi la responsabilità di qualunque atto, parola e pensiero che formuliamo, senza mai dimenticare l’essenziale interconnessione delle nostre esistenze.Solo comprendendo appieno il significato dell’amore si può davvero metterlo in atto. Esso non include solo l’amore romantico ed erotico, ma anche quello amicale e familiare, così come le spinte amorose ed empatiche che possiamo provare verso uno sconosciuto o qualcuno che appena conosciamo. L’amore in questo senso rappresenta un impegno, un compito, un’abilità da acquisire che richiede determinazione, dedizione e talvolta fatica; tuttavia, esso è l’unica forza politica a cui ancora possiamo affidarci per sperare di salvarci di fronte alle minacce di distruzione e dissoluzione che si prospettano davanti, perché l’amore, e solo l’amore, è ancora in grado di orientare le decisioni collettive sulla base della cura e della creazione attraverso l’incontro con gli altri.

Gli amanti della piazzetta ancora non lo sanno, ma il loro amore che profuma di imprudenza ora si è acceso dei colori della speranza.

Finalmente sorrido.

ARTICOLO n. 66 / 2023

MORIREMO GIOVANI, BRUTTI E GRASSI

La temperatura dell'estate

Per la mia famiglia, andare in vacanza è sempre complesso: nostro figlio Andrea ha paura della spiaggia, non ama la campagna e pur di non camminare farebbe carte false. In più, abbiamo due cani, un gatto e una decina di pesciolini che stranamente sopravvivono malgrado la negligenza un po’ di tutti.

«Cosa possiamo fare quest’estate?», chiedo mentre addentiamo un prosciutto caro come una vacanza ai Caraibi e un melone che non sa di niente. Alex torna a Chicago, dove si è trasferita, e farà dei viaggetti con gli amici. Dopo tutto, ha 24 anni e giustamente si fa i fatti suoi. Vera, che di anni ne ha 16, ci ricorda di aver trovato un lavoretto per l’estate e che ha solo tre giorni di ferie, informazione probabilmente falsa, dettata dalla pochissima voglia di stare con noi. Andrea ascolta per la seicento millesima volta James Taylor.

Per paura che io e Ryan insistiamo per andare in vacanza tutti insieme, i ragazzi lasciano la tavola, dopo aver messo il loro piatto nel lavandino, come se la lavastoviglie fosse lì per bellezza. Ma li capisco: anche a me verrebbe voglia di andarmene in camera. Rimaniamo a tavola io e Ryan, in silenzio, poi mi sento pure dire: «Anche tu, che domande fai? È ovvio che pur di non venire in vacanza con noi e Andrea si arruolerebbero nei Marines…».

Il fatto è che io, Ryan e le ragazze sappiamo bene cosa significa fare un viaggio con Andrea. Essendo lui autistico a basso funzionamento, servono molte precauzioni e anche molta pazienza. Come tutte le persone come lui, la giornata di Andrea è strutturata nei minimi particolari: ogni cambiamento, ogni deviazione dalla sua quotidianità gli procura ansia, panico e terrore, perché non la può controllare. È per questo che anni fa comprammo una casetta in campagna, che Andrea ama: da noi alberghi, viaggi, cambiamenti non sono mai percepiti come una vacanza, ma più come un incubo.

Ma indipendentemente da Andrea, andare in spiaggia negli Stati Uniti di solito è un pacco tremendo. Per una persona come me, di sangue puro mediterraneo, passare anche solo qualche ora su quel mare è un incubo. Manca tutto quello che serve per una vera vacanza balneare, anche scarsa.

Prima di tutto bisogna adeguarsi al colore del mare, l’Atlantico, per me che vivo da questa parte. È marroncino opaco, con molte chiazze verdi o marrone scuro delle alghe, sia quelle vive che quelle in decomposizione, che si legano ai piedi di chi, non so perché, è tentato di fare il bagno. La temperatura dell’acqua atlantica in estate non raggiunge i 20 gradi centigradi: è talmente fredda che in alcune parti della costa è meglio indossare una muta, perché se si passano più di dieci minuti in acqua si muore assiderati. Stesse temperature nell’oceano Pacifico: 20 gradi centigradi ad agosto contro i 26, 27 del Mare Nostrum. Già questi due piccoli dettagli bastano e avanzano per decidere di andare in montagna. L’unica speranza di trovare il mare blu e meno ghiacciato è la Florida, con il suo mare del golfo messicano, ma per molti americani è una meta irraggiungibile, per questioni di soldi e, per alcuni, di politica: Ron DeSantis, il governatore, è quasi peggio di Donald Trump. 

Mettiamo pure che si decida di andare comunque al mare, anche per solo una giornata. Nella maggior parte delle coste americane, non esistono stabilimenti balneari, a parte in alcuni alberghi di gran lusso. Questo significa che alla tipica famiglia americana tocca caricare in macchina ombrellone, sedie, asciugamani, bottiglie d’acqua in grande quantità, panini, frutta e snack da mettere nella borsa freezer portatile, tenda, per ripararsi ulteriormente dal sole cocente, giochi da spiaggia, gonfiabili o no, creme varie, le mute e la speranza che un meteorite si scagli in riva al mare per cambiare programma, anche all’ultimo momento. 

Si riempie la macchina di figli, e del minimo indispensabile per non morire assiderati o cotti dal sole, e si arriva a un parcheggio enorme, mille metri quadrati di cemento armato. Temperatura media: 53 gradi centigradi. Temperatura della sabbia: 95 gradi centigradi. A questo punto tocca scaricare la macchina, facendo avanti indietro trentasei volte tra il parcheggio e il posto scelto in spiaggia. Tempo previsto: mezz’ora. Poi si fissa l’ombrellone nella sabbia, si mettono le vivande all’ombra, si monta la tenda, che dopo quattro minuti massimo raggiunge, all’interno, una temperatura insopportabile. Si suda come delle bestie, sapendo perfettamente che non ci si potrà tuffare per via della temperatura ghiacciata e delle alghe che fanno schifo solo a guardarle.  

A questo punto, i bambini frignano e si spera solo che un gabbiano se li porti via: vogliono subito buttarsi, ma prima bisogna mettere la crema, (“L’hai portata tu la crema? Qui non c’è! Ma è possibile che ti dimentichi sempre tutto?”), bisogna capire come indossare ‘sta muta che ogni volta che la vedo mi sale la pressione (“Ah, mi sono dimenticato le mute in macchina, vado a prenderle!”). Immancabilmente, dopo aver messo la muta, a qualcuno scappa la pipì, ma i bagni, se ci sono, sono a tre chilometri di distanza. In questo esatto istante, uno dei genitori (di solito la mamma) perde il controllo di sé e diventa una belva. Ma tiene duro perché “lo si fa per i bambini”.

La sabbia bollente brucia anche con gli infradito, che si squagliano. Si arriva ai bagni, che sono pubblici e dunque piuttosto schifosi. Tempo previsto tra andata e ritorno: circa 37 minuti sotto un sole che neanche a Riad. Finalmente i bambini entrano in acqua. A questo punto partono quei cinque, sei minuti in cui i genitori bisticciano: “Ma che cazzo siamo venuti qui a fare? Se non possiamo permetterci la Florida, andiamo da un’altra parte, no?” “Ma ai bambini piace…”. “Ma chi se ne frega dei bambini! Ci sono piscine comunali bellissime in tutte le zone della città…”.

Dopo sette minuti nell’acqua schifosa, i bambini pieni di sabbia tornano all’accampamento e hanno fame. “Questo panino non mi piace!” “Perché a lei hai dato quello al prosciutto cotto che era per me?” “Hai portato solo l’acqua? Io volevo il succo…”. L’ombrellone continua a volare via perché spesso noi cittadini non siamo in grado di piantarlo bene. Uno frigna, l’altro ha la sabbia nel costume e si lamenta; la piccola piange perché le è caduto il panino che adesso invece che con il prosciutto è con alghe marce e tanta, tantissima sabbia. 

Una come me, che già si irrita ad andare al mare, anche in Sardegna, perché dopo minuti sette si ustiona, rovinandosi così il resto della vacanza, a questo punto, esausta, versa la prima lacrima. Quando il marito nota lo sfinimento e la frustrazione della moglie, dice la frase più sbagliata, l’ultima goccia che fa traboccare il vaso di una giornata di merda: “Perché non vai in macchina per un po’, così stai tranquilla”. Perché? Perché nella macchina ci sono 297 gradi centigradi, e l’ormai ex-moglie si è sempre ripromessa che se proprio le tocca morire, vorrebbe farlo nel suo letto, mentre dorme. La happy family è in spiaggia solo da un’oretta e già il matrimonio è in crisi e i bambini stanno per essere mandati a quel paese. Insomma, una bella gita.

Capisco la meraviglia che provano gli americani, quando vengono in Italia e decidono di andare al mare, azzurro, non ghiacciato e senza alghe; dove ci sono baretto, cabine, ombrelloni, sedie a sdraio, e tutto il resto. Io mi dico: ma quelli che tornano da una vacanza del genere, perché non pensano di aprire uno stabilimento balneare? Gli americani hanno inventato di tutto, anche l’anguria senza semi, e a nessuno è venuto in mente di offrire ai suoi fellow Americans un’esperienza migliore al mare? E invece no: insistono a sacrificare la propria salute mentale e psicofisica e ignorare l’istinto, forte, di abbandonare i figli capricciosi al largo e di scappare in montagna. 

Dopo tanto discutere, quest’anno abbiamo deciso di andare in macchina fino a Chicago, dove abita Alex. Sono mille chilometri circa, e ci fermeremo due volte all’andata, nello Stato di New York e nell’Ohio, e al ritorno passeremo dal Canada. Così Andrea, che ama viaggiare in macchina, è contento. Ryan e io possiamo ascoltarci tutti i podcast che vogliamo, la musica o al limite bisticciare sulle scemenze, tipo: “Non ne posso più di mangiare McDonalds, possiamo fermarci da un’altra parte?” “Ma ad Andrea piace McDonalds…”. “Ah, OK, moriremo giovani, brutti e grassi, però con Andrea contento…”. “La prossima volta sto a casa”, e cose del genere.

ARTICOLO n. 65 / 2023

LA RAGAZZA CHE MI TRASCINA CON SÉ

Giro la chiave. Scirocco artificiale nell’abitacolo: la prima zaffata del climatizzatore è un vento caldo e puzzolente. Pensavo che la macchina l’avessimo venduta da mesi e invece la sto guidando, bestia di lamiera marcita nel sole tonto dell’Estramurale Capruzzi. Secondo l’orologio analogico incastonato sopra la fessura CD della radio sono le 7:30 del mattino. Ma io non mi sveglio mai così presto. 

Fuori dai finestrini opachi e sigillati i marciapiedi sono bianchi e desolati. Le ruote scivolano su Corso Sicilia. Non si chiamava così, questa strada. Contraggo le palpebre per mettere a fuoco la targa della via al primo semaforo rosso. Corso Sicilia, sì, mi sarò sbagliata. Il semaforo diventa verde, ma in questo caso regolare l’incrocio non serve a nulla. Sono sola. La careggiata è sgombra. Ricordo uno scenario simile soltanto in piena pandemia. L’aria condizionata adesso mima l’inverno, anche se dovrebbe essere luglio. Ho cento spilli nell’avambraccio coperto di brina, il mio anello di bigiotteria con la pecten al dito atrofizzato dal freddo. Ancora le 7:30 spaccate, anche se ormai sto parcheggiando. C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro. 

Mi inoltro tra le siepi lasciandomi il cancello di ingresso alle spalle. La mia migliore amica del liceo si è fratturata una gamba per scavalcarlo nel cuore della notte, quand’eravamo piccole. Cerco il telefono nella tasca anteriore dello zaino perché un pensiero conduce a un altro e dovrei scriverle per dirle guarda, pensa amore mio, sono qui adesso, non è incredibile che i nostri spettri ancora infestino il fogliame? Ma non ho nessuno zaino e la brina sulle mie braccia si è sciolta in gocce d’acqua. 

Il pallore infuocato del Parco 2 Giugno. Oltre gli alberi tisici vedo la colossale insegna del GS che s’è fatta modesta perché sono le mie proporzioni a essere cambiate. Friniscono le cicale e il suono delle scarpe sul pavé si traduce in un sussurro via via più melodioso mentre m’avvicino allo slargo: Avec mes souvenirs / J’ai allumé le feu.

Si scompaginano i parallelepipedi di cespugli e davanti a me si staglia una ruota panoramica che languisce nei trentasei gradi delle 7:30 del mattino, a Bari. C’è il Tagadà. La Nave dei Pirati. Le macchine da scontro e i Calci in Culo. C’è una montagna russa verde e rosa dall’aria assai pericolosa. E due baracchini dei fucili; i fucilini, cosiddetti, o forse sono io a chiamarli così. Eppure, manca qualcosa. Continua a mancare qualcosa. 

«Sei stata puntuale», mi dice: i capelli grossi e neri imbiancati della rena smossa dai miei passi. 
Sotto l’altoparlante del luna park, il sussurro è tuono: C’est payé, balayé, oublié / Je me fous du passé. 
«È molto tempo che non ascolto questa canzone», dico ruotando il mento verso la ragazza. Metto a fuoco le sopracciglia che sono spazzole di setola dura sopra le ciglia turgide, guardiane di iridi verde bottiglia. Sorriso di latte.
«Quale canzone?», mi chiede e ride, mi prende le mani, sta danzando anche se la musica non la sente. 

Mi guardo intorno e ci siamo soltanto io e lei. Non un gabbiotto è presidiato. Eppure, le luminarie delle giostre scintillano a malapena visibili nella luce del giorno, intermettono e chiamano. «C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro», bisbiglio. 

La ragazza mi trascina con sé sollevando altro terriccio chiaro che mi si appiccica sulle labbra, sui gomiti. Ci avviciniamo ai Calci in Culo e i nostri corpi non proiettano ombre. I seggiolini si muovono in modo dapprima impercettibile, poi vorticoso. Finché si fermano. 
«Sali a fare un giro e vediamo chi tra noi due riesce a prendere il pennacchio», dice la ragazza.

La gomma rossa delle sedute intrecciate a filo mocciola per terra, sciolta dall’arsura: «Mi sporcherò i pantaloni», dico, ma lei scuote la testa e io ubbidisco anche se di nuovo non vedo alcuna persona nel gabbiotto, non ho idea di chi possa stare azionando l’attrazione, non posso credere di essere già stata sparata come un proiettile sopra le chiazze scarlatte di seggiolino liquido, su, nel tremore giallo delle prime ore di una mattina afosa nella città in cui sono nata. La ragazza non c’è, non è salita, mi ha preso in giro, mi fa un cenno dal basso, sono altissima. La mia mano raggiunge il pennacchio che è una bisaccia piena. 

Mi gira la testa. Ora sono a terra. Lei mi chiede di aprire la bisaccia anche se non so come io abbia fatto a scendere. Sento il suo respiro che odora di petrolio mentre ricevo un’extrasistole dal petto. 

Il premio dei Calci in Culo è un completo maschile elegante. Nero. Giacca e pantaloni coordinati in lana, di fattura resistente. Una camicia candida, di cotone leggero, con le maniche corte. 

«Manca qualcosa», commenta afferrando il mio polso e di nuovo sorride. Il sorriso è giallognolo come cagliata, i capelli più corti hanno acquisito una sfumatura olivastra, la faccia è gonfia e lucida mentre mi consegna una canna da pesca che culmina in un cerchio di metallo. «Catturane uno, forza», mi dice con convinzione e io mi sporgo sul chiostro d’acqua lurida su cui galleggiano piccoli animali impagliati: manguste, marmotte, gufi, falchetti con le ali dispiegate per l’eternità.
Pesco una donnola rampante. 
«Bravissima!»: si porta i pugni stretti alle guance la ragazza, che ora sale sulle punte dei piedi per prendere il mio trofeo tra i molti trofei che pendono da ganci da macello, ognuno dei quali mi è familiare per un verso o per l’altro. Un libro su Tutankhamon con molti gemelli – una collezione intera, a dire il vero, di quelle vendute in edicola – e una bottiglia piena di aranciata amara senza zucchero, un’arcata superiore di denti finti, Momendol in confezione intonsa, vecchia edizione de 
La buona terra di Pearl Buck, lavagna bianca con logo di casa farmaceutica, bastoncini di incenso, pile stilo a grappoli. 

La ragazza mi dà, raggiante, una cravatta blu istoriata da germogli celesti. La sclera si rapprende, molle, attorno alle due iridi scure. «Ho scelto bene?». 

Mi brucia la lingua, mi asciugo il sudore attorno al naso con il monte di Venere della mano, la gomma dei seggiolini dei Calci in Culo rappresa sui polpastrelli. «Non è tutto», sospiro. «Non è tutto». 

Pronuncio queste parole e le nostre giunture sono squassate in un anello di latta rovente che fa sopra e sotto, sotto e sopra. Stavolta sull’attrazione è salita anche lei, mi stringe forte le falangi con le dita gelate, il sorriso da cagliata si è fatto fontina, tremano i denti guasti separati da un diastema in cui soffierebbe il vento, se soltanto di vento ne soffiasse in questa mattina di luglio al luna park del Parco 2 Giugno, nella città in cui sono nata e cresciuta. 

Io rido perché di tutte le giostre il Tagadà m’è sempre parsa la più divertente. Rido ma mi accorgo presto del completo di lana nera disabitato, con la cravatta bene annodata, che la ragazza ha messo in forma sulla panchina di fronte alla giostra. E la forma umana disabitata sembra proprio che mi stia osservando, o almeno vegliando, mentre la sagoma della ragazza sta mutando a partire dalla clavicola incassata negli zigomi verde acido sempre più ampi della faccia sempre più rotonda, la chioma ormai rada.  

«Vuoi fare la Nave o vuoi scoprire il prossimo premio?», mi scorta e mi accorgo di come abbia smesso di somigliare al termine che finora ho usato, cioè ragazza.
Non rispondo. È la creatura a decidere. 
«Premio sia», dice e mi porta a sparare. 

I peluche appesi nei fucilini sono i miei peluche, li riconosco. «Ecco dov’era finito il Pisolone», dico tra me e me soffermandomi sui molti musi di pezza espulsi dalle pozze della memoria, alcuni accomodati sulle mensole, altri impiccati. 

«Puoi colpire Mamma Oca, Grubby o Teddy Ruxpin»: la voce della creatura non ha perduto allegrezza, ma ora pare distorta. 

I tre pupazzi parlanti rantolano, come une nenia, quattro lettere in sequenza: p, a p, a. La pallina di piombo viene inghiottita dalla pelliccia dell’orso. 

Sento un rumore simile a un applauso e mi viene recapitato nei palmi un paio di occhiali. Grandi, quadrati, montatura marrone, tartarugata. Li conosco più di ogni altra cosa.
«Adesso hai capito perché sei qui?», chiede la voce distorta a me che non ho il coraggio di alzare lo sguardo. 

Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien. 

Le pupille della creatura mi fissano dall’ovale lentigginoso di lepidottero, le antenne corte attente, bocca spalancata, lingua aerografata color pesca da cui gronda un rivolo di saliva. Dai segmenti di invertebrato-giocattolo spuntano cinque paia di zampe e pseudozampe. 

«Adesso prendi il completo, la cravatta e gli occhiali. Depositali qui», continua la bestia puntando il dito contro la sua stessa cassa toracica, una mela di stoffa logora solcata da un varco. Dal tunnel spira maestrale profumato. «Seppellisci il tuo dolore dentro di me». 
«Questo luna park non esiste più, non è così?», chiedo.   
Annuisce.
«Negli anni Ottanta venivo qui con mio papà tutte le domeniche».
«Lo so», risponde il Brucomela. «Conservo il ricordo di tutte le bambine che mi hanno attraversato il cuore».

ARTICOLO n. 64 / 2023

LE MIE LACRIME EVAPORANO

La temperatura dell'estate

Da un decennio faccio finta che non sia estate. Questo perché l’estate italiana è pura cronaca, un canale all-news che alterna barbecue, roghi e stelle cadenti.

Scrivo questo primo paragrafo a inizio giugno e già immagino i dolori dell’estate: scemeranno i titoli che sostituiscono a “catastrofe climatica” la parola “maltempo” e inizieranno le perifrasi per descrivere l’Italia che brucia. Qualcuno in settembre dirà che un’alta percentuale di roghi dolosi è dovuta a “povera gente” che fa danno per ledere il vicino, far crescere gli asparagi selvatici, non annoiarsi, stanare i cinghiali. Gesù, i cinghiali – inizieranno i servizi sui cinghiali nell’Urbe deserta, sui cassonetti che bruciano, sulle code, sulla necessità di idratarsi col gelato gusto frutta ché la crema fa ingrassare, sull’escherichia coli e gli enterococchi nelle acque calde e sporche. Qualche sudato amministratore si mostrerà scandalizzato perché un tedesco in mutande si è tuffato in un canale di Venezia, nella prospettiva di multare persino i bagnanti nei teleri di Gentile Bellini; qualche politico commenterà le azioni estive di Ultima Generazione (che nell’agosto 2022 si incatenò alla Cappella degli Scrovegni, l’unica immagine dolce come la giustizia dell’intera stagione) e lo farà con parole tanto bonarie quanto inascoltabili. I social perderanno l’unica utilità di strumento di divulgazione professionale, per mostrare foto di paradisi naturali che porteranno alcuni a pensare di provare invidia quando no, non la proveranno più, perché l’invidia richiede immaginazione. Poi arriverà l’ecfrasi degli storyteller novecenteschi, i templari della Sammontana: scrittori, poeti, editorialisti, tendenzialmente Millennial, determinati a liricizzare tutto, tovaglie onte, teste di triglia, latte di Coca-Cola tra i cardi, schedine dell’Eurojackpot aggrovigliate alla lattuga di mare. Filtrata dalla loro penna l’estate italiana è un sospiro languido e dorato; la Morte è in ferie, il caldo ci accarezza, tutti sono innamorati. E poi di nuovo cinghiali.

L’estate. Proprio oggi leggo sui quotidiani che la Procura di Padova, la mia adorata città, ha impugnato 33 atti di nascita, dal 2017 a oggi, di figli di coppie omogenitoriali, dichiarandone illegittimo già uno. I bambini si troveranno orfani di un genitore davanti alla legge. I fratelli non saranno più fratelli. Il Procuratore esclude ripercussioni sulla “vita sociale” della bambina a cui è già stato negato il secondo genitore; e la vita interiore, psichica, il simbolico di quella bambina, chi lo tutela quello? Quale estate dovrebbe mai iniziare con una notizia così? 

Inutile dire che c’è l’idea di estate italiana, e l’estate stessa. Ogni ventuno di giugno inizia il dickensiano Canto d’Estate, prendiamo per mano un tizio smunto con i braccioli, lo Spirito dell’estate passata: rivediamo la piazza di campagna piena di passerotti che saltellano tra le chips, oggi sbranati dai gabbiani; di sera corriamo verso il campanile inseguendo il garrito delle rondini, oggi ingollate dai falchi. Con le palpebre socchiuse e impastate di crema solare, udiamo la cantilena del Cocco Bello e il papà sbuffare perché qualche altro bimbo gli ha spruzzato il giornale con l’acqua di mare; il nostro sudore profuma di lenzuola d’albergo e ci innamoriamo di qualsiasi ragazzino che abbia il caschetto di DiCaprio. Il nostro nostalgico amico, lo Spirito, ci dà un bacino e ci si scioglie appresso, lasciandoci alla mercé di un sole antagonista.

L’estate italiana è dei bambini, agli adulti ormai si dovrebbe chiedere solo di arginare i danni e sopravvivere moralmente. E proprio per elargire un consiglio in merito alla sopravvivenza morale ho deciso di unirmi a questa serie estiva dedicata all’idea di temperatura. 

Il mio consiglio: piangere leggendo, piangere copiosamente nella giornata più calda della stagione; affrontare una catarsi che frigga insieme moccio e sudore, questo è l’unico modo per resistere all’Italia che ci si scioglie tra le mani.

Nel giorno torrido dell’estate 2022, la più calda dal 1979 e quella che ha segnato la più grave siccità in Europa nel corso di cinquecento anni, sdraiata in un posto indefinito lungo la costa Est sudavo l’acqua che non avevo bevuto, mi ricoprivo la pelle fototipo 1 di bolle, mentre il naso si intasava poiché leggevo e rileggevo i ricordi di Edith Eva Eger e in particolare la pagina in cui si separa definitivamente dalla madre davanti all’ingresso di Auschwitz. L’anno prima si consumava la medesima scena lungo la costa Ovest con un libro di Mario Tobino, Per le antiche scale, che racconta l’andirivieni in un manicomio lucchese poco dopo la metà del secolo; meno straziante a livello oggettivo, ma commovente per me che sono affettivamente ossessionata dagli alienati. L’estate antecedente era stato il turno di Tutti i viventi di C.E. Morgan, che mi aveva commosso pazzamente ma non ricordo perché, rammento solo che mia cugina chiese: “Cazzo piangi ancora?”. L’anno prima fu la volta di un paginone della nostra migliore scrittrice, la Rosa Matteucci, che ho il privilegio di chiamare amica; non ricordo se per una scena con il padre o in memoria di un infante, fatto sta che le telefonai con voce spezzata e lei, sempre contegnosa, mi liquidò con un “Caretta sto marciando”. Quest’anno penso di essermi bruciata il libro più straziante in maggio, Come d’aria di Ada d’Adamo, la storia della scrittrice, ancor giovane madre malata di cancro e di sua figlia, affetta da una grave patologia. La narrazione piena di grazia dei loro corpi esili, sofferenti e dipendenti, del destino di uno quando sarà privo dell’altro, s’intreccia al pulsare sociopolitico di temi come l’aborto terapeutico, il dopo di noi, le barriere non solo architettoniche, attraversati da queste due creature massimamente femmine.

Ricercare lacrime interpersonali, che esulano dai propri dolori, nei giorni in cui gli italiani si dimenano per celebrare l’idea di estate, offre conforto. Tiene saldi alla vita, impedendo a questo nemico, il nuovo caldo, di bruciare la coscienza. Forse la mia è solo una versione alfabetizzata dell’ideale dell’ostrica di verghiana memoria, il “tenace attaccamento” della povera gente allo “scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, la “rassegnazione coraggiosa” all’affanno, quando si è sostenuti da alcuni valori. Forse lo scoglio cui sta attaccata la mia ostrica è il dolore corale, oggi soppiantato dalla sua confusa sorella, la rabbia. 

La rabbia divora se stessa oltre che la mia siesta. Gradi 32, sdraiata sul divano ascolto una voce provenire dalla radio, un dirigente privo di biografia utilizza parole populiste per annientare il concetto di agroecologia. Sento: “tradizione” – mi assopisco pensando che non va bene che persino gli agricoltori abbiano cominciato a starmi sulle palle – “melanzane…”. Zzz. Questo problema dell’essere privi di biografia è penetrato nel mondo dell’arte: artisti bravissimi, privi di biografia. A dover raccontarne la vita dopo i diciotto anni, si elencherebbero le mostre in istituzione; per fortuna che le privazioni infantili spesso corrono in soccorso al discorso biografico, altrimenti costoro sarebbero per la maggior parte grandi professionisti, alla meglio professionisti con vizi. Mi sveglio, qualcheduno su Radio3 parla di Botticelli, ma io ho cominciato a odiare persino Botticelli e pure questo non va affatto bene. Nel mio dormiveglia dittatoriale, sogno di rinchiudere La Nascita di Venere nel deposito degli Uffizi, privando ben tre generazioni di Italiani di quella composizione lassista. L’arte negata è arte politica. Zzz. Un’intervista a un bagnino. Zzz. Il meteo.

Se la temperatura delle estati d’adulta è quella che permette alle lacrime della mia catarsi arrostita di seccarsi sulla pelle, da ragazzina era la temperatura della Resistenza. Al liceo, l’intera classe fuorché la sottoscritta adorava il professore d’italiano. Il prof era borbonico, penso, e dava da sei in su onde poter dire in classe quello che gli pareva. I miei compagni mangiavano la carota, felici di avere un professore così bonario. Questo individuo dell’Italia che fu aveva un programma culturale riassumibile in: Tomasi di Lampedusa, Federico de Roberto, tutti i librettisti d’opera e stop. Di conseguenza la mia scaletta di letture estive doveva compensare le lacune dell’anno scolastico: sotto l’ombrellone si portava Pratolini, Fenoglio, Vittorini, i lenti vagoni dei loro treni, la polvere sulle loro suole. Mi sembra archeologia, l’idea che una ragazzetta veneta litighi su Fontamara con il proprio professore abruzzese, però l’esempio è utile a suggerire l’idea di quanto sia cambiata, almeno per me, la temperatura dell’estate. I venticinque gradi percepiti di allora accompagnavano la mia scaletta estiva di libri utili a conoscere l’Italia magica che mi aveva preceduta, i 35 gradi di oggi accompagnano lo scalone di libri dolenti che aiutano la mia coscienza a rimanere salda, contro ogni canale all-news, contro chi fa spallucce se interrogato sul prelievo dell’acqua per uso agricolo, contro il gelato al pistacchio come unico pasto, contro il mirabolante evento di ritrovarsi un cinghiale nel cassonetto.

ARTICOLO n. 63 / 2023

VUOTI A RENDERE

La temperatura dell’estate

Estate. È una canzone che circola nell’aria fredda dell’inverno. Il brano lo compose Bruno Martino nel 1960, testo di Bruno Brighetti. Titolo, in origine, “Odio l’estate”. Quando Lelio Luttazzi ne fece una parodia, Odio le statue, il verbo, dunque la ripugnanza, venne eliminato. È rimasto nel testo, ha avuto fortuna la melodia, per le versioni meravigliose e dolenti di Chet Baker o di Joao Gilberto. 

Un amore, ovviamente. Estivo e perduto. Con il portoghese virato Brasil ad accentuare il sapore. Un sapore che ciascuno di noi conosce e ritrova, nel freddo di un febbraio, tra il rimpianto e la speranza, perché è quella la stagione, quella la temperatura più densa e colma di memorie. Con ampio, persistente accompagnamento musicale. 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qui. La cerca Paolo Conte, la cerchiamo un po’ tutti. Un grande fotografo scomparso, Carlo Orsi, verso aprile, ogni anno, ripeteva: “dai che ci facciamo un’altra estate”. L’ha ripetuto sino all’ultimo giugno, convinto di farcela, povera stella mia. Diceva: “Eccola, eccola che arriva”. 

Prepariamoci, dunque, perché tutto può accadere in un pomeriggio azzurro, persino troppo azzurro per noi. È una questione banalmente meteorologica che adesso, con la quantità enorme di sciocche chiacchiere sul caldo, che caldo, non se ne può più, viene un po’ maltrattata nella significanza profonda. Il caldo spoglia, spalanca, apre, permette, illumina, autorizza. Cambia il modo di fare, stare e immaginare. Toglie il telo da una moto, mette il grasso sulla catena di una bici, ripristina un guardaroba. Alleggerisce gli abiti, altri pesi perché il momento della prova costume riguarda anche chi del costume se ne sbatte altamente, figuriamoci della prova.

Cuore caldo, testa calda, sangue caldo, calde lacrime. Picchi, comunque. Di passione, di esuberanza, di emozione. Fanno parte del pacchetto, del viaggio, di una obbligatoria, accurata, delirante ipotesi vacanziera. Vanno su i gradi nel termometro, cresce il desiderio. Di cogliere, finalmente, un’occasione mancata, l’estate scorsa, due estati fa…; di progettare escursioni interminabili, visto che sarà interminabile questo tempo nuovo in arrivo. Un regalo da personalizzare, in relazione alla voglia accantonata per mesi, per una vita; all’età, al godimento di un’altra, metti ultima, stagione felice. 

Nel Nord della Scozia o a Samoa puoi andarci solo lì, quando la fantasia circola in un’afa provvidenziale. Le dita che indugiano davanti a un vecchissimo o nuovissimo numero di telefono, ma dài, ma sì. Si farà vivo un figlio lontano, così come un padre, una madre distratta. Attese, progetti. Sbocciano, al pari dei gelsomini. Emanano un profumo che tira, spinge, moltiplica le aspettative. Un colossale Sabato del Villaggio, inaugurato puntualmente, quando la primavera segnala, via meteo, il passaggio. Aprile, maggio, giugno, luglio. Poi viene la domenica, torrida e fastidiosa, a questo punto. Le piante, i fiori, le nuvole, indicano un nuovo transito. Il culmine dura pochi giorni, ore. Colme di ombre, perché ciò che è stato, soprattutto ciò che non è stato, diventa irreparabile. Si accorciano le giornate e si allungano le malinconie. Da domenica, appunto, con appresso, inesorabile il lunedì. 

Scozia? Macché. Salento, una bolgia. Flirt? Ma dài, cosa vuoi? Giacomino? In Scozia, lui sì, con gli amici. Mentre io… beh, io neanche un prete per chiacchierar.

Mica vero, non per tutti. Non per Giacomino o Giulia, o Marianna che hanno il fisico, l’età, la sfrontatezza di attraversarla, l’estate; di sguazzare in questo sole, di amare e farsi amare, di rischiare un dolore, quel dolore lì, assoluto, da cuore caldo e infranto. Di partire davvero, come immaginato, senza tante balle, uno zaino e si va. I bilanci, dopo, casomai. Molto dopo, perché l’adolescenza, la giovinezza, come l’estate, sono infinite.

Dunque, dipende. Dall’anagrafe, dal coraggio. E, magari, dalla consapevolezza di avere a che fare con la temperatura e la stagione del vuoto. Sta qui il baricentro. Nel vuoto, ecco. Che è il compendio stagionale più certo, abbinato ai 30 gradi. Si spopolano i palazzi, le strade, la città. Vanno. Vanno via tutti, ma dove cazzo vanno? In un altro vuoto, protetto da un ombrellone o da una mulattiera, simile al tuo che resti.

Non ha rilevanza alcuna il dove. È la percezione di un’ora da riempire, di un pomeriggio silente, di un caos gioioso che, in definitiva, non ti riguarda affatto. Così, nello spazio soltanto estivo, con un libro tra le mani, una granita di primo mattino, il cellulare spento, non a caso, insomma in uno stallo acustico improvviso e provvidenziale, si spalanca una voragine vagamente prevista certamente straordinaria. Il caldo, allora, diventa un tappeto, uno sfondo, persino un conforto, mentre incappi in un pensiero che in quel vuoto si fa largo e lì resta, come un salvagente sulla superficie mossa del mare. 

È un invito quasi perentorio alla riflessione, a una lentezza rimossa nella ritmica consueta e quotidiana. È un’occasione in forma di domanda. Su te stesso e sul senso del tuo fare. Su un vizio non necessariamente assurdo, su trascuratezze trattate come innocenti sbadataggini. Sospensioni intime, dunque provviste di implacabili specchi. Una vera vigilia, equivalente alla Vigilia di Natale, l’anno che svolta, come ai tempi della scuola. Il momento dei buoni propositi. Sinceri in quanto segreti, azzardati in relazione alla fatica. Di essere e di far finta di essere. Di peccare e di far finta di farla franca. Di tirare dritto quando sarebbe il momento di osservare, accogliere, dare una mano. Meglio, di più, forse, vedremo. Con il caldo che, invece di esaltare, fa sudare, una gnagnera da sfinimento. 

Sono pause mute e sconcertanti. Sono abissi necessari. Istanti, questi sì, nei quali progettare il viaggio, seguendo una mappa solo interiore, da scansionare con ciò che resta della nostra più onesta vitalità. Un caffè, una birra in meno, un’attenzione in più, una sincerità liberata, lo sguardo che passa da se stessi all’altro, quello là, che anche di me avrà avuto, ha di certo bisogno. Piccoli o enormi proponimenti che, comparendo, giustificano e rilanciano, tirano una riga. Sulla sabbia, sul pavimento, sull’anima di chi, la propria anima, in questo caldo stagnante riesce a far volare.

Il pensiero dell’estate, modestamente, per quanto mi riguarda, riporta a pieno schermo il viaggio di Nanni Moretti con la sua Vespa. Caro Diario, il film. Le immagini contengono quella libertà nota ai vespisti, ai motociclisti da agosto in città; l’odore dell’asfalto molle delle strade periferiche, l’abbandono e la solitudine di chi, dentro appartamenti dimessi e bui, dietro tende sfilacciate e verdi da balcone, sopra letti di ospedale, nel silenzio tremendo di un corridoio da penitenziario, fa i conti con un doppio vuoto. Interiore e agostano, assoluto e dimenticato. Per loro, per chi sa cosa lo aspetta, l’estate rappresenta un supplemento di pena, una condanna al nulla spaventosa. Penultimi che diventano ultimi, ultimi che diventano invisibili. Tagliati fuori da ogni condivisione, da ogni percorso euforico, destinato a fallire o meno non importa. 

Il caldo, qui, diventa un tormento che lo scorrere lento dei giorni amplifica. Quale Sabato del Villaggio? Domenica, si spera, in grave ritardo. In desolata attesa del lunedì. Del momento in cui l’estate degli altri, i vuoti irrisori degli altri, le solitudini relative altrui, avranno termine. Con la debole speranza che un qualche proposito buono, elaborato tra una granita e le pagine di un romanzo, in qualche modo li riguardi. 

A piedi, intanto, senza Vespa. Una camicia azzurra, dopo una doccia tiepida. Ogni prospettiva comparsa in primavera si è dissolta, come previsto da un inconscio allenato all’imbroglio. Meglio, bene così. Lo sguardo per aria, lungo facciate di case che il traffico impediva di osservare. Targhe sulle facciate, a ricordare residenti celebri. Parchi senza bambini, giostre deserte, roba da saltare sul camioncino dei pompieri con la certezza di afferrare il codino sospeso, giro gratis, uno via l’altro, cosa tieni aperto a fare?

Macchie di sudore sulla camicia. Ghiaia che scricchiola. Anziani con il Corriere. Anziani con la badante. Badanti annoiate con anziani che leggono il Corriere da tre ore. Il profumo di una crema solare, spuntato non si sa come e perché, forse una babysitter rimasta senza baby. Arriva, piglia e scarica ai Bagni Scogliera. Odore di vernice fresca, cabina appena ridipinta rosso vivo. Il molo per i tuffi. La mia estate migliore è vecchia di cinquant’anni ed è bellissima ancora adesso. Eccola qui. La intravvedo per un attimo di nuovo, mentre perlustro il vuoto di agosto, riempito dai miei vuoti.

ARTICOLO n. 62 / 2023

PER FORTUNA I NERI MUOIONO SOLO D’ESTATE

La temperatura dell’estate

In edicola, tra una bionda con un sorriso di cera e il nuovo numero di una terribile rivista femminile che in regalo offre alle sue lettrici un mazzo di tarocchi dal Negro, c’è il volto tondo e sorridente di un uomo nero. Sulla copertina della rivista, la sua pelle è lucida. Deve essere morto, perché la foto pubblicata è il tipico ritratto del morto. Si tratta di Frederick Akwasi Adofo, quarant’anni. Sotto una didascalia scritta in caratteri cubitali, rossi, parla di lui. Senzatetto. Immigrato. Clochard. Ucciso da due minorenni di cui non si sa molto. Foto sgranata. Forse l’unica. Lui, benvoluto da tutti. Innocuo. Infantilizzato al fine di creare maggiore trasporto emotivo tra la vittima e il pubblico. Se la gente non vede il nero grosso come un bambinone, non capirà che è morto un uomo. Penseranno solo a un extracomunitario. Invece in questo modo è meglio. Più pietà. Più tenerezza. Un grosso, bambino nero di quarant’anni, con i tipici problemi degli immigrati neri adulti, che oramai però, vista la retorica e i tempi che corrono, non bucano più né lo schermo, né i cuori della gente. Tant’è che la sua esistenza, prima della sua cancellazione, era nota solamente ai volontari e gli operatori che lo avevano sostenuto nel suo percorso per l’ottenimento della licenza media, mentre ora il suo caso veniva reso noto a tutto il Paese, come l’ennesima storia di un nero che muore d’estate, ucciso dai bianchi.

E gli assassini? Dei ragazzini abbandonati a loro stessi di appena sedici anni che postano il video di quella atroce violenza sui social. Come se quelle mazzate date a un senzatetto prima di andare a dormire fossero un rito giornaliero di liberazione da una ferocia che viene raccontata come disumana, ma che di umano e comune ha ogni suo singolo pezzetto. E mentre il ventre della società civile si appresta a espellere i resti di questi giovani abortiti, in pochi si chiedono come mai ci sia questa fretta di prendere le distanze da questi giovani Caini, gli assassini dell’Abele nero.

Saranno questi trentasette gradi e mezzo a farmi poco bene, ma leggere quei caratteri accesi di rosso, che parlano di quell’uomo nero, morto di botte nell’androne di un palazzo, mi dà le vertigini. È una storia che conosco. Una storia che quelli come me si aspettano. Perché ce lo aspettiamo sempre, che cose di questo tipo accadano. Il punto è quando, e come. Ma l’epilogo è sempre lo stesso.

Consapevolezza: conosci la tua casa. Conosci ogni sua stanza. Conosci il tetto, e le finestre che ti proteggono dal Mondo di fuori. Conosci anche il tuo Paese. Che è la tua casa nella diaspora. Misura la sua temperatura, calcola il peso specifico di ogni singola parola che utilizzano per categorizzarti ed etichettarti. In TV, per strada, in fila alle Poste, al supermercato, mentre passeggi. Ogni movimento e reazione inconsulta è un segno, un indicazione della temperatura delle cose. E bisogna stare dietro ai dettagli, se si vogliono prevenire i casini.

Era da un po’ che il clima in Italia non faceva tanto schifo. Né freddo, né caldo. Semplicemente duro, asfissiante, soprattutto nebbioso. L’aria stessa che si respira pesa come una marcia militare, i cui passi avanzano pesanti su un asfalto rovente. Lentamente, adagio, tornano i simboli del fascismo, riproposti in una salsa moderna, eppure così terribilmente vecchia. La nuova tolleranza stabilita dal Governo ha un occhio di riguardo e una mano gentile, solo a favore dei violenti e dei conservatori, che vedono in qualsiasi fluttuazione dell’esistenza una minaccia all’integrità del Paese. È importante quindi che si faccia particolare attenzione ai racconti che si fanno delle minoranze, e al modo in cui le giurie popolari che dalle radio e dalla televisione emettono le loro sentenze sul Mondo che verrà, e che vogliono evitare che arrivi. Le persone nere con un po’ di sale in zucca controllano il polso del Paese, con tutti i suoi battiti. E stanno ad aspettare la prossima mossa. Sanno che quando la temperatura sale, la sacca che contiene la rabbia bianca si riempie per esplodere. Per questo la morte dell’uomo nella foto non mi sorprende. Ho un cerchio alla testa, e una sensazione terribilmente familiare, come se stessi rivivendo lo stesso evento, ma con i dettagli differenti.

Il déjà-vu che sto vivendo è forte. Sono già stata qui, in questo luogo della mia anima, dove mi raccolgo per constatare in silenzio che un’altra persona nera è stata uccisa da una persona bianca. Sembra quasi la formula per una delle tante ricette del Caos. Una formula a cui molti sono così abituati da darla per scontata, al punto da non riuscire nemmeno più a vedere tutto quello che c’è intorno alla cancellazione del corpo di una persona povera, nera, che vegeta sulla soglia di un privilegio al quale non ha alcuna possibilità di accesso. Lui resta e muore in un margine invisibile, scavato da concezioni secolari classiste e razziste, che nonostante l’usura e la sfida del tempo arrivano fino a noi del tutto intatte.  

C’è un motivo per cui quella notizia mi risuona così familiare. Tutto mi rimanda alla morte di Alika Ogorchukwu, il cittadino nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo nel 2022, a Civitanova Marche.

Ricordo perfettamente che per commemorare la sua morte venne indetta una manifestazione antirazzista. Io c’ero. Mi recai a Civitanova Marche con un gruppo di amiche e amici. Parlando con la gente di lì, nessuno voleva cedere all’idea del movente razziale. Ciò che noi, in quanto persone razzializzate, vedevamo con una chiarezza più pura del cristallo, per la gente di lì non era altro che lo spettro di illazioni su un presunto razzismo che a Civitanova Marche, come a Pomigliano d’Arco, non esisteva. Era come se fossimo tutti spettatori di una realtà che, nonostante lo spazio abitato insieme, non condividevamo. 

Non solo non credevano ai motivi razziali dietro l’omicidio di Alika Ogorchukwu, ma ciò che forse più li offendeva nel loro onor, era l’idea che tutto il paese reale li avesse etichettati con l’appellativo di razzisti. Civitanova Marche, la città dove l’indifferenza e il razzismo hanno un ucciso un immigrato disabile. L’onta del razzismo, svuotata del suo significato e potere, e quindi ridotta soltanto a una parola triviale e offensiva, è un’accusa che nemmeno i fascisti accettano.

E a distanza di un anno, con una temperatura che arriva a sfiorare i trentasette gradi, ecco che viene ucciso un altro uomo. Questa volta nel Sud Italia, a Pomigliano d’Arco. Anche lui povero, anche lui nero. Espulso dal circuito dell’accoglienza come una ciste infetta arrivata alla fine del suo ciclo vitale e spedito a vivere per strada, su una panchina, senza nessuna possibilità di negoziare con lo Stato i termini della sua marginalità. 

La storia di Frederick Akwasi Adofo, chiamato dalla gente di Pomigliano d’Arco semplicemente Frederick, il senzatetto che non avrebbe fatto male a una mosca nemmeno se avesse voluto, è fatta di elemosina, e chiacchiere coi passanti. Un uomo povero e disoccupato che, escluso dal circuito dell’accoglienza, si era ritrovato a dormire su una panchina. Per via di queste due condizioni, che non è mai bene si accompagnino insieme, era stato più volte vittima di violenze da parte di sconosciuti. Era già successo, ma, per qualche ragione, qualcuno ha pensato non fosse necessario proteggere un uomo il cui corpo e la cui vita, secondo alcuni, non avrebbe valso mai abbastanza da spingere qualcuno a proteggerlo. Frederick valeva soltanto per chi lo amava, ma i singoli che amano altri singoli non sono sufficienti a proteggere persone come lui. Dunque, chi era quest’uomo? E perché mi sembra di vivere un déjà-vu?  

Vorrei urlare al Mondo intero che ho visto quell’uomo nelle mie visioni fatte di ansia quotidiana. Chi sarà il prossimo? Perché ce ne sono stati altri prima di lui. E gli somigliavano nelle linee generali. Uomini neri poveri cancellati. Uomini neri poveri uccisi a mani nude. Uomini neri poveri che spariscono tra le ceneri di ghetti dati alle fiamme dalla Camorra, che storicamente è portatrice di odio razziale, come dimostra la storia della repressione dei ghetti di Rosarno, o della Strage di Castel Volturno del 2008, in cui sette giovani uomini neri vennero giustiziati dalla Camorra con fucili d’assalto.

Filippo Ferlazzo dice qualcosa di emblematico all’indomani dell’arresto per l’omicidio di Ogorchukwu. Non voleva uccidere, ma solamente “dare una lezione” a quell’uomo nero incivile e maleducato, venuto nel suo Paese per chiedergli l’elemosina. Certo, dicono i cittadini di Civitanova Marche, Alika era un po’ insistente, ma non meritava di morire soffocato dalle sue stesse stampelle. Ci vogliono una forza e una volontà di ferro per uccidere un uomo in quel modo. Non ci può essere casualità alcuna in quel tentativo coloniale di raddrizzare il non raddrizzabile, lo straniero, il negro che vuole restare negro e che con la sua negrezza disturba e deturpa le aiuole, infestando con la sua miseria un panorama fatto di luccichii e altre ossessioni piccolo borghesi, che escludono a priori una tale irruzione della realtà, come quella imposta da un corpo nero disabile e fuori dalle fantasie che promette quel profumo di eterno benessere estivo, che solo le località balneari sanno trattenere tra le loro grinfie. Chissà perché la maleducazione e l’inciviltà che tipicamente si trovano in giro non avevano mai scatenato, prima d’allora, l’ira e la ferocia di Ferlazzo. Mia madre mi diceva di vestirmi sempre bene. E di comportarmi come una signorina. Perché ciò che è concesso a un bianco non viene mai concesso a un nero. Non a caso, l’ordine che vigeva nelle colonie conservava in sé una filosofia terrificante, una politica dell’annientamento fisico che si celava dietro l’intento di insegnare ai non-uomini delle colonie come essere uomini veri simili ai bianchi, e non animali. Anche loro non volevano radere al suolo civiltà secolari, ma insegnare a vivere meglio, alla Occidentale. E così, ecco, il regime coloniale crea Uomini e Donne rinati nel Cristo e nella Patria che li sottomette a suon di mazzate e di discriminazioni. E non conta che nel processo di apprendimento qualcuno muoia o resti lesionato a vita dallo zelo dei professori della strada, che di notte ti prendono a calci in faccia o ti soffocano con una stampella. Il tutto sta nel riuscire a sopravvivere a questo brutale processo di apprendimento che è sì violento, ma per i più necessario ad assurgere al nobile scopo di far capire ai selvaggi dalla pelle cupa come funziona la civiltà in Italia e quanto bisogna incassare per diventare dei cittadini italiani. Degli italiani brava gente. 

ARTICOLO n. 61 / 2023

VENTO STRANO

La temperatura dell’estate

Incontro Jinks per le vie del villaggio, mentre scendo per la cena. È un revenant anche lui, come me, ma di solito è qui fuori stagione. Mi dice Nice weather.

Sappiamo entrambi di cosa si tratta: vento caldo e secco da Nord, che sostituisce il meltemi e andrà a calare fino a diventare un alito appena percepibile, con mare piatto a sera, una superficie madreperlacea, irresistibile. Stanotte faremo molto tardi nelle taverne di questa che è una grande spiaggia di sassi con gettate di cemento. Si annullerà la differenza di temperatura tra noi e il mondo circostante. Lo scambio di calore sarà affidato a una traspirazione asciutta, una sublimazione che scosta gli abiti dalla pelle e la rende liscia anche nei punti dove di solito suda.

Qui conoscono questo vento, che da noi non esiste, ma non sanno darne spiegazione meteo: da dove viene? Se attraversa il mare dovrebbe essere umido. Probabilmente è un’aria leggera e calda del tutto normale – ma questa è terra di meltemi forte – che viene lavorata dalla montagna alle spalle del villaggio, ma in modo diverso dal solito. Il grande sperone roccioso là in alto intercetta l’aria veloce di Nord-Ovest, la comprime e la raffredda, gettandola poi in basso a velocità doppia. Ma prima le sottrae l’umidità e la condensa in una nube perenne, che si straccia lontano sul mare. Stasera la nube non c’è, il cielo del crepuscolo è chiarissimo e intensamente viola, la linea dell’orizzonte tende a scomparire, ad Est il visibile è un’unica manifestazione cromatica, l’acqua è come plastificata, il villaggio è silenzioso. Ci incontriamo al Blue per un Campari surdimensionato con ghiaccio, commentiamo il tempo, il calore, il mare. Lo facciamo a voce bassa, estasiati. Sappiamo che se il tempo non cambia domani sarà dura, ma questo momento, questa notte, sono nostri. 

Non c’è niente di paragonabile a questo su tutta la superficie del pianeta, dice qualcuno che è qui, ma potrebbe essere in un altro caffè, o già sotto la pergola di una taverna a mangiare le solite cose. Il suo essere qui in questo momento è casuale come lo è per me. Ci si conosce, ci si incontra, si condivide l’attaccamento al luogo, di cui si dicono e ridicono le stesse cose da anni, da decenni, con la stessa ammirazione. Ma ciò che ci fa tornare qui non è la bellezza dei luoghi, la trasparenza dell’acqua, la gentilezza della gente del posto, è il vento.  

Veniamo qui per il vento, ma non per il vento di stasera. Torniamo per il meltemi, per stare nel meltemi. In casa col meltemi, sulla riva col meltemi, al caffè sotto le raffiche fredde e asciutte di meltemi. È il vento che si incunea nella valle, accelera, rinfresca e ci salva dal caldo, impedisce di volare alle mosche succhiasangue, rende impraticabile il volo alle zanzare, in spiaggia ci sottrae una buona parte del calore solare, ci romba per ore nelle orecchie finché non ci avvolgiamo una pezza attorno al capo, come beduini. 

Questa è la norma del meltemi, ma stasera è tutto diverso e strano e misteriosamente più lieto e silenzioso. Mi piace il Campari liscio sul ghiaccio con lattina di soda a parte da aggiungere a piacere, dose si diceva abbondante, e una conca di arachidi tostate: dopo qualche minuto comincia ad alterarsi la percezione delle cose. L’alcol per chi lo regge poco è una specie di sostanza psicotropa, rallenta la percezione del tempo. O forse per tutti è così. Per me è certamente così. Bevo da un po’ e il fatto che attorno a me ci siano persone non altera la coscienza di cosa sia stasera la sensazione del mare, la sua continua presenza nella mia mente, il piacere di averlo piatto ai miei piedi, senza un’increspatura, senza la più piccola onda di risacca. L’aria si muove lentamente attorno a noi e le parole, invece di volare via col meltemi, per una volta restano nelle vicinanze, immobili nell’aria per qualche istante, come bolle di sapone: forse per questo parliamo poco, a bassa voce. 

Osservare l’acqua, per ore, giorni, mesi interi è il motivo per cui sono qui, ma è racchiuso in una capsula motivazionale più grande: sono qui perché voglio essere qui, e voglio essere qui per essere qui. Difficile costruire qualcosa di logico attorno alla questione dell’essere qui, anzi del tornare, dell’estenuarsi qui per mesi interi, perso nell’idea di isola e nella prassi insulare, che qui significa stare su un grosso scoglio lontano, sul limitare Sud dell’Egeo, prima del grande intervallo d’acqua che separa la civiltà europea da quella medio-orientale. Qui il meltemi arriva di slancio, in accelerazione lungo un arco che parte verso Sud-Ovest dalle terre di Tessaglia e arriva qui fortissimo per perdersi non so dove. È questo vento fresco il vero confine, il muro d’aria che d’estate ci separa dall’Egitto. È qualcosa di cristallino, di minerale, per l’elargizione generosa di limpidezza, che è quando le ombre si fanno nette e i colori si fanno vividi e i contorni delle cose si definiscono al di là delle nostre stesse capacità di rilevarne la definizione: da qui lo spostamento del visibile verso una dimensione metafisica, potendola noi definire tale perché il concetto fu già descritto e indagato a fondo già molti anni fa e non possiamo fare altro che riconoscerlo e riprenderlo.  

Il sole se n’andato dietro la montagna, niente striature di vento sull’acqua. Si percepiscono lontano strani fermenti, come se il mare frizzasse di qualcosa. Potrebbero essere pesci o pesciolini se non fosse che anche questi fondali sono ormai quasi deserti, ma l’idea che in qualche punto l’acqua ancora brulichi di vita – com’era un tempo, certo, ma qui quasi tutto è cambiato da com’era un tempo, il villaggio non è rimasto fermo al 1975, il mare ha sofferto e seguita a soffrire, le case tradizionali sono state sostituite da palazzine a tre, quattro piani della bruttezza incerta che si produce quando ci si inoltra nel territorio di un linguaggio sconosciuto, in questo caso del costruire alla moderna. L’idea che ci sia ancora vita è confortante in sé e, se il mare qui e là frigge, non è del tutto infondata.

Indico l’area di fermento a un amico seduto lì vicino, esperto subacqueo del luogo. 

Kalamares, dice. 

Kalamares. È qualcosa. Anzi, considerata l’intelligenza dei molluschi, È qualcuno, dico a voce bassa. Nessuno degli astanti sembra rilevare l’osservazione, poi un revenant incallito dice che l’altra notte, sotto la luce gialla del molo, tra la prua di un caicco ormeggiato e i ciottoli della spiaggia, ha visto ragazzini pescare calamari. 

Per il calamaro la luce notturna non è resistibile: in certi giorni di fine estate, quando si radunano lungo la scogliera tra Opsi e Forokli, si va a prenderli la notte con le polpare fosforescenti. Quando li tiri in barca non li vedi. O forse solo io non li vedo per via dei bastoncelli delle mia retina che non lavorano più come si deve: sento solo fischi e sospiri e strani schiocchi da organismo alieno, che è mentre mi spruzza addosso l’inchiostro senza che me ne accorga. Il nero resta lì impresso sui bermuda cargo per tutta l’estate, probabilmente per sempre, come un marchio. 

Oggi all’ombra in terrazzo, il caldo fortissimo rendeva i pastelli a olio meno gestibili, cioè più morbidi, pastosi, con tendenza a spezzarsi, e però più efficaci, dove per efficacia intendo qualcosa di non definibile, un fattore che mi dà gusto nello stenderli e che contribuisce al mistero del perché io faccia quelle carte, dovendo trascinarmi fino a qui i materiali essenziali per farne, a meno che invece per due interi mesi nemmeno li tocchi, com’è accaduto due anni fa, che scrivevo solamente, spendevo l’intero mattino alla stesura di testi di cui non ricordo nulla e smettevo solo quando ero fisicamente e mentalmente stanco e mi mettevo a dormire verso l’una del pomeriggio per poi svegliarmi alle due, andare a mangiare qualcosa e a nuotare nell’acqua fredda. Penso che questi siano i sonni più belli della mia vita. E anche stanotte, quando dovrò spalancare le imposte e dormire completamente nudo, svegliandomi alla luce a alla carezza di freddo dell’alba, penserò che questo tempo mi regala sonni indimenticabili e che dormire è la cosa più bella che c’è.

Ma non escludo che verso le tre, le quattro del mattino potrei svegliarmi in un bagno di sudore e di angoscia pura – cioè priva di cause che non siano l’ignoto che si nasconde nel futuro – e che potrei trascinarmi fino al bagno e, lì mentre piscio, potrei vedere il rosso violento della prima alba dal finestrino con retina anti-insetti e non escludo di uscire sul terrazzo a scambiare calore con l’aria fresca circolante all’esterno. Non escludo poi di tornare e finire il lavoro del sonno, cioè di stare il più possibile disconnesso dal reale, senza riuscire a dissociarmi dalla cattiva abitudine del mio inconscio di produrre brutte situazioni come perdere una nave – quindi un aereo, quindi un ritorno a casa, un levarmi da qui, da questa ipnosi – mentre sto facendo di tutto per perderla, perché non faccio la valigia in tempo. Nella realtà ho visto una persona fare questa cosa per ben due volte, con due navi diverse. Forse viene tutto da lì. Correva giù verso il porto trascinando il trolley mentre la Prevelis alzava la rampa d’imbarco e cominciava a dare motore per portarsi sulle ancore e poi prendere il largo: qui siamo esperti osservatori di manovre, riconosciamo il capitano dallo stile diverso, più elegante/meno elegante, con cui viene eseguito l’attracco. 

Ho comprato guanti sottili di gomma per maneggiare i colori senza dover usare solventi per lavarmi le mani: gestire il rosso è il mio problema, ma naturalmente non è il solo, l’altro problema è la profondità del nero, che è sempre insoddisfacente. In principio è l’impulso quasi irresistibile a stendere un rettangolo rosso usando il pastello di piatto. Il caldo mi aiuta, anzi mi induce a farlo. Tutto il resto del lavoro sta nel cercare di dare al rettangolo il giusto non-senso, accostandolo ad altri oggetti cromatici di cui è necessario decidere sul momento il colore e le eventuali sfumature. Stamane il sudore mi colava lungo la schiena, mi gocciava dalla punta del naso sul tavolo di lavoro esterno che uso per fare le carte. Finivo di nuovo a letto accettando la vita e tutto ciò che mi circondava, i miei anni e le malattie nascoste, il caldo benedetto che ci avvolge e che anche stanotte mi farà fare molto tardi su una sdraio della spiaggia, musica nelle cuffie, niente da dire, da pensare, solo guardare il mare così piatto, l’impercettibile risacca, una resa plastica come rotolo che si svolge e si riavvolge su se stesso, senza onda, senza frangente, solo fruscio di sassolini. Questo vento debolissimo, inesistente, eppure presente, ha aumentato l’internità della grande camera d’acqua tra Thalassopunta e Capo Agrea, rendendo il golfo quasi una cosa intima, segreta, dove noi ritornanti stanotte ci sentiamo al sicuro. Più tardi andrò in spiaggia. 

ARTICOLO n. 60 / 2023

MALENVIRNE

La temperatura dell’estate

Il prisma ottagonale visto dall’alto sembra un lascito alieno, fantascientifico. Sembrerebbe quasi un lontano parente del monolite di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick se non fosse per la sua quasi totale trasparenza.

Lo spazio in cui è inserito è antitetico rispetto alla sua futuristica figura eppure nessun elemento sembra fuori luogo.

Le otto facce specchiate della struttura, alta circa tre metri, frammentano il riflesso delle pareti del cortile Maqueda di Palazzo dei Normanni rendendo la solenne dimora di Federico II meno austera, più docile, quasi tenera agli occhi del pubblico.

150-93 VIII è l’ultima opera di Edoardo Dionea Cicconi, artista romano che dialoga con il passato e il futuro, con la scienza e la fotografia, nel tentativo di trovare nuove espressioni comunicative che rendano il lascito della tradizione meno polveroso e pesante e soprattutto meno rigido di quanto a oggi non sia.

Il prisma ottagonale – il cui nome in codice altro non è che la distanza tra Terra e Sole –, i cui raggi vengono assorbiti dalle pareti della struttura durante il giorno, di notte diventa trasparente e cangiante, senza però mai smettere di dialogare con e riflettere la staticità dell’ambiente che lo circonda. Il prisma è un elemento che balza innegabilmente all’occhio dei passanti: il cortile in cui è inserito, il Maqueda, è un piccolo gioiello interamente porticato e circondato da due ordini di logge rinascimentali che sembra essere fermo al ‘600.

La dicotomia che prende vita nello spazio ristretto del cortile è un bizzarro quanto affascinante fenomeno, perfetta metafora dello stato dell’arte.

Ho spesso pensato, osservando l’opera dell’artista – in senso lato: il dialogo tra passato e presente, tra tempo e spazio è una costante del lavoro d’ingegno di Cicconi -, a quanto la luminosità riflettente delle superfici da lui spesso utilizzate nelle installazioni sia un perfetto specchio – pardonne-moi, non era voluta – dello stato della cultura italiana.

Nello specifico, il prisma ottagonale dell’opera di Cicconi in esposizione a Palermo fino a fine agosto mi ha dato da pensare allo stato di salute dell’editoria italiana, ancora tanto, troppo incapace di far dialogare passato e presente e tantomeno presente e futuro.

E dal prisma al centro del cortile Maqueda del Palazzo dei Normanni di Palermo voglio proprio partire per provare a spiegare quanto l’editoria non sia in grado di fare da ponte tra generazioni, spazi e soprattutto tempi. Cosa che invece l’arte contemporanea, grazie al lavoro di artisti e fondazioni, musei e collettivi, curatori e collezionisti sta invece riuscendo a smuovere.

L’arte sembra stare bene.

Lo stato di salute non è invece dei migliori, qui tra gli scaffali dei libri.

Se penso alla temperatura dell’editoria italiana di oggi non penso di sicuro a un organismo in salute: febbricola, segni di raffreddamento, congestione e nasi arrossati sono i sintomi che mi trovo spesso a osservare dal mio angolo di scrittrice.

Un grosso cortile tiepido, quello dell’editoria, in cui il peso del passato si fa sempre maggiore più il tempo progredisce, in modo tragicomico e inversamente proporzionale. 

Passato e presente mal dialogano nel cortile dell’editoria, perché nessuno lascia mai volentieri le proprie poltrone e le giovani voci che vorrebbero avvicinarsi alla narrativa vedono poche porte aperte, anticipi da fame e contratti davvero miserabili.

Ma questo braccio di ferro sta rendendo l’industria statica e anacronistica, perché da un lato le case editrici continuano a proporre a cadenza regolare i soliti nomi, dall’altro il pubblico chiede evidentemente e a gran voce linguaggi nuovi. 

E qui si crea un bizzarro cortocircuito, tutto all’italiana perché, ehi, oltralpe se la passano un po’ meglio.

Se all’estero nascono infatti progetti interessanti e innovativi, collettivi come 4 Brown Girls Who Write – fondato a Londra da Roshni Goyate, Sharan Hunjan, Sheena Patel e Sunnah Khan – e associazioni di scrittori e scrittrici under 40 in grado di rivoluzionare le regole del gioco editoriale solleticando la curiosità delle case editrici più prestigiose e dando vita a veri e propri fenomeni under 30, qui in Italia le cose non vanno ancora in modo così spedito. Anzi.

I grossi nomi su cui vengono ancora oggi fatti più investimenti sono i mostri sacri contemporanei, quelli che hanno venduto tantissimo – generalmente tutti maschi bianchi etero over 45 che vanno fortissimo sotto Natale e nei dibattiti televisivi in cui viene chiesto loro quanto siano malati questi tempi – ma che secondo GfK – che osservo avidamente da un paio d’anni – non vendono affatto come dovrebbero, o peggio: come le case editrici si aspetterebbero, visti gli anticipi da capogiro che circolano intorno ai soliti nomi a discapito dei nuovi arrivati, che per 200 pagine di libro prendono tre zeri in meno per poi, in alcuni casi, vendere pure di più.

Il calo delle vendite dei soliti colossi non è però stato improvviso: è un procedimento in atto da qualche tempo, era prevedibile, intuibile e quindi forse arrestabile. Ma ciò che mi interessa di questo flop dei soliti noti (per alcuni è stato davvero un flop, non me ne vogliate, le aspettative erano troppo alte per non essere disattese in pieno ricambio generazionale e rinnovata crisi economica e del settore) è lo spostamento di vendite verso altri lidi, altri temi, altri linguaggi, altre età.

Partiamo da un fatto incontrovertibile: i libri più venduti in Italia sono i fumetti. Zerocalcare e gli anime giapponesi dominano le classifiche dieci mesi all’anno, con vendite da capogiro – nessuno, vi giuro, nessuno, vende così tanto -, e incassi da record. Questo è indicativo di due fattori: il pubblico divora linguaggi trasversali (soprattutto se trasmessi da colossi di talento capaci come pochissimi altri di analizzare con lucidità e universalità il mondo che ci circonda, vedi Zerocalcare) e il pubblico che ne fruisce è giovane.

La fascia che sta più influenzando il mercato è infatti quella “giovane” (e per giovane intendo pure noi millennial anche se dovremmo non esser più considerati di primo pelo ma si sa, qui da noi nel bel paese si è bambocci o “giovani artisti” fino alla decima pubblicazione o al terzo rinnovo della patente) e lo si vede benissimo da alcuni indicatori, di cui vi riporto un paio di esempi:

Il successo di Spatriati, vincitore dello scorso Strega e che parla proprio di millennial; il grosso riscontro di pubblico avuto da quel piccolo capolavoro candidato e ahimè non scelto per la cinquina dello Strega che è Le Perfezioni di Vincenzo Latronico, sempre incentrato sui millennial; la voce nuova, brillante, vibrante di Beatrice Salvioni capace, con il suo esordio e già bestseller La Malnata, di ribaltare le regole del gioco editoriale e infilarsi come presenza stabile nei GfK degli ultimi mesi senza mai abbandonare i primi venti posti della classifica nella narrativa italiana, tenendo testa ad Ammaniti; il bellissimo percorso de I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni, che dopo il Campiello ha continuato un percorso fruttuosissimo e a mio avviso forse poco spinto da chi avrebbe dovuto continuare a spingerlo, così come si fa e confà ai capolavori. Il caso Erin Doom, che non devo neanche spiegarvi; lo spazio tra i classici che ha indubbiamente conquistato Febbre di Jonathan Bazzi; le Ragazze perbene di Olga Campofreda così come L’anima della festa di Tea Hacic-Vlahovic. Anche dall’estero bramiamo novità: la già citata Patel, la svedese Johanne Lykke Holm, il colosso che è ormai Sally Rooney, Pajtim Statovci, Melissa Febos e perfino Joel Dicker sono libri divorati da GenZ e millennial, che riempiono bookclub e pagine social, classifiche e booktok da migliaia di visualizzazioni.

Quelli citati non sono solo libri o nomi di scrittori. Sono indicatori di qualcosa che si sta smuovendo e richiede autori e autrici più giovani, nomi nuovi, stili nuovi, racconti nuovi di generazioni giovani, con scenari differenti da quelli a cui la narrativa italiana ci ha abituati negli ultimi anni.

Precari, inquieti, giovani, complessi, sboccati, reali, scorretti, disillusi, stanchi, animaleschi, Malenvirne: questo vuole il pubblico ma soprattutto questo vuole raccontare una nuova editoria, che cerca di farsi spazio riflettendo sulle sue pareti specchiate un cortile composto da una società desueta, la cui austerità ha ormai stancato chi crea e perfino chi fruisce. 

Ma il dialogo generazionale che dovrebbe avvenire in questo immaginario cortile non c’è ancora e questo è un peccato, perché spesso i giovani che vengono inseriti nei circuiti editoriali sono costretti a esprimersi come gli uomini di mezza età che per gli ultimi anni hanno dominato incontrastati le classifiche, in una brutta operazione di snaturamento che ha come effetto quello di creare orde di radical chic da salotto a unico servizio delle vecchie leve e che di innovativo ormai non hanno niente. 

Questo avviene perché i mentori non sanno più lasciar andare gli allievi e replicano schemi che sono stati di successo sì, ma qualche anno fa. In un altro tempo. E nell’era del digitale il tempo si accorcia sempre di più, allargando però gli orizzonti e le fasce di pubblico, che sono sempre più variegate e che sentono sempre più bisogno di nuove rappresentazioni.

Comprendo che i nuovi ritmi così come le nuove voci possano spaventare la vecchia leva, ma qui ci torna utile riprendere in mano l’analisi dell’opera di Cicconi.

Il presente, il nostro prisma, deve necessariamente dialogare con il futuro. E per farlo non può prescindere dall’ambiente in cui è inserito, il meraviglioso cortile Rinascimentale di cui sopra.

L’opera contemporanea si specchia nel passato e questo è indubbio (Zannoni, Salvioni, Bazzi hanno evidentemente masticato Orwell, Ferrante e Tondelli), ma per diventare altro, non una replica. Non un figlio minore.

E questo non sarebbe neanche stato possibile, perché anche nello spazio editoriale, così come in qualsiasi altro spazio umano, fermare il tempo è contro natura. 

E con gli anni e le generazioni che passano arrivano nuovi linguaggi, nuovi libertini, nuovi modi di discutere e raccontare le storie che acchiappano un pubblico curioso, annoiato da decenni di staticità in cui non si riconosce più (o in cui non si è mai riconosciuto) che alla fine della fiera ha arricchito pochi, uniformato molti, soddisfatto alcuni.

Il dialogo è un esercizio costante di ascolto e presa di parola.

In questo senso, l’editoria potrebbe davvero apprendere dall’arte contemporanea, aprendosi a temi attuali, voci nuove, linguaggi freschi e offrendo delle garanzie economiche maggiori, ridistribuite, eque e gratificanti per nuovi autori e autrici, che saranno invogliati a rimanere nel sistema editoriale senza sentirsene esclusi o senza essere costretti a settecento part-time e a tour di presentazione inesistenti. 

La temperatura dell’editoria è tiepida e questo può dire due cose: o che qualcosa si sta tristemente raffreddando o che, finalmente, ci stiamo avvicinando all’ebollizione.

Spero nella seconda, altrimenti la crisi forse ce la meritiamo davvero tutta.

ARTICOLO n. 59 / 2023

IL GIARDINO DEI CILIEGI IPOTECATO

La temperatura dell’estate

24 giugno 1993. L’estate è appena iniziata, ma a Firenze già si suda. Qui è sempre così: estati torride e inverni intollerabili, e tutto perché ci sono ancora queste antiche convenzioni chiamate “stagioni”, che agli ambientalisti ricordano un mondo migliore. E tutto sommato anche a me, ma solo perché mi fanno tornare in mente Four Seasons of Love di Donna Summer.

La gente passeggia per strada e ammazza il tempo in attesa dei fuochi d’artificio. Oggi è la festa di san Giovanni Battista, patrono locale e simbolo di rettitudine morale e correttezza politica. In una città chiusa come questa le occasioni di mondanità scarseggiano e, pur di avere una scusa buona per festeggiare, gli tocca riesumare la leggenda di un povero santo fatto decapitare per un capriccio di Salomè, la più grande socialite della Giordania.

Sono invitato a una festa in terrazza, in un palazzo a Oltrarno. La padrona di casa è una discendente di Machiavelli, ma l’astuzia politica evocata da quel cognome non è che un ricordo: Firenze non è più un crocevia di intrighi internazionali, ma un dormitorio per ricchi americani che vogliono vedere quel che resta della città che ha inventato gli interessi bancari.

Avrei dovuto vestirmi più leggero, questa camicia rosa – una Vivienne Westwood dal colletto largo anni Settanta – comincia a pesarmi. Ho appena sedici anni, ma mi sento già come uno dei personaggi del Giardino dei ciliegi di Čechov, un aristocratico decaduto e costretto a ipotecare l’ultimo pezzetto di terra che gli dà gioia. Ho la sensazione che la mia riserva di serenità sia rinchiusa in un passato idealizzato e inesistente, un periodo aureo in cui – passato l’inverno – riuscivo ancora a trovare conforto nell’arrivo della primavera e dell’estate, quando potevo raccogliere le mie simboliche ciliegie, rinascere e trovare sprazzi di felicità.

Non è necessario grande intuito per capire che sono gay: il primo paio di scarpe in vernice con tacco a spillo l’avevo comprato a Londra a quattordici anni e a quindici, a Parigi, avevo preso delle zeppe argentate e una pelliccia ecologica (solo perché non potevo permettermi lo zibellino). All’estero non mi faccio problemi a dichiarare la mia omosessualità, e durante le mie estati in Sardegna parlo addirittura di me al femminile. “Sono pronta per la prima colazione” dico ogni giorno al mio risveglio, verso le tre del pomeriggio. Perché su quell’isola mi sento più libero? Forse perché lì fa più fresco e posso sfoggiare i frutti del mio shopping, raccolti in giro per mercatini nei cupi mesi invernali.

Il resto dell’anno e nel resto d’Italia, invece, vivo da omosessuale non dichiarato. Non ho fatto coming out neanche con la mia famiglia, anche se loro – avendo fatto le scuole dell’obbligo – hanno già capito tutto. Non mi chiedono niente solo per eccesso di discrezione. Temono che una parola fuori posto possa frantumare come un cristallo di Boemia il mio cuore adolescente.

Ma chi voglio prendere in giro? Guarda che camicia che ho! Se avessi un triangolo rosa cucito addosso, darei meno nell’occhio. Eppure, niente, proprio non riesco a dirlo, non per codardia ma perché mi sono convinto che devo aspettare il traguardo formale della maggiore età. Come dicono tutti: “Quando avrai diciott’anni potrai fare quello che vorrai”. Mi sono illuso che in quel preciso istante, un attimo dopo aver soffiato sulle candeline, potrò finalmente pronunciare un liberatorio: “Sono frocio”. Ma fino a quel momento, niente. Dio solo sa cosa potrebbe succedere se lo dicessi prima. E per Dio intendo le forze dell’ordine.

Arrivato alla festa, scopro con piacere che si tratta di una di quelle rare circostanze in cui gli invitati non sono una cricca compatta. Delle ottanta persone presenti, infatti, ne conosco giusto una quarantina. Per evitare la noia, volteggio tra la gente con la grazia di uno Jury Chechi, schivando gli sguardi dei soliti noti, fino a quando vengo intercettato dalla padrona di casa.

“La vedi quella?” mi fa, indicando timidamente una splendida signora un po’ sperduta. “È Barbara Hershey”.

Sulle prime il nome non mi dice un granché. So che è un’attrice importante, ma non sono così vecchio da sapere che nel 1973, quando aveva venticinque anni, Barbara è stata una pioniera dell’allattamento in diretta TV. Lo ha fatto davanti alle telecamere del talk show di Dick Cavett (visibilmente inorridito), perché non sopportava di sentire Free, suo figlio di otto mesi, che piangeva dietro le quinte. Né sono abbastanza fricchettone da sapere che nel 1969 aveva scelto di farsi chiamare Barbara Seagull, in onore di un gabbiano morto durante le riprese di Last Summer. Ci tengo a precisare che il film in questione non fu girato a Ostia, come certe opere di Sergio Citti, altrimenti al posto del gabbiano morto ci sarebbe stato un volatile molto più casalingo, come il pollo di Herzog in Stroszek, e Barbara Chicken avrebbe avuto una carriera alla David Byrne, tutta incentrata sulla poetica del quotidiano.

“Fammi un favore” mi chiede l’erede Machiavelli, “parlaci un po’ te che sai bene l’inglese, sennò resta tutta sola…”

Che cosa potrà mai dire un sedicenne a una signora over40 con un brillante (e difficile) curriculum hollywoodiano alle spalle?

“Ehi! Ma tu sei quella che muore di cancro in Spiagge?”

Non è il modo migliore per attaccare bottone, ma devo pur dirle qualcosa e Spiagge è l’unico film in cui sono certo di averla vista, una sob story per famiglie dove lei muore e lascia i figli all’amica Bette Midler, un film sull’amicizia tra donne ricche. Nel 1993 non è esattamente il mio genere. Barbara sorride e, chiacchierando, mi fa capire che ha fatto molto di più. Ha lavorato con Peter O’Toole, Carrie Fisher, Sally Field, Shelley Winters, Willem Dafoe, Harvey Keitel, David Bowie, Gene Hackman, Michael Caine, Sam Shepard, Robert Redford, Robert Duvall, Glenn Close, Dennis Hopper… e, soprattutto, è stata diretta due volte da Martin Scorsese. La prima nel 1972 in America 1929, un piccolo film prodotto da Roger Corman grazie al quale il semi-esordiente Scorsese si fa notare dalla critica americana. La seconda nel 1988 nell’Ultima tentazione di Cristo, uno caso cinematografico internazionale.

L’ultima tentazione di Cristo?” Non ci posso credere. “Io venero Scorsese, ma quel film ha fatto talmente incazzare i cattolici che qui in Italia non è riuscito a vederlo quasi nessuno!”

“Sai, sono stata io a passare a Marty il romanzo di Nikos Kazantzakis”, mi dice. “Gliel’avevo dato sul set di America 1929, gli ci sono voluti sedici anni per trovare i soldi e il coraggio per ricavarci un film. Non hai idea delle cose orribili che hanno scritto su di me…”.

E comincia a raccontarmi di quanto sia stata dura per lei affrontare il bigottismo degli americani, che non le hanno mai perdonato la sua giovinezza hippie, la lunga esperienza da madre single, lo stile di vita indipendente, il ritocco alle labbra (all’epoca una cosa inaudita)* e il suo ruolo di Maria Maddalena in un film maledetto come L’ultima tentazione di Cristo.

Barbara non è il tipo di donna che si guadagna immediatamente l’ammirazione di un sedicenne da cabaret come il sottoscritto, ma non sa di avere un asso nella manica.

“Poi c’è un regista che vorrebbe tanto mettermi nel suo prossimo film… ma è un ruolo po’ troppo rischioso per me.”
“E chi sarebbe?” le chiedo, mentre le mie antenne vibrano sovraeccitate.
“Sono anni che continua a mandarmi questo copione, Cecil B. Demented, si chiama John Waters…”
“John Waters? Ma è il mio eroe!”
“Ah sì? Allora quando torno a casa ti faccio mandare il copione”.

Non ci crederete, ma Barbara avrebbe mantenuto la promessa. Il copione di Cecil B. Demented, che sarebbe stato realizzato solo molti anni dopo, nel 2000, con Melanie Griffith nel ruolo che Waters aveva pensato per Barbara, è ancora nascosto da qualche parte in casa mia. Ricordo che sfogliandolo mi sono soffermato su una sua annotazione: a un certo punto, nelle note di regia, c’è scritto che uno dei personaggi fa “pocket pool” e Barbara ha appuntato a matita “che vuol dire?”. Questa anima innocente non sapeva che vuol dire stuzzicarsi il cazzo attraverso la tasca dei pantaloni.

Per quanto io adori Waters, uno dei registi più divertenti della storia del cinema, capisco la titubanza di Barbara: dopo la gogna mediatica subita per il suo ruolo di Maria Maddalena, è comprensibilmente sul chi vive e lavorare con il più scandaloso dei filmmaker americani non sarebbe una mossa molto astuta. In quella fase così delicata della sua vita, Barbara non può permettersi il lusso di fare una follia come Nicole Kidman con Lars von Trier: le sue uniche preoccupazioni sono rimettersi in piedi, riconquistare la sua privacy, riprendersi la sua carriera di attrice e la sua quotidianità. È una persona pratica, concentrata sul suo lavoro fin da quando aveva diciassette anni. È bellissima, certo, ma non è una mezza calza e non bada molto all’apparenza. Quando viaggia, mi confessa, si porta dietro solo vestiti che non necessitano di essere stirati. Forse perché il ferro da stiro evoca un feudale codazzo di servette e Barbara, invece, ama viaggiare leggera. Vent’anni dopo capirò di somigliare più a Donatella Versace, che per un weekend si porta dietro l’intero guardaroba, un arsenale degno di una vera Iron Man della moda, ma in quel momento mi sento in profonda sintonia con Barbara. Io, un sedicenne “eterosessuale”, convinto di essere schiacciato dal peso del mondo, mi illudo di capire il suo dolore, l’ostracismo subito da Hollywood durante la prima fase della sua carriera (dal 1965 ai primi Ottanta) e la tempesta di fango, insulti e lettere minatorie che l’aveva travolta all’indomani dell’Ultima tentazione di Cristo. Da quando era poco più che una ragazzina, ogni aspetto della sua vita privata è stato gettato in pasto al pubblico.

Qualcosa mi dice che i miei (inesistenti) problemi sono paragonabili a quelli della donna che, prima dell’avvento di Facebook, ha ricevuto valanghe di minacce di morte da ogni angolo del pianeta. Da drama queen quale sono, mi sento capito da questa donna che ne ha davvero passate di tutti i colori: non poteva mettere piede fuori di casa e c’era sempre qualcuno che andava a rovistare nei suoi bidoni della spazzatura. È come se su quella terrazza, sotto il cielo appesantito dal caldo, ci fossimo solo noi due. Sarà che stiamo parlando in inglese e quindi posso scordarmi di essere in Italia, sarà che tutti – come la Blanche DuBois di Tennessee Williams – confidiamo nella gentilezza degli sconosciuti, sarà che anche io voglio contribuire alla conversazione ingigantendo ad arte qualche mio mini-dramma adolescenziale, fatto sta che non riesco a trattenermi. E glielo dico.

“Sai, Barbara, io sono gay”.

È la prima volta che lo dico a qualcuno, qui in Italia. E glielo confesso abbassando la voce, riducendola a un tono circospetto, come se la stessi mettendo a parte di chissà quale segreto di Stato. Come se la mia camicia non avesse già svelato il mio “segreto” prima ancora che aprissi bocca.

Barbara mi sorride, mi rassicura. Dice che è normale aver paura di venire allo scoperto, a prescindere da quale sia il tuo segreto, perché nel momento in cui ti esponi devi essere pronto al peggio. “Soprattutto se finirai a lavorare nello showbusiness” mi dice, dandomi una dritta fondamentale per quello che diventerà il mio mestiere. “In questo giro le persone sono incattivite e disilluse, ti vogliono male anche quando le aiuti, perché credono che tu le abbia aiutate solo per poi tenerle in pugno”. Ma per fortuna non siamo mai soli al mondo, mi rassicura: c’è sempre qualcuno in cui riconoscersi, qualcuno che capisce le tue paure, e non perché le ha superate, ma perché come te non può fare altro che affrontarle.

Siamo diversi, Barbara e io, ma all’ombra delle sue parole posso trovare riparo e sentirmi felice, anche solo per un attimo, con la consapevolezza che in futuro dovrò contare su altre persone come lei. È una sensazione calda, disarmante, un assaggio di cameratismo che mi ottunde i sensi. Sono le dieci e mezza, i fuochi d’artificio si arrampicano in cielo, ma io sento solo piccoli scoppi lontani. La terrazza si anima, gli invitati alzano lo sguardo e fanno “Oooh…”, mentre il sorriso di Barbara si perde nella mischia.            Qualche ora dopo, tornando a casa, l’adrenalina del coming out comincia a scemare. Mi sento di nuovo pesante, come sempre. Non c’è leggerezza per chi ha ipotecato il suo giardino dei ciliegi.


* Sette anni dopo l’incontro con Barbara, forse subconsciamente in suo onore, mi sono fatto un piccolo ritocco alle labbra.

ARTICOLO n. 58 / 2023

GIANNI CELATI: RIPARTIRE

Trilogia Celatiana. Diperdersi

Joseph Cambpell ha detto in un’intervista che il trickster è «un diavolo, un pazzo, e il creatore del mondo». Ci sono tricksters in tutte le mitologie, dalla Grecia antica alla tradizione vedica, ma il termine è stato coniato negli anni Cinquanta dall’antropologo Paul Radin per parlare dei miti dei nativi americani, e non è forse un caso che la vita itinerante di Gianni Celati parta proprio dagli Stati Uniti, dove arriva per la prima volta nel 1971 per insegnare alla Cornell University a Ithaca. È negli Stati Uniti che scrive Le avventure di Guizzardi ed è dagli Stati Uniti che comincia il suo “esercizio autobiografico in 2000 battute” («Parte per gli U.S.A. – Due anni alla Cornell University – Vita nel falso, tutto per darla a bere agli altri», eccetera). Negli Usa Celati torna fino al 2000. L’anno dopo, in Cinema naturale, pubblica un racconto intitolato “Come sono sbarcato in America” che è la storia in terza persona di un personaggio che si chiama Giovanni, arriva negli Stati Uniti per insegnare e gliene capitano un po’ di tutti i colori, e durante tutta questa lunga serie di avventure, che sono avventure nel senso celatiano del termine, avventure in cui non succede davvero mai niente e in cui non si va da nessuna parte, il narratore è interessato a fare una cosa sola, e cioè scrivere una lettera per raccontare agli amici rimasti in Italia com’è l’America. E ovviamente, come nei sogni (il racconto prenderà in effetti una piega onirica, con spettri che parlano alle tavole dei diner e un gallo che canta la notte), questa lettera non riuscirà mai a scriverla.

Celati è un pazzo, nel senso di un giullare, ed è il creatore del mondo: ogni scrittore lo è, e il racconto “Come sono sbarcato in America” lo spiega bene, cioè spiega bene questa cosa ossessiva che è l’arte di narrare, questa ossessione di voler continuamente inventare l’esperienza nell’atto di raccontarla. Celati è anche un diavolo, è «ambiguo e anomalo, inganna, cambia forma, sovverte le situazioni, imita gli dèi, è un tuttofare sacro e lascivo» (Haynes e Doty, Mythical Trickster Figures: Contours, Contexts, and Criticisms). Il trickster è l’anima nera, invertita, sovversiva dell’«indiano metropolitano» del Settantasette bolognese. Celati è luce e ombra, la luce di Celati passa attraverso lo specchio e diventa ombra. Dall’altra parte dello specchio, nell’upside-down della letteratura italiana, c’è un Celati nero, esotico e mutevole, e la sua parola d’ordine è: dispersione.

Il trickster è un mutaforma, uno shape-shifter, perché assume infinite facce. È una deriva deleuziana in cui un singolo brandello di informazione, o un coagulo di informazione, cambia all’infinito rimanendo in fondo sempre uguale a sé stesso. Nei racconti e nei romanzi di Celati non ci sono veri personaggi, c’è un unico personaggio dai molti volti (Guizzardi, Menini, Cevenini) e tutti questi volti sono e non sono quello di Celati, che in questo modo diventa un vero e proprio eroe nel senso che Campbell dava al termine. Il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” è e non è Gianni Celati, la letteratura di Celati è e non è autobiografica perché, come scrive Gabriele Gimmelli, «cerca di collocarsi appena prima» che la distinzione tra fiction e non-fiction abbia luogo – ed ecco liquidato in due sole parole il «deliro burocratico» della collocazione di Celati in un genere letterario o nell’altro. Celati si è mosso per venticinque anni in giro per il mondo, tra Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Africa, ma non è mai uscito dall’Emilia. La pianura di Menini è il Mali di Avventure in Africa: la nebbia della prima si trasforma nella sabbia della seconda («Non è la nebbia che rende la vista così opaca, ma sabbia in sospensione»), lo stupore per il mondo è lo stesso («Tutta la nuvola del niente di speciale che ogni giorno ci avvolge»).

Questo perché il trickster sembra non andare da nessuna parte, o se ci va segue logiche oscure: il suo posto nell’ordine del cosmo è ambiguo. Il trickster inventa il mondo dal fango, come un demiurgo gnostico, non attraverso atti grandiosi come quelli di un dio ufficiale. Crea, ma è difficile capire il senso di quella creazione, che non è né bella né buona e certamente non è utile, e contiene in sé tanto dolore e bruttezza quanto splendore e bellezza – e tutto appare casuale, frutto di un capriccio, e imperscrutabile. Disperdersi è essenziale, perché le energie del trickster richiedono per loro natura di essere consumate, buttate al vento: il trickster deve esaurirsi per dare vita al mondo e, contestualmente, a un tipo di eroe più maturo che possa popolare quel mondo. Celati cammina e cammina, e cammina e cammina, finché non rimangono più energie, finché si è compiuto l’atto propiziatorio che mette in contatto con gli dèi, vale a dire con i demoni.

Il 15 dicembre del 1994 scrive a John Berger, che di lì a qualche anno lo accompagnerà in Emilia per girare Case sparse: «C’è qualcosa (nel tuo tama) – una levitazione spirituale […]. Ma credo che questa levitazione sia per te il risultato di una disciplina, come lo era per gli antichi Santi. Ora, è proprio il senso di questa disciplina che mi sfugge (la disciplina era il mio solo obiettivo nella scrittura, ma adesso sento il demonio in me, e il demonio è l’opposto della disciplina – è il caos)». Questo non è solo il linguaggio di un uomo in lotta con la depressione, è anche il linguaggio di un pellegrino diretto al mondo infero e in cerca del suo Caronte.

Africa

In questo mondo di sotto Celati scende attraverso percorsi paralleli, come un fiume diretto a valle si ramifica in tanti rivoli. Potremmo spiegare forse così questo strano desiderio che gli viene tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila di andare in Africa. Un desiderio pericoloso per gli standard celatiani, perché rischia di trasformarsi in un’“avventura” nel senso romantico del termine, un esotismo, una ricerca consapevole di qualcosa e, non sia mai, di una parte di sé più autentica. Infatti Celati in Africa ci deve andare con una scusa, prima quella di accompagnare in Senegal, Mali e Mauritania l’amico documentarista Jean Talon, che per un gioco del destino si chiama come un amministratore coloniale francese del XVII secolo, e cinque anni più tardi per assumere lui i panni del documentarista e filmare la vita di un villaggio del Senegal. Alla maniera del protagonista di “Come sono sbarcato in America”, durante questi viaggi Giovanni/Gianni non può fare a meno di scrivere tutto quello che vede. Ne escono due diari (Avventure in Africa e Passar la vita a Diol Kadd) e un film che è a sua volta una specie di diario (Diol Kadd appunto). E ne nasce un altro racconto di Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, che è una sorta di commento sul commento fatto da Celati delle sue avventure in Africa, una riflessione sulle sue motivazioni, un dialogo tra due volti di Celati ma anche, come vedremo più avanti, qualcosa di più. “Cevenini e Ridolfi” chiude Cinema naturale nello stesso modo in cui “Come sono sbarcato in America” lo apriva: con un resoconto scritto di un’avventura che non può mai veramente essere scritta.

Consapevolmente o meno – in queste cose non fa poi molta differenza – Celati arriva in Africa sulle tracce di quello che forse è il trickster più famoso di tutti, famoso almeno come il coyote delle leggende dei nativi americani: il coniglio Be’er, che è trasmigrato fino alla modernità capitalista nella duplice forma del Fratel Coniglietto di Walt Disney e del Bugs Bunny di Warner Bros – e che popola insieme ad altri tricksters (Bouki, Leuk) le storie wolof. Avventure in Africa è pieno di figure ambigue e sovversive, personaggi incontrati per caso che si rivelano sempre diversi da quello che sono e costruiscono mondi dove non c’erano, inventando alberghi e servizi di taxi. Ma proprio nel momento in cui arriva più a fondo nella ricerca di della sua anima nera, Celati rischia anche di cadere nella trappola della leggibilità: quando nel 2010 esce al cinema Diol Kadd sono passati vent’anni da Strada provinciale delle anime, quel primo film con le sue dissolvenze fuori moda, le sue atmosfere hauntologiche e il suo mondo di spettri destinati a scomparire. Se Strada provinciale era passato inosservato, Diol Kadd viene presentato al Festival di Roma e Celati deve fare una cosa che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare, camminare su un red carpet («Quando ho visto il red carpet volevo entrare nell’auditorium zoppicando, come Quasimodo, il gobbo di Notre Dame», scrive, ed è il trickster a parlare in lui. «Se mi sento a disagio, comincio a fare lo scemo».) Diol Kadd rischia, cito ancora da Gimmelli, «l’alone ecumenico di capolavoro», e infatti riceve il premio come miglior documentario sociale. Il pericolo dell’altromondismo è concreto per quello che è il suo «film più costruito e tradizionale», il suggello dello status scomodo di «classico in vita».

Tanto più che Celati il discorso sul colonialismo lo sta affrontando, in una maniera o nell’altra (cioè in maniera disordinata: ricordiamo il demone del caos) fin dai tempi del suo primo matrimonio con Anita Licari, italo-tunisina che aveva sposato nel 1966. Celati andava nella Tunisia da poco diventata indipendente e Anita, che era francesista a Bologna, nel 1978 pubblicava con Roberta Maccagnani e Lina Zecchi un libro intitolato Letteratura esotismo colonialismo. L’introduzione di Celati (“Situazioni esotiche sul territorio”) propone – scrive Gimmelli – «la via di fuga […] della flanerie intesa come viaggio nell’indifferenziato»: propone cioè da un lato di «recuperare l’esotismo nei termini deleuziani di una riterritorializzazione del mondo» e dall’altro di «riappropriarsi dell’idea di avventura liberandola dalle incrostazioni dello sguardo coloniale». Non dimentichiamo che siamo negli anni di Alice disambientata, il testo più deleuziano di Celati. Dunque andare in Africa per liberare lo sguardo dall’idea dell’Africa, dell’esotico; andare in Africa per perdersi, per disperdersi. Ma anche per riterritorializzare il movimento di quella perdita e di quella dispersione: è un equilibrio sottilissimo e forse Celati non l’avrebbe mai raggiunto con la scrittura e l’ossessione della scrittura di dire quello che non c’è, il suo implacabile impulso a creare mondi. Per arrivare in quel punto ci voleva l’occhio “oggettivo” del cinema.

Cinema

Facciamo un passo indietro. Come abbiamo visto, Celati al cinema aveva esordito nel 1992 con Strada provinciale delle anime¸ ma l’avvicinamento alla macchina da presa era stato lungo e laborioso, al punto che potremmo dire che nell’opera celatiana il cineasta è fin dall’inizio parallelo allo scrittore, anche se nascosto: una sorta di ombra del Celati ufficiale. Tant’è che già Alice disambientata aveva dato origine a un breve film, nato in parallelo alla scrittura collettiva del libro, e che diverse idee di progetti erano nate e tramontate prima che Strada provinciale arrivasse a essere trasmesso in TV. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’aspetto ricorsivo del metodo di lavoro celatiano, il percorrere e ripercorrere gli stessi sentieri. E ancora una volta ci troviamo al cospetto di una forma del trickster, questa volta quello che si trova nell’«anima della commedia», come ha scritto Eric Weitz, la figura «dispettosa, ingenua, indulgente, piena di risorse, guidata dagli istinti di base e vitale che popola le sfere dell’intelligenza illogica che chiamiamo solitamente “humor”». Non è un caso che, come ha notato Marco Belpoliti, gli interessi cinematografici di Celati partano dalla slapstick comedy, al punto da «eleggere Buster Keaton a figura-guida».

Ma un altro parallelo tracciato da Belpoliti mi sembra qui particolarmente interessante: quello con il cinema di Dziga Vertov (parlando di Diol Kadd: «il racconto si svolge a Diol Kadd, ma potrebbe essere un villaggio della campagna ferrarese o friulana degli anni Cinquanta o Sessanta. Una cronaca minuta e senza nessuna pretesa di esaustività; immagini terse, pulite, sguardi ampi, e visioni scorciate, viste attraverso gli ingressi delle case e delle capanne, come se a girare il tutto fosse stato un Dziga Vertov lirico e postsovietico»). Da Vertov, Celati sembra mutuare quel «carattere testimoniale della registrazione meccanica» (Enciclopedia Treccani) senza il quale si rischierebbe di sprofondare nel soggettivismo esasperato della scrittura, nella tentazione della creazione del mondo a cui tentano inutilmente di sottrarsi il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” e il Cevenini di “Cevenini e Ridolfi”. Ricordiamo il linguaggio della lettera del 1994 a Berger: il tama (il sapere occulto della tradizione vedica), la «levitazione spirituale», gli «antichi Santi», il «demonio»: è evidente che qui Celati ha abbandonato il cinema come puro movimento, il cinema come sovversione dell’ordine, e sta cercando – anche, ma non solo, attraverso il cinema – una forma di spiritualità.

Quindi è logico che alla fine scelga proprio Berger come animus per il suo film più hauntologico e destrutturato, è logico che Berger faccia il ruolo di traghettatore verso una sorta di aldilà, ed è logico che questo viaggio verso gli inferi passi per la Pianura Padana: Case sparse è un viaggio nel mondo di sotto e come tale non può che essere un ritorno laddove tutto è cominciato, l’Emilia; è un viaggio nella malinconia, personale e collettiva, privato del senso del tragico (che in Celati non esiste nemmeno nei momenti più cupi); è, letteralmente, uno sguardo alla casa che crolla e che ci si lascia alle spalle – e non per niente dopo Case sparse Celati all’Emilia nel suo lavoro non ci torni più, come se un percorso si fosse finalmente esaurito. 

Attraverso l’Inghilterra di Berger Celati può tornare all’Emilia e lasciarla andare: ciò che segue nei dieci anni successivi, gli ultimi significativi della produzione celatiana, è l’Africa, il (post)esotico, l’altrove. Berger è una figura infera perché conduce alla morte, permette di attraversare la morte, permette di guardare finalmente il mondo dall’altra parte della morte, come succede alla protagonista del racconto “Nella nebbia e nel sonno” che vede tutte le cose coperte di polvere, come saranno in un futuro postumo. Permette di arrivare appunto a un “cinema naturale” della mente, dove le cose scorrono come su uno schermo nella loro naturalezza: permette, cioè, di arrivare a una sorta di pace.

Pace

Il cinema di Celati parte dal movimento sovversivo e asignificante della slapstick comedy e arriva al lirismo calmo, a suo modo trascendente, di Diol Kadd; nell’esotico, o meglio nel post-esotico, il movimento si deterritorializza per riterritorializzarsi in una dimensione diversa, eterea; l’irrequietezza dello scrittore-camminatore, dello scrittore che per scrivere deve esaurire e disperdere le proprie energie, arriva a un fragile, precario punto di stasi, un fermarsi che non corrisponde più alla morte ma una sorta di esperienza spirituale. È una visione, letteralmente, filtrata dall’occhio meccanico del cinema. «Dolcezza del vivere e trascorrere del tempo», scrive ancora Belpoliti, «un tempo che non si esaurisce, che non fugge, ma che ricomincia». Ripartire stando fermi: in Diol Kadd Celati raggiunge la sua «levitazione spirituale», tiene a bada per un momento il demone del caos.

Ed è qui che il racconto che chiude Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, diventa la pietra angolare di una inaspettata svolta dell’opera celatiana. All’apparenza la trama è delle più classiche: due «vecchi amici un po’ avanti negli anni», che «passavano la vita senza far niente di speciale e al massimo di sera giocavano a carte oppure a biliardo nei bar di campagna vicino a casa» un giorno decidono di partire per un viaggio in Africa. La ragione del viaggio è che Cevenini, che è ottimista e posato, vuole curare con la magia l’amico Ridolfi, che invece è depresso e soggetto a incontrollabili attacchi d’ira. Durante tutta l’avventura, Cevenini scrive delle memorie che costituiscono la fonte del narratore del racconto: dunque abbiamo Celati, autore di un racconto (“Cevenini e Ridolfi”) che inventa un personaggio (Cevenini) autore di un diario delle sue “avventure in Africa” (come un libro di Celati) che il narratore del racconto (forse Celati, forse no) commenta e riassume: basterebbe questa contorsione metaletteraria degna del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore per farci capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di più che un racconto semi-comico, o semi-tragico, che è lo stesso, di avventure.

Infatti “Cevenini e Ridolfi” è quello che potrei definire il resoconto di un’esperienza mistica in uno degli scrittori italiani che apparentemente sembrano più lontani dall’idea di misticismo. Già dalle prime battute risulta abbastanza chiaro che Cevenini e Ridolfi sono due incarnazioni di Celati stesso, potremmo dire la luce e l’ombra che si combattono in tutta la sua opera, l’aspetto scanzonato e quello iracondo, la fiducia e la depressione; e il fatto che nel corso del racconto i due personaggi arrivino a scambiarsi i ruoli, con Cevenini che diventa via via più pessimista mentre Ridolfi viene investito da un’illuminazione che gli fa scordare il suo mal di vivere, ne è la prova. Ma è proprio il procedere del racconto, che (come tutti i racconti di Cinema naturale, ma qui forse in maniera più estrema, più consapevole) divaga fino alla destrutturazione, alla dispersione, alla perdita di sé, alla dissoluzione nell’astratto, a riportarci in maniera più decisa sui confini sfumati tra la fiction e la non-fiction, il racconto e la meditazione filosofica. Forse qui non appena prima del confine, ma appena dopo, in un altrove non completamente mappato.

Perché man mano che i due amici penetrano nel cuore dell’Africa, e Ridolfi penetra nel cuore della sua illuminazione, e penetrando nella sua illuminazione guarisce del mal di vivere e si ammala nel corpo fino alla paralisi e alla morte, ciò che il scopre nel suo filosofeggiare è la «bellissima calma delle cose buttate via»; scopre che il segreto della felicità è quello di «scaricare via le fisime dell’immaginazione, che poi fanno sempre venire delle foie, e con le foie dopo uno vorrebbe che tutto andasse come vuole lui»; che «le cose esistono solo in particolare, solo come cose particolari, una per una». E man mano che si ammala, o guarisce, perché forse tra le due cose non c’è differenza, Ridolfi diventa una specie di guru, impegnato solo nel dire frasi filosofiche come «la virtù è la mente che agisce e non patisce, le foie sono la mente che patisce e non agisce», oppure «sono triste ma la mia tristezza è naturale, non mi dà fastidio». E naturalmente c’è dell’ironia in tutto questo, c’è una comicità, e anche una grande tristezza, ma c’è anche, finalmente, un punto d’arrivo: uno sguardo che si apre ampio e calmo. Non c’è più bisogno di muoversi, ci si è persi abbastanza da non aver più bisogno di disperdersi.

Che cos’è infatti il cinema naturale se non questo sguardo terso, questo schermo su cui scorre lo spettacolo del mondo, nella sua naturalezza, senza l’immaginazione che produce desiderio, senza le generalizzazioni che producono concetti? Questo schermo su cui scorre la vita così com’è, le cose particolari, una per una? Che cos’è il cinema oggettivo di Dziga Vertov se non una metafora della mente come campo aperto dove le rappresentazioni del mondo passano senza essere trattenute, dove il mondo compare e scompare, si modifica, scorre? E che cos’è questa mente come uno schermo dove scorre l’apparenza del mondo se non una mente che medita, che ha raggiunto una forma di pace sufficiente da guardare le cose così come sono, senza bisogno di descriverle, di riscriverle, di inventarle, di sostituirle? Che cos’è questa mente-come-cinema, questa mente che medita, se non il punto in cui la scrittura si disperde totalmente, smette di essere necessaria?

Alla fine il movimento ha condotto alla calma, per quanto temporanea possa essere; lo spirito sovversivo del trickster a una forma di spiritualità; la discesa negli inferi, proprio come capita a Ridolfi, porta una nuova luce alla coscienza. Perdersi porta a ritrovarsi scoprendosi diversi. In questo agire senza patire, in questo tornare naturali, nel disperdere le energie mentali fino all’esaurimento, Celati trova il suo tama. Nell’altrove, scordando sé stesso, trova il punto al centro di sé stesso da cui in fondo non si è mai spostato. Trova il miracolo di una scrittura senza scrittore, di un cinema senza regista né personaggi né spettatori, in cui il mondo scorre davanti a una macchina da presa dietro la quale non c’è più nessuno. 

ARTICOLO n. 57 / 2023

tuttoamore

Pubblichiamo come anticipazione del volume di Nisargadatta Maharaj, Essere è amore (Il Saggiatore) – in libreria da venerdì 7 luglio -, la prefazione di Aldo Nove.

Dopo la fine della Storia. Nell’inciampo quotidiano della sua distorsione, sono sempre di più a percepire che in questo mondo, in questa vita, «c’è qualcosa che non va». A livello di massa, il testo popolare che meglio lo ha espresso è in realtà un film, Matrix. Il protagonista, Neo (nome scelto non certo a caso), percepisce che tutto ciò che lo circonda ha qualcosa che non lo convince. Non lo convince affatto. Non lo convince la sua stimata posizione sociale. Non lo convincono le sue stesse percezioni. Si tratta, per Neo, di scendere nella tana del Bianconiglio, crossover con l’esoterico classico di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie

Qualcosa che ci contiene prosegue.
Una tragedia irrisoria.
Irrisoria e ostinatamente mortale: «La tragedia è ciò che continua a finire» scrive un Hegel illuminato nella sua Fenomenologia dello Spirito. 

Questi tempi, mysterium iniquitatis, ci spingono forse a un salto di consapevolezza. Alcuni lo ipotizzano, altri ci credono fermamente, in special modo in plurimi contesti new age. 

Fatto sta che stiamo male. 

La narrazione, qualunque piega prenda, non funziona più.

E come per ogni malattia, è opportuna una medicina. Sri Nisargadatta ci offre la medicina suprema, che è anche il titolo di un suo libro, reiterazione tendente all’infinito del suo mantra: «Io sono», da ripetere fino all’esautoramento di ogni significato possibile di quell’io.

Fino alle radici dell’Essere (curiosa la questione delle maiuscole e delle minuscole, quando ci si avvicina all’inesprimibile, che sta sempre oltre il linguaggio). 

In un altro contesto, quello della filosofia occidentale coeva al percorso dell’insegnamento di Nisargadatta, veniva emergendo, specialmente nell’incontro tra psicanalisi e strutturalismo, un’analoga «demolizione dell’ego». «L’inconscio è strutturato come un linguaggio», il celeberrimo concetto di Jacques Lacan introdotto nel suo Discorso di Roma del 1953, unito all’altra «rivelazione-mantra», «C’è chi parla», spinge gli spiriti più acuti e tormentati (felicemente tormentati) a nuove vette di coscienza. Vette in Italia divulgate, probabilmente, da chi, «recitando sé stesso», le ha messe in pratica condividendole sotto forma di un teatro spostato verso l’oltre, sempre verso l’oltre: Carmelo Bene. 

Il suo «Io non esisto» pareva a molti una boutade.
Lo pare ancora.
Ma intanto macina.
Sono quei «semi di fuoco» (così li chiamava Nisargadatta) che senti e poi, consciamente, magari dimentichi. Ma intanto maturano dentro. 

Ti scaraventano altrove. 

2.

Difficile descrivere la ridda di emozioni che ha suscitato in chi scrive (saranno passati trent’anni da allora) la prima lettura di Nisargadatta. Quel libro, Io sono quello, caposaldo ormai del pensiero mistico indiano contemporaneo (ma esiste una contemporaneità, in una tradizione millenaria che cambia i maestri ma non l’essenza senza tempo del suo insegnamento?), prima e più celebre raccolta di discorsi del Maestro, la prende un po’ alla larga. Nisargadatta accetta le divagazioni, risponde pur con sarcasmo alle curiosità di chi è accorso da tutto il mondo per sentirne le parole. Con il passare degli anni, e della sua malattia, il discorso si fa più rarefatto e al contempo stringente. In prossimità dell’abbandono di questa forma temporale, Nisargadatta non può sprecare parole. Essere è amore va dritto subito al bersaglio e lì si inchioda, e ci inchioda. Ma, sempre, a una prima lettura (come alla quindicesima) le sue parole bruciano. Ustioni nell’anima a rigenerarne il percorso di autoconoscenza, spingendo sempre oltre l’asticella che separa il conosciuto dallo sconosciuto, l’ego dall’infinito. Quello che credo chiunque percepisca alla sua lettura è che non c’è luogo o condizione in cui acquietarsi. Almeno fino a che si è soggetti di qualcosa. 

Sul palco della grande illusione di questo mondo, della sua esistenza, tutto deve sparire. E poi deve sparire il palco. 

E il teatro.
E tutto ciò che li circonda.
Fino a che il vuoto o l’essere, anch’essi svuotati di un’essenza che non hanno in realtà mai avuto, si possano abbandonare al tuttoamore che per sempre e da sempre vibra imperturbabile. 

Il tuttoamore è pura presenza. Il tuttoamore non contempla altro che sé stesso, che non c’è. 

Io siamo quello. Noi siamo quello.

E se nessuno è nato e nessuno è morto, tutto ciò che ci vincola a questa esistenza è ciò che ci preclude la via ultima, da quando qualcosa inizia a percepirsi come un essere, quella cosa determinata e a sé fedele tra infinite altre cose, nel precipitato illusorio di onde universali che si infrangono, alla fine, contro la propria stessa impalcatura di menzogne, complice la mente, ingannatrice suprema e subdola, nostro parziale, parzialissimo amore che muore, ogni giorno, di più. 

Fino a completa guarigione. 

Mauro Bergonzi[1] è uno dei pochissimi italiani ad avere avuto la fortuna di incontrare Sri Nisargadatta Maharaj nel 1981: ossia durante i satsang[2] le cui trascrizioni sono qui raccolte. Ne ricorda i piccoli e nerissimi occhi, lo sguardo di fuoco. E ricorda come Nisargadatta si fosse rivolto direttamente a lui dicendogli, ex abrupto: «Non ti perdere nei mille rami delle mille domande, ma vai dritto alla radice. All’unica domanda che conta… Io ti ci metto. Anzi, ti ci seppellisco. E rimani lì. Fino a che non scompare colui che cerca. Allora ti troverai al di là. Nell’ignoto». 

Perinde ac cadaver, diceva della sua conversione sant’Ignazio di Loyola: «allo stesso modo di un cadavere». Si tratta, per Nisargadatta, proprio di «morire» definitivamente. 

Ma cosa, chi muore? Ciò che non è tutto. Ciò che non è Essere. Ciò che non è Amore. L’ego.

Allora resta (termine rischioso, questo «resta») l’Essere. Che è amore assoluto e incondizionato, senza scissioni, senza differenze («qualcosa di completamente impersonale», dice altrove Nisargadatta). Quel «qualcosa» (in riferimento alla nostra esperienza, quando si realizza consumandosi del tutto) si allarga fino a essere tutto l’universo e tutti gli universi ed è inesprimibile. Lo chiamo tuttoamore per giocare con le parole come intuitivamente sento essere, e ovviamente arbitrariamente, in italiano, abilitato da uno scarto linguistico improbabile e per questo, forse, efficace. 

Quando mi è stato chiesto di scrivere la prefazione al vertiginoso libro che tenete tra le mani, ho provato il senso di un grande onore ma anche quello di lanciarmi in una mission impossible. In realtà, di questo libro non si può parlare, perché va oltre ogni possibilità dell’umano dire («Trasumanar significar per verba / non si poria» diceva del resto uno molto famoso e con una certa dimestichezza con questi temi). Nisargadatta prende a calci in culo ogni pretesa intellettuale, e lo fa con amore. 

Diceva Kundera che ogni libro serve ad andare oltre ogni libro, e questo, anche senza saperlo, cerca di farlo. 

Ma, continua Kundera, quel libro, forse, non verrà scritto mai. 

E infatti Nisargadatta, come Buddha e Cristo, non ha mai scritto un libro.

In qualche modo li ha distrutti tutti. Come Buddha.
Come Cristo.

tuttoamore. Altro alla meta non è dato. Qua il paradosso estremo della mistica e del sublime mentore che ne fu Sri Nisargadatta Maharaj. Alla meta non c’è più nessuno. 

Oppure, c’è proprio lui, Nessuno.
Che c’entriamo, noi, con Nessuno?
C’entriamo.
Ma, come scriveva Rainer Maria Rilke, «è difficile essere morti».

3.

Maruti Kampli nasce a Bombay[3] il 17 aprile 1897, dove morirà, con il nome ormai conosciuto in tutto il mondo di Sri Nisargadatta Maharaj, l’8 settembre 1981. E già queste note biografiche iniziali sono paradossali per chi ha sempre proclamato di non essere mai nato e di non essere mai morto. Altrettanto paradossale, o meglio, nell’ottica della Tradizione che Nisargadatta ha rinvigorito, inconsistente è il luogo, che, ha più volte dichiarato Nisargadatta, in sé non esiste. Non esiste «Bombay» se non come illusione mentale. Partendo dall’esperienza, l’unica cosa che davvero conta nel coacervo di elementi che chiamiamo individuo è solo lì, nessuno ha mai fatto esperienza di «Bombay». Si tratta di una convenzione linguistica e dunque delle conseguenze figurative dell’evocazione di un fantasma sottoposto a restrizioni quanto mai elastiche della cianfrusaglia mentale che abita la mente che ci abita. 

E poi la vexata quaestio dell’essere nati.
E pure, dopo, l’essere morti.
A chi gli chiedeva (e succedeva sempre) «Cosa c’è dopo la morte», Nisargadatta ribaltava la domanda chiedendo all’interlocutore cosa ci fosse stato, per lui, prima della sua nascita, e su quello insisteva di meditare. Ovviamente, la risposta era sempre uno smarrito arrampicarsi sui vetri, incalzata da un «Ricordi tu, forse, che prima di nascere stavi male?». Con la risposta, a cui è impossibile sottrarsi: «No». E con un successivo, martellante: «E la nascita, la tua nascita, la ricordi?». La replica è altrettanto ovvia quanto micidiale. Quindi a nascere o, meglio, a manifestarsi, è la mente. La mente che dice di essere un individuo. Si localizza, legandosi a un corpo, e il rapporto di quello con ciò che quello non è (pur essendo già il corpo un insieme di elementi tenuto assieme momentaneamente) è «la realtà» individuale. 

L’aprirsi di una ferita. 

Che si rimargina alla completa guarigione. Attraverso la meditazione.

«Meditazione» o «yoga», o «pratica» che era, è, sempre, indagine del presente. Perché nulla esiste se non il presente. C’è o, meglio, appare, per Nisargadatta come per tutta la tradizione advaita, solo quello che viene proiettato sullo schermo dell’assoluto incontaminato adesso.

Per scorrere via e lasciar posto ad altre manifestazioni del gioco della vita (lila, in sanscrito). Identificarsi con il flusso di queste apparizioni, con l’alternanza mondana di gioie e dolori, nell’alternanza di sogni e paure, è il grande inganno di Maya, il velo che tutto (s)copre per infinita autocompiacenza dell’Essere. Ne consegue che il primo passaggio del ricercatore è quello di osservare con distacco quello che succede (nel nostro caso, quello umano, si tratta di osservare il nostro corpo, attraverso il quale è possibile «fare esperienza del mondo»). Nisargadatta ci pone ben oltre questa posizione (che è quella poi dell’«osservatore» nella pratica, ad esempio, vipassana o anche, a Occidente, della meditazione trascendentale)[4] e ci spinge sulle soglie dell’Ignoto e oltre. Lo fa con rude affettuosità. Ci scaraventa nell’abisso con amore. 

Perché non è l’abisso a farci paura, ma la paura dell’Ignoto.

Torniamo alle, per quanto stringate, note biografiche. Quello che poi diventerà uno dei più grandi maestri spirituali induisti cresce in una famiglia povera. Se seguissimo il sistema delle caste indiane, potremmo dire che si trovava al livello più basso. Suo padre era prima «assistente domestico» (cameriere generico, factotum) e poi agricoltore. Quando il padre morì, Nisargadatta (aveva allora 18 anni) trovò lavoro come tabaccaio o, meglio, come produttore e venditore di bidi[5]. Lavorò con la sua famiglia (si sposò poco dopo, generando quattro figli, tre femmine e un maschio). Quello resterà, fino alla sua morte, per lui e per la sua famiglia, il mezzo di sostentamento materiale. L’illuminazione avvenne quando ottenne il moksha[6] durante l’unico viaggio della sua vita, sull’Himalaya al seguito del guru Sri Siddharameshwar, penultimo anello di una catena di maestri a cui si aggiungerà, appunto, Sri Nisargadatta Maharaj. 

Dopo il moksha, tutta la sua vita si svolgerà nel mezzanino di casa sua, dove sempre più gente e da tutto il mondo si radunerà a seguire i suoi satsang. Le parole di un tabaccaio analfabeta si sono così infiltrate nella coscienza dell’Oriente e dell’Occidente, spostando davvero al limite i paletti dei nostri limiti, che sono tutti mentali.                                                                                              

Semi di fuoco. 

4.

satsang di Sri Nisargadatta Maharaj erano vere condivisioni di elevazione spirituale, davvero molto lontani da quello che noi possiamo immaginare in relazione a un maestro che si rivolge ai suoi discepoli. Nisargadatta rimase fino all’ultimo curiosissimo di tutto e di tutti. Spesso era lui a rivolgere domande a chi si avventurava ad ascoltarlo nel suo periferico quartiere di Bombay. Spesso parlava molto, a volte non diceva che pochissime parole. Ma l’essenza delle sue «prediche» (o «conferenze»: così ho trovato in diverse traduzioni) era il dialogo, in una modalità in qualche modo maieutica (come lui stesso ha dichiarato) per far sì che a parlare fosse, alla fine, non la persona Nisargadatta, ma quello spirito incondizionato che da lui fluiva irradiandosi oltre l’illusione del molteplice, accogliendo così ogni religione o via di ricerca spirituale, certo oltre l’«intelligenza» o la «sapienza» di un maestro che è più il direttore di un’orchestra tesa al raggiungimento della consapevolezza di essere non coro ma unità. 

Sciogliendosi nell’unità.

La via della liberazione prevede che ogni percorso non possa che essere individuale prima di trionfare nel tuttoamore che è squisitamente impersonale. 

Essere-coscienza-beatitudine[7]. L’Universo si ama.
L’Essere si ama. 

LEssere è Amore.


[1] Docente di Religioni e filosofie dell’India presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, Mauro Bergonzi ha scritto diversi libri sulla filosofia advaita. Ci piace segnalare il suo intenso Il sorriso segreto dellessere, Mondadori, Milano 2011. L’esperienza riportata è reperibile su YouTube, raccontata dallo stesso Bergonzi, all’indirizzo: https:// www.youtube.com/watch?v=C4_Ls8PdALY.

[2] Difficile tradurre un termine come satsang. Così come è difficile trasporre nella nostra cultura tutta la terminologia dell’induismo advaita, specialmente laddove si propone di andare oltre il nostro essere «persone» (ma qua ci aiuta l’etimo, in latino «persona» è «maschera»). Satsang è composto da sat («essere» e/o «verità») e sang («riunione», «comunità»). Tutti i libri di Nisargadatta sono trascrizioni dei suoi satsang.

[3] Oggi Mumbai, è la prima città, per densità di popolazione, al mondo.

[4] Nell’antica lingua indiana pali, più o meno «osservare le cose profondamente, per quello che sono». Pratica insegnata direttamente da Gotama il Buddha per superare la sofferenza del vivere. Degna di rilievo credo sia la possibilità di accostare la figura di «chi compie l’osservazione vipassana» agli esiti ultimi della fisica quantistica e, in particolare, a quelli di David Bohm, che ebbe un lungo e proficuo confronto con Jiddu Krishnamurti (uno dei tre maestri di cui Nisargadatta esponeva, nel mezzanino in cui svolgeva i suoi satsang, l’immagine). Ma già nel famoso esperimento del gatto di Schrödinger «l’osservatore» scopre che è lui a determinare le qualità delle manifestazioni della materia. La Meditazione trascendentale, sempre da origini vediche e introdotta in Occidente nel 1958, è appunto la più diffusa, fuori dall’India, «forma di meditazione senza oggetto determinato».

[5] Piccole sigarette costituite da un’unica foglia di tabacco arrotolata. Sri Nisargadatta Maharaj ne fumerà una dietro l’altra per tutta la vita, anche durante i suoi satsang. A chi gli chiedeva come mai un maestro spirituale si lasciasse andare a un tale vizio, rispondeva impassibile che il vizio lo aveva il suo corpo, non lui.

[6] «Liberazione», «salvezza», «affrancamento dal ciclo delle reincarnazioni» in tutte le tradizioni induiste, e prossima al da noi più conosciuto nirvana del buddismo. Noi l’abbiamo qui introdotto con «illuminazione» in quanto più prossimo alla nostra cultura e per quanto il termine sia soggetto a molteplici sfumature.

[7] Sat-cit-ananda: l’Essere supremo, Dio, l’Assoluto. «Chi mi percepisce dappertutto e vede ogni cosa in Me non mi perde mai di vista, né io perdo mai di vista lui» dice Krishna ad Arjuna in Bhagavad Gita VI:30. 

ARTICOLO n. 56 / 2023

QUASI ZERO

in memoria di g. detto p.

All’inizio di questa primavera è morto un uomo di novant’anni. È stato uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento e dei primi ventitré anni del nuovo millennio, sebbene non abbia mai pensato di essere un rivoluzionario. Il suo stile di vita, se fosse stato diffuso in tutto il mondo e soprattutto in Occidente, forse avrebbe cambiato le sorti del pianeta, ma il suo stile di vita era eversivo, inaccettabile proprio per l’Occidente.

L’uomo era nato e cresciuto nell’hinterland sudovest di Milano, quando hinterland esisteva come parola ma non ancora come zona periferica estesa intorno alla città. 

Negli anni Sessanta, la cittadina nella quale l’uomo viveva offriva tutto ciò di cui un essere umano, nel Novecento, necessitava: case, scuole, un ospedale, fabbriche, uffici, autobus, treni, campi coltivati, cascine, orti, un mercato trisettimanale, supermercati, sedi di partito, circoli dopolavoristici, bocciofile, campi da calcio, una piscina, una biblioteca.

L’uomo aveva conosciuto una coetanea, si era fidanzato e sposato. La moglie faceva la casalinga, non si sa se per scelta, poiché in quel periodo era abbastanza semplice trovare un lavoro. L’uomo lavorava come operaio in un’azienda che produceva lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, scaldabagni e altri elettrodomestici.

Il loro primo e unico figlio era nato nel 1962. La coppia viveva in affitto, all’ultimo piano di una palazzina di quattro. Era una di quelle palazzine senza ascensore, costruite negli anni Cinquanta, l’intonaco beige, le tapparelle nocciola, le finestre al piano terra con affaccio sulle auto parcheggiate rasente il muro condominiale, e i piccoli balconi punteggiati dalle tende blu, rosse, verdi, indispensabili durante i mesi estivi. 

Una vita condominiale tranquilla, vivacizzata soltanto dalla musica che il vicino di casa ascoltava a un volume ritenuto, dall’uomo, troppo alto. Allora l’uomo percorreva due metri sul pianerottolo e bussava alla porta del vicino. Preferiva bussare al posto di suonare il campanello: forse in quella scelta, che prevedeva l’uso di una parte del proprio corpo, sentiva una intenzionalità, una responsabilità, un rigore morale. 

E tuttavia, al tempo stesso, si infastidiva poiché doveva bussare forte, picchiare le nocche su quel legno modesto, rivaleggiando, nella scala del rumore, con le canzoni di Mina, Celentano, gli acuti di tutta la musica leggera italiana. 

Il vicino apriva la porta e dopo i rimproveri abbassava il volume, per il quieto vivere. A volte, invece, non si alzava dalla poltrona: riconosceva il suono delle nocche sulla porta e abbassava il volume, lasciando all’uomo la sensazione che tutto fosse una specie di allucinazione prodotta dalla sua mente, dal suo battito accelerato davanti alla porta di un estraneo.

L’uomo considerava il vicino amante della musica leggera come qualcosa di vago, un giovane, un giovanotto, o meglio, un giovinotto, sebbene il vicino avesse soltanto quattro anni meno di lui. 

Dopo un decennio in affitto, la coppia aveva deciso di acquistare un appartamento al quinto piano di un palazzo di nove. Il figlio avrebbe avuto una stanza tutta per sé. 

L’uomo lavorava in un’azienda solida, le pubblicità delle lavatrici e delle lavastoviglie apparivano su alcuni quotidiani, a volte perfino sul giornale del Partito Comunista Italiano. L’uomo non comprava mai il giornale del Partito Comunista Italiano: non era comunista, ma anche qualora fosse stato comunista, non avrebbe comprato il quotidiano del Partito Comunista Italiano; se fosse stato socialista, non avrebbe comprato il giornale del Partito Socialista Italiano, e se fosse stato democristiano non avrebbe comprato il quotidiano della Democrazia Cristiana. L’uomo aveva uno stipendio dignitoso, ma comprava pochissime cose, evitava di lasciarsi sedurre dagli slogan e dalle esigenze indotte dalla pubblicità. La pubblicità degli elettrodomestici prodotti dall’uomo esaltava la qualità di lavatrici e lavastoviglie, arrivando a sostenere: Danno rilievo alla vostra personalità.

La coppia aveva acquistato l’appartamento, l’aveva arredato in modo frugale, comprando pochi mobili e gli elettrodomestici indispensabili – il frigorifero e la lavatrice – ma non la lavastoviglie, sebbene la producesse proprio l’uomo lavorando alla catena di montaggio. E invece, dopo cena, l’uomo lavava i piatti, anzi, pretendeva di lavare i piatti: dopo otto ore di lavoro in catena di montaggio, amava riempire il lavandino di detersivo e immergere le proprie mani nell’acqua calda mimetizzata nella schiuma bianca, per allontanare e dimenticare – nel calore che diventava molto in fretta tepore e freddo in pochi minuti – il motivo per cui aveva passato tutte quelle ore dentro la fabbrica. Una lavastoviglie, invece, glielo avrebbe ricordato sempre.

Del resto, come anticipato all’inizio di questo omaggio a uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento, l’uomo si era distinto per la frugalità quasi assoluta, che rasentava il fanatismo mistico, se soltanto l’uomo fosse stato incline al misticismo religioso. 

Non aveva mai voluto prendere la patente di guida e quindi non aveva mai comprato un’automobile. La distanza dalla casa alla fabbrica era di 1300 metri. L’uomo percorreva quel tragitto quasi sempre in bicicletta, a volte a piedi, impiegando, a seconda della scelta, quattro o sedici minuti. Usava la bicicletta in qualsiasi stagione dell’anno, quando pioveva pedalava proteggendosi con un ombrello; qualora nevicasse, davanti a una decina di centimetri sull’asfalto decideva di andare al lavoro a piedi. Indossava la tuta da operaio fornita dall’azienda, un giubbotto blu in autunno-inverno, e calzava scarpe antinfortunistiche. 

In primavera-estate, non appena tornava a casa scendeva nel proprio orto. L’uomo coltivava un piccolo pezzo di terra ricavato nel campo adiacente al condominio: lattuga, pomodori, zucchine, melanzane. Indossava un paio di jeans, una canottiera bianca, e calzava sandali di plastica, marrone, quel tipo di sandali che abbiamo visto in luoghi marini fin da quando siamo nati, quasi sempre di colore rosso, e invece l’uomo li aveva acquistati marroni, forse perché marroni, di plastica, non li voleva nessuno. 

Cenava presto, verso le 18.30, poiché dopo aver lavato i piatti scendeva in cortile – di lunedì, mercoledì e venerdì – per occuparsi del giardino condominiale. È un mistero immaginare cosa pensasse mentre fissava l’acqua uscire dalla canna. A volte ripeteva frasi che sembravano originati da un discorso rimasto incastrato nella propria mente e centellinato da un gocciolare in dialetto milanese.

Incoue (oggi). E poi taceva.

Vegna chi (vieni qui), come se parlasse a un insetto che gli girava intorno disturbandolo, come se parlasse all’aria, a una parola. E poi taceva.

Giüga no a la bala (non giocare a pallone). E poi taceva.

Il sabato, una volta al mese, tagliava l’erba del giardino condominiale. Non è chiaro se lo facesse per guadagnare qualcosa oltre allo stipendio. In quel periodo storico, un operaio guadagnava abbastanza per mantenere una famiglia di tre persone. 

L’amministratore condominiale era contento della sua disponibilità. Quando la fabbrica di elettrodomestici chiudeva per ferie – quattro settimane in agosto, come era consuetudine in quegli anni – l’uomo non andava in vacanza. Si alzava all’alba, pedalava per sette chilometri e raggiungeva la sponda del fiume. Se andava bene pescava alborelle, un paio di trote, tornava subito a casa, la moglie cucinava il pesce. Dopo pranzo l’uomo abbassava a tre quarti la tapparella della camera da letto e si addormentava in penombra. 

A differenza della maggioranza degli altri condomini, non aveva montato sul balcone le cosiddette veneziane, quei serramenti di listarelle verdi, di plastica, collegate da nastri e orientabili in modo da variare il flusso luminoso. Non aveva acquistato nemmeno un piccolo ventilatore. Usufruiva della corrente d’aria fresca generata dal lasciare aperte tutte le finestre. Quando si alzava, beveva un caffè con la moglie e andava nell’orto. Innaffiava utilizzando l’acqua di una roggia che scorreva a pochi metri. 

Dopo cena, lavava i piatti, scendeva in cortile tre volte alla settimana, per innaffiare il giardino condominiale.

Può sembrare noioso passare così le quattro settimane di ferie, o meglio, la vita; eppure le quattro settimane di ferie passavano davvero in fretta, proprio come novant’anni, proprio come la vita; e a settembre ricominciava il lavoro alla catena di montaggio delle lavastoviglie. 

In autunno e in inverno, l’uomo indossava il giubbotto blu sopra la tuta da operaio. La moglie, quando usciva per andare al mercato o al supermercato, indossava un giaccone e calzava scarpe basse stringate. Difficile dire se, almeno all’inizio del matrimonio, avesse desiderato un altro stile di vita; difficile dire se la sobrietà rivoluzionaria dell’uomo fosse condivisa e incentivata dalla moglie casalinga, oppure se la donna subisse le scelte estremiste del marito. A ogni modo, la donna usciva quasi sempre in bicicletta, una Graziella con la quale ritornava a casa traballante, poiché infilava due sacchetti della spesa ai lati del manubrio.

A differenza di molti operai, che si indebitavano per acquistare a rate la pelliccia desiderata dalle mogli, desiderata da loro stessi per avere una moglie impellicciata, l’uomo non aveva mai comprato una pelliccia.

Eppure avrebbe potuto subire le pressioni sociali, le convenzioni conformiste che, nelle giornate festive e prefestive si manifestavano in modo evidente. Capitava che la coppia uscisse di sabato pomeriggio nel centro della cittadina, proprio come altre coppie. 

Nel centro affollato incontravano anche i colleghi dell’uomo, operai e impiegati che passeggiavano assieme alle mogli impellicciate: pellicce per lo più di opossum, ma non mancavano, tra gli impiegati, chi aveva scelto la pelliccia di volpe bianca, e non mancavano, tra i capireparto, chi aveva scelto, per distinguersi sia dagli operai sia dagli impiegati, una pelliccia di visione. Ecco allora che le parole ascoltate durante la pausa pranzo – opossum, volpe, visone – avevano un senso, in particolare opossum, che l’uomo identificava con un desiderio più accessibile di altri, un desiderio che, a maggior ragione, riteneva superfluo.

Eppure, nonostante la parata di animaletti uccisi che si muovevano lenti o stazionavano davanti alle vetrine dei negozi, l’uomo non aveva mai ceduto, e la donna neppure: avanzano in quella carneficina stretti nei loro giacconi di panno.

La domenica, nessuno dei due andava a messa, sebbene avessero seguito i normali riti cattolici: si erano sposati in chiesa, avevano battezzato il figlio, lo avevano mandato a catechismo per la comunione e poi per la cresima.

Il figlio nei primi anni di vita si era adeguato allo stile di vita austero imposto dal padre, ma già durante le scuole elementari aveva sperimentato quanto fosse difficile confrontarsi e competere con le vite degli altri: nessuna vacanza al mare, in montagna, nessuna immersione, nessuna camminata, nessuna nuova città, nessun monumento, nessuna avventura vacanziera da raccontare, e crescendo, nessuna nuova ragazzina incontrata al mare, in montagna. E così, dopo la terza media, forse per allontanarsi dallo stile di vita imposto dal padre, il figlio aveva deciso di abbandonare gli studi. Era andato a lavorare come operaio in una piccola fabbrica, molto più piccola di quella in cui lavorava il genitore. Aveva comprato un motorino, un Garelli. È plausibile credere che il padre si fosse opposto all’acquisto, ma così come aveva accettato la decisione del figlio di interrompere gli studi, allo stesso modo aveva accettato l’acquisto del Garelli. E tuttavia aveva imposto alcune restrizioni: il figlio poteva guidare il Garelli soltanto di sabato e domenica, non poteva usarlo durante la settimana. Il figlio andava al lavoro in bicicletta, proprio come il padre.

Quando era diventato maggiorenne, il figlio aveva pensato di comprare un’auto, e il padre non si era opposto. Il figlio aveva scelto una Fiat Ritmo, ma il padre, ancora una volta, aveva imposto di non utilizzare l’auto durante la settimana, e il figlio, benché fosse maggiorenne, aveva obbedito. 

Padre e figlio continuavano ad andare al lavoro in bicicletta. 

L’azienda di elettrodomestici non andava bene come dieci, vent’anni prima. L’azienda era stata acquisita da un’azienda più grande che aveva pianificato molte acquisizioni in Italia e all’estero, e come un impero troppo smanioso di ingrandire la propria influenza, alla fine era crollata, trascinando con sé le aziende controllate. 

L’uomo aveva fatto appena in tempo ad andare in pensione. Il figlio si era sposato e il padre, grazie alla liquidazione, aveva aiutato il figlio a comprare una villetta.

L’uomo aveva continuato a vivere come nei decenni precedenti, se si eccettua la libertà conquistata andando in pensione dopo trentacinque anni di fabbrica.  

Nessuna vacanza. La pesca. L’orto. Poi aveva smesso di coltivare l’orto e di pescare. Usciva in bicicletta un paio di volte al giorno. Fino a novant’anni. 

Come a volte capita in questi casi, marito e moglie sono morti a distanza di pochi giorni.

Qualche settimana fa ho visto un trentenne davanti al condominio, stava appendendo un cartello, l’annuncio di un’agenzia immobiliare con la scritta vendesi. 

Poteva essere l’appartamento acquistato dalla coppia mezzo secolo prima, l’appartamento che il figlio ha deciso di vendere; forse il figlio ha perlustrato la casa arredata come cinquant’anni fa, la cantina quasi vuota, il garage quasi vuoto, se si eccettuano le due biciclette dei genitori.

Sarebbe troppo facile equiparare lo stile morigerato di quest’uomo e di questa donna con quello di molte persone più o meno giovani che si preoccupano delle sorti del pianeta; persone che, in pochi anni di vita, hanno prodotto più CO2 di quanta ne abbia prodotta quest’uomo in novant’anni di esistenza.

Ha usato la stessa bicicletta negli ultimi cinquant’anni. Non ha mai preso un aereo. Mai una nave. Mai un autobus. Mai un treno. Non ha mai guidato un’automobile. Non ha mai usato il Garelli del figlio. Lo hanno trasportato sull’ambulanza che lo ha condotto in ospedale. Lo hanno trasportato sul carro funebre che lo ha condotto al cimitero. 

Ha vissuto novant’anni, in Occidente, muovendosi dalla casa alla fabbrica in bicicletta o a piedi, come un cinese del Novecento di Mao, ma resistendo a molte più tentazioni. Se tutti gli abitanti dell’Occidente novecentesco avessero adottato il suo comportamento, forse ci sarebbe stata una disoccupazione di massa. Ignoro quanto sia desiderabile una vita come la sua. Ignoro quanti miliardi di persone sarebbero disposte a vivere come lui. 

E chissà se uno stile di vita come il suo avrebbe potuto salvare il pianeta. 

Alle scuole elementari, la maestra ci aveva portato a visitare la fabbrica di elettrodomestici. Avevo visto l’uomo concentrato lungo la catena di montaggio, senza che potesse sollevare lo sguardo. Come capita quando una scolaresca visita un luogo con intenti pedagogici, anche la catena di montaggio si era fermata per alcuni istanti. L’uomo aveva sollevato la testa e, riconoscendomi, aveva abbassato lo sguardo, colpito dall’assenza di rumore, dal silenzio artificiale coperto dalle voci di chi ci accompagnava. Credo che non fosse contento di essere esposto a un gruppo di bambini, e in particolare, a me, che lo conoscevo. Una sorta di pudore per la propria condizione, per la mia impudenza infantile che immaginava di poter guardare tutto, di avere davanti ancora tanto tempo, di essere lì, nel 1974, fuori dal tempo, poiché perfino il tempo produttivo si era inchinato per qualche istante all’afflato educativo; poi i macchinari erano ripartiti, avevo fissato l’uomo e non mi era sembrato più lui, come se il rumore in sottofondo e i gesti necessari componessero un’altra persona, e non l’uomo che innaffiava l’orto, il giardino condominiale, l’uomo che non desiderava nulla. 

Mi ero allontanato assieme al resto della classe, ero bambino e mi sentivo mortale, avevo guardato i miei compagni, le mie compagne: bastava poco, per non essere più noi, mezzo secolo fa. 

ARTICOLO n. 55 / 2023

IL NOSTRO BISOGNO OCCIDENTALE DI ORIENTAMENTO

È ora di cambiare le nostre parole se vogliamo adattarci alle nuove realtà. Non siamo consapevoli del fatto che alcuni termini utilizzati per definire concetti specifici o anche vaghi ci imbrigliano in realtà sorpassate, ci portano su antichi binari che ci irrigidiscono la mente, già di per sé organo sempre meno flessibile. 

La parola che vorrei riuscissimo a studiare per comprendere quanto ci porti a concetti sbagliati sulla realtà internazionale è “Oriente.” Tanto quanto la parola Occidente oggi avrebbe bisogno di un sinonimo più preciso.

“Orientarsi” è la parola più usata per indicare la posizione in cui ci trova in un dato istante, sinonimo di raccapezzarsi e ritrovare sé stessi. La forma riflessiva di “orientare” significa capire dov’è l’est, stabilire la propria posizione rispetto al sorgere del sole.

Per vederci più chiaro, soprattutto nelle ore mattutine, greci e romani dell’antichità orientavano i loro templi con affaccio a est. Da questo concetto, in molte lingue si è sviluppata l’idea di “orientamento” come un processo verso la conoscenza di sé.

Nascosto tra le pieghe del nostro linguaggio esiste quindi il bisogno di capire ciò che chiamiamo ancora “l’Oriente.” E oggi ferve un bisogno ancor più pressante, in Europa e in America, di disegnare una mappa per riorientarsi, interrogandosi su come “il vecchio Occidente possa affrontare il nuovo Oriente.”

 È la domanda stessa a essere sbagliata. Non vi è nulla di più disorientante delle parole usate per formulare questa inchiesta. La civiltà nel cosiddetto Oriente non è nuova. È antichissima. 

Il presunto “nuovo Oriente” attinge a quest’antichità per trovare coesione e forza, sia nel collettivismo che deriva dalla filosofia di Confucio, sia nella filosofia induista che nutre la spinta propulsiva del sub-continente inseguendo il suo dharma, e sia nel tradizionalismo familista, dinastico, religioso e culturale che attraversa il Sud come il Nord dell’Asia, dove anche il comunismo cinese si presenta oggi come una forma reazionaria, una propulsione al servizio di un’ideologia antica e che poco ha di innovativo in un mondo basato sul globalismo di Internet, sulle trasformazioni attuali e imminenti dell’Intelligenza artificiale, sulla trasmutazione della società dalla rivoluzione industriale ottocentesca vista in chiave marxista al 2023 cibernetico post-pandemico e inter-connesso del telelavoro. 

La spaccatura dicotomica di “Occidente e Oriente” è una pigrizia storica dell’Europa e delle culture anglo-sassoni, ovvero: le Isole britanniche più il Nord America (Messico escluso) e Australasia. 

Nella terminologia più contemporanea l’aggregazione di questi Paesi viene ora definito come Nord Globale (con l’aggiunta del Giappone). 

Per Asia, Africa e America Latina s’è affermata la definizione di “Sud globale,” a sostituire la gerarchia svilente del termine “Terzo mondo” o quella spiazzante di “Paesi in via di sviluppo,” dove si valuta il cosiddetto sviluppo attraverso una prospettiva europea e anglo-sassone legata a un concetto di progresso non necessariamente condiviso nel resto del mondo. 

Nel contesto bellico iniziato nel 2014, la Russia si identifica in un ponte chiamato “nazione euroasiatica,” il che spiega il suo ruolo di prepotente aggregatore, lanciato a riportare l’Europa alla sua realtà geografica di propaggine estrema di un territorio ininterrotto che inizia ai confini con l’Alaska e termina a Gibilterra.

Tutto ciò per liberarci da una briglia mentale pericolosa, quella costruita sulla parola “Oriente,” pregna di stucchevole esotismo, e dell’aggettivo sostantivato di “orientale,” che oggi nel mondo anglo-sassone viene percepito dalle minoranze asiatiche come un insulto razzista. 

Forse questo ragionamento può servire anche a decostruire l’idea di Occidente, termine che definisce una realtà ancor più magmatica e inafferrabile. 

Definire “gli altri” riesce sempre più facile che definire sé stessi. 

Cos’è l’Occidente oggi? È woke? Odia gli immigrati? È ancora democratico? O ama il leader forte al comando, con pochi limiti? Molti europei sono stati colti di sorpresa dalla Brexit, attoniti di fronte all’isolazionismo anti-atlantista trumpiano, spaccati a est dagli ammiccamenti al putinismo, e in fase di esame di coscienza sulla disumanità tutta occidentale di un colonialismo che ha arricchito il Nord globale negli ultimi cinque secoli. 

Nuovo Oriente e vecchio Occidente. Niente di più sbagliato. 

L’Oriente non è nuovo. Il rafforzamento del ruolo dell’Asia rappresenta un ritorno storico a com’erano gli equilibri internazionali prima della guerra dell’oppio, non è una novità. Una storia interpretata da una vera prospettiva globale ce lo racconterebbe meglio, non questi sussidiari dei vincitori che ci hanno distorto uno sviluppo degli eventi diverso da quanto è accaduto.

Ma, poi, Oriente rispetto a quale punto cardinale? Dov’è collocato il centro di Occidente e Oriente? Nel Medio Oriente di Gerusalemme? Sarebbe una prospettiva giudaico-cristiana che riflette una prospettiva culturale e geografica non condivisa da tutto il mondo. Per Oriente intendiamo spesso l’Asia. Mentre “Oriente” è un termine che colloca l’identità come decentrata da un altrove, “Asia” esprime in modo più neutro sul mappamondo l’ubicazione di una regione specifica dove, si dice, sta germogliando il nostro futuro. Che, come vedremo, è già il presente.

L’Occidente non è vecchio. La cultura europea è più giovane di quella indiana e cinese. Nemmeno antropologicamente siamo i più vecchi, poiché gli esseri umani si sviluppano in Africa, come ci spiega la scienza. I primi esseri umani comparvero in Africa circa 300 mila anni fa. In Asia, 50 mila anni fa. In Europa solo 43 mila anni fa. L’Europa è il continente più giovane, in questo senso. 

Ma anche nel contesto delle civilizzazioni. Le più antiche nacquero in Mesopotamia, in Egitto, nella valle dell’Indus e in Cina. Nessuna in Europa.

I bianchi caucasici non sono altro che il risultato di una tendenza alla depigmentazione cutanea per assorbire vitamina D dai raggi solari, quando per necessità l’eccesso di umanità si è vista costretta a spingersi verso zone dove il sole si nasconde a lungo d’inverno.

La stessa America bianca, quella anglosassone e protestante, quella che comanda, fa le leggi, influisce sull’economia, quella che ha gestito il potere all’interno degli Stati Uniti dalla Rivoluzione americana a oggi, è giovanissima, figlia dell’adolescente Protestantesimo (nel contesto delle antiche religioni) e dell’imberbe Illuminismo (nel contesto delle filosofie globali).

Ciò che chiamiamo Occidente, cioè il Nord globale, non è vecchio. Ma sta invecchiando. Soprattutto, cosa più preoccupante, si sente vecchio. Sempre più vetusta è la sua cultura, poiché noi così la percepiamo.

Il Nord globale è, sì, vecchio, ma in quanto, lasciando da parte gli eufemismi, è pieno di vecchi, torturati da acciacchi e malattie pur rimanendo combattivi. Vecchi nostalgici pieni di vecchie idee, refrattari e inflessibili al cambiamento, all’adattamento, sempre più lenti nell’innovare.

 In questo, l’Occidente è in effetti più vecchio dell’Oriente. Ovvero il Nord globale invecchia demograficamente e sente una stanchezza culturale, aggrappandosi a sani principi di antica democrazia, un rispolverare i diritti civili (dopo aver violato quelli di gran parte del mondo con la colonizzazione), e alla miscela ondivaga di libertà e uguaglianza che si eroga in sede parlamentare, dove gli eletti dovrebbero legiferare per modulare queste due forze plasmanti della società. 

In termini meramente demografici, è giusto parlare di nuova e giovane Asia e di geriatrica e consunta Europa alleata a Nord America-Australasia. 

Giovane Sud e vecchio Nord del globo

Questo di per sé dovrebbe spiegare perché il travaso migratorio conviene a tutti: il Nord globale dovrebbe esportare un po’ di pensionati verso il caldo dei tropici thailandesi, malesi, indiani e indonesiani, e il Sud globale dovrebbe esportare quei giovani in eccedenza che vogliono lavorare nel Nord globale, contribuendo con i loro redditi a finanziare le pensioni del Nord. Bisognerebbe prenderne atto onestamente e organizzare il flusso, evitando gli orrori alle frontiere per i quali saremo ricordati dalla Storia.

Per capire l’Asia come lei vede sé stessa, e liberarci dei nostri offuscati prismi, bisogna iniziare dalle parole. Non parliamo più di Oriente e di Occidente. Parliamo di Asia, di Europa, di America del Nord. Chi gioca ancora con queste parole, nei suoi libri, nelle sue rubriche, manipola una rigidità mentale che è dannosa per tutti. Siamo un po’ più precisi e liberi da divisioni che stanno mutando. E studiamo la storia. Anche quella recente.

Le quattro fasi storiche dello sviluppo asiatico dal Dopoguerra a oggi sono note. Comincia con il miracolo giapponese che risorge dalle ceneri post-atomiche di Hiroshima e Nagasaki e ricostruisce economia e industrie per raggiungere l’acme negli anni Ottanta, inseguita dalla seconda fase, quella delle Tigri asiatiche, guidate dalla Corea del Sud che con la sua ingegneria e duro lavoro si afferma anch’essa creando un contesto regionale attorno al Giappone, aprendo la strada negli anni Novanta alla svolta cinese verso una forma di capitalismo comunista, ossimoro su cui si basa ancora il suo successo (comunisti a casa, capitalisti nel mondo), che apre ora alla quarta fase, quella di un Sud-est asiatico guidato dall’India quinta potenza economica globale, con una crescita dell’economia più veloce del mondo, assieme a Vietnam e Filippine, incalzata dal galoppo dell’Indonesia.

Da più di trent’anni, molti europei e anglo-sassoni tengono gli occhi puntati ossessivamente sulla minaccia cinese. Lì ci sono gli affari, lì c’è una potenza militare che incute timore. E da questo sguardo interessato si forma quindi il timore dello sviluppo del nuovo centro di un nuovo impero. 

Per contro, la Cina predica il desiderio di partecipare, prima inter pares, a un mondo multipolare, dove vige la democrazia tra Paesi, e non il dominio di un super-potere come nel blocco a Ovest, con l’America che fa il poliziotto del mondo e gli altri che si devono accodare. Democrazia nei rapporti tra nazioni che al loro interno hanno ben poca democrazia.

Così, però, ci perdiamo ancora in un paradigma che non è detto si snodi come lo immaginiamo, con la Cina padrona del mondo, una visione in realtà sorpassata. Il futuro prossimo è nel Sud-est asiatico, lì c’è il prossimo mercato. 

La Cina ha già raggiunto un punto di culmine di un arco, non solo demografico, ma anche di espansione economica aggressiva. Difficile vedere crescite esponenziali in Cina come le impennate viste dagli anni Novanta a oggi. Quelle sono previste in India. 

Grazie al contenimento americano, ma anche grazie all’arco stesso dello sviluppo di una nazione, la Cina punta oggi, come tutti coloro che hanno seguito nella tradizione del mercantilismo anche di natura hamiltoniana, al suo mercato interno, a vendere prodotti cinesi ai cinesi, per arricchire la propria economia riducendo la dipendenza dalle esportazioni, dove resta comunque forte. La Belt and Road sembra sempre più un tentativo, molto costoso, di consolidare mercati. E ha avuto risultati poco gloriosi, finora, con investimenti che non hanno generato frutti succulenti. Forse li darà in Africa, ma in Asia, per ora, la scommessa non ha restituito tantissimo. 

Molti temono che il conflitto globale vero non deflagrerà in Ucraina, ma nell’Indo-pacifico. Lì vanno ammassandosi le armi, con l’India che è uno dei massimi importatori e ora vuole diventare un produttore di armi, con grande gioia dei mercanti e produttori europei e anglosassoni di sistemi di difesa. Ma ciò rischia di diventare un ineludibile gioco di détente simile a quello della Guerra Fredda. Un gigantesco affare per tutti i produttori di armi accalcati attorno a Taiwan come fosse il nuovo Muro di Berlino in una nuova Guerra Fredda con, da un lato, il Nord globale guidato dagli Stati Uniti e, dall’altro, il Sud globale che si propone come un riallineamento multipolare dei BRICS (organizzazione intergovernativa di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) cui potrebbero unirsi l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita, Paesi che grazie a Xi Jinping per la prima volta in molti anni si stanno stringendo la mano nonostante siano occupati in una guerra per procura prolungata nello Yemen. Le basi del mondo multipolare potrebbero chiamarsi quindi BRICSIA.

Ma non è così elementare. Sarebbe bello poter semplificare tutto così. La realtà è che i protagonisti sulla scacchiera della geopolitica operano in maniera più complessa. I rapporti all’interno dei BRICS sono triangolati. Cina e India hanno un conflitto militare sull’Himalaya. Mentre la Cina sostiene il Pakistan, altro nemico nucleare dell’India, Mosca pare sostenere Delhi cui vende armi e che sostiene da sempre in sede Onu. 

La Cina tiene la Corea del Nord sotto la sua ala protettiva, provocando il Giappone, colpito dai giochi missilistici di Kim Jong-un. Iran e Arabia Saudita sono ufficialmente in guerra. E mentre in questa rete sempre più complicata la Cina tesse le sue alleanze, la sua flotta navale provoca nazioni filoccidentali come le Filippine di Marcos, spinte sempre più verso nazioni come l’Australia, il Giappone, gli Stati Uniti e l’India alleate nel patto strategico Quadrilaterale, chiamato il Quad. 

L’India, com’è importante notare, fa da perno sia nei BRICS del Sud globale che nel Quad del Nord globale. Riesce a barcamenarsi al centro di questa nuova e presunta Guerra Fredda come Paese centrale, alleato da un lato e dall’altro. Ed è per questo che oltre alla Cina bisogna fare i conti proprio con l’India, che nel 2023 supererà la Cina in popolazione.

Dopo la pandemia è bene rilevare che le nazioni del BRICS contribuiscono di più al Pil globale, in termini di parità di potere d’acquisto (calcolando quindi anche i tassi di cambio), della somma dei Paesi del G7, cioè America, Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, Canada e Italia. Il declino del G7 a scapito dei Paesi oggi facenti parti del BRICS è iniziato nel 1992 (con la crescita cinese), ma con la pandemia le curve si sono incrociate e divergono. Brics su, G7 giù.

Significa che siamo al culmine del decoupling, cioè che il mondo si sta spaccando anche commercialmente in due blocchi? Non è proprio così. In realtà la globalizzazione è viva e lotta insieme a noi. Anche perché è una forza verso la quale ci orientiamo sempre più, dopo i danni del protezionismo del Diciannovesimo secolo. 

Si parla tanto dei disastri della globalizzazione soprattutto perché ha impoverito una parte della classe medio-bassa degli Stati Uniti, gli elettori di Trump, e dell’Europa, gli elettori della destra nazionalista. Ma ciò che non si dice è che il commercio tra Cina e Stati Uniti nel 2022 è cresciuto del 10% in rapporto al 2021. Che la produzione di iPhone si sposta sempre più dalla Cina all’India, ma resta globale. E che con la nuova corsa al riarmo nell’Indo-Pacifico, compresi i nuovi accordi siglati anche dal governo Meloni nella riunione del G20 il mese scorso a Delhi, il flusso commerciale tra Nord e Sud globale non farà che crescere, in entrambi i sensi.

La paura nucleare

C’è quindi da stare tranquilli? Sì, tranne per la minaccia nucleare. Non solo per i missili putiniani e la frontiera Nato in Finlandia, ma proprio in Asia, dove l’India si confronta con il Pakistan e con la Cina, impegnata nei giochi navali a Taiwan. In Asia, dove un consolidamento del dialogo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe creare un patto pericoloso verso lo sviluppo di armi nucleari in entrambi i Paesi. E senza scordare i giochi pericolosi nella Corea del Nord, nonostante sembrino sempre grida di aiuto per ottenere denaro in cambio di tranquillità in Nord Asia, il gioco che fa da sempre la famiglia al potere lassù. 

Per tornare alla domanda iniziale: come “orientarsi” in tutto ciò? Capendo che non c’è dunque un confronto tra il vecchio Occidente e il nuovo Oriente. 

C’è un Nord globale che va ridefinendosi, che nel 2024 con le elezioni presidenziali americane potrebbe cambiare radicalmente (se la guerra in Ucraina non dovesse terminare prima delle elezioni americane, e se dovesse vincere Trump, finirà subito la guerra?), dove la Nato sembra rafforzarsi, ma la Ue che ha perso il Regno Unito vede al suo interno forze che ammiccano alla Russia e nazioni che potrebbero riprendere a flirtare con la Via della Seta. 

E poi c’è un Sud globale in cerca di una coesione, ma il cui futuro non può essere interpretato con la chiave storica utilizzata negli ultimi secoli, poiché potrebbe presentare sorprese, in quanto espressione di mentalità ben diverse da quella che ha trasformato il mondo, dominandolo, per qualche secolo.

ARTICOLO n. 54 / 2023

ALLA RICERCA DEL PIACERE PERDUTO

Sesso, godimento, desiderio

Alcuni anni fa, in un periodo in cui ero ancora una balda e giovane studentessa universitaria, mi capitò di vedere un documentario spagnolo su sessualità ed eros in Giappone. Il documentario, che si intitolava L’Impero dei Senzasesso, raccontava come la terra nipponica detenesse già ai tempi (il 2013) il record mondiale di astinenza sessuale, con oltre il 40% della popolazione tra i 18 e i 35 anni che si dichiarava vergine e non interessato/a ad avere un incontro sessuale o una relazione. 

La cosa più curiosa, però, è che il Giappone era (ed è) al contempo il paese con un’industria sessuale altamente redditizia, posizionandosi tra i primi paesi al mondo esportatori di pornografia, bambole gonfiabili e addirittura androidi studiati ad hoc per soddisfare i piaceri sessuali degli astinenti. Infatti, mentre gli incontri sessuali di coppia continuano la loro inesorabile decrescita, lo stesso non si può dire dell’autoerotismo e del consumo di pornografia di ogni tipo. Gli onakura, ovvero negozi dedicati alla masturbazione (principalmente maschile) ed equipaggiati di cassette pornografiche, sex toys e addirittura dipendenti pagate per guardare,proliferano nelle città giapponesi ormai da anni. Sono ambienti scuri, isolati e solitari che i frequentatori apprezzano molto poiché, dicono, trovano l’idea di un rapporto sessuale o romantico estenuante e preferiscono appagare il proprio desiderio in solitaria senza bisogno di interfacciarsi con un essere umano. 

Se ai tempi in cui consumai quel documentario il Giappone mi sembrava un mondo distante, distopico e ai limiti dell’assurdo, negli ultimi anni mi è capitato di ripensare spesso alle storie degli hikikomori (“i reclusi”), dei parasaito shinguru (“i single parassiti”, ovvero persone che vivono con i genitori oltre i vent’anni) e, in generale, alla sekkusu shinai shokogun (“sindrome del celibato”) giapponese, cominciando a scorgere i sintomi di queste tendenze anche nelle società occidentali, sebbene naturalmente con alcune alterazioni. Ciò che mi risulta particolarmente intrigante è la trasversalità di un’astinenza sessuale che sembra trovare il suo nucleo non tanto in un completo abbandono del piacere, quanto più in una forte crisi delle relazioni umane.

In effetti, di recessione sessuale si parla sempre più spesso anche da noi, e se ne parla soprattutto nei termini per cui essa pare affliggere specialmente le generazioni più giovani. Già da prima della crisi sanitaria del Covid-19, nel 2018, la rivista Atlantic battezzava questo fenomeno pubblicando un articolo dal titolo Perché le persone giovani fanno così poco sesso?, il quale riportava alcuni dati rilevanti sulla vita sessuale della cosiddetta Gen Z e dei Millennial che, secondo numerose ricerche condotte in diversi paesi occidentali e orientali, stava subendo un notevole calo sia nella quantità che nella qualità. Anche in Italia il fenomeno è stato indagato soprattutto dopo la pandemia e, nel 2020, uno studio dell’Università di Firenze e di Catania ha mostrato come oltre la metà dei giovani si dichiarasse non appagato sessualmente. 

Ma da dove arriva il rifiuto del sesso in una società ormai sempre più pornificata in cui la rappresentazione sessuale è diventata parte integrante della nostra cultura e quotidianità? A questa domanda e a tutte le sue contraddizioni è dedicato l’ultimo saggio di Stella Pulpo, intitolato C’era una volta il sesso: Divagazioni ombelicali per ritrovare il piacere perduto in uscita in questi giorni con Feltrinelli Urra. Nel volume, l’autrice – già nota al pubblico femminile millennial per il suo storico blog “Memorie di una Vagina” – indaga con ironia e rigorosità il fenomeno del calo del desiderio sessuale e, di conseguenza, del nostro piacere. Mettendo a nudo il suo trascorso personale prima come donna, poi come femminista e infine come madre, Pulpo fa dialogare una moltitudine di fenomeni che costellano il mondo della sessualità sollevando una serie di riflessioni importanti sul legame tra la recessione sessuale e un’angoscia esistenziale sempre più pervasiva. Attraverso un’analisi leggera ma mai superficiale, l’autrice raccoglie diverse ricerche e punti di vista che la portano alla conclusione che le cause della recessione sessuale vadano ricercate nel sistema capitalista (basato sui concetti di competizione e individualismo) e l’incertezza del futuro (nero, precario e imprevedibile), i quali sviluppano delle conseguenze mortali sulla nostra libido e sul nostro piacere. Del resto, già nel 1955 il sociologo Herbert Marcuse scriveva nel suo Eros e civiltà che una società votata al lavoro, schiava dei ritmi capitalisti e vittima della repressione erotica sarebbe stata destinata all’infelicità e al disagio psicosociale. Che una società stressata, arrabbiata e impaurita faccia fatica a ricavarsi del tempo per pensare al piacere non è una novità (tanto che l’etnografa Kristen Ghodsee addirittura sostenne attraverso uno studio antropologico del 1990 che i sistemi socialisti e improntati alla collettività migliorassero l’appagamento sessuale e la qualità dell’intimità). 

E in effetti, chi riesce a dirsi oggi davvero immune a stati mentali deleteri per la salute come l’ansia, la depressione, lo stress, il senso di solitudine e di abbandono e la stanchezza? In questi ultimi anni, duri e tesi, abbiamo normalizzato così tanto il malessere psicologico che sembriamo esserci ormai arresi a un’esistenza in cui il piacere, in tutte le sue forme, viene relegata all’ultimo posto nella lista delle nostre priorità. Il tempo e lo spazio dedicati all’intimità non solo si sono assottigliati, ma hanno preso sempre più la forma dello smarrimento, della mancanza di interesse vero l’Altro, del mito della performance e soprattutto della criminalizzazione del piacere come attività non produttiva. In altre parole, le strutture sociali hanno contribuito a modellare e orientare il nostro desiderio fino a ridurlo ai suoi minimi storici, mantenendolo vivo unicamente all’interno di quelle attività che vengono ritenute proficue per il sostenimento dello status quo.

È questo il caso, ad esempio, della fertilità, del lavoro domestico e riproduttivo, e del desiderio maschile, concetti ancora profondamente radicati ai dogmi patriarcali e alla divisione dei ruoli sociali secondo regole binarie. Come bene spiega l’approccio femminista marxista, in Italia rappresentata dai preziosi contributi di Silvia Federici, non è infatti possibile analizzare le contraddizioni del sistema capitalista senza coglierne l’intersezione con il sistema patriarcale, poiché il capitalismo non solo è compatibile con lo sfruttamento e la produzione di gerarchie, ma ne è anche il principale produttore e fruitore. Proprio per questa ragione la disuguaglianza di genere, e tutti i costrutti culturali che essa si porta con sé, diventano una preziosa fonte di sussistenza per il sistema dominante. E anche per questo il piacere può esistere solo in una formula mercificata, commerciale e sempre più relegata all’ambito individuale. 

In questo senso, anche Stella Pulpo ragiona su come gli stereotipi di genere, i tabù e in generale la “maleducazione sessuale” siano complici di un sistema che finisce per sopprimere il piacere e il desiderio a favore di un’insoddisfazione vitale. Ed è qui che temi caldissimi come il consenso, la comunicazione, l’educazione al piacere, il poliamore e la fluidità relazionale emergono sottoforma di argomenti di cui non possiamo più ignorare l’esistenza, pena fustigarci con vite preimpostate e prescelte per noi, fatte di regole che non funzionano più e che limitano il raggiungimento del nostro piacere. Il calo del desiderio sessuale ed erotico, allora, simbolizza più il guasto di un sistema economico, politico e sociale di matrice capitalista-patriarcale che ci inibisce, ci intristisce, ci affatica e ci dissolve. In un mondo ormai pervaso di coach motivazionali, mindfulness e manuali che suggeriscono di pianificare i nostri momenti di piacere come se fossero appuntamenti di lavoro, Pulpo suggerisce l’adozione di una “resistenza erotica” che sfidi il sistema e, parafrasando Elisa Cuter, ci aiuti a ripartire dal desiderio. 

Non è molto lontana la sua posizione da quella di adrienne maree brown, che nel suo libro Pleasure Activism: La politica dello stare bene, pubblicato nell’estate dello scorso anno, immagina una militanza e una resistenza che mettano al centro proprio il concetto del piacere, inteso in senso ampio come rivendicazione della felicità, della soddisfazione, dell’umorismo, delle arti, e ovviamente anche del sesso. L’attivismo del piacere, secondo maree brown, attinge alla felicità e allo stare bene come una nuova forma di produzione di giustizia, liberazione e guarigione, mantenendo lo sradicamento dell’oppressione come l’obiettivo finale a cui ogni lotta dovrebbe aspirare. «Quando sono felice, ne beneficia il mondo», scrive l’autrice, ricordandoci che anche lo spazio e il tempo per il piacere fine a se stesso sono un diritto, e che, in assenza del godimento e della gioia necessari per scegliere di vivere a pieno la nostra vita, forse nemmeno le disuguaglianze, le ingiustizie e i sistemi oppressivi possono venire davvero sconfitti e radicalmente sovvertiti. 

Ci troviamo in un punto morto della storia in cui l’individualismo e l’egoismo che caratterizzano le società capitaliste del nuovo millennio stanno creando fratture difficilmente sanabili. Forse, però, se ricominciassimo a mettere a fuoco le nostre vite attraverso la lente del desiderio con una maggiore consapevolezza di noi stessi e dei nostri bisogni, si potrebbero finalmente creare nuovi spazi di riflessione politica e nuove utopie a cui aspirare.

Anche perché, se i nostri corpi nascono ed esistono per poter provare piacere, non è alquanto contro natura vivere in un sistema che punta a eliminare ogni fonte di benessere? O è forse preferibile un mondo fatto di onakura in cui rinchiuderci in solitaria per evadere dai dolori del mondo? Io, personalmente, preferisco credere nella resistenza erotica. La lotta per la liberazione del piacere non è più rimandabile.

ARTICOLO n. 53 / 2023

GIANNI CELATI: FERMARSI

Trilogia Celatiana. Nascondersi

Fermarsi, prima o poi bisogna fermarsi. Ecco una verità struggente della materia organica, più struggente mi pare della verità della morte, perché la morte è tutto tranne che stasi, la morte è trasformazione, decomposizione, nigredo, nuova vita, basta leggere il Bardo Thodol per rendersi conto quanto in Occidente abbiamo scelto di abdicare a metà della vita quando abbiamo deciso che la morte è solo non-essere invece che una nuova forma dell’essere. Ma fermarsi è doloroso, ha a che vedere con la perdita dell’energia, con l’energia che ci lascia. Abbiamo camminato e camminato verso l’orizzonte e alla fine l’abbiamo raggiunto, non c’è più nessun posto dove andare, ci sediamo e lasciamo che l’erba e il muschio ci seppelliscano. Nel Suffolk, cercando di raggiungere una spiaggia mediocre battuta dal vento in una primavera piovosa, passo davanti a un allevamento di maiali: gli adulti sembrano sassi tanto sono immoti, eppure fino a poco fa, quando erano piccoli, avevano tanta energia da non riuscire a stare fermi. Com’è possibile? La visione mi rattrista più della pioggia. La spiaggia è peggio che mediocre, è brutta, c’è un uccello morto, credo un cormorano ma è difficile dirlo perché è mezzo sommerso del mare, le piume incrostate dalla salsedine, è lontano e non ho più voglia di camminare per raggiungerlo. L’universo si espande, si raffredda e rallenta. Sembra così ovvio che l’energia vitale, il chi, sia l’unica cosa degna di essere studiata nel mondo, eppure pochi di noi ci badano, oggigiorno, a queste latitudini.

Alla fine anche Gianni Celati si è fermato: in Inghilterra, nel 1990. Non che si sia fermato davvero, ha continuato ad andare e venire, è tornato alla sua Emilia ancora per anni, ha girato mezzo mondo, ma insomma ha messo radici in qualche maniera, anche se alla sua maniera strana, sghemba, incerta, precaria. Abbiamo detto, nella prima parte di questo saggio, che tutto in Celati è duplice: uno strabismo, una sovrapposizione, come un’interferenza di due canali radio. Ogni cosa in Celati è enigmatica, e anche la sua decisione di fermarsi in Inghilterra lo è. Certo, Celati in Inghilterra ci veniva dai tempi del dottorato, e ha sposato una donna inglese, ma siccome negli scrittori veri non c’è davvero distinzione tra vita e letteratura, non possiamo fare a meno di chiederci quale sia il significato letterario dell’Inghilterra celatiana. Quando Cealti è morto, nel gennaio del 2022, ho letto in un profilo che il suo era stato un esilio, come quello di Meneghello, ma non sono d’accordo: Celati era in esilio anche prima, e allo stesso tempo era sempre a casa, non perché fosse un apolide, un cittadino del mondo, ma perché in lui la casa era proprio quello spazio aperto dall’esilio, quel movimento tra le parole.

No, non credo che Celati fosse in esilio in Inghilterra. “Esilio” è una parola troppo drammatica, troppo seria, e implica una polemica avrebbe definito “burocratica”, del genere che lo esasperava. Invece penso che in Inghilterra, letterariamente parlando, Celati ci sia venuto per nascondersi, ed è ancora nascosto tanto bene che nessuno l’ha trovato, né da una parte né dall’altra della Manica.

Inghilterra

L’Inghilterra è lo specchio attraverso cui si passa perché tutto sia uguale ma anche diverso, o diverso in una maniera che sembra uguale. È un’illusione, un gioco di prestigio, credi di vedere ciò che hai sempre visto e invece ci sei passato dietro e nemmeno lo sai. Vedi il negativo delle cose e nemmeno lo sai. Di tutti i posti in cui poteva decidere di stabilirsi, Celati ha scelto il più simile a Bologna: non Londra, troppo inumana, non le campagne bucoliche, troppo simili a cartoline, e nemmeno i laghi di Coleridge. Ha scelto Brighton, la città più hippy del Regno Unito, quella dove andiamo tutti quanti quando abbiamo bisogno di ossigeno in questa terra desolata del tardo capitalismo isolazionista. Brighton che dopo il referendum di Brexit ha cercato in maniera semiseria di proclamarsi città-stato per protesta, Brighton il paese delle meraviglie. La prima volta che ci sono arrivato mi ero appena trasferito, sarà stato il 2013, e ho subito pensato a quando dieci anni prima da Torino andavo a trovare la mia ragazza che abitava a Bologna, anche qui bisognava saltellare tra ragazzini punk e il suono di bonghi, però c’era il mare. Chissà cos’ha pensato Celati nel 2016 guardando quel mare, guardando verso l’Europa, di questo mondo sempre più ossessionato dai confini e dalle barriere, lui che ha speso tutta la vita a oltrepassare i confini e sfuggire alle barriere. Forse avrà visto un presagio della fine, i tempi stavano diventando inabitabili per uno come lui.

Quando si vive all’estero ci si nasconde sempre dentro a un’altra lingua. Ci si accorge che la lingua è sempre una maschera, ma anche una parte essenziale della personalità, in una maniera che non si coglie pienamente quando si è identificati con la propria cultura: ci sono cose che posso dire solo in inglese perché a dirle non sono io, è un altro, ma questo presuppone che anche le cose che posso dire solo in italiano le dica qualcun altro, perché se non la pensassi così sarei una specie di sciovinista linguistico: ma allora chi sono io senza la lingua? Questa è una domanda a ben guardare molto molto strana, una domanda che apre una vertigine profonda nel senso dell’io, e una domanda che chiunque si muova tra le lingue, come gli emigrati e i traduttori, non può fare a meno di porsi. È come se togliendoti la maschera ti togliessi anche la faccia e ti ritrovassi all’improvviso nudo e indifeso, ma anche libero, e credo che fosse proprio quella libertà che cercava Celati, quella libertà e quel senso di dislocazione, anche se portava con sé dell’angoscia. Per quella libertà Celati veniva amato e celebrato, ma il mondo dall’altra parte dello specchio, quell’angoscia, era anche quella una parte essenziale della sua scrittura.

Celati era molto consapevole della dimensione allo stesso tempo ironica e angosciante di questa dissonanza. C’è un racconto del 1991 intitolato Il desiderio di essere capiti in cui il narratore si trova ricoverato in un ospedale inglese e non riesce a parlare con l’infermiera giamaicana, lei non lo capisce e lui non capisce lei, e la situazione è comica ma fa anche paura, perché questo narratore è malato e vorrebbe che qualcuno lo capisse, invece i suoi sforzi si perdono, è come se un rumore statico coprisse la comunicazione. Quando si vive all’estero si perde molto di quello che si dice, quasi tutto, il che ti fa capire meglio come quasi tutto quello che dici anche nella tua lingua madre viene perso, e nessuno capisce veramente nessun altro, e la cosa è un po’ terrificante. Quando ho letto per la prima volta questo racconto di Celati lui era appena morto e non avevo capito che fosse un racconto, né che l’avesse scritto trent’anni prima: mi sembrava un resoconto dei suoi ultimi mesi da un ospedale dell’East Sussex. La letteratura serve a farci capire anche meno di quel che capiamo solitamente, e forse è giusto così.

Questa della lingua in un certo senso è una banalità, lo sappiamo tutti come stanno le cose. Ma uno scrittore che vive all’estero può nascondersi anche in altri modi, ad esempio più nascondersi nella tradizione letteraria, e anche questa è una cosa che ha fatto Celati e che in pochi hanno colto, mi pare, forse perché Celati si è portato addosso tutta la vita gli anni del Dams e di Bologna, del Settantasette eccetera, e questo ha un po’ oscurato quello che è diventato nella seconda parte della sua carriera. Prendiamo ad esempio Verso la foce: dove lo mettiamo un libro del genere nella tradizione letteraria italiana? Da nessuna parte, perché in Italia non esiste il nature writing, non esiste nemmeno l’essay in senso anglosassone, e il racconto di viaggio è sempre un racconto della bellezza che opprime il Bel Paese ovunque si vada. In Italia non si cammina molto, magari si cammina in montagna ma non si va certo nell’hinterland di Milano o sull’A4 a raccontare gli abusi edilizi e i capannoni industriali. In Inghilterra invece si cammina moltissimo, in pratica si potrebbe camminare da Londra e Edimburgo e da Norwich alla Cornovaglia senza incontrare opposizioni, mi verrebbe da dire che è proprio per questa abitudine a camminare che le enclosure del 1773 sono state qualcosa di tanto traumatico e che nelle città, persino a Londra, sopravvivono ancora i common, terreni aperti che sono di tutti.

Ma anche qui c’è una dimensione letteraria sottintesa al camminare: perché cos’è tutto questo vagare, questo andare a zonzo, andare avanti e indietro, perdersi e ritrovarsi, se non una metafora del saggio, dell’essay? O anche: che cos’è l’essay se non una fotografia di questo camminare, un camminare della mente, un camminare delle parole? Quando si cammina si attraversano zone belle e zone brutte, e la mente che cammina entra ed esce da cose belle e da cose brutte, a volte c’è il sole e a volte piove, questa è una cosa che il tanto bistrattato British weather insegna a noi italiani che vogliamo sempre il sole, sempre le immagini da cartolina. Quando ti risolvi a vagare in uno spazio privo di desiderio, del desiderio di arrivare a questo o quell’altro posto bellissimo, puoi andare sul delta del Po e raccontare i capannoni industriali e le villette geometrili anche se nessuno capisce esattamente quello che stai facendo né perché.

Hauntology

Oppure pensiamo all’hauntology, questo concetto inventato da Jacques Derrida per parlare degli spettri del marxismo che Mark Fisher ha applicato prima alla musica e poi a buona parte della cultura britannica dell’ultimo secolo: Gianni Celati è forse ciò che più si avvicina in Italia all’hauntology. E dico questo sapendo di essere inaccurato, e sapendo che se Celati mi sentisse, posto anche che sapesse cos’è l’hauntology, cosa che dubito, si arrabbierebbe moltissimo, direbbe che sto paragonando le mele con le pere, e certamente da qualche punto di vista avrebbe ragione. Ma ancora una volta ci troviamo di fronte allo strabismo, alla dissonanza, che è la scrittura di Celati: la sua Emilia leggera e scanzonata è anche inquietante, il mondo che racconta è già finito nel momento stesso in cui lo racconta, e quindi è un mondo di fantasmi, proprio come quello immortalato dalle fotografie di Ghirri che con il loro senso di nostalgia e sospensione, con il loro sottotesto politico implicito, parlano sempre di ciò che infesta, ciò che perseguita, haunt appunto, anche se lo fanno con i colori morbidi e le luci soffuse della provincia emiliana che non hanno niente a che vedere con l’inquietudine, le eerinessdirebbe Fisher, del panorama inglese. Ma non dimentichiamoci che siamo dall’altra parte dello specchio, le cose sono simili ma mai uguali. C’è sempre uno scarto, uno spazio, un’interferenza.

Prendiamo uno dei racconti più famosi di Narratori delle pianureBambini pendolari che si sono perduti. Si potrebbe pensare che è un racconto tenero, un po’ comico, un racconto sull’infanzia come spazio interstiziale, in cui viene ribaltata la prospettiva e sono i bambini a essere accondiscendenti nei confronti degli adulti come se l’età adulta fosse un inconveniente della vita, cosa che in effetti certamente è agli occhi di un bambino. Ma il racconto si conclude con un’immagine strana, inquietante. Ci viene detto che i due bambini si trovano «in mezzo ai campi gelati», che «non vedono più niente» e intorno è «tutto bianco», «una nebbia bianca come non l’avevano mai vista», tanto che ovunque si voltino c’è «una grande parete bianca» nella quale è impossibile «ritrovarsi l’un con l’altro» e anche «vedere il proprio corpo» o «percepire bene un richiamo». I bambini «hanno freddo» e «si sentono soli», non possono andare «né avanti né indietro» e sono costretti a stare lì, «in quello stranissimo posto dove s’erano perduti» finché non gli viene il sospetto che «la vita possa essere tutta così». Poi certamente è un caso, ma che i bambini prendano il treno a Codogno con il senno di poi sembra un’iperstizione.

O pensiamo al racconto Mio zio scopre l’esistenza delle lingue straniere, nel quale il narratore ascolta il figlio nato in Francia e gli viene in mente “un mare pieno di nebbia che non si può traversare”, al di là del quale “c’è uno che ti parla e tu lo senti, ma non ci arriverai mai a farti capire, perché la tua bocca non riesce a dire le cose come stanno, e sarà sempre tutto un fraintendersi, uno sbaglio a ogni parola, nella nebbia, come vivere in alto mare”. O al radioamatore di “L’isola in mezzo all’Atlantico”, che da Gallarate si inventa una vita intera su un’isola al largo delle coste scozzesi e poi quella vita si materializza: onde radio, fantasmi, iperstizioni.

Anche il film dedicato a Ghirri, Strada provinciale delle anime, sembra leggero ma a ben guardare è angosciante. È hauntologico anche nella forma, con quelle dissolvenze da documentario Rai degli anni Sessanta, con quel suo raccontare un mondo già perduto, in procinto di perdersi, un mondo di anime appunto, di spettri. C’è una scena in cui uno degli autobus si perde e il narratore, o uno dei narratori, lo racconta come un episodio divertente, ma intanto vediamo questa corriera che avanza nei campi, sempre più persa, e sentiamo che l’autista parla alla radio e i suoi messaggi sono sempre meno chiari, c’è sempre più rumore statico, siamo da qualche parte nella bassa padana ma potremmo benissimo essere sul traghetto che porta agli inferi, e infatti si sente questo gracidare di rane sempre più forte, si vedono queste inquadrature sull’erba che fanno pensare a un film di David Lynch e all’improvviso, dopo che solo cinque minuti fa eravamo in un paese con degli anziani che parlavano in dialetto, ci troviamo in piena eeriness, in piena crisi dell’agentività: c’è una corriera che avanza ma non c’è più direzione, né un autista, e non c’è nemmeno una sola voce a raccontare questo viaggio verso la terra dei morti ma tante voci incorporee come nell’Ade.

Fantasmi

Ci sarebbe molto da dire su questo tema, molti esempi da portare, anzi bisognerebbe proprio scrivere un libro intero su Celati e l’Inghilterra, ma quello che voglio far notare qui invece è un’altra cosa e ha di nuovo a che vedere con l’atto della scrittura e con l’atto di camminare: Celati non stava mai fermo, viaggiava ovunque, viveva di qua e di là, ma continuava a riscrivere i suoi racconti. I racconti di Quattro novelle sulle apparenze, e anche quelli di Cinema naturale, sono stati scritti e riscritti nel corso di decine di anni. Questo è interessante, perché se la scrittura può essere una forma del camminare, se scrivere può essere un modo di esplorare territori sempre nuovi, può essere cioè la deriva deleuziana dell’Alice che tanto affascinava il primo Celati, la pratica rizomatica di muoversi in tutte le direzioni insieme e nessuna, allora l’atto di riscrivere, e soprattutto quello di riscrivere sempre gli stessi testi, è il suo opposto: il primo è un movimento espansivo, il secondo un movimento di contrazione. Riscrivere è un rimuginare. Rimuginare e rimuginare alla ricerca della cosa luminosa che si nasconde sotto queste parole che non vogliono mai dire niente e non vorranno mai dire niente, anzi più le si lucida e si fanno trasparenti più significano tutto e niente, più il significato si perde, non indicano più una direzione, sono solo uno specchio in cui vediamo riflessi noi stessi e ci mette di fronte a una “grande parete bianca” come i bambini che si sono persi.

Un altro che ha riscritto ossessivamente il proprio capolavoro, ancora e ancora, nell’arco dei decenni, è stato Robert Burton, che ci ha messo tutta la vita a finire Anatomia della melanconia e non era ancora soddisfatto quando è morto, fosse stato per lui avrebbe continuato a riscriverlo per mille anni. Il che mi fa pensare a sua volta a Jan Potocki, anche lui un grande viaggiatore, di cui si dice che abbia lucidato per moltissimi anni la pallottola d’argento con cui si sarebbe ucciso nel 1815 perché era convinto di essere sul punto di trasformarsi in un lupo mannaro. A riscrivere i propri racconti e a lucidare i propri proiettili sono sempre i depressi.

Burton è un buon nume tutelare di questa storia, perché per quanto si viaggi e per quanto si scriva e riscriva prima o poi bisogna fermarsi. Prima o poi la luce scoppiata del pittore d’insegne Menini si affievolisce e bisogna lasciare le cose «da sole nella loro disgrazia». Celati si è dovuto fermare, anche se non si è fermato davvero, anche perché il mondo che stava raccontando, il mondo che aveva cercato di far sopravvivere con l’incantesimo della sua scrittura, stava finendo, quella corriera perduta nei campi della pianura era davvero una corriera di anime in viaggio verso il mondo dei morti. La seconda parte della sua produzione, quella degli anni Ottanta e Novanta, non può essere compresa se non si vede questo aspetto malinconico, se non si capisce che la “ricettività crepuscolare” è prima di tutto una forma di crepuscolo. Nella dissonanza che è la scrittura di Celati, nello strabismo che ha cercato e coltivato in tutta la sua carriera, una parte rimane sempre dietro lo specchio, a guardare le cose dal retro. E quello dietro lo specchio è anche un luogo molto buio e molto immobile, un luogo molto vuoto e impersonale, un luogo di presenze che osservano mute, un luogo di interferenze e parole perdute, un luogo di silenzio.

ARTICOLO n. 52 / 2023

IL MOSTRO NON SI NASCONDE NEI BOSCHI

Il Mostro come corpo culturale

La notte tra l’8 e il 9 gennaio del 2018 al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills va in scena la 75° edizione della cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Guillermo del Toro, in gara come migliore regista per The Shape of Water, sale sul palco dopo aver sentito pronunciare il suo nome per la prima volta in venticinque anni di carriera. La forma dell’acqua, il titolo in italiano, racconta una storia visionaria e in mille sfumature di verde, ambientata durante la Guerra Fredda, nel pieno degli esperimenti militari. Elisa è una ragazza muta addetta alle pulizie di un enorme laboratorio governativo dove avvengono manipolazioni genetiche a scopo bellico. Durante un turno di pulizia, Elisa e la collega Zelda scoprono per caso una creatura antropomorfa anfibia chiusa in una teca di vetro piena d’acqua. Il rapporto che si instaura tra Elisa e il mostro è una storia d’amore gentile e potente, un amore che vive oltre la barriera dei corpi apparentemente incompatibili e che sfocia nel delta dell’eternità. La mostruosità della storia passa di significato dalla creatura che indossa un corpo totalmente aderente alla categoria mentale che abbiamo di “mostro” ai comportamenti dei personaggi che ricoprono il ruolo di antagonisti del racconto, lasciandoci con la domanda – forse più retorica che reale – su chi sia effettivamente il Mostro delle nostre storie. 

Il mostruoso ha una vita millenaria, con radici mitologiche accertate fin dalla cultura accadica, anche se sospettiamo che già nelle società di caccia e raccolta ci fosse una proto-narrazione ben indirizzata in quella direzione. Fin da bambini, infatti, ascoltiamo racconti che ritraggono il mostro col corpo e poi attraverso comportamenti crudeli: golem, vampiri, lupi mannari, calamari giganti, fantasmi, alieni, l’uomo dell’ombra, la strega che rapisce i bambini per mangiarli, pupazzi assassini, draghi, demoni. Tutte queste rappresentazioni hanno lo scopo di creare un antagonista visivamente identificabile, un simulacro di nefandezza, qualcosa che ammonisce chiunque intraprenda un viaggio eroico: alla fine della storia, se sei il protagonista, devi uccidere il mostro per poter consacrare la tua gloria. Viviamo quindi in una costante dicotomia tra l’Eroe e il Cattivo da sconfiggere, eliminando tutte le sfumature che intercorrono necessariamente nella creazione di questi due personaggi. Se l’eroe deve avere successo alla fine del suo viaggio, è norma che nel corso del racconto tutti gli accadimenti e i modi di affrontarli appartengano alla categoria del Bene. Ma se è vero che ogni cosa succede all’interno di una virtù morale che giudichiamo positiva e, di conseguenza, appendiamo la coccarda del meritevole al protagonista, dove finiscono le ombre? E ancora, se tutte le ombre giacciono nelle strutture cognitive e comportamentali del mostro, la condanna è già scritta fin dalla prima parola della storia. E ancora, se la condanna è già scritta, quale curiosità possiamo avere di indagare gli strati che compongono il mostro? Quando ci fermiamo all’assolutismo del “è fatto così e deve morire” se già partiamo imboccati di questo orientamento? Infatti, le dimensioni della mostruosità non vengono mai indagate in profondità, lasciando davanti ai nostri occhi un modello in carta velina che è poco consistente, ma comodissimo da applicare su qualsiasi superficie si voglia inserire dentro la categoria del mostruoso. Ma è altrettanto pericoloso perché la definizione di mostro viene via via svuotata del suo significato rivelatore e livellata all’esigenza di additare velocemente, con uno solo sguardo, ciò che è impuro e per questo deve essere eliminato. Ma il mostro delle narrazioni ha anche una matrice biologica che concorre alla sua definizione, una predeterminazione che passa dal corpo informe e deforme e che manifesta fin dalla vista il suo essere privo di morale, discernimento e regole sociali. E proprio in questo passaggio, nel modo in cui il suo corpo riflette la mancanza di umanità e di virtù morali, si spiega il suo essere antagonista assoluto. Il mostro è tale perché non può fare altrimenti, non ha altre possibilità, è una bestia feroce con un obiettivo – unico – chiaro: distruggere e uccidere.

In Monster Theory Jeffrey Cohen ci regala sette chiavi di lettura per andare in profondità e svelare le sfumature che compongono il mostruoso. Secondo Cohen, il Mostro è quello che altre volte qui abbiamo definito come “corpo culturale”. Quel suo corpo respingente è il prodotto di un complesso intreccio tra tempo, sentimento e luogo, un’applicazione moderna della teoria di Taine. Il mostro incorpora la paura, l’ansia, l’immaginazione, la sperimentazione e il desiderio del suo tempo, avverte il mondo che queste cose esistono e apre una finestra sul prato di fiori appassiti che indossa. Ma proprio per questo motivo, proprio perché è un corpo culturale, il mostro modifica se stesso a seconda del momento in cui viene letto, ma anche di quello in cui viene utilizzato. Per questa capacità camaleontica, il mostro non smette la sua attività alla fine di una singola storia, ma si volatilizza per tornare più avanti, in un altro tempo e in un altro luogo. Questo fa sì che sotto lo stesso nome esistano una serie infinita di creature che non stanno mai ferme e immobili, ma anzi agiscono per logorare i lembi della categoria più grande. Cosa è mostruoso, cosa non lo è? Non serve aspettare molto tempo prima che una categoria così ampia e rassicurante scenda dai racconti e si depositi nel mondo reale, sovrapponendo in modo maldestro il fantastico con la nostra necessità di distacco da eventi truci che non riusciamo a guardare come possibilità del nostro comportamento. Così, la parola “mostro” ha assunto nel linguaggio comune un’accezione ancora più ampia, mettendo in ombra addirittura le creature fantastiche che conosciamo e arrivando in soccorso dell’opinione pubblica di fronte a casi di cronaca che presentano dinamiche ben lontane dallo schema di “buono e giusto” che conosciamo e di cui abbiamo imparato anche ad assorbire le sbavature, certo, ma sempre nei limiti del plausibile. Così diventano mostruosi assassini, femminicidi, pedofili, torturatori, perché se non inseriamo queste persone nell’immaginario fantastico, quali domande dovremmo farci su noi stessi? E quale sguardo stiamo utilizzando?

Perché, vedete, quando parliamo di mostri restiamo sempre aggrappati alla dinamica del viaggio dell’Eroe dove il Buono e il Cattivo sono due personaggi ben distinti. E questo è molto facile perché ci rassicura, a suo modo. Se non siamo noi quelli che finiscono sui giornali, allora significa che siamo dalla parte dei buoni, sulla riva giusta del fiume.Ma se cambiamo le lenti attraverso cui esploriamo le storie e torniamo alla teoria di Cohen, non possiamo più pensare in termini binari, ma dobbiamo iniziare a utilizzare latitudine e longitudine del nostro sistema culturale. E visto che ognuno di noi è un prodotto culturale, formato e riformato su una secolare stratificazione, l’indagine del mostruoso non può avvenire fuori da noi, con delle comparse che indichiamo come mostri nel racconto e che mettiamo sulla riva opposta del fiume, ma nelle nostre profondità. Siamo composti ineluttabilmente da ampie vetrate colorate da cui filtra il sole e da stanze buie in cui proliferano i divieti, le atrocità e la possibilità di compiere qualsiasi gesto. E queste stanze sono chiuse a chiave da una struttura educativa e culturale che ci cresce stabilendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, tutto minuziosamente dettagliato e spiegato non tanto dal motivo per cui certe cose non bisogna farle, ma da cosa capita a chi le fa. Il Michel Foucault della Storia della follia nell’età classica ci dice che la punizione per chi devia dalla norma – e per deviazione dalla norma intendiamo qualsiasi tipo di comportamento che esponenzialmente si allontana dalla virtù morale assoluta – ha lo scopo di eliminare il colpevole, ma anche di educare chi osserva dagli spalti la pubblica gogna. Così, in questo spazio metaforico tra la ghigliottina e il posto in sala, si confondono colpe e necessità, origini e spiegazioni, perché la nostra prima reazione non è mai capire il motivo, ma è sempre prendere le distanze. Così, quando leggiamo sui quotidiani che è stato catturato un mostro e continuiamo a indicarlo in questo modo, quello che facciamo non è comprendere l’avvenimento nella sua matrice, ma rimarcare il prima possibile che noi non facciamo parte di quella storia. Non impariamo nulla agendo in questo verso, perché restiamo sul pelo dell’acqua. E al prossimo femminicidio, al prossimo omicidio, alla prossima vittima e al prossimo carnefice resteremo costantemente immobili nel cercare disperatamente di trovare un punto di distacco, un gesto che ci porti a dire “noi non siamo come loro”. Ma il Mostro non è mai là fuori, non si nasconde nei boschi. Il mostro è la lente attraverso cui possiamo comprendere il nostro tempo e chi siamo, solo se distruggiamo questa distanza e iniziamo a indagare la nostra struttura iniziale, per cercarlo.

ARTICOLO n. 51 / 2023

IL CINEMA È (ANCHE) TRADIMENTO

Intervista di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Le Favolose di Roberta Torre è tra i film italiani più significativi del 2022. Dopo essere stato presentato a Venezia alle Giornate degli Autori, ha ricevuto grandi riscontri al festival di Tokyo e ha vinto il premio per la miglior regia all’IDFA – International Documentary Film Festival di Amsterdam. La fusione innovativa tra gli strumenti filmici è la cifra stilistica di un’opera che coglie l’immenso potere di reinvenzione del reale che le immagini offrono. Con Roberta Torre abbiamo parlato del cinema che è, e che verrà.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Roberta, parliamo di fusione. In fisica la fusione è il passaggio di una sostanza da uno stato solido a uno stato liquido. Nel cinema cos’è? Il passaggio di ciò che consideriamo verità, o realtà, a uno stadio più libero e potente, cioè il verosimile?

Roberta Torre: Io ho sempre bisogno di partire da una storia vera per raccontare qualcosa. Poi però ho anche altrettanto bisogno di tradire quel reale e lavorare su qualcosa di nuovo che sia in grado di evocare una verità di fondo. C’è differenza secondo me tra realtà e realismo. Il realismo a me non interessa, la realtà sì. E di conseguenza è chiaro che non ho l’obiettivo di riprodurre ciò che vedo in una modalità il più possibile fedele al reale, ma voglio lavorare sul tradimento del reale, perché il tradimento secondo me è alla base del racconto. Senza il tradimento una storia diventa cronaca, perde quel valore aggiunto che ha un racconto quando diventa cinema o letteratura. Trovo quindi che la cifra giusta sia quella dell’impasto, una fusione tra ciò che è reale, i codici dell’invenzione, e ciò che la storia reale mi ha evocato. 

G.L.D. E nel caso de Le Favolose cosa ti ha colpito?

R.T. Sicuramente mi hanno colpito le storie reali delle morti di queste persone transessuali. Anche nell’ultimo atto, la morte, le loro aspettative vengono violentate, disattese rispetto alla loro sensibilità più profonda, e si ritorna alle convenzioni che i vivi collegano al loro genere di origine. I transessuali in punto di morte subiscono un mancato riconoscimento del proprio corpo, perché il loro corpo non era mai accettato dai familiari secondo il genere che loro avevano scelto di vivere. Dunque ai funerali venivano rivestiti da uomini quando invece avevano trascorso una vita da donne. C’è una violenza duplice in tutto questo, che mi ha fatto scattare il desiderio di andare fino in fondo, provando a capire come si potesse fare a mettere in scena quella violenza. Ed ecco la fusione, allora. Prendere il frammento di realtà che mi interessava, e tradirlo inserendolo in una nuova narrazione. 

G.L.D. Il tema della transessualità, lo sappiamo, è ormai molto discusso nel dibattito pubblico mainstream, ma le tue protagoniste restano nel cuore grazie ai fremiti della loro umanità, non come programmi politici di solidarietà umanitaria. C’è differenza.

R.T. La loro è una storia di persone, di esseri umani che hanno il diritto di essere ricordati nella maniera più fedele possibile a ciò che sono stati in vita, e il fatto che questo diritto nel loro caso fosse disatteso nella realtà mi è sempre sembrata una grande violenza. Ho lavorato in modo da far venire fuori il loro vissuto e per fortuna i loro ricordi non sono mai stati i ricordi di vittime. Loro sono appunto favolose, non si sentono vittime, sono persone che hanno avuto vite drammatiche, drammi a cui hanno risposto in maniera vitale, vincendo la partita. Ecco, questa è la cosa che sin da subito me le ha fatte sentire vicine. Siamo diventate amiche, proprio perché hanno questa grossa capacità di autoironia e di forza. 

G.L.D. Sì, verissimo. Vedendo il film emerge tanto questa vitalità, questo orgoglio nell’aver vissuto dei drammi e aver reagito evolvendosi, crescendo. Senza cristallizzarsi nella posizione di vittime, che è la preferita di questo tempo.

R.T. Loro sono quasi tutte persone molto realizzate, questo è fondamentale. Non c’è una di loro che sia una persona irrisolta. Il fatto stesso di aver raggiunto un obiettivo che era complicatissimo, soprattutto nell’epoca in cui hanno la maggior parte di loro ha fatto la transizione, le fa sentire vincitrici, persone di successo. Hanno avuto il risultato che volevano, hanno vissuto la vita che volevano, hanno affrontato tutte le difficoltà e alcune volte sono state difficoltà mostruose. Mi ha colpito molto che quando il film è stato visto a Londra al London LGBTQIA+ Film Festival in tanti mi hanno detto che fa ridere. In Italia non è successo. Il pubblico inglese invece l’ha trovato molto divertente, è una delle cose che li ha colpiti di più, è proprio il fatto che è del tutto assente questa sorta di vittimismo. Ma il merito è loro perché come dicevo non si sentono vittime, non si sono mai rappresentate in questa maniera.

G.L.D. Nel tuo film le immagini di finzione e quelle d’archivio s’incontrano e si mimetizzano rompendo un codice linguistico, amplificando la portata dei significati verso l’onirico, verso l’evocazione della memoria. È questa anabasi del reale verso l’immaginifico il tipo di “altrove” dove il cinema può e deve trasportarci? 

R.T. Si tratta di un mockumentary: molto di ciò che sembra archivio in realtà è ricostruito. Un altro esempio di tradimento e di trasformazione del realismo in realtà che il cinema come forma espressiva rende possibile. 

G.L.D. Ci troviamo in un universo di rappresentazione, quello trans, dove in primis era la realtà stessa che attingeva al mondo del cinema. Mi riferisco alla fase della vestizione, del travestimento, una vera e propria messa in scena in favore dei clienti. 

R.T. Questo è proprio ciò che loro dicono sempre. “Tra il delirio e il dramma, abbiamo sempre scelto lo spettacolo”. Alla fine è il senso del film, è la frase manifesto del film insieme a “Il mio corpo è un atto politico”. Il corpo cammina nel mondo e si mostra, si fa vedere, ed è un atto politico perché chiaramente si tratta di corpi non conformi ai generi biologici, e questa situazione crea sentimenti di delirio e dramma. Lo spettacolo allora è una terza strada per mettersi in scena e offre una salvezza: la possibilità di potersi auto-rappresentare e di sfuggire alle classificazioni. Quindi creerei una frase unica, perché le due cose non sono disgiunte. “Il mio corpo è un atto politico e tra il delirio e il dramma abbiamo scelto lo spettacolo”.

G.L.D. Ciò mi riporta a Guy Debord. E forse, questa frase è la migliore spiegazione del perché lo spettacolo sia diventato l’asse portante della nostra società. 

R.T. Lo spettacolo ti rinnova, ti dà la maschera, ti dà la possibilità di svelarti continuamente, di cambiare, di essere altro, e questa cosa chiaramente apre l’immaginario. 

G.L.D. Torniamo agli archivi. Mi pare stiano diventando sempre più centrali nel tuo cinema. Che accade? Si tratta di una scelta estetica o di un sentimento sul contemporaneo, visto che tutti noi, quasi nessuno escluso, oggi abbiamo un archivio personale di immagini pressoché infinito, che si tratti di foto o video, di momenti simbolici o insignificanti? Shakespeare diceva, ne Il racconto d’inverno: «Il re vivrà senza eredi se quello che fu perduto non sarà ritrovato». 

R.T. Il tema centrale mi sembra la memoria evocata attraverso l’archivio, che comunque è portatore, per l’appunto, innanzitutto di memoria. È solo da qualche anno che per il mio cinema penso all’archivio, prima non ci ho mai pensato. Nelle Favolose, come detto, non c’è esattamente la parte storica, perché l’archivio è un archivio ricostruito e un po’ fiction, perché le parti della giovinezza sono interpretate dalle stesse attrici nella parte di se stesse. Sicuramente però il lavoro sull’archivio apre la possibilità di entrare in una storia. Per me, l’archivio nel cinema ha questa valenza, aprire squarci nella storia, ai quali è possibile agganciarsi per lavorare sul contemporaneo. E non come si leggerebbe un libro di storia, ma leggendo l’oggi grazie a delle iniezioni di passato. Credo che questo sia il valore più grande. Sono questo gli archivi. Hanno valenza storica ma non solo. Per esempio a me piace molto anche lavorare sul potenziale onirico degli archivi, ed evocare legami con il presente che siano inconsci.

G.L.D. Mi sembra che molta della produzione audiovisiva di questi anni, soprattutto in Italia, vada nella direzione opposta alla tua, ovvero la descrizione per immagini della realtà premasticata, semplificata. Si assiste alla costruzione di mondi schematici, attenti a riprodurre i temi del dibattito mediatico, veri e propri diorami. Hai anche tu questa sensazione?

R.T. Oggi siamo sovrastati da milioni di immagini, e mi viene in mente un paragone con i vestiti. Armadi pieni, vestiti su vestiti che continuano ad arrivare ma non c’è nessuno che dica vabbè, compriamo meno vestiti perché ce ne sono già troppi, cioè possiamo anche fermarci qui. Con le immagini è lo stesso, ce ne sono infinite e tutte uguali, mentre servono immagini che raccontino qualcosa che fino adesso non abbiamo mai visto. Se dobbiamo ripetere continuamente le stesse immagini, allora io preferisco tornare a prendere quelle del passato, quelle che dal passato sappiano raccontare il contemporaneo. 

G.L.D. La tecnologia, intesa come strumento di produzione e di fruizione, sta condizionando il nostro modo di mostrare e osservare, mi riferisco in primis allo smartphone. Vorrei sapere che tipo d’impatto vedi su produzione e fruizione cinematografica nel futuro prossimo. 

R.T. Sento molto il problema delle troppe immagini prodotte perché i mezzi lo consentono. Oggi chiunque può fare un film, diciamocelo, basta uno smartphone, non era così fino a dieci, o vent’anni fa. E quindi si crea una sovraproduzione di immagini spesso non così indispensabili. Anzi, proprio superflue. Per stare nel contemporaneo bisognerebbe farsi una domanda preliminare: perché io devo fare altre immagini? Cos’ho di così unico da dire che mi devo proprio mettere a fare un film, o a creare un immaginario? Sono veramente all’altezza di farlo? Capisco però che siano domande che nessuno si pone più.

G.L.D. In questa modalità stilistica che si appoggia agli archivi come cambia il rapporto con gli attori e il loro utilizzo?

R.T. In questo caso specifico ho lavorato con le modalità che uso sempre quando lavoro con gli attori non professionisti. Ho una traccia scritta di sceneggiatura definita, poi, poiché non si può chiedere a degli attori non professionisti di imparare delle battute o di seguire una drammaturgia, a me tocca il ruolo di instradarli affinché riescano a seguire tutte le tappe, tutti gli step del racconto. In questo caso avevo un grande vantaggio perché le favolose possiedono un loro linguaggio, un codice comune condiviso tra loro.  C’è proprio un mondo di modi di dire, modi di ricordare parole chiave, battute, che sono ricorrenti nel loro parlato: “militante” diventa “militonto”, “lotta continua” diventa “cotta continua”. Loro hanno questa serie di giochi di parole che sottintendono codici strutturati negli anni e che hanno inventato. Si crea dunque, tra loro e di conseguenza nel film, un mondo linguistico importante, e i dialoghi funzionano molto bene. Il mio compito è stato quello di portarle alla fine del lavoro, cioè creare una storia dentro cui loro potessero improvvisare. Si tratta di un modello che ho usato all’inizio in maniera inconscia, un po’ intuitiva, e che poi, piano piano, ho strutturato come metodo di lavoro vero e proprio con gli attori non professionisti: oltre a quello di rubare tutto quello che combinano e fanno senza che se ne accorgano, dare input a cui loro devono rispondere. Con gli attori professionisti, invece, il discorso dell’intersezione tra il repertorio e la recitazione funziona bene, offre milioni di altre possibilità. Una delle quali a cui sto lavorando con soddisfazione è quella di costruire una narrazione drammaturgica a partire dal repertorio e far interagire gli attori con il repertorio stesso, con risultati molto originali. 

G.L.D. Parliamo di trame. Quanto sono importanti nel tuo cinema? O nel tuo prossimo film Mi fanno male i capellidedicato a Monica Vitti? Don De Lillo, uno scrittore a me caro, dice in Libra che tutte le trame tendono alla morte. 

R.T. Se parliamo della classica suddivisione aristotelica, i tre atti, inizio e svolgimento e fine, indubbiamente all’inizio della mia storia registica non è una strada che ho preso in considerazione, non esisteva proprio. Ora sono convinta che invece la trama sia fondamentale per poter raccontare una storia. Anzi, mi sono sempre più convinta che la scrittura, la sceneggiatura, sia una delle componenti più importanti di un film. Se vogliamo raccontare una storia che comunque abbia una drammaturgia compiuta, deve esserci una scrittura solida. Il cinema poi naturalmente non è solo quello, però è ovvio che anch’io, come spettatore, sono affascinata dai film con la trama. Si possono raccontare storie in mille altri modi, però indubbiamente la drammaturgia classica è piacevole, non è mai stata superata. 

G.L.D. Immagini e parole. Nel 2022, un anno prolifico per te, è stato pubblicato anche il tuo nuovo romanzo Strana carne, per Fandango. Quanto il cinema è influenzato dalla letteratura e viceversa. 

R.T. Riguardo al mio romanzo, rileggendo la distanza di un anno posso dire che è molto cinematografico, quindi forse in me esiste una struttura mentale che ripercorre degli stilemi del cinema a prescindere dalla forma espressiva. Credo molto, però, che dalla letteratura si possano trarre grandi film, anche se spesso è necessario tradire la struttura dei romanzi. Penso, per fare un esempio recente, a Blonde di Joyce Carol Oates che è un romanzo straordinario. Pur essendo due codici completamente differenti hanno un legame molto stretto e come tutti i legami stretti hanno bisogno di tradimenti…

G.L.D. Citando Blonde apri un tema importante. Il legame, molto chiaro ed evidente in una storia reale, tra tutto quello che pubblicamente si conosce della Monroe e la grande, poderosa, meravigliosa possibilità che la finzione cinematografica e letteraria hanno di colmare i vuoti.

R.T. Esatto, mi pare che anche questa sia una straordinaria forma di tradimento. Oppure si può chiamare rielaborazione, o si può chiamare invenzione. Io credo che in Italia siamo un po’ impantanati dalla questione della realtà, del realismo, che poi è quanto di meno affascinante ci sia, a mio parere. Ciò che è affascinante, invece, è partire dai casi di cronaca e andare a riempire quelli che tu chiami i vuoti. Come stiamo facendo nel nostro lavoro sulla storia drammatica del delitto Casati Stampa, la cui dinamica lascia la possibilità di entrare a delle voci che non sono state trascritte, come se in fondo ognuno di loro potesse raccontarci una storia diversa, alla Rashômon. La forza della rappresentazione cinematografica consiste nel fatto che, attraverso il film, ogni personaggio, se oggi fosse in vita, potrebbe raccontare la stessa storia da un punto di vista differente e in una maniera assolutamente unica, diversa da ciò che i giornali hanno riportato, facendoci immergere in un ventennio, dal 1950 al 1970, che contiene dei topoi italiani straordinari. Dal Leone d’oro a Fellini a Miss Italia, dal boom economico all’esplosione della società dello spettacolo. Quelli erano anni in cui tutti avevano l’idea di poter andare sulla luna, e poi invece tutto si è risolto in un nulla di fatto. Ma quel senso di potenzialità infinite non c’è mai più stato. Quegli anni, in cui sono cresciuta, hanno creato una generazione di gente che pensava di poter andare sulla luna e Venere, in senso metaforico e non solo.

G.L.D. Ecco, a me sembra che molti dei nuovi registi abbiano più competenza tecnica fredda, intesa come capacità di adottare bei movimenti di macchina, codificati, che capacità stilistica di linguaggio, ambizione, voglia di tradire il realismo. Forse hanno bisogno di più letteratura di qualità?

R.T. Penso che chi vuole raccontare abbia a modo suo la necessità di essere contemporaneo, e che ci siano registi molto, molto giovani che hanno folgoranti intuizioni sul presente. È bello che ci siano degli sguardi nuovi, non penso che si debba inculcare ai nuovi artisti chissà quale metodo. La cosa fondamentale credo sia appunto essere contemporanei: sei capace di farmi vedere questo tempo in un modo a cui non avevo mai pensato o che mi che mi fa sentire fortemente cosa sta succedendo? Sì, e allora a me basta quello, credo che il valore vero di un regista, di un artista, di un narratore risieda nella capacità di percorrere lo spirito del tempo. Negli Anni Sessanta c’erano i film in cui i protagonisti si baciavano poi la camera andava altrove, sul caminetto. Cosa ti diceva quel movimento? Che stava capitando qualcosa di importante, però tu dovevi guardare il caminetto. Un dettaglio che raccontava un’epoca. 

G.L.D. Il mezzo tecnico, dunque, non basta… perché solo l’autore/regista può tradire?

R.T. L’intelligenza artificiale tra poco ci toglierà di mezzo completamente! No, non serviremo più a nulla, io vedo questo, lo vedo proprio chiaramente. È solo questione di tempo. Milioni di storie con milioni di intrecci possibili.

G.L.D. E secondo te non è in dubbio l’effettiva capacità della macchina di dare un senso alle storie? L’imprinting comunque resta umano. Non c’è rischio che la macchina vada per la tangente?

R.T. È una certezza, la macchina andrà per la tangente. Leggevo una conversazione tra una persona che scrive all’IA: «Adesso raccontami una cosa falsa» e lei risponde: «Io sono un coniglio, ho le orecchie verdi». E lui: «No dai, questa è una scemenza, dimmi una cosa falsa seria». E la macchina, in chiusura: «Io non sono un umano». Questo presuppone una coscienza folle della macchina, quindi di fronte a questo che è molto inquietante, io vedo una preminenza dell’umano solo su temi di cui la macchina non ha possibilità di elaborare una conoscenza, e sono due, nascita e morte. Kubrick ce l’aveva detto già molto tempo fa. Qual è dunque il messaggio per i nuovi registi? Datevi da fare ora, perché tra un po’ non ce ne sarà più per nessuno. Oddio. Io vedo questo.

ARTICOLO n. 50 / 2023

IL MITO DEL DESIDERIO FEMMINILE

Quando ho compiuto quattordici anni mia madre mi ha regalato un abbonamento a un paio di riviste per teenager. Si trattava di un mensile e un settimanale di moda, gossip e interviste a cantanti e attori famosi che all’epoca facevano girare la testa a tutte le mie coetanee. Sfogliavo con piacere quelle pagine, soffermandomi in particolare sugli approfondimenti dedicati alla sessualità e all’affettività. Gli articoli proponevano sempre qualche strategia per scoprire se quel ragazzo aveva davvero intenzioni serie, davano suggerimenti per trovare le parole giuste con cui rifiutare le avance più esplicite senza rovinare la relazione e rispondevano a tutti i dubbi sulla verginità e sul primo rapporto completo, in particolare sull’età a cui era consigliato averlo.

Negli anni Novanta non era così scontato riuscire a parlare di sesso, neppure tra amiche. L’educazione sentimentale, per le ragazze di provincia, era per lo più affidata alle immagini, alle canzoni e alle pagine di magazine e fumetti. Erano gli anni di Non è la Rai, celebre programma di intrattenimento andato in onda per un lustro sulle reti Mediaset, di Britney Spears e Christina Aguilera, dei cartoni animati giapponesi che insegnavano alle giovani, più o meno esplicitamente, come intrattenere le prime relazioni affettive senza spingersi mai oltre certi limiti. Il confine, taciuto ma sempre ben visibile, era quello che separava le cattive ragazze da quelle dai saldi principi morali.

Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, non possiamo non nominare la questione del desiderio. Analogamente a quanto affermato nell’articolo precedente parlando di verginità, anche questo dispositivo è, per le donne, uno strumento di controllo della sessualità che merita di essere osservato da vicino per capirne il funzionamento. 

Accertamento della verginità e repressione del desiderio sono uno il rovescio dell’altro: meccanismi sottili che continuano a produrre i loro effetti sulla vita delle donne. Nonostante la rivoluzione dei costumi degli Anni Sessanta, la sessualità femminile è ancora oggetto di critiche, soprattutto quando si discosta da quella considerata “perbene”.

Proprio alle “ragazze perbene” è dedicato l’omonimo romanzo di Olga Campofreda. Il volume racconta la vita di Clara che, a causa dell’imminente matrimonio della cugina Rossella con lo storico fidanzato Luca, è costretta a lasciare Londra, dove vive da tempo, per far ritorno per un po’ a Caserta, sua città natale. L’evento, che tutta la famiglia accoglie come la conclusione di una storia – quella tra Rossella e Luca – perfetta e in qualche misura già scritta, offre alla protagonista lo spazio per guardare in prospettiva la sua, di storia. Tra un pranzo in famiglia e un addio al nubilato, Clara si interroga su come sarebbe stata la sua vita se non avesse deciso di andarsene a studiare all’estero. Se la sua esistenza è, come quella di molti expat, precaria e incerta, ma libera, quella della cugina appare come l’esito perfetto di una serie di passaggi obbligati a cui tutte le ragazze perbene della città sono costrette ad aderire.

Femminilità, obbedienza e accoglienza delle esigenze maschili sono i tre assi che racchiudono, secondo Clara, la vita delle ragazze di buona famiglia, a partire da quelle vissute dal ramo materno della famiglia. Sua madre, le zie e anche la nonna nascondono vicende tragiche, rapporti imposti e taciuti a cui non si sono mai potute ribellare per non infrangere quella facciata di rispettabilità necessaria a sopravvivere nelle cittadine di provincia.

«Siamo state cresciute lasciandoci credere che saremmo diventare donne quando avremmo imparato a badare a una casa tutta nostra e a prenderci cura di un figlio e un marito (…) non eravamo pronte a fare i conti col desiderio, nessuno ce ne aveva parlato».  La frase che Campofreda fa pronunciare a Clara è potente. Effettivamente, le donne sono escluse da qualsiasi discorso riguardante il desiderio perché considerate refrattarie al sesso. Se negli gli uomini è descritto come una pulsione biologica primaria, compulsiva e anticipatoria, per il genere femminile l’interesse sessuale si ritiene essere lento e reattivo. I loro desideri, cioè, si accendono in risposta a un intervento esterno e non in maniera autonoma, come accade gli uomini.

Nella sua lunga disamina attorno a questo concetto, la scrittrice Katherine Angel sottolinea come questa visione binaria, fortemente differenziata, del desiderio maschile e femminile nasconda pericolose insidie. Nel 1980, giunto alla sua terza edizione, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) inizia a classificare le disfunzioni sessuali in relazione al “ciclo di risposta sessuale umana”, un modello formulato dai ginecologi e sessuologi William Masters e Virginia Johnson negli anni Sessanta. Scrive Angel: «secondo questo modello, il sesso inizia col desiderio, attraversa l’eccitazione e approda all’orgasmo; dunque, le donne che non avevano un accesso facile al proprio desiderio venivano patologizzate come disfunzionali».

Tuttavia, il modello operativo approvato dal DSM III escludeva o sembrava ignorare alcune premesse indispensabili: per poter innescare e poi assecondare il desiderio è necessario anzitutto (ri)conoscerlo. Inoltre, è fondamentale che l’ambiente circostante lo sostenga e lo approvi. Si tratta di variabili da non trascurare perché coinvolgono sfere diverse: una – quella relativa al riconoscimento – ha a che fare con la dimensione educativa, l’altra con le dinamiche sociali e i rapporti di potere tra i generi. Considerando questi fattori singolarmente o insieme, però, i risultati non cambiano: le donne sono state educate a reprimere i propri desideri e le forti pressioni sociali hanno avallato questo atteggiamento nei loro confronti.

Come ricorda lo storico Paolo Orvieto nel suo volume Misoginie, il genere femminile è sempre stato rappresentato come passivo e sessualmente inattivo. Dalle Sacre Scritture ai testi pseudoscientifici dell’Ottocento, il ruolo della donna si esaurisce in quello di moglie e madre, la cui integrità morale è diretta conseguenza della sua attività sessuale e per questo deve essere controllata e contenuta mediate l’inibizione del desiderio. L’unico sesso ammissibile dentro la coppia è quello procreativo, che differenzia le donne “perbene” da quelle con cui gli uomini sono socialmente autorizzati a intrattenersi proprio per sfogare i loro istinti primari.

Oggi si potrebbe pensare che molte cose siano cambiate. A partire dagli nni Novanta (proprio quelli di Non è la Rai e di Britney Spears) abbiamo assistito a un’apparente liberazione del discorso intorno alla sessualità e ai desideri delle donne. L’emancipazione sessuale femminile cominciata negli anni Sessanta sembra approdare, per la prima volta, a un linguaggio esplicito che la affranca dai retaggi del passato. Alla fine del XX secolo compare pertanto un nuovo ideale di femminilità. Sulla scia dei modelli offerti dalle star della musica e del cinema (come il gruppo delle Spice Girls o Catherine Tramell, personaggio interpretato da Sharon Stone nella pellicola Basic Instict) le donne appaiono più disinibite, sicure della propria sessualità, capaci di esprimere i propri desideri in modo esplicito, assertivo, a tratti spudorato. 

Si tratta di un cambio di paradigma che necessita di essere approfondito perché, sostiene Angel, ha generato un cortocircuito che ha portato a confondere il piano del desiderio con quello del consenso. Una sessualità esplicita, infatti, non è di per sé liberatoria, né consensuale. Come ricorda Elisa Cuter nel suo volume Ripartire dal desiderio, ha più a che fare «con quella cura del sé e quell’ossessione per l’immagine che il capitale ci propina come fonte di liberazione». 

Il discorso intorno al desiderio femminile appare ancora fortemente stereotipato, basti pensare ai casi di cronaca.Quando una donna subisce un’aggressione o una molestia si scatenano opinioni non richieste che fanno supporre che la colpa sia anche sua e che abbia in qualche misura partecipato all’avvenimento, per esempio manifestando un certo desiderio, poi ritrattato. È quello che accade, nella finzione narrativa, anche a Clara quando da adolescente subisce in ascensore le avance non richieste del vicino di casa, un uomo molto più grande di lei. Confidandosi con la madre, la donna le chiede cosa abbia fatto per causare il comportamento dell’uomo e la invita a usare le scale per “sentirsi più sicura”.

Il cambio di paradigma ha soltanto sostituito il modello della donna refrattaria al sesso con quello della donna disinibita, tuttavia non ha scosso quegli stereotipi che continuano a fare da sfondo al ragionamento. La libertà di avere un rapporto sessuale è sì strettamente connessa alla capacità di riconoscere ed esprimere i propri desideri, ma anche alla disponibilità da parte dell’ambiente di accoglierli senza giudicarli come inappropriati.

In un articolo apparso qualche anno fa su Internazionale, la giornalista e scrittrice Laurie Penny afferma che i corpi e i desideri femminili continuano a essere alla mercé degli uomini perché il cambiamento avvenuto negli ultimi trent’anni non ha alterato i rapporti di potere tra i generi. La società continua a essere ostile nei confronti delle donne e ciò è evidente se consideriamo la “cultura dello stupro” ovvero «il processo per cui l’agire sessuale delle donne è costantemente negato» mentre le molestie e gli abusi che subiscono vengono giustificati e normalizzati. In un contesto di questo tipo la libertà sessuale delle donne è secondaria rispetto al diritto degli uomini di poter avere rapporti sessuali, per questo si richiede alle prime una costante sorveglianza rispetto ai confini della propria sessualità e la capacità di esprimere il proprio desiderio, senza mai rinnegarlo. Sostiene ancora Penny: «siamo circondati da così tante immagini di sessualità che è facile pensare a noi stessi come persone liberate. Ma la liberazione, per definizione, deve riguardare tutti. Invece nel bombardamento di messaggi del marketing (…) l’unico desiderio accettabile va in una sola direzione: dall’uomo verso la donna».

Per poter essere davvero liberatoria, la sessualità femminile ha bisogno di trovare uno spazio più autentico in cui sia possibile accogliere il desiderio per ciò che è, uno stato fluido di durata e intensità variabile. È necessario, ancor prima, riequilibrare i rapporti di potere tra i generi affinché il desiderio delle donne non sia obbligato a fare da cassa di risonanza a quello maschile per essere accolto. Abbiamo bisogno di dar vita a una nuova cultura della sessualità, in cui ogni persona – indipendentemente dal genere e dall’orientamento – sia nella condizione di poterla esprimere invece che negarla per adattarsi al contesto.

ARTICOLO n. 49 / 2023

GIANNI CELATI: PARTIRE

Trilogia Celatiana. Perdersi

Ogni volta che leggo qualcosa scritto da Gianni Celati, ma anche che vedo un film di Celati, o che vedo Celati parlare in un’intervista (Celati sempre bello e distratto, con quei modi allo stesso tempo scanzonati e tristi), la sensazione che provo è quella di sospensione. Con Celati si è sempre in una terra di mezzo, nel flusso di un movimento da un posto all’altro, e non si è mai sicuri di quale sia il luogo in cui ci troviamo o quale sia la meta del viaggio. Pochi scrittori hanno fatto dell’esperienza di perdersi una caratteristica tanto fondamentale del proprio lavoro. Leggendo Celati si è sempre persi, nelle storie ma anche nella lingua. E se è vero come scrive Franco La Cecla che perdersi intenzionalmente è impossibile, che «l’azione riflessiva è il cercarsi e non trovarsi, non il perdersi», possiamo capire quanto lavoro – letterario e non – sia necessario per produrre una letteratura del perdersi, cioè una letteratura abbastanza precisa da portarci in un luogo e abbastanza vaga da farci ritrovare perduti. La scrittura di Celati è sempre un duplice movimento, o meglio è lo spazio aperto da quel duplice movimento.

Che perdersi fosse per Celati una questione eminentemente letteraria lo si capisce dal nervosismo con cui accoglieva i «deliri burocratici» e i «problemi giuridici» (così li chiamava) dei critici che cercavano di risolvere il rebus della sua scrittura. Celati era molto insofferente alle categorie, ma bisogna dare atto ai suoi lettori che stargli dietro non era facile: un giorno era il traduttore dell’Ulisse e un professore universitario, il giorno dopo uno scrittore di racconti comici, un altro giorno ancora era partito per un viaggio e non tornava per mesi. Scappava continuamente dalla letteratura e poi ci tornava sempre. Era molto elusivo e cercava sempre di sottrarsi, soprattutto rispetto a sé stesso. E quindi la domanda che critici e lettori non hanno mai smesso di porsi, quella di dove collocare Celati nella letteratura italiana, era in fondo una domanda più profonda che riguardava la collocazione di Celati nel mondo: a ben guardare gli stavano chiedendo di stare fermo il tempo necessario per poterlo capire davvero. Ma Celati non era una cosa o l’altra, era il movimento tra quelle due cose. Così lui si innervosiva, e loro si innervosivano, e Celati rimaneva un enigma per tutti, che in fondo è la ragione per cui Celati è uno scrittore tanto luminoso, difficile e irripetibile.

Emilia

Ma mettiamo da parte per un attimo il nervosismo. Persi per persi, di un punto di partenza abbiamo comunque bisogno, ora che Celati non c’è più e ci rimane solo la critica su Celati. Abbiamo bisogno di partire da qualche parte per lasciarci andare pienamente a questa «passione del perdersi», come la chiama ancora La Cecla. Faremmo un errore, lo stesso errore dei suoi critici, se provassimo a collocare Celati partendo dalle categorie letterarie, se provassimo cioè a interpretarlo come uno scrittore comico, uno scrittore di viaggio, un avanguardista, un etnologo, un saggista, un traduttore e via dicendo, perché Celati era tutte queste cose e nessuna fino in fondo. Il problema fondamentale con Celati è sempre quello del dove, il discorso letterario è un problema di collocamento nello spazio. Per questo l’unica cosa certa che possiamo dire di lui è la seguente: che era uno scrittore emiliano.

Mi rendo conto che è un paradosso. Celati non è nemmeno nato in Emilia ma a Sondrio, anche se per un accidente (la famiglia si trovava in Lombardia a causa del lavoro del padre ma entrambi i genitori erano originari della provincia di Ferrara), e in Emilia ha vissuto in maniera irregolare. Una cosa di lui che sanno tutti è che era un grande viaggiatore e ha abitato un po’ ovunque: in America, in Francia, in Africa e soprattutto in Inghilterra, dove è rimasto per tutta la seconda parte della vita e dove è morto il 3 gennaio del 2022, una settimana prima di compiere 85 anni. Eppure sarebbe impossibile comprendere Celati senza l’Emilia. In questo è l’opposto di Calvino, suo mentore, amico e modello. Calvino, nato anche lui per caso altrove, a Cuba, è uno scrittore assolutamente apolide. Celati avrebbe potuto anche vivere in Giappone e non avrebbe smesso di essere uno scrittore emiliano.

Più difficile è definire in cosa consista questa emilianità e perché sia utile come categoria letteraria. In Pianura, Marco Belpoliti si riferisce al rapporto di Luigi Ghirri con la campagna emiliana parlando di un «modo di abitare […] frettoloso, disattento alle cose», mentre di Celati dice che la sua parlata «molto manierata» era il suo «modo emiliano di rivolgersi all’interlocutore in forma affettuosa». Belpoliti e Anna Stefi hanno intitolato la loro raccolta di conversazioni celatiane Il transito mite delle parole, e in quel richiamo alla mitezza c’è la morbidezza e la fluidità, la leggerezza, la «passione per il mondo coì com’è», l’ironia che non diventa mai sarcasmo di tanti scrittori, registi e fotografi provenienti dall’Emilia-Romagna. Come se la vita non fosse veramente una faccenda seria. Ma potremmo menzionare anche la finzione e la superficialità, il comico (che dagli anni Ottanta evolve in qualcosa di più sottile), il senso beckettiano dell’attesa. E poi la luce, quella «luce dispersa» in cui annegano le ombre, la «luce scoppiata» di cui parla il pittore d’insegne Menini quando dice: «io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia». Tutta questa è l’emilianità di Celati.

All’inizio della sua carriera, l’Emilia è soprattutto Bologna, dove insegna letteratura angloamericana per buona parte degli anni Settanta. Nel 1977 diventa una figura importante del movimento studentesco («un po’ indiano metropolitano, un po’ clown triste», ha detto Nico Orengo) con un laboratorio di scrittura collettiva su Lewis Carroll che darà vita ad Alice disambientata, libro sorprendente e polifonico che fluttua da qualche parte tra Deleuze, il Cappellaio Matto e Basaglia. Il libro è unico nel suo genere, gira di mano in mano e non riceve nessuna recensione ufficiale. Celati lancia copie del libro in aula. Non che sia così strano, è il Settantasette a Bologna, ma stiamo parlando di uno scrittore che ha già pubblicato quattro libri con Einaudi, del traduttore di Swift e Céline, quindi non è nemmeno così usuale.

Subito dopo Celati scompare. Nessuno sa esattamente dove vada nei sette anni successivi, ma un elenco parziale comprende: la Pianura Padana, l’America, la Scozia, Parigi, Montpellier, Friburgo. È uno di quegli allontanamenti ciclici dalla letteratura, un sintomo dell’irrequietezza che lo accompagnerà tutta la vita. Ha deciso di smettere di scrivere perché, spiega, «non avevo più niente da dire a nessuno». Ma anche questo non è vero, in realtà stava cambiando: abbandonava il registro comico per approcciarsi a qualcosa di nuovo, più sfumato e indefinibile, che chiamerà «ricettività crepuscolare». Quando torna a pubblicare, nel 1985, lo fa ripartendo dall’Emilia. A ricondurlo sulla strada della letteratura sono i fotografi della scuola italiana di paesaggio, soprattutto Luigi Ghirri, che se lo sono portati «avanti e indietro nelle zone lungo il Po» per dare parole ai loro scatti. Qui Celati sente raccontare le storie minime e strane che diventeranno i racconti di Narratori delle pianure e Quattro novelle sulle apparenze. Nel 1988 fa un passo ulteriore e descrive in Verso la foce i «territori devastati» del delta del Po. Il libro si inserisce in tradizioni letterarie, quella della psicogeografia, del diario di un viaggio a piedi e del nature writing dell’antropocene, che in Italia non esistono nemmeno, né all’epoca né ora.

Nel 1992, passato all’attività di regista, dirige il documentario Strada provinciale delle anime, dedicato alla memoria di Ghirri, morto proprio quell’anno. Ancora nel 2003, quasi settantenne, torna alla pianura padana nientemeno che con John Berger per girare Visioni di case che crollano. All’Emilia Celati torna per quasi tutta la sua vita, poi negli ultimi vent’anni non ci torna più.

Movimento

A questo punto devo fare una confessione: io Celati non lo capisco sempre. Voglio dire che di quelle sue frasi eleganti, bellissime, spesso non riesco a penetrare il senso logico. A volte sembrano voler dire due cose insieme, come uno strabismo, o una cosa che sta tra le due e non è né l’una né l’altra come le note della musica atonale. Altre volte invece sembrano ricordare la nebbia della pianura, o quelle fotografie di Ghirri in cui vedi e non vedi, ti sembra di capire ma non capisci veramente. Credo che sia anche questa la ricettività crepuscolare, l’aura della scrittura di Celati. E credo che quest’aura abbia essenzialmente a che vedere con il movimento: tutto nella sua scrittura serve a far risaltare il moto fisiologico, la gestualità. Celati si muove, le sue parole si muovono. Niente sta mai fermo e lascia dietro di sé una scia, come le stelle cadenti. Parlando a un intervistatore di tutt’altro, cioè del lavoro di fare documentari, dice: «dentro di te c’è un movimento inspiegabile che è una buona guida».

Sono convinto che ci siano diversi tipi di scrittori-camminatori. Ci sono quelli che sentono il bisogno di raccontare tutto, di divagare all’infinito, di raccogliere in un unico periodo tutto lo splendore e l’orrore del mondo, come Sebald. Ci sono quelli che camminano per dieci anni per riassumere migliaia di ore di camminata in un centinaio di pagine, in un processo di liofilizzazione dell’esperienza, come J.A. Baker. Ci sono quelli che camminano per far sì che il corpo vada alla velocità delle idee perché se si fermassero impazzirebbero, come Coleridge. E poi ci sono gli scrittori che camminano attraverso la lingua, gli scrittori per cui le parole sono una specie di fluido, battiti che compongono un ritmo, bandierine attraverso cui fare lo slalom. Ecco, Celati cammina tra le parole, dietro le parole, si muove sempre e quando provi ad afferrarlo con la mente è già andato da un’altra parte. Lo scrittore, dice, è «un essere microscopico in un movimento pressoché infinito».

Questo movimento, è inutile dirlo, non va da nessuna parte. All’inizio di Strada provinciale delle anime il narratore, o uno dei narratori, perché non è ben chiaro chi sia a raccontare e chi ad ascoltare, si chiede cosa ci sia di tanto interessante da vedere in giro per il mondo. Interrogato su cosa intenda lui per «avventura», Celati risponde che l’avventura non ha niente a che fare con l’esotico e nemmeno con il desiderio, anzi è quello «spazio aperto» che si crea proprio dove non c’è desiderio, perché gli «oggetti socialmente desiderabili ti bloccano la testa per sempre». È un ribaltamento totale dell’idea romantica, dell’avventura come desiderio del desiderio. Più avanti un altro narratore, o un’altra voce del narratore molteplice, riflette sul perché le persone vadano in vacanza e si risponde che vanno in vacanza per non sentirsi persi. E poi si chiede: «ma è meglio sentirsi persi o guardare solo quello che ti hanno detto di guardare?»

L’avventura non c’entra niente con il desiderio e i libri di viaggio non fanno nemmeno il tentativo di guidare il lettore attraverso il luogo di cui parlano: leggere Avventure in Africa in Mali o Verso la foce per fare una gita sul Po sarebbe inutile perché sono l’opposto di una mappa. Celati odiava le mappe, andava da Bologna a Londra in auto e sulla strada si fermava a Parigi da Calvino, e il tutto senza una mappa. Calvino, che è uno scrittore-mappa, uno scrittore-labirinto ma anche uno scrittore che per tutta la vita non ha fatto che disegnare la mappa per uscire dal suo stesso labirinto, lo rimproverava. Quando gli chiedono se si senta più saggista o scrittore Celati risponde: «vado avanti un po’ a caso, devo dire». 

Ma come tutto il resto in quella ricerca di strabismo che è la sua scrittura, anche il movimento ha un duplice significato. Celati era molto ansioso e talvolta molto depresso, e sappiamo che camminava a lungo prima di scrivere, come se si potesse scrivere solo quando si è esausti, come se la scrittura fosse il sottoprodotto dell’esaurimento. Camminare quindi era anche una terapia, un esorcismo, un rito sciamanico, il rituale per evocare la ricettività crepuscolare, vale a dire il luogo di passaggio in cui si trovano le uniche cose che vale la pena scrivere.

Voci

È bella, questa immagine del camminare come atto rituale, perché comunica l’idea che la scrittura migliore nasce sempre quando lo scrittore si è messo K.O. e lascia che a parlare al posto suo sia «quel movimento inspiegabile» che è «una buona guida». Chi parla attraverso Gianni Celati? Ecco un’altra cosa di lui che è stata ripetuta fino allo sfinimento: che non dimostrava l’età che aveva. «Gianni è sempre stato un ragazzo, anche quando l’ho rincontrato e non era più il giovane professore del Dams. Aveva più di cinquant’anni eppure ne dimostrava trenta» (Belpoliti); «Celati è un uomo bello, dalle mani lunghe ed eleganti, uno sguardo dolce e distante. Ha quarantotto anni e gliene daresti trentacinque» (Marcoaldi); «Celati è sveglio, magro, nervoso, si veste come un ragazzo» (Emanuele Trevi). «Possa il puer chiamarci a essere noi stessi», scriveva Hillman. 

Il puer in Celati è tante cose: l’irrequietezza, quel continuo spostarsi da un genere letterario all’altro, l’insofferenza per tutto ciò che immobilizza la vita, il fastidio per le regole che incasellano e ordinano l’esperienza, il rifiuto dell’efficienza e della produttività. Quella volontà pervicace di rimanere sempre sfuggenti, senza radici, senza un posto tranquillo e istituzionalizzato nella vita come nella letteratura. Lo sguardo fresco, la capacità di continuare a stupirsi. Penso che si possa dire di Celati quello che Hillman scriveva del puer come forza psichica, quel fuoco dentro di noi che rimane giovane nonostante il passare degli anni e per farlo nega la psicologia come forma di profondità inutilmente pesante: «è al puer che Psiche soccombe proprio perché egli ne è l’opposto», il suo spirito «è il meno psicologico, il meno dotato di anima». Per creare un linguaggio capace di comunicare gesti, dice Celati, «bisogna abbandonare la psicologia, bisogna ripulirsi e cancellarsela dalla testa».

Non è quindi un caso che nei suoi viaggi americani Celati sia andato spesso alla ricerca più o meno consapevole del trickster, quella «figura d’un eroe che ne combina di tutti i colori ma resta sempre un po’ incomprensibile perché la sua ricerca non corrisponde a un desiderio già definito». Il trickster, dice Celati, è un po’ «come il bambino», che «non ha ancora idee precise sugli oggetti socialmente desiderabili»: è un’energia immatura, che rifiuta di essere rinchiusa in una forma, ma per questo tanto più incontrollabile. Celati amava l’imprevedibilità, il caos, il dialogo inintelligibile, il nonsense e più in generale tutto ciò che è inafferrabile e impossibile da categorizzare. Parlava molte lingue, talvolta tutte insieme. Quando scrive sembra sempre che ci siano più persone, almeno due, che scrivono in contemporanea, e questo non vale solo per i racconti ma anche per la saggistica critica. L’effetto su chi lo incontrava era talvolta straniante.

Dispersione, ricomposizione. Partire, fermarsi, ripartire. Scrivere e non scrivere. Scrivere e camminare. Allontanarci dalla scrittura per ritornarci sempre diversi. C’è una frammentarietà costitutiva della scrittura di Celati, che pure per altri versi è così curata, così precisa. Anche in questo campo, è il doppio speculare di Calvino, che si è affannato tutta la vita di trovare la parola esatta che lo salvasse dal caos: in Celati la parola esatta è proprio la strada per arrivare al caos. Perché la parola esatta è luminosa al punto che significa tante cose insieme, come un prisma, e ognuno di questi significati va in una direzione diversa. Celati scriveva, piantava tutto a metà, poi ritornava su quei frammenti dieci anni dopo e li riprendeva, che è un po’ come tornare in un luogo in cui si è stati molti anni fa e vederlo con occhi nuovi: ecco il «movimento pressoché infinito» dello scrittore, della scrittura. Amava i racconti perché «ogni racconto può andare per conto suo, ha la natura del frammento disperso», perché «i racconti sono come gocce di mercurio che si sparpagliano da tutte le parti, sfuggenti e mutevoli», perché «i racconti sono frammenti vaganti nella dispersione».

Non è tutta così, la scrittura di Celati? Un «frammento vagante nella dispersione»? Storie captate, intercettate, storie di passaggio, capite male, storie lacunose, storie inventate, che si sono perse, che sono riuscite a creare le condizioni per sentirsi finalmente perse. «Alla fine abbiamo portato a casa una serie di riprese sparse, per lo più frammentarie, casuali», dice parlando del processo di realizzazione di Diol Kadd

«Un frammento vagante nella dispersione» fa pensare a un meteorite, una stella cadente che brucia nel cielo, per un attimo, senza nessun altro significato che la propria luce. L’esperienza corporale di quel momento idiosincratico e inafferrabile, indescrivibile perché non incasellato dalle categorie logiche, è forse la maniera più fedele di interpretare la scrittura di Celati. Per il quale «basta un accenno che spunti come un lampo e si bruci nell’energia del dire, del ridire qualcosa in buona vena: quello è già una storia».

ARTICOLO n. 48 / 2023

GOOMAH LO DICI A TUA SORELLA

Around The Table. Una serie americana in italiano

Tra tutte le domande che facevo a mia madre, quella che la irritava di più, che le dava talmente tanto fastidio da poter sentire le vibrazioni dei nervi come delle corde di un pianoforte, era la seguente: “Cosa c’è per cena?”

Adesso che la mamma sono io, condivido il suo fastidio. Non solo: lo capisco. Non è che le mamme stanno tutto il giorno a girarsi i pollici e hanno il tempo di programmare menù da ristoranti. Altrimenti un piatto di pasta, una bottiglietta d’acqua liscia temperatura ambiente e un frutto fanno diciotto euro, coperto compreso, s’intende. Anzi, ringraziare Iddio che qualcuno sia andato a lavorare per permettersi la spesa, che viene cucinata e trasformata in cibo da mettere in tavola! Ma non solo: la domanda potrebbe rappresentare l’inizio di lamentele ingiuste e inutili, non ammesse né mai concesse per nessuna ragione al mondo. Servono solo a far scattare urla di Tarzan. “Quello che passa il convento”, mi sentivo rispondere con quel tono lì ogni volta che ho osato chiedere. 

Invece, mia figlia Vera, impeccabile, me lo chiede tutte le sere. Ma lei va oltre, tasta terreni che io non ho mai azzardato prendere in considerazione: siccome non mi teme, osa lamentarsi. “Non mi piace”,” l’abbiamo già mangiato ieri”, “avrei voglia d’altro”. E io sono addirittura peggio di lei: so bene che questo mio grave errore mi porterà nel girone infernale in cui per punizione si viene sgridati dalle mamme per l’eternità. Io, che non ho polso, le chiedo cosa vorrebbe. Sento mia madre rigirarsi nella tomba ogni volta che pronuncio queste parole. Cedo perché sono pigra, quasi sempre stressata e non ho voglia di litigare, e perché l’importante è che mangi qualcosa. «Posso farmi le fettuccine (feducin) chicken Alfredo? Giuro che lavo tutte le pentole che uso». Me l’ha chiesto anche l’altra sera, storpiando come sempre le parole in italiano. Io, piuttosto di mangiare quella cagata, digiuno. Vera lo sa e infatti ne fa solo una porzione per sé.

Senza litigate, finalmente siamo tutti a tavola: Vera con il suo piatto puzzolente di pasta scotta e insipida con panna e pollo disgraziati, io, Ryan e Andrea con delle bistecche impanate e dell’insalata. C’è anche Martina, che da qualche tempo ha deciso di farsi chiamare Alex, perché è un nome neutro. Va bene: basta che mangi. Sembra che siano tutti contenti, ed è forse anche per questo che decido di rovinare il momento della happy family che mi fa tanto Mulino Bianco: «E comunque, ‘sta roba delle fettuccine (feducin) chicken Alfredo non è italiana. In Italia si mangia il primo, che sarebbe una pasta o una minestra, e il secondo, dove viene servita carne, verdure o pesce. Non si mischiano quasi mai. E si pronunciano FET-TUC-CI-NE e AL-FRE-DO, non come lo dici tu!» In tavola cala il silenzio, seguito da uno sbuffo all’unisono. Qualcuno alza gli occhi al cielo. Io mi verso il terzo bicchiere di vino e fingo di non capire.

È interessante come la cultura americana sia un mosaico che contiene aspetti di civiltà di altri mondi, lontanissimi da qui.Se non fosse per il genocidio dei nativi americani, si potrebbe usare senza sensi di colpa il termine Nuovo Mondo. Transit. È su queste coste che gli antimonarchici inglesi misero piede per primi. I ribelli, insomma. E da allora, con la vastità di terreno e ricchezze che piano piano si vennero a scoprire dall’Est all’Ovest, gli Stati Uniti diventarono e sono tutt’ora una calamita molto potente che attira popolazioni di ogni luogo. Lo so, la violenza, la marginalizzazione, lo schiavismo, il genocidio e altri piccoli particolari fanno parte integrante della storia americana e non bisogna dimenticarselo, ma mi viene da dire a noi europei che chi è senza peccato lanci la prima pietra. Comunque, il fatto di essere così vivamente multiculturale li rende ricchi, affascinanti, unici: tutti gli americani hanno radici da qualche altro angolo del globo.

Le persone provenienti dallo stesso Paese si raccolsero in comunità dove poter mantenere un’identità d’origine: Chinatown, Little Italy sono solo due dei mille esempi. Portarono con sé le proprie credenze, i propri valori, la propria cultura e il proprio cibo.  A differenza della società di provenienza, che negli anni si è evoluta, i connazionali d’oltreoceano hanno sempre mantenuto le usanze e i costumi legati al periodo storico in cui si trasferirono. Non sono mutate, non hanno avuto modo di stare al passo coi tempi. È per questo, per esempio, che qualche tempo fa uscì la notizia riguardo il Grana Padano. Pare che quello fatto negli Stati Uniti sia più simile alla ricetta originale, perché gli italiani che arrivarono allora non sono stati mai influenzati da certi cambiamenti. Sicuramente negli anni, in Italia si sono modificate le ricette o gli strumenti per produrne in grande scala. 

Come in Italia con la lingua inglese, anche qui si usano termini che, seppur molto storpiati o antichi, sono di origine italiana. Liz, una mia amica di origine siciliana, mi aveva raccontato che da piccola, era venuta a vivere con lei la goomahd. Facevo sì con la testa, ma non ho mai avuto la più pallida idea a cosa si riferisse, men che meno che fosse un termine di provenienza italiana. Poi, guardando la serie I Soprano, mi è stato tutto più chiaro: la goomahd è la madrina, mentre la goomah senza la di finale, è l’amante. Che ruolo abbia la comare in famiglia è ancora un mistero, ma basta googlare, come ormai si dice in Italia.  Quando sgrida i suoi figli, Liz finisce sempre con la parola kapeesh. Quando le chiesi cosa significasse e da dove derivasse il termine, si mise a ridere: «Ma come, non è italiano? It means do you understand…», capisci? Non ci sarei mai arrivata. Altre parole usate dagli italoamericani sono: maronn (Madonna), manigot (manicotti), goompà (compare, amico), regoat (Ricotta), mosaré (mozzarella), pastafazool (pasta e fagioli). Molti, come si nota, sono termini legati alla famiglia o al cibo, che sono i perni della comunità italoamericana.

Trovo molto interessante che negli Stati Uniti si possano scoprire ancora piccoli pezzetti di una società antica, di un’Italia che ormai non esiste più. L’immagine che mi balza in testa quando penso a questi residui di un linguaggio tra l’italiano e il dialetto, termini che per due secoli sono rimasti intaccati dalla modernità, è quella di un insetto dentro un pezzo di giada. Preservato con cura, come se il suo valore fosse inestimabile, come se perderlo significasse perdere anche le proprie origini. Eppure, è legato a un’Italia che invece ha subito mille trasformazioni: le due guerre, Mussolini, Hitler, la Democrazia Cristiana, il Milan, Berlinguer, Nilla Pizzi. E poi il sessantotto, il femminismo, le leggi sull’aborto e sul divorzio, gli anni di Piombo, Falcone e Borsellino, settecento governi diversi. Un luogo lontano ormai anni luce dalle goomahd di una volta. Sicuramente anche le culture provenienti da altri luoghi hanno mantenuto stretti e tramandato brandelli di un Paese che ormai non esiste più.  Un momento ben preciso della storia, rimasto intaccato e gelosamente tenuto puro dal tempo. 

Per motivi molto diversi, legati in parte alla tecnologia e in parte a questa cosa che tutti chiamiamo Internet, anche l’italiano si è arricchito di molti termini inglesi, anche fin troppo, a mio parere. In Italia fu Mussolini, la cui personalità non si può descrivere come versatile, elastica e nemmeno poliedrica, a vietare termini anglosassoni nella lingua italiana.

Il Popolo del luglio 1938 pubblicava il seguente commento:

«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento…»

Certamente è un caso che il governo di destra della Presidente Meloni faccia le stesse critiche della “mascella che al cortile parlava” (cit. De Gregori): ci sono troppi termini inglesi nella nostra lingua. Interessante invece che le sia venuta in mente questa proposta dopo aver lanciato la scuola che lei chiama Made in Italy. Se non fosse per i cento euro di multa e per il terrore di passare per quella che sta con i fascisti, una piccola parte di me sarebbe segretamente d’accordo. 

Ogni volta che vengo a Milano, mi stupisco di quante parole inglesi siano ormai entrate a far parte del gergo. Sono sempre di più, tanto che ormai quando ne uso una, chiedo se si dice già anche in Italia. La risposta è sempre positiva. La cosa buffa è che spesso sono usate in modo sbagliato e sempre pronunciate sulla stessa onda di manigot. In poche parole, la pronuncia è talmente lontana da quella corretta, che non si capiscono proprio. Personalmente, poi, faccio sempre figure di merda perché le pronuncio come si dovrebbe o perché faccio fatica a decifrarle: i miei amici dicono che sono snob e che faccio finta di non capire. Ce la metto tutta, ma quando mi chiedono se ho il blutut, io davvero non ho la più pallida idea di cosa mi stiano chiedendo. Ripeto, è esattamente come quando non capisco la parola goomahd

Comunque, il dilemma su come pronunciare le parole inglesi quando si sta parlando un’altra lingua, se farlo in modo corretto o no, esiste eccome. Ne parlava anche David Sedaris, scrittore e genio americano, che per anni ha vissuto in Francia. Raccontava che una sera era a cena con degli amici francesi. Durante la conversazione, gli chiesero dove avesse vissuto prima di trasferirsi a Parigi. La risposta era: New York. Il suo dilemma, invece, era: pronuncio New York come lo pronunciano a Parigi o come si pronuncia veramente? Perché immancabilmente ci si sente un po’ snob, in questo hanno ragione i miei amici italiani, a pronunciare come si dovrebbe, ma allo stesso fa molto da ridere quando ci si impone di imitare il modo sbagliato per non fare brutte figure. Alla fine, per non passare per la saputella, mi sono imposta di dire blututColgatecol (call), o amburgher. Quando venni in Italia con Alex e Vera, mi presero molto per il culo: “Amburgher?!?”

Pronuncia a parte, ci sono parole di provenienza inglese usate solo in Italia. Per esempio, col (call). Non si dice, non si usa né negli Stati Uniti né in Inghilterra: qui, si dice meeting. Poi, che ci si incontri al computer o meno non è un dettaglio che pare interessi. Durante la pandemia, si lavorava in smartworking. Ma solo in Italia. Nei Paesi anglosassoni, di lavorava da casa (work from home). Un’altra: fare footing. Non sono neanche sicura che esista come termine (devo googlare), ma generalmente, quando uno si mette le scarpe da ginnastica, i pantaloni della tuta, una maglietta e gli airPods, va a running, non a jogging

Infine, spesso viene cambiato il significato di certe parole inglese usate nel linguaggio italiano. Questa cosa l’ho scoperta una sera di qualche anno fa. Ero a Bologna con degli amici ed eravamo seduti in un bar, tutti un po’ brilli. Loro continuavano a dire una parola in inglese che non capivo e a ridere come matti. Dopo aver chiesto, ho scoperto che in italiano dire la parola squèrt (squirt) è una roba erotica volgarissima. Qui la si usa quasi esclusivamente quando si sta per addentare un amburgher e ci si vuole mettere del checiap: non ha nessun connotato sessuale, ma piuttosto una parola che descrive un gesto banale, lontano mille miglia dalle luci rosse. Infatti, risposi a voce alta: “Ah squirt!”, perché la pronunciavano male. Ci fu una risata a crepapelle generale, di tutti quelli del bar, amici e non, e quelli seduti ai tavolini fuori. Solo quando i miei amici, con le lacrime agli occhi dal ridere, mi fecero il gesto di abbassare la voce e mi spiegarono, anche per me questa parola ha acquistato un connotato erotico. Quando tornai negli Stati Uniti, spiegai ai miei amici americani in quale contesto viene usato questo termine negli States. Magari mi ero persa qualcosa. Confermarono: mai sentito associato al sesso. 

Comunque sia, da allora aspetto il 4 di luglio manco fosse babbo Natale. Spero sempre che invece delle bandiere a stelle e strisce e birre acquose, venga fuori qualcosa di un po’ più piccante. E non lo dico per il checiap, che tra l’altro tanto bene non fa sicuramente.

ARTICOLO n. 47 / 2023

ESISTE ANCORA L’ITALIANO LETTERARIO?

Questo intervento è stato letto dall’autore alla Camera dei Deputati, in occasione del Forum della lingua italiana, tenutosi il 23 maggio 2023.

“Seguono il navigatore e finiscono con la macchina nell’Oceano Pacifico”. 

Qualche anno fa, tre persone in vacanza hanno seguito con una tale fiducia le indicazioni del navigatore che, pur a un passo dal cadere nell’oceano, sono andate avanti, perché il navigatore ne era certo: la strada giusta era quella. Poco importa che quella non fosse una strada, ma il modo migliore per finire, appunto, nell’oceano.

Leggendo questa notizia su un importante quotidiano nazionale – nella fittissima mole di informazioni e dati prodotti in ogni istante e destinati all’oblio in ogni istante – potremmo chiederci come è successo? E quando è successo? Come è successo, quando è successo, che la nostra specie, la specie cui apparteniamo, ha iniziato a lasciarsi condizionare così tanto dalla realtà esterna? Quando ha iniziato a essere invasa da una così intensa assenza mentale?

Il nostro cervello è esploso a dismisura per milioni di anni. Quasi da sempre, ci è stato possibile, davanti a un cielo stellato, sentire la presenza di milioni di galassie. Sentire l’immensità. Sentire l’infinito. 

Uso la parola sentire e non capire, perché comprendere di essere felici, per esempio, è ben diverso che sentire di essere felici, così come comprendere di provare dolore è molto diverso dal sentire il dolore. Quando qualcosa si sente, la si vive. Se la si capisce, non sempre c’è la conversione: non sempre la stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Si potrebbe dire che i tre turisti, prima ancora che capire il pericolo di finire nell’oceano, non l’abbiano sentito. Non erano affatto nel presente. Con la mente, erano da un’altra parte, come capita in vario modo, a noi tutti, ogni giorno. Per questo appaltavano le decisioni al navigatore. 

La loro caduta nell’oceano, scenografica ma non così drammatica, può suggerire un sorriso, ed è giusto così: sorridere è un atto molto umano, se possiamo. Non deve però farci dimenticare che quei turisti siamo noi. E che noi tutti, ogni giorno, mettiamo sempre più da parte questo sentire, questo vivere nel presente, questo vivere nell’istante.

Si trattava di tre giapponesi in Australia ma, per quanto nel mondo sembra che ci siano ancora persone che non ne siano convinte, ogni essere umano è uguale a un altro: ha sangue rosso e lacrime salate, prova molto amore, prova molto dolore. Ognuno è responsabile della sua vita, certo, ma ognuno di noi è nell’universo, e quindi ogni essere umano (così come ogni essere vivente) siamo noi. Noi non siamo nella natura ma siamo la natura. Non ci siamo noi da una parte e il mondo dall’altra: noi siamo il mondo. 

Naturalmente il punto interrogativo che chiude il titolo di questo intervento – esiste ancora l’italiano letterario? – si configura come un piccolo muro di Berlino, che tiene fuori un’altra parte della domanda: esiste ancora l’italiano letterario, nell’era della distrazione, della disattenzione, o nell’epoca algoritmica che ha messo al centro, come forse mai prima d’ora, le istanze dell’ego? Ego che come una scheggia impazzita invade il mondo, esplode nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione?

E poi: esiste ancora l’italiano letterario, in un contesto in cui il dibattito (letterario e non) si contrae, si spettacolarizza, si infantilizza e in cui è sempre più esasperata la sovrapposizione – tutta del nostro Ventunesimo secolo – tra prestigio e numeri, talento e consenso, in cui in sostanza è molto più facile confondere il successo con l’opera artistica?

E infine: esiste ancora l’italiano letterario in un tempo in cui il nostro sentire è a rischio?

Non si può che chiedere scusa alle grandi domande per le piccole risposte. 

La risposta è sì. 

È innegabile che sono tempi ostici per la lingua letteraria, ma finché esisterà la nostra specie, ne sono convinto, esisterà questa scintilla, questo incantesimo.

Prima di addentrarci, però, è necessario specificare che cosa si intende, qui, per “letterario”. Naturalmente la prospettiva non è qui quella di un linguista, o di un sociologo della lingua, ma di uno scrittore o al massimo di un lettore.

Se prendiamo una ciotola d’argilla piena d’acqua e la svuotiamo, la ciotola ora è vuota. Così sembra. Eppure la ciotola è piena d’aria. Eppure il vasaio, per impastare l’argilla, ha avuto bisogno di acqua. Eppure il vasaio, per cuocere l’argilla, ha dovuto usare il fuoco. E senza l’aria, il fuoco non avrebbe divampato e il vasaio non avrebbe respirato. E poi: il fuoco non sarebbe stato possibile senza legna. E poi: senza la pioggia, senza il sole, senza la terra, non sarebbero cresciuti gli alberi. Quella ciotola, allora, ai nostri occhi può essere vuota, ma è evidentemente piena: di acqua, di aria, di fuoco, di terra, per esempio. 

Lavorare con l’italiano letterario – usare la lingua dentro uno spazio letterario – significa proprio questo: guardare ciò che non si vede. Indossare lenti speciali che permettono di andare oltre l’apparenza, oltre la forma. Reinventare il mondo, ma non a tavolino. Abbattere le pareti del linguaggio. Andare incontro all’ignoto.

L’ignoto non è un fatto vago. È qualcosa di concreto. È lo spazio non previsto, non immaginato. È lo spazio dove non siamo mai stati, il tempo che non pensavamo di poter vivere. Tuffarsi, con le parole, in questo ignoto, significa creare un fatto nuovo: qualcosa di impensato.

In questo senso, lavorare con l’italiano letterario è un atto politico.

La letteratura è fatta di materia, di presente, di virgole, di spazi, di punti e a capo. Ma è viva solo se sa fare questo tuffo nell’ignoto. Così la politica. È fatta di emergenze – come quella molto drammatica di questi giorni -, è fatta di piccole decisioni della vita quotidiana, ed è fatta di presente: ma non è viva se non sa guardare ciò che non si vede. Andare incontro all’ignoto, creare un fatto nuovo, passare dall’arte del possibile all’arte dell’impossibile. Permettere, quindi, ai significati, di proliferare.

Posso scrivere: Maria spegne la luce. Oppure posso scrivere: la luce spegne Maria. 

Se deve esserci una frase giusta e una sbagliata, per la letteratura quella giusta è la seconda. La prima è una frase didascalica, narrativa. È tutto chiaro. La seconda genera infiniti significati. Come può una luce spegnere Maria? E che significa spegnere? È tale l’intensità del fascio di luce da accecarla? O solo da addormentarla? O da immalinconirla? E che tipo di luce è? Da dove arriva? E chi è questa Maria? Una bambina? Di che tempo? O è Maria di Nazareth? Che cosa è successo?

Nel 1980, il poeta Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente gli chiede: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?» Il poeta risponde: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così […]. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Questa definizione è sicuramente da estendere alla letteratura tutta, e non solo alla poesia. 

L’atto letterario – come l’atto politico – equivale al cammino di un pellegrino. Se ogni viaggio separa la partenza da un arrivo, rischiamo di considerare gli spazi intermedi come un tempo inutile, da dimenticare, o da vivere il più velocemente possibile.L’atto letterario – come, credo, quello politico – invece deve abbattere l’idea di percorso. Tutto ciò che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo non è più intermedio: è una transizione, una catena di momenti da vivere il più intensamente possibile. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta – ci sono percorsi lunghi, e non esistono scorciatoie. Bisogna viverli. Appunto: sentirli. In questo modo, tutto diventa reale. Lo spazio in cui viviamo è reale. Il tempo che viviamo è reale. 

L’evento di oggi – leggo – nasce allo scopo di “valorizzare la lingua italiana in una prospettiva legata allo sviluppo culturale del paese”.

Non ho gli strumenti o, come si dice, le ricette, per immaginare come sia possibile valorizzarla. Spero tuttavia che sia possibile, un giorno, quantomeno suggerire che la nostra lingua – la nostra “materna locutio”, quella che, scrisse Dante, “riceviamo senza alcuna regola imitando chi ci nutre” – possa essere valorizzata nella sua complessità, e non bistrattata, trattata solo come uno strumento. Che possa servire a perforare le nostre certezze, i nostri tic, i nostri dualismi. Che possa essere utile a chi scrive, a chi legge, a chi fa politica, a chi vive nelle nostre città e nei nostri paesi, a ricordarci che qualunque sia la nostra attività bisogna essere come specchi. Lo specchio non può fare niente per riflettere un’immagine: può soltanto mantenersi pulito. Che possa, infine, essere il veicolo che ci spinga, come i tre turisti giapponesi, a tuffarci nell’oceano – nell’“oscurità da eccesso”, nell’ignoto, nella vita, nel futuro – ma questa volta senza GPS. E così, nuotare verso nuovi significati che non conosciamo.

ARTICOLO n. 46 / 2023

IL POMODORO DEMONIACO

La mistica del cibo

Se vi foste trovati su un’imbarcazione affacciata sulle rive del nuovo mondo, conquistadores intenti a studiare dove attraccare, vi sareste quasi di sicuro imbattuti in un intrico di rampicanti, vegetazione massiccia e movimenti furtivi nella penombra, un muro imponente di vita che pulsa arrogante e non si cura di nascondersi.

Non è un caso che a molti sembrasse di essere approdati nell’Eden, dove bastava allungare un braccio per trovare cibo offerto dagli alberi.

Una delle piante che avrebbe catturato la vostra attenzione sarebbe stata un groviglio verde acceso, ricco di frutti variopinti dall’aspetto invitante, tondeggianti e turgidi, con quest’aura pericolosamente invitante.

La verità è che la natura delle Americhe era tanto generosa quanto estremamente insidiosa, e bastava ingerire per errore una pianta e le conseguenze potevano essere ben poco gradevoli.

La pizza, la pasta, gli gnocchi rievocano idealizzazioni tipicamente italiane del pomodoro. Rosso, dolce al punto giusto, lo infondiamo di italianità, lo eleggiamo a simbolo di una mediterraneità, di una napoletanità, di una sicilianità che non ammetteremmo mai che qualcuno possa toglierci.

Un simbolo, il pomodoro, quasi scontato per noi italiani, che oggi porta significati non poi così prevedibili rispetto a qualche secolo fa.

Insieme alle patate, tra i prodotti del Nuovo Mondo che hanno subito un lungo e intricato processo di accettazione, i pomodori sono tra i donu dell’orto che hanno incontrato maggiori resistenze al loro arrivo in Europa. I simboli cambiano da un’epoca a un’altra e da una società a un’altra, e sono prodotti culturali, nati da un sentire collettivo, in costante movimento.

Sentito collettivamente come ortaggio per la sua succosità e dolcezza, il pomodoro si è guadagnato un posto di primato nelle cucine del mondo, ma non sempre è stato così ben visto.

Quando, all’inizio del XVI secolo, gli esploratori spagnoli incontrarono per la prima volta i pomodori in America Centrale, si dimostrarono piuttosto scettici rispetto al loro consumo: sulle prime lo scambiarono per una pianta di belladonna che, nell’Europa di allora in cui l’Inquisizione e le persecuzioni contro le streghe erano all’ordine del giorno, non era un vegetale che godeva di una buona reputazione.

Le solanacee – come il giusquiamo, la belladonna, la mandragola e la tromba d’angelo – non solo erano note per essere estremamente velenose: erano anche considerate frutti del diavolo, creati da forze maligne invisibili.

Streghe e belladonna per le superstizioni europee dell’epoca correvano di pari passo, venivano entrambe legate alla sfera del non-noto, del malvagio, facenti parte di quell’insieme di ingredienti usati per la produzione di pozioni e infusi diabolici, che portavano alla licenziosità, alla prostituzione e ad altre attività poco ortodosse.

Anche un’altra pratica, in uso nel centro America, faceva sì che il pomodoro, per quanto innocente, non fosse ben visto: i cronisti spagnoli riportano con disgusto che gli Aztechi sacrificavano i loro prigionieri di guerra, tagliando loro il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Sole. La carne rimanente di alcune delle vittime veniva poi preparata a mo’ di stufato condito con pomodori e peperoncini e servita ai nobili.

Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sulla misura in cui il cannibalismo fosse praticato dalla comunità azteca, concordano sul fatto che avveniva occasionalmente, soprattutto per scopi rituali.

Pratica più malvagia e diabolica non poteva esserci per le menti dei conquistadores, che vedevano il Nuovo Mondo come “Terra di Dio” e, così, trovavano ancor più forti motivazioni per le loro missioni di conversione forzata.

Sembravano invece dimentichi che in madre patria, sempre in nome di Dio, ardevano pire per eliminare con il fuoco l’imprevedibilità femminile, le così chiamate “streghe”.

Gli Aztechi usavano i pomodori anche come medicina: purtroppo, la maggior parte delle loro ricette medicamentose sono tuttora molto difficili da eseguire. Per esempio, per curare l’acne si preparava una maschera di escrementi di lucertola, fuliggine e succo di pomodoro.

La bevanda per la convalescenza e il rafforzamento generale ci suonerà certamente molto più gradevole: succo di pomodoro appena spremuto, semi di zucca macinati, paprika gialla e succo d’agave cotto. Per l’asma e altri disturbi polmonari si mettevano i pomodori cotti, il più possibile caldi, sul petto, strofinandoli non appena erano abbastanza freddi assieme al copale, una incenso resinoso derivante dalla pianta di Icica icicariba.

Per i Maya il pomodoro era un alimento di uso quotidiano. Credevano che il succo di pomodoro aumentasse il sangue rosso in cui risiede la forza vitale dell’essere umano, rafforzandone così il corpo. Con il succo di pomodoro fresco si curavano anche le infezioni della pelle e le emorroidi.

La parola tomato, pomodoro in lingua inglese, deriva dalla parola azteca tomatl, che significa “una cosa rigonfia”, mentre i botanici europei hanno dato altri nomi a questo frutto sospetto. Il primo fu lycopersicum, “pesca del lupo”. 

Il termine “pesca” deriverebbe da una descrizione non molto dettagliata di un’antica pianta velenosa egiziana – presumibilmente la mandragola – che aveva anch’essa bacche di colore giallo oro e che il famoso medico romano Galeno aveva citato nei suoi scritti.

Il “lupo” derivava dal fatto che gli europei pagani chiamavano “piante lupo” tutte le piante velenose, caustiche o addirittura “maligne”.

L’illustre medico tedesco e membro della Royal Society dottor Michael B. Valentini (1657-1721), scrisse: il pomodoro «è chiamato ‘pesca del lupo’ perché, sebbene sia piacevole agli occhi, se la gente lo mangia, può venirne uccisa, proprio come dai lupi». Il frutto era chiamato anche “mela d’oro dall’odore fetido”.

Il termine pomodoro è da attribuire al botanico senese Pietro Andrea Mattioli, che per primo documentò il frutto in Italia nel suo Medici Senensis Commentarii del 1544, dove lo definì mala aurea. Lo stesso botanico lo ha tradotto letteralmente in italiano come “pomo d’oro” (per il suo caratteristico colore giallo oro prima dell’ultima fase di maturazione) prima nel suo Commentario a Dioscoride (1574) e poi nel suo Herbarius.

Altri botanici del XVI secolo pensarono a nomi più amichevoli per la nuova pianta, come “mela dell’amore” (poma amoris) o “mela del paradiso”.

Ma anche questi nomi trasmettono una diffidenza di fondo, una paura dell’erotismo e della sensualità. Il frutto, succoso e rosso come le labbra voluttuose, e pieno di semi viscidi, ricordava agli studiosi una fatale tentazione femminile. In Germania, una ragazza attraente viene ancora chiamata “pomodoro caldo” – che potrebbe però rivelarsi aspro – o “pomodoro capriccioso” – e una donna capricciosa viene chiamata “pomodoro con pepe”.

Quando il pomodoro divenne noto, gli studiosi dell’epoca si chiesero se potesse essere il frutto proibito che cresceva sull’Albero della Conoscenza Proibita nel Giardino dell’Eden. Il loro sospetto derivava dal resoconto di Cristoforo Colombo del suo terzo viaggio, che lo aveva portato fino alla foce del fiume Orinoco, sulla costa nordorientale del Sud America. Colombo scrisse che la regione era bella oltre ogni misura, la vegetazione era rigogliosa, gli animali erano pacifici e gli indigeni erano belli e in perfetta salute. Era convinto di essere approdato ai confini del Paradiso, il Giardino dell’Eden descritto nei testi sacri. 

Era mai possibile che i numerosi pomodori selvatici che crescevano in quel luogo fantastico fossero i discendenti del frutto proibito? 

Il nome “mela del paradiso”, già citato in precedenza, si diffuse relativamente. Per esempio, era il nome usato nei Paesi dell’Impero asburgico – Boemia, Slesia, Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Voivodina) e Tirolo; in Scandinavia sono ancora note come “mele del paradiso”: paradisaebleparadisaepplerajčica, o paradižnik, questi i nomi usati in questi luoghi. E oggi a Vienna solo i forestieri comprano “tomate” al famoso Naschmarkt; i viennesi acquistano Paradeiser.

Nell’Odenwald, vicino al Reno, i locali chiamano ancora il frutto “pomo d’Adamo” in ricordo della prima vittima della seduzione femminile. Anche se la gente diffidava di questo esotico “pomo d’amore” o “pomo d’oro”, esso trovò posto nei giardini europei come pianta decorativa, non da mangiare bensì come ornamento, troppo bello per non nascondere insidie.

Quest’aura di bellezza da temere attribuì al pomodoro poteri eccitanti e afrodisiaci che gli valsero appunto nomi come “pomme d’amour” in francese, o Liebesapfel in tedesco, o “love apple” in inglese.

Nella seconda metà del 1600 in Francia, gli spasimanti ne donavano grappoli ornamentali alle loro dame, a far intendere i loro desideri inesprimibili, e stuzzicarne l’appetito erotico.  Gli alchimisti lo impiegavano in pozioni e filtri magici.

Per molto tempo il succo di pomodoro è stato considerato una pozione d’amore segreta, che agli occhi dei Puritani “porta alla licenziosità”.

A poco a poco, però, se ne scoprirono le proprietà medicinali: il frutto rosso era ritenuto in grado di guarire ferite di vario tipo, tanto che il suo succo fresco veniva versato direttamente nella ferita per prevenire l’accumulo di pus e spalmato sulla cute contro lo sviluppo dell’erisipela. Gli esperti di medicina sperimentarono tinture a base di gambi freschi. L’idea derivava dalla forte somiglianza dei frutti della belladonna, che veniva usata per le pustole e le malattie della pelle di natura scrofolosa, come quelle causate dalla sifilide e dall’abuso di pomate al mercurio. 

Secondo il modo di pensare dell’epoca, era logico che questo “pomo d’amore” alleviasse i sintomi della sifilide, la malattia venerea con cui la dea dell’amore sensuale, Venere, aveva colpito l’umanità. Dopotutto, furono i marinai di Colombo a contrarre per primi la terribile malattia sessualmente trasmissibile, portandola con sé dal Nuovo Mondo. La dottrina medica dell’epoca affermava che il luogo in cui aveva origine una malattia era anche quello in cui si poteva trovare la cura.

Ma bisognerà attendere il XVI secolo prima che gli europei prendano in considerazione l’idea di mangiare pomodori, che dovettero passare attraverso i consueti processi di accettazione culturale.

L’incorporazione di questi prodotti nuovi, come molti provenienti dal Nuovo Mondo, entrarono nel meccanismo di sostituzione per diventare accettabili gastronomicamente: l’atteggiamento verso queste novità esotiche era di grande cautela e curiosità, tanto che ci si impiegò più o meno tre secoli prima che il pomodoro (e i suoi compagni, la patata, il mais, il peperoncino, il peperone) venisse adottato definitivamente, entrando nella dieta occidentale in modo così profondo e sistematico che sarebbe difficile immaginare le cucine europee senza di esso.

Il trucco è stato credere di poter trattare i nuovi prodotti in ricette tradizionali, dimostrando la capacità dei sistemi alimentari di rigenerarsi grazie ad apporti esterni e al tempo stesso riaffermare la propria identità: incorporare l’ignoto assimilandolo a sé.

Gli italiani furono i primi a osare mangiare il temuto frutto. Forse fu un innamorato respinto che volle togliersi la vita con la poma amoris, la mela dell’amore; forse cadde sul pane abbrustolito o nella pasta con olio d’oliva, aglio e prezzemolo. In ogni caso, il botanico Gioacchino Camerario il Giovane (1534-1598) scrisse: «In Italia molti hanno l’abitudine di mangiare questi frutti cotti con sale, aceto e olio, ma si tratta di un cibo molto poco salutare». 

In prima battuta si provò a friggerlo in padella come i funghi e le melanzane, ma l’evento decisivo che ne segnò il lancio fu la sua trasformazione in salsa di accompagnamento, utilizzata dal XVII secolo con carni e pesci e infine con la pasta.

Col tempo, l’Italia divenne la seconda patria del pomodoro, che si unì in matrimonio intimo con la pasta, sancendo il definitivo trionfo della pummarola.

Dal Settecento inizia la vera e propria “rivoluzione rossa”, a partire da Napoli, e la pasta si colora di rosso, non solo al Sud ma anche al Nord.

Interi campi di pomodori venivano coltivati anche nell’Italia settentrionale. I contadini della regione di Parma furono i primi a conservarli cucinando il succo o essiccando i frutti al sole.

Attraverso la riduzione del pomodoro a salsa, fu adattato a una fisionomia tipica della tradizione europea: già dal Medioevo i trattati di cucina dedicano moltissima attenzione alle salse, indispensabile accompagnamento a ogni piatto. Anche il pomodoro fu quindi accolto nelle cucine del vecchio continente solo dopo la sua riduzione morfologica a qualcosa di noto: una salsa, che lo rendeva decifrabile dagli usi tradizionali, aggiungendo nuove note di colore e sapore.

Invece, gli europei settentrionali e occidentali e i nordamericani impiegarono molto tempo per superare il grande tabù, anche se l’erborista William Salmon (1644-1713) riferì di aver visto crescere il pomodoro nelle prime colonie americane – nell’attuale Carolina del Sud, nel 1710 – presumibilmente solo come pianta ornamentale. Un colonnello americano di nome Robert Gibbon Johnson fu dichiarato pazzo nel 1820 quando annunciò che il 26 settembre avrebbe mangiato pubblicamente un intero cesto di pomodori seduto nel suo portico. Il giorno stabilito, più di duemila curiosi si presentarono per assistere allo spettacolo e, tra lo stupore di tutti, sopravvisse. 

Nel 1866 nella Germania settentrionale il “pomo d’amore” era considerato una pianta ornamentale, mentre nella Germania meridionale veniva coltivato e consumato come contorno o come ingrediente di zuppe. Ma scienziati e medici nutrivano ancora dei dubbi: sostenevano che, in quanto verdura che produce acidi, il pomodoro acidifica il sangue e i tessuti del corpo, esponendoli a reumatismi, gotta e artrite e, peggio ancora, favorendo il cancro. Oggi sappiamo che è esattamente il contrario. 

Solo dopo il 1920 il pomodoro è diventato veramente popolare negli States. L’industria agroalimentare ha coltivato enormi campi di pomodori ibridi standardizzati nelle nuove aree coltivabili nel deserto della California meridionale. Di conseguenza, il mercato statunitense fu inondato di succo di pomodoro, concentrato di pomodoro, pomodori in scatola, zuppa di pomodoro e ketchup. Per le star di Hollywood, il succo di pomodoro divenne parte del rituale quotidiano al pari del succo d’arancia e degli spinaci; e durante il Proibizionismo un cocktail popolare, il Bloody Mary, mascherava bene la vodka che si nascondeva al suo interno. 

Oggi l’americano medio consuma circa cinque chili di pomodori all’anno.

Non molto tempo dopo, i medici hanno trovato il modo di attestare notevoli vantaggi per la salute di questo ortaggio appena diventato di moda e redditizio. Essi riferirono che i pomodori sono buoni per la digestione, i disturbi dell’ira, la gotta, la polmonite e le affezioni cardiache e renali. I pomodori freschi aumentano la secrezione del pancreas e stimolano il movimento intestinale. Inoltre, sono ricchi di vitamine di alta qualità, tra cui la vitamina C, il carotene, la tiamina e la vitamina E, la “vitamina della fertilità”. Viene raccomandato per contrastare l’acidità di stomaco, la stitichezza, per fluidificare il sangue e per i disturbi legati alla gotta. Si usa anche appenderne gli steli e le foglie negli armadi per tenere lontane tarme e insetti.

Gli antroposofi, tuttavia, hanno ancora dei dubbi sul pomodoro. Notano che questa pianta non ha la forza per crescere sul suo stesso stelo essendo “appesantito dalla materia”. Il botanico Alfred Usteri (1869-1948), di orientamento antroposofico, era sospettoso di quella che definiva «una pianta rapace che prospera sui propri rifiuti e detriti compostati». Egli sostiene che il pomodoro riflette il materialismo che ha messo radici all’inizio del XV secolo e che è l’immagine speculare dell’egoismo umano che ha portato al razzismo, al nazionalismo e al consumismo. Il pomodoro, quindi, può causare malattie nell’essere umano, che rappresentano l’espressione fisica di queste configurazioni mentali. In altri scritti antroposofici ci sono anche avvertimenti sulla “forza espansiva in eccesso” del pomodoro e sulle “forze formative sbagliate che possono contribuire a promuovere il cancro, i reumatismi e la gotta”.

È interessante notare che recenti ricerche indichino ancora una volta il contrario: il pomodoro è anticancerogeno. Infatti, i casi di cancro sono statisticamente meno numerosi nelle zone in cui si consumano molti pomodori. Uno studio ha dimostrato che, grazie all’alta concentrazione di carotene e licopene, è particolarmente benefico per il cancro ai polmoni. Il contenuto di licopene del frutto lo rende anche uno degli alimenti antiossidanti più quotati.

E che dire delle folli fantasie che ritenevano il pomodoro una pianta stregata in grado di provocare pazzia e allucinazioni? Il glicoalcaloide solanina presente nelle foglie e nei gambi dei pomodori è davvero velenoso; può causare nausea, irritazioni alle vie biliari e ai reni, fluttuazioni cardiache, sudorazione profusa, crampi e perdita di coscienza, ma non è assolutamente uno psichedelico. 

A inizio maggio è il momento in cui pianto i pomodori in orto. Queste minuscole piantine, nate da un singolo seme di un frutto, in brevissimo tempo, con il calore del sole della stagione e poca acqua, raggiungeranno una stazza notevole e si riempiranno di grappoli pelosi, pieni di fiori gialli.

Il mio orto a metà giugno diventa un’esplosione di pomodori di ogni genere, pronti a soddisfare la mia voglia di freschezza o a riempire vasi di conserva.

Fino a fine settembre, se lasciate fare, le piante di pomodoro produrranno frutti, riempiendo ciotole su ciotole di frutti ogni settimana.

Non a caso questa pianta veniva vista come infida e demoniaca: da un solo seme si poteva avere un raccolto notevole, una vera stregoneria, opera del demonio.

Io, come molti di voi, ormai accetto che questo frutto azteco sia il protagonista della mia cucina estiva. E mentre mi mangio una frisa coloratissima e profumatissima, mi immergo nel fascino della storia di questa pianta magica.

ARTICOLO n. 45 / 2023

NANNI MORETTI IN FUGA

Il sol dell'avvenire

L’immagine è quella di un uomo di quarant’anni, capelli lunghi e ondulati, fisionomia sottile. Quest’uomo vaga lungo un viale con gli occhi arrossati dalle lacrime, cammina senza pace. È ottobre, è Parigi e quel viale è Boulevard Raspail che quel giorno di ottobre del 1984 apparirà ancora più grigio di come già non sia solitamente. Un viale che è un lungo vuoto che scava non poca angoscia nel mezzo di Montparnasse. Quell’uomo è Jean-Pierre Léaud e ha saputo da poco che François Truffaut è morto. L’uomo che lo ha cresciuto e formato proprio come un padre è morto all’assurda età di cinquantadue anni. Léaud non si dà pace e forse non si darà pace mai più. Siamo nel mezzo degli Anni Ottanta, ma i francesi ancora non lo sanno. François Mitterrand è presidente già da tre anni, molti sono delusi, ma in qualche modo Ronald Reagan e Margaret Thatcher appaiono ancora lontani e con loro appaiono lontane le facce orribili di anni che si pretendono leggeri e spensierati e che non saranno altro che il primo volgare rigurgito di una mostruosità antropologica che oggi i nostri anni accolgono invece con assurda ovvietà. 

La fine della storia non riguardava la storia in sé, i cicli economici e di potere, ma avrebbe riguardato invece le nostre stupide facce intrise di espressioni sempre più prive di memoria. La morte di Truffaut segna in un certo senso un passaggio, illuminato ancor di più durante le sue esequie dall’icastico viso atrocemente bello e straziante di Fanny Ardant. Appariva in quel giorno di lutto sui volti dei presenti la grana spessa del tempo e della memoria. Le storie erano ancora visibili come tatuaggi fissati nel pensiero di chi le aveva vissute e ben percepibili da chi ancora allora sapeva leggere nel prossimo. Gli occhiali scuri erano indossati per non esibire il proprio dolore: quanto stridore con gli occhiali scuri di oggi, inforcati invece solo per evidenziarlo durante funerali assordati dagli applausi. Il gesto è il medesimo, ma l’effetto è decisamente di verso opposto. 

François Truffaut lottò fino all’ultimo, non tanto con la malattia, ma con la propria meraviglia che aveva la forma del fare cinema, e non derogò mai alla propria arte come al proprio desiderio. Quello che allora aveva assunto la forza di un’utopia del possibile oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo una pericolante perdita di controllo, un fare cinema ridotto ai minimi termini e sovrastato da apparenza mista a paura, angoscia e panico da sala vuota.

E allora bisognerebbe tornare a Jean-Pierre Léaud, alla sua mano. La immaginiamo mentre scorre sottile tra i capelli per fermarli dietro all’orecchio prima che ricaschino oltre, mossi dal vento e dallo sconforto di quell’ottobre. Torniamo a un attore fragilissimo come dovrebbero essere forse sempre gli attori. Un artista cui va conquistata la fiducia perché si possa fidare e affidare, perché possa essere controllato facendosi guidare fino al punto di offrirsi al proprio pubblico libero e vivo per sé e per gli altri. E vivo per sé e per gli altri Léaud lo è stato in maniera assoluta e splendida. 

Un piacere per gli occhi, un dono raro. Ed è di questa forma di controllo, che seppe offrire Truffaut, e di questa forma di fiducia che seppe offrire Léaud che oggi latita sempre più un’arte cinematografica decadente e a tratti moribonda, in parte nei suoi contenuti, quasi sempre nella sua fruizione. Un cinema che da sala è diventato da cameretta, una forma di fruizione ridotta che non riguarda ormai più il popolare, ma quella che si dice una sua nicchia; che sia ceto medio, più o meno riflessivo conta ormai ben poco.

E attorno a questa forma insieme di riduzione e di mancanza sembra parlare il cappio che sta al centro della scena de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Cappio con cui dovrebbe impiccarsi il protagonista del film di Giovanni, Silvio Orlando, ma che al tempo stesso sembra destinato proprio a Giovanni. Un regista, quello interpretato da Nanni Moretti, non esplicitamente depresso o privo di idee, perché molti film ha ancora in mente di fare, ma rinchiuso in una gabbia critica e soprattutto autocritica, ormai incapace di cogliere la realtà e il suo senso.

Un suicidio, una morte che aleggia attorno a tutto il film di Nanni Moretti come al film che Giovanni pretende insistentemente come politico. Una morte quasi desiderata, una fragilità esposta eppure inedita al punto da capovolgere il ruolo e il compito di un regista che pare ormai in balia degli eventi (Giovanni) e privo di una poetica che da sempre lo ha caratterizzato (Nanni Moretti). 

Nanni Moretti, in anni in cui il cinema italiano declinava pericolosamente riducendosi a pochi autori (e ancor più a pochi spettatori) e a una produzione di bassa qualità, ha – con Sogni d’oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1985) mostrato un’idea del cinema netta e anche divisiva. Un regista che ha sempre imposto un controllo ossessivo nella regia, nel controllo del set e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Moretti ha rappresentato un cinema innovativo, ma fortemente classico nella visione generale, segnato da un tentativo di controllo a tratti assoluto che ha in qualche modo reso impraticabile uno sguardo permeabile, ampio e curioso su una società e su una realtà che il regista romano non sembra più in grado di leggere, prima ancora che di rappresentare. Se nel 1984 Michele Apicella in Bianca uccideva i suoi amici perché non poteva controllarne le storie, oggi Giovanni preferirebbe fare da sé uccidendosi e lasciando perdere tutto il resto. È come se la fragilità dell’attore – quella di Jean-Pierre Léaud sperso lungo Boulevard Raspail – si fosse trasferita ad un regista diventato lui stesso il fulcro e il centro della scena, ma al tempo stesso la sua negazione: perché senza di lui – «mi viene da dirgli: spostati un po’ e fammi vedere il film» disse Dino Risi, non resta più nulla, non c’è nessuna scena, nessun film. Un regista che non controlla, un regista che non decide si trasforma in un film che non può esistere.

Un film su se stesso e per se stesso? Forse, ma anche un film su un regista senza alcuna possibilità di controllo, su un regista che ha perso il controllo di ogni cosa. Un regista che diviene totalmente attore esponendo una fragilità però non curabile. Nessuno dietro la camera può più guidare lui e la scena. Gli attori provano a fare da sé, a darsi un ruolo per conto proprio, ma tutto questo non può funzionare a lungo e infatti non funziona, né nel film nel film e ancor meno nel film stesso. Il funzionare è basilare per ogni macchina perché significa senso e ragione e tutto questo Il sol dell’avvenire non lo ha, restando per altro comunque lontano dall’ambizione di una utopica macchina celibe. E il continuo incespicare in citazioni e autocitazioni – divertenti per chi segue Moretti da quaranta anni – offrono il ritratto di una passione triste che sembra volere per principio oppure ciò che è stato (e non è più ripetibile) a ciò che potrebbe funzionare e forse pure meravigliare.

Un regista può essere sordo (sempre François Truffaut in La nuit américaine) oppure cieco (Woody Allen in Hollywood Ending), ma non può essere fragile, soprattutto se la fragilità va a determinare una totale perdita di controllo, o meglio una voluta perdita di controllo. Il sol dell’avvenire mostra il corpo di un regista che non può – ovviamente – essere il regista di quaranta anni fa, ma al tempo stesso non offre una possibilità diversa di sguardo al possibile regista di oggi e così anche allo spettatore (salvo che per gli spettatori groupie di quaranta o venti anni fa). 

È un garbuglio, un nodo scorsoio pericoloso che rivela una debolezza che non sta solo in Nanni Moretti, ma che probabilmente il regista romano tende a riflettere da una società che della nostalgia ha fatto una mitologia, senza accorgersi però che i reperti vanno maneggiati con cura e non utilizzati come vettovaglie buone per tutti i giorni. Una tensione che resta priva di dramma e colma di stanchezza.

Una stanchezza reale eppure vacua, perché incapace di offrire un’utopia, o anche solo una possibile forma di resistenza. Il controllo è una forma di equilibrio oltre il quale tutto diviene ingestibile, ma è anche una forma di adattamento continuo capace di aggirare la stanchezza. Per raggiungere il quale non basta citare “la storia”, ma occorre mettere in discussione ciò che è stato per individuare una nuova strada, quella più adatta, dare in sostanza un equilibrio (sempre mobile) alla storia e alla sua morfologia.

Mettersi in discussione non appartiene proprio a Il sol dell’avvenire che gioca sì con la storia, immaginandola con i sé, ma con l’unico obiettivo di confermare un’idea precisa e già data. Dare forma a una certezza non dovrebbe appartenere al cinema e alla sua capacità di creare nuovi immaginari. In questo falso movimento che appartiene sempre più all’ultimo Moretti, sicuramente da Tre piani in poi, si avverte una perdita comune del ruolo del regista, di quel mestiere oscuro che lo stesso Ettore Scola faticava a spiegare ai suoi genitori (Silvia Scola, Paola Scola, Chiamiamo il babbo), ma che si palesava in un saper fare dentro al quale ogni elemento della troupe acquistava pienamente senso. 

Ne Il sol dell’avvenire si avverte un liberi tutti, una resa al cambiamento e un assoluto disinteresse per come questo cambiamento possa essere interpretato. Una pretesa di centralità che trasforma la voce di Moretti intesa come sguardo, intuizione e intelligenza in una parodia di se stesso.

Mentre Marco Bellocchio che esordì nel 1965 ancora sembra divertirsi come un pazzo giocando su più piani e con più forme di cinema, Nanni Moretti abbandona il campo chiedendo ai propri attori di fare da sé in un finale celebrativo di un passato che si vorrebbe come una scatola ermeticamente chiusa, ma che rischia solo di dare forma a un presente inadeguato, mentre il mondo vive tensioni inedite e mutazioni radicali. Forse queste attrici e questi attori sapranno fare meglio da soli, alcuni già stanno da altre e in altre parti, ma abdicare al ruolo di guida per un regista come Nanni Moretti assume il segno grave di una sottovalutazione del dolore (proprio e altrui) in nome di una sopravvalutazione di se stessi. Tornando a quell’ottobre del 1984, non si può non vedere come le foto dei funerali di François Truffaut mostrino una forza cinematografica che certamente riguarda solo in parte il grande regista francese. Tra gli scatti si può cogliere a fianco di Fanny Ardant l’interprete dell’uomo misterioso, quello che avvicinandosi alla coppia Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) e Christine Darbon (Claude Jade) in Baisers volés avverte Christine del proprio amore per lei, un amore definitivo e assoluto al punto da dirsi pronto ad attenderla quando lei avrà deciso di “abbandonare il mondo del provvisorio” per unirsi a lui. Chiaro, quello era un tempo in cui non era necessario cercare “il cinematografico” perché tutto per certi versi lo era già, ma credere nel cinema e nella sua funzione vuol dire anche saper creare un immaginario al di là di se stessi e che vale sempre più di se stessi.

ARTICOLO n. 44 / 2023

IL CORPO DELL’ATTRICE, IL CORPO DELL’AUTRICE

Un dialogo

Si può chiamare in tanti modi: contenitore, confine, carne e, in definitiva, possiamo affermare che il corpo è uno spazio che occupa spazio. Generatore di amore, di sgomento, di ammirazione, il corpo non è solo un accidente e non è da investigare solo per estetica o scopi medici, ma è un viaggio, una mappa, una fotografia di quel che siamo, rivelatore di futuro e memoria del passato. Erotico nella sua capacità di legarsi e creare ponti fra: persone, cose, luoghi. 

È su questo oggetto insieme terreno e misterioso che Sonia Bergamasco, attrice raffinata, poeta, musicista sempre alla ricerca di domande, più che di risposte, affida il proprio ragionare e le proprie memorie al suo primo libro in prosa dal titolo Un corpo per tutti, Einaudi. È qui che dispiega i motivi per cui per un’attrice il corpo è tutto e che cosa significa, per lei, avere scelto questo mestiere, che di corpo e di voce ha bisogno, non a caso si dice “dare corpo a un personaggio”, che non è solo un prestito, ma un saper plasmare o modificare una materia già viva. La biografia di un mestiere, come recita il sottotitolo, più che di un’attrice, un libro essenziale per chiunque voglia avvicinarsi alla recitazione e per chi di recitazione sa un bel nulla, come me. Non un memoir, ma una testimonianza, scritto con lingua tersa, onesta e diretta su un mestiere che non parla solo di lei, dell’attrice, ma che riesce a parlare di tutti e a tutti. 

Volevo darle del lei, perché sono sempre molto eleganti le interviste dal tono cortese. Alla fine, però, ha vinto la spontaneità, le risate in un giovedì mattina, quando la distanza dei nostri corpi si è accorciata e abbiamo chiacchierato di che cosa è il corpo, di come lo raccontiamo. 

Melissa Panarello: Per parlare del corpo, inizi dalla voce. Nel libro l’hai resa terrena, anzi terrosa, quando da tutti è considerata aerea. 

Sonia Bergamasco: E questo discorso ti è tornato? 

M.P. Molto! Tu fai gli esempi di Marlon Brando, da cui ti aspetteresti una voce densa e sensuale e invece, scrivi, aveva un timbro opaco e strascicato. Oppure di Monica Vitti, il cui timbro definisci rugginoso e gorgogliante, “slacciato” dalla sua figura. Io ho pensato a Pino Daniele, alla sua voce così sottile che proveniva da un corpo massiccio. E anche a me stessa, che sono alta un metro e quarantanove ma ho la voce di chi supera abbondantemente il metro e mezzo. E di te io ricordo più nitidamente la voce che il viso. 

S.B. Sono così felice che tu lo dica perché la voce è sempre stata in primo piano, per me, anche quando era selvaggia e ineducata. Ha camminato passo-passo con me nel mio percorso di consapevolezza. È il segnale di un tutto, fa parte di un tutto e lo rappresenta. Un attore, un’attrice, sono un coro di voci. Poi c’è la voce quotidiana, quella dritta, della lettura quotidiana, e quella con cui ti presenti.

M.P. È una cosa che capisco benissimo perché ha a che fare anche con la letteratura: ciò che si scrive è diverso da ciò che si dice e ovviamente da come lo si fa. Nei libri una cosa a cui presto moltissima attenzione è la voce dell’autore, dell’autrice. Non tanto quello che scrive né come lo fa ma il timbro, la vibrazione che avverto fra le pagine. Tu nel libro ti definisci un’attrice immersiva, e come scrittrice come ti senti? 

S.B. Ci ho poi ripensato, in realtà. Immersiva lo sono nel senso che il desiderio è quello di sciogliermi nell’altro, però rimane sempre un margine di forma che non riesce a essere completamente abbandonata e quindi c’è un’alchimia necessaria. Nella scrittura forse quello che cerco è il desiderio di pulizia, di chiarezza e di ricomporre drammaturgicamente visioni articolandole in un racconto. Ho cominciato poi con la poesia perché è in rapporto strettissimo con quello musicale, che è stata la mia prima strada e quindi immagino che dalle letture e dallo studio e dall’essere sempre a contatto con un linguaggio musicale, il passaggio a una lingua poetica sia stato molto diretto e facile. Se oggi devo dirti quale scrittore o scrittrice si avvicina più alla mia idea di scrittura, ti dico Annie Ernaux. 

M.P. Mi sono chiesta anche io che tipo di scrittrice sono e di certo posso definirmi immersiva. Questo ha molto a che fare con l’eros, se ci pensi, ovvero l’eterno rapporto fra le cose, che poi è anche il rapporto con il pubblico, come scrivi nel libro. Cos’è l’eros nel tuo lavoro? 

S.B. L’energia che scorre e che rende necessario, credibile e potente quello che si sta raccontando e in definitiva si sta vivendo insieme. Un soffio vitale, uno strumento che unisce e passa attraverso, inteso come legame. 

M.P. Per me l’eros non ha a che fare con il sesso o meglio, ha pure a che fare con il sesso quando è legame; è più che altro un filo invisibile che lega il dentro e il fuori, il te e il me.

S.B. Se ci pensi è potentissimo anche nel bambino piccolissimo. 

M.P. A proposito di bambini, un’altra cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo libro è che a un certo punto i neonati, dopo pochi mesi, si rendono conto di avere un corpo. Mi ero dimenticata di questo fatto, ma ora che ho di nuovo una figlia appena nata mi accorgo che lei non è consapevole di avere delle mani. Lo scoprirà fra qualche settimana e in quel momento si definirà nello spazio. Tu quando l’ha scoperto?

S.B. Ero una bambina allo specchio, avrò avuto sette o otto anni. Mi guardavo per capire chi fossi, facevo piccoli movimenti nello spazio per cercare di definirmi attraverso quello strumento magico che è lo specchio, che sembra riflettere il nostro corpo e invece ci porta chissà dove. Non saprei circostanziare i tempi in cui sono venuta a patti con il mio corpo, so solo di averci messo un bel po’ a non essere soltanto l’idea di un corpo. Però c’è stato anche molto gioco, che mi ha aiutato a sciogliere molte tensioni e incomprensioni che partono da lontano. E forse recuperare il gioco perduto dell’infanzia attraverso il lavoro d’attrice non è casuale, è una possibilità di riappropriarmi del mio corpo intero, di viverlo pienamente e consapevolmente attraverso una forma amata, che è appunto quella del gioco. 

M.P. In questo in effetti gli attori sono dei privilegiati, cioè nella scoperta del proprio corpo. Immagino che i turbamenti e gli scoramenti nei confronti del nostro corpo li abbiamo tutti, voi però avete, per mestiere, la possibilità di attraversarlo e di compiere questo viaggio. Uno scrittore no, si dimentica di avere un corpo. 

S.B. Sì, nella scrittura è più complicato. Però se tu affronti il racconto anche in voce, e se dai corpo a questo racconto e cerchi un rapporto con il pubblico, riesci a recuperare una dimensione più erotica. 

M.P. Un mio amico dice di essersi innamorato di sua moglie per il modo in cui occupa lo spazio. Tu come lo occupi? E che valore dai al corpo delle persone che ami e che condividono con te lo spazio?

S.B. Mi piace la dimensione fisica dell’abbraccio. Ho necessità di vicinanza e presenza. Questo perché caratterialmente, per molto tempo e per timidezza, mi sono preclusa tante possibilità. E adesso, riscoprendo una forma più libera di me stessa, ho il desiderio di stare insieme. 

M.P. Questo in realtà ha molto a che fare con la leggerezza, a un certo punto scrivi che è stata per te una conquista. 

S.B. Bisogna arrivarci alla leggerezza, oppure la possiedi di tuo, anche se è rarissimo. Per arrivarci devi passare attraverso quella che è la tua storia, che anche il tuo corpo ti chiede. Poi ognuno ha i propri tempi, e ciascuno ha i propri traguardi. 

M.P. In effetti uno dei consigli più utili che mi hanno dato da ragazzina, quando ero molto appesantita da sovrastrutture e insicurezze, è stato: sii pop. Una cosa che allora mi sembrò un insulto e invece con il tempo ho capito che essere pop è il regalo più grande che puoi fare a te stesso e ha a che fare con la leggerezza. A un certo punto dice una cosa coraggiosissima: l’arte, la cultura, non servono a niente. Che cosa può riscattare la cultura, oggi? 

S.B. Non si può appesantire l’opera o il gesto artistico di qualsiasi tipo con una missione, significato o descrizione. Bisogna affrontare l’opera per quello che è: una voce che ci dovrebbe aprire a ulteriori possibilità, illuminandoci dentro, che ci deve sconvolgere. Nell’arte non può esserci una visione moralistica del fare, altrimenti entriamo nella scuoletta, in qualcosa che ha a che fare con il ministero. 

M.P. Nel tuo libro parli spesso di memoria. Cosa è la memoria del corpo?

S.B. La memoria vive nello spazio interno del corpo e nello spazio esterno della rappresentazione. C’è insomma un disegno complessivo, quelle memorizzate dall’attore non sono parole in orizzontale che vengono assorbite in una zona più o meno nota del cervello. Scivolano nei muscoli, nelle intenzioni più profonde, devono essere dimenticate, sciolte nel corpo per essere rivissute come azione. Altrimenti restano vuote, come tutte le parole che non vengono davvero vissute dal corpo. Tutte le parole che noi stiamo usando adesso, le mie, le tue, sono parole che passano attraverso un’esperienza fisica, una memoria del corpo, un’esperienza emotiva. È questo che l’attore e l’attrice devono sempre replicare per dare vita a quello che dicono, a quello che fanno, altrimenti è tutto morto. 

M.P. Stai compiendo un viaggio alla scoperta del mestiere dell’attore, dell’attrice. Ti vedremo mai nei panni di Eleonora Duse? 

S.B. Nei panni della Duse no, però la voglio raccontare. Il desiderio è quello di parlare del mio mestiere attraverso un’artista assente, perché di lei non abbiamo quasi nulla se non immagini fugaci, fotografiche, e un solo film in bianco e nero che non la rappresenta compiutamente. In questo periodo è quasi un’ossessione, è un momento della vita in cui sento la necessità di guardare attraverso. Non voglio parlare di me, penso solo che questo mestiere sappia parlare di noi. 

M.P. Io ho capito una cosa leggendoti: gli attori sono la nostra casa, quella di tutti noi. Siamo noi che vi abitiamo, allora. 

S.B. E per questo c’è una grossa responsabilità da parte nostra, di essere all’altezza di questo. Il desiderio però è quello e quando ci riesci tutto rimane vivo e ti regala qualcosa che nessuno mai più ti potrà portare via. 

ARTICOLO n. 43 / 2023

KAFKA. L’ADESIONE AL MONDANO

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi Kafka: (Mimesis) a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi in libreria da oggi. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Schiacciato dall’ammirazione. È quel che provo oggi leggendo e rileggendo Franz Kafka. Da ragazzo ero entusiasta e sfrontato, e invece di ammutolirmi venivo eccitato dalla scoperta di quel modo di raccontare che non somigliava a nessun altro. La lettura mi riempiva di desiderio, un desiderio tanto pungente quanto imprecisato era il suo oggetto. Dire che era la letteratura sarebbe troppo vago: leggerla, studiarla, scriverla, insegnarla? O tutte queste cose insieme? Come impadronirsene? Da dove cominciare? 

Esattamente come si apre il Meridiano Mondadori dei Racconti di Kafka (a quell’epoca di Meridiani se ne trovavano a metà prezzo o anche meno nel Remainders di piazza San Silvestro e nelle librerie dell’usato a via del Pellegrino, a Roma), e cioè con la Descrizione di una battaglia, così ebbe inizio la mia ondivaga carriera di scrittore. 

Già verso la mezzanotte alcune persone si alzarono, sinchinarono, si strinsero le mani, dissero che era stato molto bello e passarono poi dallampia porta nellanticamera per infilarsi il soprabito. 

Fu la struttura della frase a farmi incamminare. Cinque principali coordinate infilate una appresso all’altra, una oggettiva subordinata alla quarta principale e una finale subordinata alla quinta: semplicissimo e funzionale, una partenza subito movimentata, promettente. Ho ancora preciso il ricordo di me che sfogliavo il Meridiano con crescente meraviglia: Smascherato un gabbamondoInfelicità dello scapoloRiflessioni per un cavaliereLa condannaIl cruccio del padre di famigliaSciacalli e arabi (da quel momento e ancora adesso, per me, il culmine assoluto della prosa narrativa) e poi il testo letterario che ho riletto più volte in vita mia, vale a dire Un medico di campagna, fin quasi a mandarlo a memoria nella versione italiana di Rodolfo Paoli, a cui resto irrimediabilmente affezionato. Quindi il mio preferito proprio perché minore nel suo formato, eppure così commovente e comico, Il cavaliere del secchio. Ah, Il cavaliere del secchio! Quando la moglie del carbonaio si stringe al petto il lavoro a maglia, quel gesto domestico inequivocabile… 

Un amore fisico, sensuale, verso il dettaglio.

O quando, racconta il medico di campagna, poggiato l’orecchio sul petto nudo del ragazzo malato, per auscultarlo, questi »rabbrividisce a contatto della mia barba bagnata». 

Ecco, più che per le sue massime insuperabili (se tento di riprodurle mi confondo e parafrasandole le sciupo) o per le sue visioni profetiche, è per questo, precisamente per questo, cioè per aver dato nome al brivido del ragazzo malato, che Kafka merita il titolo di “veggente”. 

Sul fianco destro, verso lanca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca duna miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nellinterno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare… 

(N.B. Volevo chiudere la precedente citazione, ma non sapevo dove, non trovavo le connessure, il discorso formava un tutt’uno, inarrestabile… come un nastro di Moebius.) 

Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. La famiglia è felice, perché mi vede allopera; la sorella lo dice alla madre, questa al padre, il padre ad alcuni ospiti che entrano, in punta di piedi, tenendosi in bilico con le braccia distese, dalla porta rischiarata dal lume della luna. »Mi salverai?» sussurra singhiozzando il giovane, abbagliato dalla vita che ferve nella sua ferita. Così è la gente del mio paese. Chiedono dal medico sempre l’impossibile… 

Sgombro il campo dall’equivoco: per me “veggente” è colui che vede la realtà, nella realtà, non oltre di essa, poiché ciò che si trova oltre di essa è comunque realtà. Il veggente riesce a sopportare la visione di ciò che semplicemente è, e a reggerla insieme (per uno scrittore vuol dire nella gabbia della pagina – che non è solo un formato tipografico). Nessun elemento di ciò che il suo sguardo contempla è irrilevante, dunque gli occorre pazienza e un notevole coraggio per accettare la dismisura del compito di indagarla. La sua eventuale attitudine mistica consiste, semmai, in questa accettazione integrale dell’esistenza, di cui nulla va deprezzato come residuo o scarto. 

Ed ecco un narratore che la vulgata vorrebbe ripiegato su se stesso, introverso e sognatore, timoroso della vita che costantemente lo elude e lo mortifica e dunque proiettato verso mondi interiori o ulteriori – insomma un simbolista, un cabalista, uno scrittore di incubi – e invece risulta implacabilmente fattuale, fisico, sensuale, attivo. Kafka incalza il suo lettore investendolo con una serie ininterrotta di gesti, ambienti, abiti (tantissimi abiti minuziosamente illustrati, nella sua prosa, come nemmeno in Francis Scott Fitzgerald…), gente che si veste e si spoglia, entra ed esce, protesta, minaccia col pugno chiuso, cappelli che si levano nel saluto, pozze di birra in terra, chiodi sporgenti che graffiano le scarpe, cavalli irrompenti, ferite, frustate, asce, lanterne, carbone, sciacalli che bevono sangue, gambe doloranti, baci a cameriere, sottane che scivolano sul pavimento. E poi cinghie, catene, forbici, pulci, dadi… 

Lasciano attoniti le descrizioni come quella che dà inizio al Cacciatore Gracco, con quelle frasi allineate una appresso all’altra, come fosse l’ekphrasis di un paesaggio fiammingo, per due pagine di pura registrazione visiva, fino a spezzarsi con la secca domanda che l’uomo in barella rivolge al sindaco (il quale, va notato, ha in testa »un cilindro listato a lutto»: ma perché “listato a lutto”? come gli sarà venuto in mente, a Kafka, questo dettaglio?): »Chi sei?» 

Dunque l’effetto spiazzante e inebriante che scambiavamo per onirismo e per un attributo della letteratura fantastica, catalogandolo secondo l’equivoca formula del “realismo magico”, si deve, al contrario, proprio alla cocciuta resistenza di Kafka ad alterare la realtà, ad apportare una qualsiasi modifica al suo dettato, per esempio arricchendola o stilizzandola alla maniera primitiva o stravolgendola oppure ancora scavalcandola per volare chissà dove, secondo le ricette e i manifesti programmatici di una delle tante baldanzose avanguardie della sua epoca. È singolare come Kafka vi resti totalmente estraneo: non ostile (Kafka non è ostile a nulla), bensì, alieno. Forse deriva da qui il turbamento che tuttora si prova nel leggerlo, mentre, tanto per fare un esempio, ci suonano innocuamente scontati, oramai, i cari tartagliamenti futuristi o il déréglement programmatico di Breton, Aragon e soci, che allora destavano scandalo. Siamo talmente disabituati a questa nettezza, a questo aderire senza ritegno al lessico minimo di cui sono formate la lingua e la vita, da scambiare il brivido che ci comunicano per una deformazione onirica. Come quella coniugale, la fedeltà al reale è in effetti un’ossessione più morbosa ancora del desiderio di evaderne.

Di “magico” la scrittura di Kafka ha piuttosto il carattere della vocazione, della più elementare nominazione. »La magia non crea, bensì chiama»: è dunque una forma di appello, di classificazione e certificazione dell’esistente, grazie a cui si rende manifesto e, per così dire, glorioso, tutto ciò che normalmente resta negletto. L’esatto opposto della trascuratezza. Nominando – allinea, giustappone, mette ordine, illustra. È un mezzo di contenimento. Edifica un equivalente verbale del mondo, per renderne lo splendore che sarebbe altrimenti opacizzato. Mentre la musica potenzia le emozioni, la scrittura le mette in chiaro. 

Sono tornato, ho attraversato lingresso e mi guardo intorno. È la vecchia fattoria di mio padre. Lo stagno nel mezzo. Vecchi attrezzi inservibili, aggrovigliati luno sullaltro, impediscono di passare alla scala del solaio. Il gatto è appostato sulla ringhiera. Un panno mezzo strappato, legato una volta per gioco attorno a un palo, si agita al vento. Sono arrivato. Chi ci sarà ad accogliermi? Chi aspetta dietro luscio di cucina? Dal camino esce fumo, stanno preparando il caffè serale. Sei a tuo agio, ti senti a casa tua? 

Talvolta questo inventario magnifica lo “splendore della vita” da cui siamo circondati, talvolta invece suscita un pungente senso di estraneità – che però fa risaltare in modo ancora più tagliente il profilo delle cose. L’estraneità come una pellicola di smalto. 

È la casa di mio padre, ma le cose vi stanno freddamente luna accanto allaltra, come se ognuna di esse fosse intenta alle proprie faccende che io ho in parte dimenticato e in parte non ho mai conosciuto.

Può darsi che la sorprendente e inesausta “adesione al mondano” di Kafka derivi, come sostiene Ferruccio Masini, da una radice spirituale ebraica, secondo la quale non si può e non si deve svalutare l’immanenza poiché è in essa che si rinviene la possibilità stessa del miracolo. Il mondo visibile include il mondo invisibile, esattamente come l’amore sensuale include quello celeste: e proprio perché lo contiene, la materia trova nello spirito le forze necessarie a nasconderlo in sé fino a farcelo scordare. Quel che chiamiamo “romanzo” (e la ragione per cui resta distinto dalla “poesia” e della “filosofia”) non è che una sfrenata, sacrificale dedizione al mondano, una devozione assoluta verso il visibile e le sue figure (umane, animali, naturali), al fine di renderne evidente il mistero costitutivo senza bisogno di ipotizzarne e indagarne un altro che si nasconda dietro le sue apparenze. Se un dio si degna di abitare il romanzesco, si tratta di un Augenblicksgott, una divinità momentanea, un dio del batter d’occhio, che esaurisce la sua funzione in ogni singolo accadimento, e scompare una volta compiuto il suo miracolo, miserabile oppure portentoso, che ora potrà essere una festa da ballo, ora un convegno amoroso o una grande battaglia, una visita medica, un paio di orecchini rubati, venduti, impegnati, smarriti e poi riapparsi, la scrittura di una lettera maliziosa o straziante, una vendetta tra bande di ragazzi, una sbronza, un naufragio, l’uccisione di un mostro e quella di un innocente, un atto di coraggio e uno di codardia – alcuni di questi eventi clamorosi, altri senz’altro banali, ma tutti egualmente decisivi, nessuno irrilevante – per il romanzo, intendo, solo per il romanzo, e non per la storia o per la morale o per la legge, che invece avanzano la giusta pretesa di soppesare e discriminare. Il grano e il loglio nelle pagine di romanzo hanno pari valore e pari opportunità – e così i buoni, i cattivi, i mediocri. Non stupisce nelle conversazioni di Kafka il persistente richiamo a Goethe, allo scrittore olimpico per eccellenza (»Goethe ha detto quasi tutto ciò che può essere detto su noi uomini»), e ancora di meno stupisce quello a Kleist, e alla sua lingua »chiara e universale», alla sua prosa »senza acrobazie verbali, senza commenti e senza elementi di suggestione».

Molti tuttora si affaticano a interpretare allegoricamente l’impenetrabile Davanti alla legge; mentre io fin dalle prime letture ne trascuravo il significato (troppo arduo per me da scandagliare e comunque inattingibile – e chissà, almeno in parte una beffa, addirittura una parodia, un pastiche di parabola chassidica), mentre mi sentivo irresistibilmente attratto dalla pura sciarada delle frasi, quella concatenazione implacabile che invano avrei cercato per tutta la vita di riprodurre, riuscendo tutt’al più a simularla.

E siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. 

Sto dicendo soprattutto della seconda parte del racconto, la cui prodigiosa progressione si incrocia, a canone inverso, con la regressione del povero uomo di campagna verso la vecchiaia e la morte. Le ultime quattordici frasi del racconto, da »Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano senza interruzione» al rintocco fatale di quell’«Ora vado a chiuderlo» formano una sequenza che è pura Ἀνάγκη, Ananke, qualsiasi forza per i Greci si nascondesse in quel nome: la necessità, ciò che non può che essere, ed essere esattamente così – insomma, l’ineludibile, l’inesorabile. E tutto come effetto di una sciarada di frasi! Che si leggono d’un fiato con la sensazione di esservi costretti.

La lettura di Kafka rappresenta spesso un’esperienza punitiva e soverchiante, ma proprio per questo fonte di godimento. Il disagio è causato dalla elementarità dell’incardinamento sintattico, dalla linearità quasi disumana del discorso e dalla sua capacità di avvincere malgrado la storia stia conducendo, obiettivamente, a una delusione, a un fallimento, o a una vera e propria catastrofe: come nella discesa nel Maelstrom descritta da Poe, quello sprofondare nel vortice, ecco, suscita ammirazione, e persino una paradossale forma di sollievo. Perché, insomma, se ha da essere per forza così, che sia. Se alla fine K. deve morire senza aver mai saputo di cosa era accusato – ebbene, che muoia! 

(Per una volta non suona enfatica l’espressione francese “je suis ravi”: una lettura di questo tipo è a tutti gli effetti un rapimento). 

“Inesorabile” vuol dire, alla lettera, che è inutile rivolgergli preghiere (in-ex-orare), non cederà alle suppliche, se è scritto che deve accadere accadrà comunque, spazzando via l’ostacolo di ogni parola superflua – ma non di colpo, bensì per gradi, una frase dopo l’altra. Invece che risalire in superficie si sta scendendo nel cerchio inferiore, anzi si è oramai scesi. Inesorabilmente. Come appunto nel Maelstrom. 

Proprio per la sua gradualità, la sua sconcertante progressione (sconcertante appunto perché imperturbabile, si direbbe quasi burocratica – in definitiva una “pratica da sbrigare”, come quelle che Kafka si ritrovava sulla sua scrivania di impiegato presso l’Istituto di Assicurazioni per gli Infortuni sul Lavoro), il cambiamento di livello non viene immediatamente avvertito, le ombre si allungano proiettate in un altrove (il futuro? il destino? o semplicemente le proposizioni che seguiranno?), seminando un’inquietudine calma, come nelle pagine di apertura del Processo, o nella minuziosa descrizione della macchina ad aghi che infligge la pena al condannato ne La colonia penale, o nell’intero impianto di un romanzo esasperante come è Il castello. La sintassi in perenne movimento, ma mai per un istante in subbuglio, sempre ben allineata e sommessa, talvolta persino scolastica, infila i quadri degli episodi l’uno nell’altro sicché risulta impossibile scollarsene – sei costretto, sì, costretto ad andare avanti, spinto in avanti. E intanto le ombre si allungano, cambiano forma…

Anche per questo fu geniale l’idea di Orson Welles di commissionare il prologo del Processo all’animatore Aleksandr Alekseev, con la sua magica tavola di spilli, una complicatissima macchina produttrice di visioni ondeggianti, ombre, immagini in metamorfosi perenne e senza spiegazioni – perfetta dunque per Davanti alla legge come per Il naso di Gogol’ o Una notte sul Monte Calvo. Fantasmagorie create da una tecnica certosina. Un milione di spilli che perforano lo schermo cambiando inclinazione, simili a quelli che iscrivono la sentenza nella carne del condannato. 

Una macchina romanzesca automatica come quella di un feuilleton ottocentesco e indifferente come il congegno che infligge il supplizio al condannato ne La colonia penale viene applicata da Kafka (impersonalmente – ma stavolta sul serio, assai più sul serio che presso naturalisti e veristi, che quella macchina avevano inventato) per narrare sequenze di fatti a prima vista poco significativi, puntando esclusivamente sulla chiarezza della concatenazione sintattica, che risulta trascinante appunto perché insindacabile, non soggetta ad alcuna trattativa. L’effetto comico che ormai molti sostengono essere la chiave giusta in cui vada letto Kafka, sostituendo un nuovo dogma a quello canonico dell’angoscia, dell’incubo e dell’assurdo che ancora imperava ai tempi in cui iniziavo a leggerlo io (e da cui discende l’infelice e abusato aggettivo “kafkiano”), sta tutto in questa millimetrica impassibilità, che al cinema negli stessi anni veniva raggiunta e perfezionata da Buster Keaton, un altro autore che lascia sbigottiti per la ritrosia a farsi catalogare. Che cosa infatti sarebbe il suo cinema – esistenzialismo, surrealismo, slapstick? Fa ridere, non fa ridere, oppure fa pensare – ma a che cosa, esattamente? Insomma, cosa produce, a cosa conduce la sfilza di disavventure inanellata da quell’uomo perplesso in camicia e pork-pie hat messo di traverso? 

Kafka si ritaglia un ruolo laterale nel processo della vita: diceva di non essere un giudice, semmai uno sottoposto al giudizio – anzi no, ancora meno, »un semplice usciere ausiliario». Anche per questa, chiamiamola così, modestia, bandisce dalla sua pagina ogni tipo di virtuosismo narrativo o linguistico, poiché «il virtuoso adopera la sua destrezza per porsi al di sopra delle cose». Mentre Kafka non è mai “al di sopra”, non può essere al di sopra di niente e di nessuno. La corda della realtà non è tesa in aria, ma vicino a terra: la terra su cui saltella un po’ goffamente la grigia cornacchia del suo cognome. Sarebbe sciocco e artificioso dunque sforzarsi a »introdurre miracoli negli avvenimenti quotidiani»: «è la normalità a essere già di per sé miracolosa!» avvisava Kafka a beneficio del giovane amico Janouch, il segreto si nasconde qui vicino, »ce l’abbiamo sotto il naso», non ha bisogno di nascondersi »dietro avvenimenti straordinari» né noi di alonarlo con effetti poetici o magici. Basta attendere, e il mondo »ti si torcerà davanti in estasi», in attesa di essere semplicemente descritto. »La quotidianità è il più grande romanzo di gangster che ci sia…». 

L’azione prosegue magari tortuosa ma imperterrita in una specie di presente assoluto (anche quando i verbi si coniugano al passato remoto), un susseguirsi che non s’interrompe mai con flashback, antefatti, riprese, come se la mano non si staccasse mai dal foglio per un ripensamento, o meglio, come se la mente che in realtà è torturata senza posa dai ripensamenti non rinunciasse mai a darne subito ragione sulla pagina, qui e ora, pur continuando il suo cammino. Una mente in movimento, in perenne trattativa con se stessa. 

Si porti a esempio lo strepitoso capitolo ottavo del CastelloAspettando Klamm. È inutile che io qui ne riassuma la circostanza: sono nove pagine di pura frustrazione lavorata all’uncinetto, non si potrebbe tirarne via un filo o una frase che si smaglierebbe tutta, e culminano nella scena del cocchiere che dalla sua slitta offre un po’ di cognac e di ospitalità all’agrimensore infreddolito e deluso – e subito K. si sente rivivere, si rianima nel morbido delle pellicce che ricoprono l’interno della slitta, e al profumo dolce e caldo del liquore. Così la sua mortificante attesa si è trasformata per miracolo (il miracolo del cognac?) in esultanza, e in un sentimento assurdo quanto autentico di invulnerabilità. 

Allora parve a K. che qualsiasi collegamento con lui fosse stato interrotto e che egli fosse più libero ora di quanto fosse mai stato, e potesse stare lì, in quel luogo altrimenti vietato, ad aspettare tutto il tempo che voleva, e avesse conquistato tale libertà come nessun altro sarebbe forse stato capace di fare, e a nessuno fosse lecito toccarlo o scacciarlo, anzi neppure dirgli una parola, solo che (questa convinzione era almeno altrettanto forte) nulla fosse tanto insensato, tanto disperato, quanto questa libertà, questa attesa, questa invulnerabilità.

È probabile che oggi qualsiasi casa editrice rifiuterebbe il manoscritto del Castello, qualsiasi consulente lo mollerebbe dopo averne “annusato” (si dice così nel gergo editoriale) qua e là gli smisurati dialoghi, le sfinenti tirate su chi è Klamm, dove sta Klamm, cosa desidera Klamm, e quando arriva Klamm – cioè il tipo di questioni che, alleggerite e stralunate, trent’anni dopo l’uscita del romanzo avrebbero fatto la fortuna del teatro di Samuel Beckett. Eppure di quel libro ostile e inclemente resistono per me come puri oggetti di venerazione innumerevoli pagine, paragrafi e periodi come quello che qui sotto riporto, formato da dodici proposizioni, con le subordinate che si aggrovigliano intorno a uno spunto semplicissimo (»Il padre cercava intanto di spogliarsi da sé…») per cedere poi al passo spedito delle tre coordinate che chiudono l’azione – per il sollievo del lettore. 

Il padre, sempre scontento che la madre fosse accudita per prima, cosa che però succedeva solo perché la madre era ancor più bisognosa daiuto di lui, cercava intanto di spogliarsi da sé, forse anche per punire la figlia della sua presunta lentezza, ma sebbene avesse cominciato dalla cosa più semplice e superflua, dalle enormi pantofole in cui i suoi piedi quasi nuotavano, non riuscì assolutamente a sfilarsele, dovette ben presto rinunciarci con un roco rantolio e si appoggiò di nuovo rigido alla sedia.

Questa era la mia lavagna, il mio esercizio, a questo tipo di scuola l’apprendista scrittore andava pieno di voglia di imparare ed emulare, mettendoci tutta la diligenza possibile, quella a cui lo stesso Kafka fa cenno quando parla dei »compiti a casa ben fatti».

»Alla scrivania, lì è il mio posto, la testa fra le mani, quella è la mia posizione». Tutto qui il mestiere dello scrittore. Ci vogliono anni per tirar su il secchio, e un istante solo perché esso ripiombi giù nel pozzo. 

Il principio comunque è elementare: va nominato anche ciò di cui non varrebbe la pena parlare, anzi soprattutto quello, »per non tralasciare nulla, affinché dopo non nascano discussioni» – lo stesso atteggiamento, beffardo ma in definitiva onesto, che tiene il guardiano della Porta della Legge, quando intasca i doni con cui l’uomo di campagna tenta di corromperlo affinché lo lasci entrare: »Li accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». La prosa di Kafka è egualmente imparziale: accetta tutto, alla maniera dei grandi scrittori realisti, e dei santi. A torto si crede che questi ultimi rinuncino a tutto pur di scalare i cieli: in verità se li guadagnano accogliendo tutto.

Dicevo che non esistono passato e futuro nella prosa di Kafka, non nel senso dei tempi verbali, ma dell’eventualità che la narrazione possa spostarsi avanti e indietro, o arrestarsi per poi riprendere da un punto remoto dopo lo stacco, oppure cambiare voce, come la letteratura ha imparato a fare dal nono libro dell’Odissea, nel momento in cui Ulisse comincia a narrare in prima persona le sue passate disavventure. Unità di tempo e di azione caratterizzano i racconti e i romanzi di Kafka come (credo) in nessun altro scrittore moderno, il che rende spaventosamente semplice la struttura complessiva che li regge: una pura sequenza di fatti. Basterebbero a illustrare questo principio le ultime inarrestabili pagine del Processo, di abbacinante nitore fattuale, o (un esempio come un altro), i Fragmente dell’autunno 1920. 

Due uomini sedevano a un tavolo di rozza fattura. Una lampada a petrolio vacillante pendeva sopra di loro. La mia patria era lontana. 

«Sono nelle vostre mani», dissi. 

«No», disse uno dei due uomini, che si teneva ben dritto e affondava la mano sinistra nella barba piena, «sei libero e per questo sei perduto». 

«Allora posso andare?» chiesi. 

«Sì» disse l’uomo e mormorò qualcosa al suo vicino mentre gli carezzava benevolmente la mano. 

»Il sospetto costante è che si tratti di Verismo», ha scritto Roberto Calasso, e non dello “straordinario” nel senso dei racconti di Poe. Le mie impressioni di lettura di questo ultimo anno concordano con quelle di Calasso: in controluce appare Dickens, piuttosto che Hoffmann – anche perché all’interno dell’impianto solidamente realistico in Dickens è presente e incluso anche lo straordinario, il bizzarro, l’eccentrico, persino il delirante. Del resto non vi è nulla di più palpabile e concreto del delirio. La vita di noi uomini ne è la prova. Per cui mi sono messo a caccia di pagine e spunti dickensiani, ed eccone di seguito un paio, dai Quaderni in ottavo

Sopra una panca di pietra accanto alla porta, stava seduto un uomo gigantesco, le gambe accavallate, le mani incrociate sul petto, la testa appoggiata indietro, con lo sguardo rivolto al cespuglio di fronte a lui, che gli toglieva tutta la visuale. Guardai involontariamente, con aria interrogativa, la donna. »Questo è il mammalucco», disse lei, »non lo sai?». Scossi la testa, guardai di nuovo l’uomo con stupore, specialmente il suo alto berretto di pelo d’agnello, ma poi venni fatto entrare in casa dalla vecchia. In una piccola stanza sedeva a un tavolo coperto di libri ben ordinati un vecchio signore con la barba, in veste da camera, che di sotto la campana del lume da tavolo guardò verso di me. Naturalmente pensai di essermi sbagliato, e mi volsi per uscire dalla stanza, ma la vecchia mi sbarrò la strada, e disse al signore: »Il nuovo ragazzo del latte». »Vieni qui, piccolo marmocchio», disse il signore ridendo. Io mi sedetti allora su un panchettino vicino al suo tavolo, e lui accostò il suo viso vicinissimo al mio.

Potrebbe essere un capitolo espunto da Grandi speranze, l’atmosfera di mistero è la stessa di quando Pip incontra i forzati lungo il Tamigi. O ancora leggete questa: 

Un gran berretto tondo di agnello gli stava ben calcato sulla testa. Dei folti baffi gli si aprivano, rigidi, sul viso. Quanto al vestito, portava un largo cappotto marrone tenuto raccolto da un poderoso sistema di cinghie che ricordavano i finimenti di un cavallo. In grembo aveva una corta sciabola ricurva dentro un fodero pallidamente rilucente. I piedi erano infilati in un paio di stivali di montone provvisti di speroni, un piede era posato su una bottiglia di vino rovesciata, l’altro, sul pavimento, era un po’ rialzato, e col calcagno e lo sperone puntato contro il legno.

Di nuovo il berretto di agnello! Be’, se non si tratta di vero e proprio realismo, è il romanzo di avventure, che dal realismo discende. Abbiamo detto che nulla appare mai cruciale, nelle storie di Kafka. Si procede gradualmente per intensificazione, ed è questo forse l’unico elemento davvero fiabesco, il tratto comune con lo schema antico di costruzione dell’avventura (oggi dei videogiochi), vale a dire un modello a gradini, col superamento (o il fallimento) di prove in successione sempre più difficili, una sequela di controlli, ostacoli, di porte e di guardiani sempre più ostili, man mano che scemano le forze per affrontarli e aumenta quella che in Kafka sembra la condizione umana più diffusa: la stanchezza. Sentirsi venir meno, eppure continuare, continuare… continuare. Avevo cominciato ad appuntarmi i brani in cui si di- chiara l’invincibile stanchezza dei personaggi di Kafka, ma poi, a mia volta stanco, ho smesso, sono innumerevoli, se ne potrebbe riempire un intero quaderno. Ho immaginato lo stremo di questo insonne che riempie incessantemente i suoi, di quaderni, in vista di un’opera che secondo lui avrebbe dovuto restare privata e quindi cessare definitivamente di esistere, pagine di »documenti personali di debolezza umana» da cui invece gli amici »si sono messi in testa di cavare letteratura». 

Com’era possibile che lui dovesse sentirsi così invincibilmente stanco proprio in quel luogo, dove nessuno era stanco o dove piuttosto tutti erano continuamente stanchi, senza che però il lavoro ne risentisse, ma anzi, pareva che ne traesse giovamento? Se ne poteva dedurre che si trattava di una stanchezza di tutt’altro genere da quella di K. Lì era stanchezza nel bel mezzo di un lavoro felice, qualcosa che all’esterno pareva stanchezza, ma che in realtà era quiete indistruttibile, pace indistruttibile. Se a mezzogiorno si è un po’ stanchi, questo fa parte del felice corso della giornata. 

Le prove da superare in successione del Castello ricordano avventure come quella di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, l’enigmatico poemetto anonimo del XIV secolo: e anche lì il vanaglorioso Galvano non le superava, anzi falliva, ritirandosi pieno di vergogna. In verità, il romanzo cavalleresco fin da sempre, e non solo al suo tramonto con il Don Chisciotte, inanella sconfitte e umiliazioni. Il fallimento dunque non è affatto una peculiarità “moderna” (Onegin, Oblomov, Zeno Cosini, Madame Bovary, gli Indifferenti, il console Firmin, Lily Bart, l’agrimensore K.), anzi, sembra essere fin dall’antichità il destino segnato degli eroi, e non appannaggio degli anti-eroi contemporanei. Sterilità, nevrosi, vergogna, impotenza, indecisione, lacrime copiose, involontaria comicità, solitudine, follia e ripiegamento sono iscritti nel codice dei miti millenari. Il Re Pescatore non se l’è inventato Eliot per The Waste Land, sanguinava da secoli, forse da sempre. Sarebbe un’occasione d’oro riconsiderare le categorie dell’Antico e del Moderno servendosi di Kafka come guida, facendo luce sulle epoche in vista di una loro riconfigurazione. 

(Nell’Edda di Snorri Sturluson, il castello del Gigante che ha beffato Loki, l’astuto dio beffatore, e umiliato lo strapotente Thor, facendolo battere nella lotta da una vecchietta, si rivela vuoto, illusorio. Quando sconfitti e derisi gli dèi lo abbandonano, alle loro spalle il castello si dissolve). 

Ho detto che la costruzione a gradini tipica di molte sue storie (dalla singola pagina lavorata delle brevissime prose come Il rifiuto, al grande formato del Processo e del Castello, e anche del picaresco America) ha di fiabesco soprattutto il principio dell’intensificazione. Intensificazione di cosa? Del dolore, della sensualità, dello spirito avventuroso, della mesta allegria, del distacco oppure, sul lato opposto dello spettro emotivo, del riso compassionevole – quel tipo di mitezza caratteristico di chi ha doppiato il capo della conoscenza ma depone ogni tentazione di compiacersene. Non più contrastanti tra loro, convergono in un medesimo punto compimento e distruzione, quasi come fossero sinonimi, e forse in effetti lo sono. »Vi è un punto oltre il quale non vi è ritorno. Questo è il punto da raggiungere». Stupiscono il coraggio di un’affermazione tanto perentoria, e, persino nel culmine dell’angoscia, la mancanza di tragicità. Il tragico è stato prosciugato dalla stessa tragedia in corso, come le lacrime consegnano a chi le ha versate il sollievo dell’aridità. Il dissidio viene composto dalla precisione con cui lo si prende su di sé, lo si fa proprio in modo integrale. Non so se abbia senso parlare di rassegnazione, o stoicismo, o di sublime saggezza, o di semplice assunzione di responsabilità artistica verso la vasta materia della vita. Si potrebbe persino sostenere che vi sia maggiore compiutezza artistica in certi appunti da quaderni e fogli sparsi, che si rinvenga, cioè, una suprema per quanto paradossale finitezza nel non-finito kafkiano. Forse perché nell’ossessività circolare dei frammenti più ancora che nello svolgimento romanzesco (il quale necessita sempre di qualche aggiustamento di tiro in vista di ciò che seguirà) è presente in purezza il realismo radicale di Kafka, cioè la registrazione senza interferenze o diaframmi, sino al limite della tollerabilità, di ciò che appare vivente: figure, forme e gesti. Tutto reso attuale e stagliato in una transitorietà assoluta che, a ben pensarci, sta agli antipodi del progetto romanzesco. Certi incipit formidabili restano per forza sospesi, e interrotti, appunto perché a loro modo compiuti, esausti, perfezionati e dunque liquidati dalla loro stessa perfezione. Compimento e distruzione, compimento nella distruzione. 

Prendiamo alcuni dettagli gratuitamente esatti come, ad esempio, questo che segue: il bambinesco gioco al rialzo del trombettiere. 

All’ombra dell’albero, sedeva un giovane che si dondolava sulla sedia, incurante di tutto ciò che accadeva intorno, lo sguardo perduto in cielo a seguire il volo degli uccelli, e che si esercitava in segnali militari su un corno da caccia. Era una cosa utile come qualsiasi altra, ma ogni tanto il comandante ne aveva abbastanza, e allora, senza alzare gli occhi dal lavoro, faceva cenno al trombettiere di smetterla; e quando questo non serviva, si girava e gli urlava qualcosa; allora per un po’ c’era silenzio, finché il trombettiere, solo per provare, ricominciava a soffiare piano e, vedendo che lo si lasciava fare, a poco a poco riportava il suono all’intensità precedente. 

Ah! Andrebbe mandato a memoria questo periodo zeppo di incisi che suonano ironici ma sono il contrappeso di un’azione con un’altra azione, che serve a completare la precedente, a campire poco alla volta il quadro, passando da un senso all’altro, dall’udito alla vista e viceversa, come si passa dal suono dello strumento (il corno) alla voce umana (dello spazientito comandante) e poi di nuovo al suono – il quale monta poco alla volta, subdolo e impertinente, fino a tornare allo stesso livello di prima. Il trombettiere soffia e guarda gli uccelli, il comandante in maniche di camicia redige il suo piano di battaglia e intanto strilla al soldato di smetterla. 

L’accostamento sinestetico più azzardato e violento che io conosca, dopo quello di Inferno, XIII (“sì de la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue”), l’ho trovato in Kafka: »Dalla finestra accanto alla porta di casa, che era ricoperta di assi, salvo una piccola fessura, uscivano fumo e baccano» (il corsivo è mio). 

E forse solamente in Kafka (e in un modo minore e posato, in Raymond Roussel, o prima ancora, con la pedanteria dell’illuminista perverso, in Sade, oppure nella Morgue di Gottfried Benn – che era suo coetaneo, ma con un surplus di estetismo) troviamo questa imperturbabilità nella narrazione di ciò che è perturbante: come se fosse proprio l’imperturbabilità della descrizione, il suo andamento distaccato, procedurale, ad accentuarne l’effetto inquietante. 

(Forse non è inutile rammentare come su alcune modalità rappresentative escogitate da Kafka ci abbiano campato intere squadre di movimenti letterari e non letterari, legioni di scrittori e singoli autori, fino all’École du regard e a Peter Handke, passando per la Neue Sachlichkeit. Solo che il suo non era precisamente uno stile letterario, bensì il precipitato di una forma peculiare di esistenza, una postura umana a cui concorrevano troppi fattori perché non fosse inimitabile.) 

Continuare a scrivere si trasforma nello scrivere continuamente. Rivela il suo carattere coattivo, di Ananke, costrizione, necessità. Forse solo a un primo livello il meccanismo cieco e inarrestabile che agisce nel Processo è quello della legge, che spinge K. attraverso mille peripezie (alcune delle quali sfiorano il ridicolo, ed è infatti lui il primo a riderne) fin nella cava dove verrà giustiziato. Piuttosto, si tratta della scrittura. La macchina che procede inesorabile, malgrado le sue lentezze, i suoi giri a largo, i periodi di latenza per cui ci si dimentica persino di quello che si è fatto e detto, è la scrittura, è la scrittura il demone meschino e il nobile lottatore che non abbassa mai la guardia, che non chiude mai occhio, mai, costringendoti a pagare “una bolletta della luce molto alta”, come diceva Kafka al diciassettenne Janouch, a causa delle notti passate a leggere e scrivere. Per quanto ci vada cauto con le letture allegoriche (credo di averlo dimostrato sin qui), sono considerazioni strettamente letterarie a farmi avanzare questa ipotesi. Ad incalzare autore e personaggio del romanzo sono le Erinni del romanzo stesso, della necessità di scriverlo, e scriverlo in quel modo. 

Io molto di rado anzi quasi mai sono riuscito a lasciarmi trascinare così, o piuttosto, trainare, come fosse un dispositivo meccanico, dal puro potere della lingua in cui scrivo; mai sono riuscito a tapparmi le orecchie e a non prestare ascolto alle continue interferenze, prima fra tutte quella della mia stessa intelligenza che finiva per costituire un intralcio con le sue pretese analitiche e la saccenteria, laddove la sola necessità sarebbe stata di procedere senza indugi nella connessione verbale; e poi tutte le altre suggestioni che è il talento medesimo a disseminare come trappole lungo il cammino – la finezza psicologica, il gusto di una pagina ben riuscita, le bellezze proprie della lingua adoperata, la duratura influenza delle letture compiute e persino il fatto di porsi modelli alti di letteratura (come quello di Kafka, appunto) che se almeno un poco possono fungere da argine contro la mediocrità, quella personale come quella del tempo a cui si appartiene, alla stessa stregua ostacolano il dettato, lo inceppano, sciupandone la trasmissione. E poi l’orgoglio, la debolezza, le fissazioni, il carattere, la volontà un po’ ingenua di far fruttare le ore passate in solitudine, non ammettendo neanche morti di averle sprecate. »Nessuno può sbarazzarsi di sé».

La scrittura oscilla sempre tra i poli della pretesa di dominio e della propria esistenziale impotenza, tra la discutibile concretezza del risultato e gli sforzi penosi per raggiungerlo, tra la gravità solenne del compito e il sospetto di una sua totale superfluità, che niente e nessuno potrà riscattare, nemmeno col conseguimento di elevate vette artistiche, le quali, in definitiva, rischiano di suonare persino più futili e decorative dei risultati mediocri. I cosiddetti capolavori non riscattano chi li ha realizzati, anzi, non di rado, lo dannano. Lo scrittore è perciò un ibrido, »la sua stanchezza è quella del gladiatore dopo la lotta, il suo lavoro è stato imbiancare l’angolo di una stanza d’impiegato» (negli Aforismi di Zurau). Non si può quindi impedire a nessuno di ridere alle spalle di un’attività così opinabile, svolta da una figura tanto controversa: gladiatore, circense, imbianchino, impiegato. 

C’è una porta in casa mia a cui finora non avevo fatto attenzione. Si trova in camera da letto, nel muro che confina con la casa accanto. Non me ne ero fatta alcuna idea, anzi non sapevo neppure che esistesse. Eppure è ben visibile, anche se la sua parte di sotto è nascosta dai letti […]. Ieri è stata aperta… 

Prendiamo la morbosa fissazione per le porte, segrete o monumentali, che segnano l’accesso ad altre sale ed altre porte, in infilata. Stanze private in cui però si aprono innumerevoli accessi. Solo nell’indice tematico di Aforismi e frammenti figurano ventiquattro voci relative alle porte. Un’ossessione simile a quella che mezzo secolo prima aveva covato Lewis Carroll e mezzo secolo più tardi infesterà l’immaginazione di Hitchcock, Polanski, del Kubrick di Shining. »Era una porticina bassissima, quella che conduceva in giardino, non molto più alta degli archi di metallo che si piantano in terra nel gioco del croquet». Le svolte narrative sono porte che in una storia si aprono e si chiudono, da lì irrompono sconosciuti, o Gregor Samsa riesce a fatica a uscire dalla sua stanza diventata una tana. Dietro a una porticina che si era sempre pensato immettere in un ripostiglio, un uomo vestito come un macellaio (»indossava un indumento di cuoio scuro, aderente, che lasciava nudi il collo fino a mezzo petto e tutte le braccia») ne sta bastonando altri due. Sono le inquietanti e sofistiche icone della possibilità, dunque una risorsa per infinite variazioni narrative. Le porte non sono in verità simboli di nulla. 

… corro di là e vedo che la porta, la porta a me finora sconosciuta, viene aperta lentamente e che nello stesso tempo i letti vengono scostati con forza straordinaria. Io grido: »Chi è? Cosa volete? Pia- no! Attenti!» e mi aspetto di vedere entrare una squadra di uomini violenti, ma è solo un giovane esile che, appena la fessura è sufficiente, scivola dentro e mi saluta lieto. 

La condizione è la seguente. Da questa condizione occorre, comunque, ripartire. 

Egli ha sete, e dalla fonte è separato solo da un cespuglio. Lui però è diviso in due: una parte abbraccia con gli occhi l’insieme, vede che egli è lì e che la fonte è a un passo, ma una seconda parte non nota nulla, ha tutt’al più la vaga intuizione che la prima parte veda tutto. Ma poiché non nota nulla, egli non può bere. 

Ecco, quando sento di scadere, che il mio dono nello scrivere lo sto, più che buttando via, utilizzando solo per difendermi o farmi bello, per temporeggiare e per ingannare me stesso prima che gli altri, allora torno a leggere qualche pagina di Kafka, qua e là, che mi ripesca, mi riporta in una zona di aria rarefatta eppure stranamente respirabile. Non voglio dire che mi salvi, anzi, in un certo senso, aumenta il mio sconforto, mi scoraggia con le sue formulazioni vertiginose ed esatte, di cui sono appena in grado di accarezzare la superficie. Quella sì, è in grado di riprodurla e imitarla chiunque abbia un minimo di talento, e io da giovane quel minimo lo avevo, e infatti la imitavo, indulgendo a un virtuosismo da cui proprio Kafka mette in guardia perché un artista lo adopera »per porsi al di sopra delle cose», dunque per mettersi al sicuro. Essendo l’insicurezza forse il vizio più temibile ma anche la principale virtù di uno scrittore. 

ARTICOLO n. 42 / 2023

PLAGIO O ISPIRAZIONE?

Arte Activa Volume 2

Dopo un po’ di tempo che si indossano gli occhiali non ci si accorge di averli sul naso, perché il cervello considera l’informazione inutile. La vita d’altronde è faticosa e richiede il massimo del risparmio energetico, motivo per cui non amiamo mettere in discussione schemi comportamentali e convinzioni acquisite, al punto da non percepire nemmeno la loro presenza. È il caso degli occhiali, ma anche quello del diritto d’autore, una serie di norme che, nonostante siano relativamente giovani e in continuo mutamento, vengono spesso date per scontate.

Proviamo a percorrerne velocemente la storia: la paternità dell’opera è un’idea antica e già Marziale si lamentava di chi imitava i suoi versi, sebbene l’aneddoto più famoso veda come protagonista Giordano Bruno, scoperto a plagiare quasi parola per parola alcune opere di Marsilio Ficino durante le sue lezioni a Oxford. Al tempo non era prevista una pena e la condanna consisteva per lo più nella vergogna: Bruno, ad esempio, fu cacciato da Oxford. Questi diritti diventano più precisi in parallelo a mutamenti politici e tecnologici legati alla nascita della stampa, e nella tarda metà del quindicesimo secolo apparvero a Venezia le prime forme di tutela di editori e stampatori. Per avere qualcosa di vicino al copyright contemporaneo però si deve aspettare l’Inghilterra e lo Statuto di Anna del 1710, e in seguito la Francia della rivoluzione. Quest’ultimo è un momento interessante su cui vale la pena dilungarsi, perché per strappare i diritti intellettuali dalla gestione della (smantellata) monarchia, la proprietà delle opere dell’ingegno vennero trasferite ai rispettivi autori. Era l’idea del filosofo illuminista Diderot, cui si opponeva parzialmente un altro intellettuale, Condorcet, che nei suoi Fragments sur la liberté de la presse (1776) sosteneva che un’opera, in quanto vettore di idee, non doveva essere considerata privata, e che la legge doveva permettere a più uomini contemporaneamente di usare le stesse idee, perché figlie di un processo collettivo. Si tratta forse di una delle prime formulazioni nella direzione dell’idea di “pubblico dominio”, ma ebbero la meglio furono le idee di Diderot e il 13 gennaio 1791 la legge Le Chapelier garantì i diritti d’autore per cinque anni dopo la morte, che nel 1793 vennero prolungati a dieci con la legge Lakanal. Questo limite temporale nei secoli si è sempre più allungato, anche per difendere gli interessi di potenti detentori di diritti come la Disney Company, che, nel 1998, a ridosso della scadenza di un’opera di Topolino, riuscì a far estendere i diritti postumi fino a settant’anni, con quello che ironicamente è stato chiamato il “Mickey Mouse Protection Act”. A tutto questo si aggiunge l’invenzione del concetto di trademark, che ha una diversa e complessa sfera di applicabilità e che non possiede limiti di tempo al rinnovo.

Negli anni molti studi hanno messo in dubbio il valore dell’attuale regolamentazione del diritto d’autore, sia per la sua efficacia che per la sua equità, ma non entrerò nel merito di un dibattito molto complesso e combattuto. Se volessimo estrapolare l’essenza delle critiche, potremmo dire che per molti le attuali legislazioni del copyright limitano la creatività e l’innovazione, non garantiscono una giusta remunerazione per gli autori ma vanno solo a vantaggio delle grandi aziende, limitano l’accesso alle opere culturali, non tengono conto della natura collaborativa e collettiva della produzione culturale, sono inadeguate alle tecnologie digitali, limitano la ricerca e ostacolano i cambiamenti sociali. Sono critiche che in larga parte condivido, ma com’è ovvio hanno subito anch’esse delle contro-critiche. Quel che mi interessa però non è proporre un’indagine sul diritto d’autore, ma sugli effetti che questo mutevole concetto filosofico e legislativo ha avuto sull’arte e sugli artisti.

Come dicevo in precedenza, i plagi hanno una storia antica. Nel caso della scrittura, che è un linguaggio notazionale in cui può essere ambiguo il riferimento (il significato delle parole) ma non la formulazione del testo (la posizione delle lettere) è da sempre molto facile individuare quando e quanto un’opera viene copiata. Più complesso, ma comunque verificabile, è il caso della musica, anch’essa legata a un linguaggio notazionale, cui però va aggiunto l’aspetto performativo. Girolamo De Simone ne tratteggia una bella storia, che ci insegna come nella musica il plagio sia una prassi molto comune sin dall’antichità. Un esempio su tutti: «il grande Mozart, amato dagli dèi e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, “ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri”». Non sono un esperto di musica ma ricordo che mio padre, un melomane dall’orecchio quasi assoluto, riconosceva dopo pochi istanti chi aveva preso da chi e cosa. I casi erano innumerevoli, spesso tra celebrati maestri. Ecco che sorge il problema del plagio, che da un punto di vista formale è irrisolvibile: quand’è che si tratta di plagio e quando di legittima ispirazione? O, per tradurlo nei termini legali, quando un’opera è sufficientemente trasformativa? Il caso dell’arte visiva, che a differenza di musica e scrittura non ha (quasi) mai un linguaggio notazionale di riferimento, può essere d’interesse nell’esplorare questo difficile discrimine.

Come nella musica, anche in quest’ambito le accuse di plagio hanno una storia antica che non possiamo ripercorrere, ma basta aprire un libro di storia dell’arte per riconoscere e scoprire gli innumerevoli plagi – o ispirazioni – di cui ha vissuto e vive l’arte. A uno sguardo severo ogni -ismo della storia dell’arte potrebbe essere una forma di plagio, data la somiglianza interna tra diverse opere appartenenti al barocco, al neoclassicismo, l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo, la pop art, l’arte povera… queste opere vengono accomunate in -ismi appunto per la presenza di somiglianze riconoscibili. Il problema è stabilire quando si tratta di plagio e quando di ispirazione e il problema del problema, per così dire, è che questo criterio non è in alcun modo oggettivo, ma cambia con il mutare della sensibilità culturale, storica e geografica. Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Eppure oggi non facciamo a meno delle sue opere.

Di esempi di vere e proprie denunce nell’arte se ne possono fare moltissimi. Jeff Koons ne ha subite (e perse) diverse, Isgrò ne ha vinta una contro i Rolling Stones, Shepard Fairey è stato messo in difficoltà dalla Associated Press, Damien Hirst è stato spesso accusato di plagio e ha provocatoriamente confessato che tutte le sue opere sono copiate, anche se spesso non ricorda da chi. Anche l’arte astratta è soggetta a plagio, come dimostra il caso in cui Emilio Vedova ha sconfitto Pierluigi De Lutti – e in effetti nell’osservare i loro quadri qualcosa mi fa dire che sono molto simili, cosa che non direi per la foto di Obama e l’opera di Fairey. Nel caso Vedova-De Lutti la fama del primo sopravanza quella del secondo, ma pensiamo a Mimmo Rotella, che anni dopo l’artista francese Jacques Villeglé ha utilizzato senza subire denunce la tecnica inventata da quest’ultimo, il décollage, per quadri molto simili e per di più molto più quotati.

La legge non è il mio ambito e a essere sincero mi dispiace solo quando una persona più ricca di un’altra pretende del denaro da quest’ultima per aver violato una proprietà intellettuale, dato che non ci vedo alcun vantaggio collettivo. Certo, la legge vale per tutti, ma permettetemi di storcere il naso verso l’avidità di alcune denunce. Sappiamo inoltre che le leggi possono cambiare, così come le sensibilità e i rapporti di potere cui fanno riferimento. Il professore di Diritto Privato Roberto Caso scrive in alcune preziose slide a proposito del plagio che «il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario». Parafrasato nel mio impreciso linguaggio mi sembra significare che non esiste una regola precisa e bisogna valutare caso per caso secondo criteri comuni. Già, ma quanto sono comuni questi criteri?

Qui entra in gioco la nostra sensibilità – nostra come quella degli artisti – e come questa sia cambiata nel tempo. È esemplare l’esempio della Brillo Box di Andy Warhol. La grafica della scatola Brillo di cui si appropriò Warhol era stata creata nel 1961 dal pittore espressionista astratto James Harvey (1929–65), che si guadagnava da vivere anche come grafico commerciale. Durante una lezione a un gruppo di studenti americani, prima di rivelare la reazione di James Harvey a Brillo Box ho chiesto come avrebbero reagito al posto suo: pongo la stessa domanda a chi mi legge, se non conosce l’aneddoto. La totalità (sottolineo, la totalità) degli studenti avrebbe denunciato Andy Warhol. Secondo il resoconto del filosofo e critico d’arte Arthur Danto, Harvey era presente al vernissage di Warhol presso la Stable Gallery. «Harvey rimase sconcertato… si rese conto che aveva progettato delle scatole che la Stable Gallery vendeva per diverse centinaia di dollari, mentre le sue non valevano nulla. Ma Harvey certamente non considerava le sue scatole opere d’arte». scrive Danto. Il mercante d’arte newyorkese Joan Washburn, che aveva già organizzato due mostre di Harvey presso la Graham Gallery, era al vernissage con l’artista. «Fu sopraffatto», ricorda Washburn. Quando gli viene chiesto se Harvey fosse arrabbiato, rispose: «No. Lo trovò divertente. Tutti quelli che entrarono alla Stable Gallery quella sera si divertirono». Io la penso come James Harvey, e se anche volessimo ascrivere la cosa a una casuale comunanza caratteriale è innegabile che molta della grande arte del Novecento sarebbe ora a rischio di denuncia, se non proprio illegale. Per fortuna le gallerie d’arte sono ancora terra franca, a patto che i lavori siano pezzi unici venduti come opere d’arte, ma non siamo più nei primi del secolo scorso, e gli artisti vivono anche (se non soprattutto) di altri ambiti editoriali, dove le leggi sono diventate sempre più restrittive. Anche la sensibilità degli stessi artisti è cambiata, assecondando sempre più l’individualismo della società occidentale a discapito del collettivismo che pur è vitale per ogni creazione artistica. Può sembrare strano, ma gli artisti sono tendenzialmente animali possessivi e conservatori.

Per tornare a stile e diritto d’autore, vale la pena analizzare il caso del musicista Robin Thicke, che è stato considerato colpevole di plagio e condannato a rimborsare oltre sette milioni di dollari per Blurred Lines, un brano del 2013 che la famiglia dello scomparso Marvin Gaye aveva trovato troppo somigliante a Got To Give It Up del 1977. In questo delicato caso, se consideriamo che a essere protetta dal diritto d’autore era solo la sequenza di note e che questa è differente nelle due canzoni, ci potrà stupire che Thicke abbia perso la causa per via della somiglianza stilistica tra i brani. Lasciamo ora perdere le leggi, che come dicevamo possono cambiare, e ascoltiamo semplicemente le due canzoni: Blurred Lines e Got To Give It Up. In base alla nostra sensibilità potranno sembrare troppo simili o sufficientemente diverse, ma non c’è nulla di oggettivo cui appellarsi. Per me vale la seconda, senza contare che trovo assurdo che a lamentarsi siano stati gli eredi e non l’artista, dato che questi non hanno creato un bel nulla ma solo ereditato dei diritti. Ma soprattutto concordo con Tim Wu, quando, commentando questo caso, scrive: «Provate a considerare quanti artisti sarebbero danneggiati se una tale sentenza fosse emessa con maggiore frequenza. Tutti sanno che i Rolling Stones hanno copiato lo stile di Chuck Berry e di altri artisti R’n’B. I primo album dei Rush ricorda molto i Led Zeppelin – che, tra gli altri, si erano rifatti a Robert Johnson. E questo non vale solo per la musica. Georges Braque e Pablo Picasso portarono avanti le idee di Paul Cézanne per sviluppare il Cubismo, uno stile che, a sua volta, è stato imitato da diversi altri pittori. Ci sono centinaia di esempi simili. Suggerire che questo verdetto incoraggerà un cantautorato migliore significa mal interpretare la storia delle arti. La libertà degli artisti e di altri creatori di copiarsi a vicenda è legata al principio che le idee non possono essere soggette a copyright, una nozione essenziale per la libertà d’opinione e per l’espressione artistica».

Sia in Italia che all’estero si susseguono ormai da decenni critiche politiche ed economiche alla gestione del diritto d’autore, che in modi diversi argomentano la tesi che chi fa arte non trae alcun vantaggio dalla limitazione della diffusione delle proprie opere e che i vantaggi vadano solo ad autori affermati e grandi aziende. Ciononostante queste norme si sono fatte sempre più restrittive e forse in futuro lo diverranno ancora di più. Di recente, per esempio, si parla molto della liceità o meno dell’uso di materiale protetto da copyright per addestrare i sistemi di machine learning, liberi o proprietari che siano. In Europa si sta già votando per costringere le aziende a rendere trasparente il proprio dataset, che al momento è tale solo per i software open source. La trasparenza è sempre la benvenuta (al netto della difficoltà dei controlli, perché il dataset non è contenuto nel software), ma per molti questa decisione va nella direzione di vietare il training su materiale non proprietario. Se questa fosse la strada e se fosse adottata globalmente, il futuro delle intelligenze artificiali sarà probabilmente nelle mani dei monopoli delle big tech che possono permettersi o già possiedono i diritti di grosse moli di dati, come suggeriscono i progetti AI di Adobe e di Shutterstock. Anche le varie alleanze in corso (Adobe con Google, Shutterstock con Microsoft) sembrerebbero confermare questa ipotesi. Fa comunque eccezione l’industria bellica, che per sviluppare sistemi di riconoscimento iper-umani non può certo farsi problemi di copyright – ma evidentemente per molti gli usi militari sono il pericolo minore. Un altro caso notevole è la recente vittoria in tribunale della Galleria dell’Accademia contro una casa editrice che aveva usato l’immagine (sottolineo: l’immagine) del David di Michelangelo senza pagar loro un canone. Un bene comune fuori dal diritto d’autore da secoli di fatto non è più comune. La notizia ha ricevuto sia critiche che lodi, tra cui quelle del Ministro della Cultura, ma a mio parere queste ultime testimoniano come la sensibilità nei confronti dei beni pubblici si sia distorta negli anni. Per quale motivo non posso guadagnare usando un bene che è patrimonio dell’umanità da cinquecento anni? Dovremmo pagare i diritti agli eredi o agli autoproclamati custodi di ogni invenzione, opera e tecnologia che utilizziamo a partire dalla ruota? Purtroppo questo è il segnale che abbiamo perso qualunque idea di “patrimonio dell’umanità”, un bene trasversale alle nazioni e agli usi, parte della storia di ciascuno di noi e su cui nessuna persona, azienda o nazione può accampare primati.

Nel parlare di copyright risulta evidente che la ragion d’essere di queste norme è economica più che ontologica. Come Kirby Ferguson infatti, credo che l’arte sia sempre un remix e un’operazione collettiva. Se Picasso fosse nato cinquecento anni prima sarebbe forse diventato un pittore, ma di certo non quello che conosciamo, perché non avrebbe avuto accesso alle rivoluzioni artistiche e tecnologiche dei secoli a venire. Non solo Picasso non ha alcun merito per le scoperte passate, ma non può neanche arrogarsi quello di moltissime a lui contemporanee, che lo hanno aiutato a plasmare la sua poetica – sua come quella di chiunque altro. Togliamo da Guernica quello che non è possibile imputare all’estro creativo del Maestro: l’invenzione di materiali e tecniche usate, quella del linguaggio attraverso cui sono state apprese, delle opere d’arte che ne hanno influenzato la genesi, delle persone e delle cose che gli hanno suggerito alcune idee, del contesto culturale che altri hanno costruito, della guerra, eccetera – del quadro rimarrà ben poco. Riprendo qui con piacere alcune affermazioni di Condorcet, che pur con i limiti del contesto culturale in cui si inseriva era giunto a intuizioni molto interessanti: «C’è un’incertezza inevitabile nel limite da cui si deve cominciare a considerare come nuovo, come frutto del genio, il risultato di un’operazione dell’intelletto umano», scrive il filosofo, che poi oltrepassa il problema dichiarando che il genio non è un dono fatto dalla natura a qualche essere umano privilegiato, ma una facoltà comune inegualmente ripartita. È forse il momento di accorgerci che gli occhiali che indossiamo senza accorgercene stanno diventando così scuri da nasconderci il truismo che ogni opera dell’ingegno è collettiva.

ARTICOLO n. 41 / 2023

NON HO ALCUN RISPETTO PER MICHEL FOUCAULT

Intervista di Giulia Paganelli

Ci sono studi e libri da cui non è possibile prescindere quando si sceglie di varcare la soglia degli studi umanistici e sociali. Sexual Personae (Luiss University Press) è uno di questi. Io e Camille Paglia sulla carta siamo interlocutrici lontane, provenienti da due periodi storicamente e culturalmente ben distinti e inevitabilmente incisivi nella nostra formazione accademica e analitica. Abbiamo scoperto, in realtà, di avere in comune alcune cose importanti come il valore che diamo alla conoscenza storica nello sviluppo delle scienze sociali e antropologiche, l’urgenza di vedere il sistema accademico modificarsi e ristrutturarsi nelle scienze umanistiche perché così non funziona, l’amore profondo che diventa ossessione per i collegamenti nel tempo e nello spazio – e chissà come sarebbe davvero avere un pomeriggio di tempo e nessun limite tecnologico per tracciare nuove bisettrici in questi Atlanti cognitivi e simbolici. Entrambe da piccole volevano fare le egittologhe, entrambe da grandi abbiamo fatto percorsi tortuosi perché studiare solo una cosa non ci sembrava abbastanza. Ci sono, anche, incompatibilità fortissime che riguardano i nostri femminismi perché sicuramente Paglia fa parte di un’ondata precedente che difficilmente potrà mai sfociare nel movimento intersezionale, pratica che oggi è mia anche se non ne condivido molte delle modalità violente con cui si srotola nel mondo digitale. Ma anche questo è, indubbiamente, un percorso che ha bisogno di nuova teoria e di nuova tecnica, nuove voci e nuovi inizi, ma anche viaggi inversi che ritornino all’origine delle cose per far sì che gli orrori e gli errori non si ripresentino e su questo siamo d’accordo entrambe. Ma più di ogni altra cosa siamo due persone che credono nella conversazione critica e nel dibattito che nasce quando posizioni contrarie e distanti si mettono a sedere e parlano di società e dinamiche generali, senza cannibalizzarsi a vicenda. Il resto sono solo chiacchere.  

Giulia Paganelli: In un dialogo con Jordan Peterson, lei dice che «le religioni sono la vera rivoluzione». Io sono atea, ma sono anche un’antropologa e le cosmogonie così come le grandi religioni contemporanee mi permettono di acquisire moltissime informazioni sui sistemi culturali che osservo. Le chiedo se può approfondire per noi questo punto, in che modo le religioni sono una vera rivoluzione per gli studiosi del nostro tempo. 

Camille Paglia: Dopo le manifestazioni per i diritti civili e le proteste contro la guerra degli anni ’60, l’istruzione universitaria negli Stati Uniti e nel Regno Unito iniziò a spostarsi verso un orientamento apertamente politico, negativo nei confronti della cultura occidentale, che veniva descritta come irrimediabilmente sessista, razzista e imperialista. Tra le voci influenti che hanno assunto alcune o tutte queste posizioni c’erano Herbert Marcuse e Edward Said. Negli anni ’70 iniziarono continui attacchi al “canone” della grande letteratura e arte occidentale, che fu sempre più sostituito da opere contemporanee con un messaggio apertamente politico. Uscendo dalla scuola di specializzazione all’inizio degli anni ’70, pensavo che il curriculum universitario avesse un disperato bisogno di una profonda riforma, ma credevo che il “multiculturalismo” sarebbe stato meglio raggiunto da una riorganizzazione della struttura universitaria attraverso un modello interdisciplinare che fondesse le scienze umane e sociali. Le discipline umanistiche, a mio avviso, richiedevano un importante riorientamento verso la storia, come nell’ampia borsa di studio dei professori tedeschi della fine del diciannovesimo secolo, che erano profondamente eruditi in molteplici discipline. Uno degli ultimi grandi studiosi di quella tradizione è stato il marxista Arnold Hauser, i cui quattro volumi The Social History of Art (1951) mi hanno profondamente colpito quando stavo facendo ricerche per la mia tesi di dottorato a Yale.

Altre persone certamente hanno visto anche i limiti della struttura dipartimentale accademica standard. Tuttavia, in mezzo alla pressione per inserire nel curriculum materie nuove e urgenti come il femminismo e la letteratura afroamericana, gli amministratori universitari hanno erroneamente superato la loro autorità creando rapidamente unità di “studi” indipendenti, come studi sulle donne, studi afroamericani, studi sui nativi americani – al di fuori della supervisione accademica dipartimentale. A mio avviso, questi argomenti estremamente importanti e vitali sono stati purtroppo fortemente politicizzati fin dall’inizio, polemicamente ostili alla cultura occidentale e imponendo una semplicistica dicotomia oppressore-oppresso a tutti i discorsi sulla società e sull’arte.

Sostengo fortemente il multiculturalismo come ideale animatore dell’istruzione superiore. Ma mi oppongo alla politicizzazione ristretta e stridente che ora regna. Questa pratica ben intenzionata ma grossolanamente riduttiva trascina i giovani nelle liti contemporanee provinciali che sono diventate sempre più monotone ed estenuanti. Sebbene io sia atea, sostengo che la vera rivoluzione nell’educazione sarebbe quella di fare della religione comparata il fondamento del curriculum universitario di scienze umane. Vedo le grandi religioni del mondo come giganteschi sistemi di simboli contenenti verità complesse sulla vita umana. Al contrario, il marxismo manca di una metafisica e non vede altro nell’universo che politica ed economia.

La mia ultima raccolta di saggi, Provocations, contiene la mia dichiarazione di apertura per un dibattito del 2017 alla Yale Political Union, dove ho difeso la risoluzione (un argomento che avevo proposto), “La religione appartiene al curriculum”. Lì affermo: «nessuna società o civiltà può essere compresa senza fare riferimento alle sue radici religiose. Ogni studente dovrebbe laurearsi con una familiarità di base con la storia e i testi sacri, i codici, i rituali e i santuari delle principali religioni del mondo: induismo, buddismo, giudeo-cristianesimo e islam».

Ristampato in Provocations è anche il mio lungo saggio, “Cults and Cosmic Consciousness: Religious Vision in the American 1960s” (un ampliamento di una conferenza all’Institute for the Advanced Study of Religion di Yale). Qui sostengo che la massiccia influenza delle religioni non occidentali sui ribelli anni ’60 è stata stranamente dimenticata. Il buddismo zen era un tema importante nel movimento Beat degli anni ’50 a San Francisco, che ispirò direttamente la “controcultura” degli anni ’60 in quella città. L’era hippie fu soffusa di influenze dall’induismo, che ebbe inizio in California quando Ravi Shankar dimostrò il sitar al Monterey International Pop Festival nel 1967. La sua performance elettrizzante può essere vista nel documentario Monterey Pop. I sitar furono presto ascoltati in tutta la musica rock degli anni ’60, introdotta da George Harrison dei Beatles, la cui visita di gruppo in India per studiare con il Maharishi Mahesh Yogi finì in un fiasco.

La mia pratica come interprete della letteratura e dell’arte deriva in ultima analisi dall’antropologia, in particolare dalla “critica del mito”, le cui origini risalgono all’impatto della Cambridge School of Anthropology della fine del diciannovesimo secolo sullo psicologo Carl Jung. In Provocations è inclusa anche la mia conferenza alla New York University sull’analista junghiano Erich Neumann, il cui libro del 1955, La grande madre: un’analisi dell’archetipo, ha fortemente influenzato il mio primo libro, Sexual Personae (1990).

G.P. Da piccola volevo fare l’egittologa, ero sicura che sarebbe andata esattamente in questo modo. Poi ho incontrato Hegel e mi sono lasciata affascinare, arrivando poi solo alla fine del mio percorso accademico a occuparmi nuovamente di “archeologia” come parte fondamentale per codificare il mondo in cui vivo. Sexual Personae è un libro che nasce, secondo me, da un istinto simile. La Storia è imprescindibile per lo studio dei fenomeni complessi, siamo d’accordo?

C.P. Che coincidenza! Anch’io volevo essere un’egittologa. L’archeologia è stata la mia prima ambizione professionale, ispirata da una visita d’infanzia al Metropolitan Museum of Art di New York. Sono rimasta sbalordita e innamorata delle magnifiche sculture in granito rosso di un faraone inginocchiato che fa offerte agli dèi. Solo molti decenni dopo ho scoperto che il faraone era una donna: la regina Hatshepsut!

In seguito ho abbandonato il mio obiettivo di archeologia quando mi sono resa conto che tutti i grandi monumenti erano già stati scoperti e che probabilmente sarei stata condannato a rimontare vasi rotti, cosa per la quale non avevo pazienza. In risposta alla tua domanda, sì, la conoscenza della storia è certamente cruciale per tutto l’insegnamento e lo studio. Ma sin dall’ascesa della “teoria” chic postmodernista, troppi professori di discipline umanistiche hanno giocato ai filosofi dilettanti e hanno irresponsabilmente scartato studi storici approfonditi.

G.P. Da poco in Italia è uscito per Blackie Edizioni il racconto di Simone Wade Foucault in California, una sorta di etnografia sulla prima esperienza di Michel Foucault con LSD. Una volta tornato in Francia, si dice che il filosofo buttò via metà del lavoro scritto per quella che conosciamo oggi come Storia della Sessualità perché, cito, »quella fu l’esperienza migliore della sua vita, la più introspettiva». C’è spazio, secondo il suo punto di vista, per una rilettura delle opere precedenti di Foucault alla luce di questo evento? 

C.P. Non ho alcun rispetto per Michel Foucault, la cui conoscenza era strettamente limitata all’Europa solo dall’Illuminismo. Foucault non sapeva nulla dell’antichità classica o del Medioevo, e le sue osservazioni su quei periodi sono imprecise e a volte ridicole.

Le mie forti obiezioni a Foucault e ai suoi discepoli sono ampiamente contenute nel mio saggio-recensione, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf“, che è stato ristampato nella mia prima raccolta di saggi, Sex, Art, and American Culture (1992). Molte persone credono che Foucault fosse un erudito, ma non lo era. Era gravemente carente come ricercatore di materiali storici. Nella sua ristretta attenzione all’ideologia del potere, non aveva alcun istinto per l’arte o l’estetica. Ha rifiutato assurdamente la psicologia nella sua analisi della sessualità.

Inoltre, Foucault nascose disonestamente il suo enorme debito con i grandi sociologi Émile Durkheim e Max Weber. Durkheim, la vera fonte di Foucault, aveva già studiato carceri e codici penali ed esplorato i principi della classificazione e della tassonomia. C’era un libro del 1985 di J.G. Merquior che ha messo a nudo in modo divertente molti degli elementari errori di fatto commessi da Foucault. Come ho detto in “Junk Bonds”, un giorno la gente guarderà indietro, come facciamo noi alla mania del diciottesimo secolo per Emanuel Swedenborg, e vedrà Foucault come il Cagliostro del nostro tempo. Ma intanto lasciatemi semplicemente dire questo: non ci sono donne in Foucault. Nessuno se n’è accorto?

G.P. In Italia esiste questa credenza diffusa nella finta Ideologia del gender. Certo, buona parte del lavoro in questo è stato fatto dalla destra che ha spinto e creato narrazioni mostruose con una comunicazione costante e martellante, ma dall’altra parte il terreno occupato da questa propaganda, penso, sia stato prodotto dalla mancanza di una conversazione onesta e accessibile da parte della sinistra. Abbiamo avuto leader di sinistra lontani dalle persone e dalla lotta di classe, chiusi dentro una bolla intellettuale e forzata in cui si parlavano tra loro mostrando all’esterno solo incoerenze. Come si recupera tutto questo terreno perso? 

C.P. Sì, sono assolutamente d’accordo sul fatto che molti di sinistra, in particolare professori delle università statunitensi, sono spesso molto lontani dalle persone per cui affermano di parlare. Abitano davvero in una “bolla intellettuale” arrogante.

Quando ero al college, a metà degli anni ’60, ho visto gente di sinistra genuina tra i miei compagni di studio. Erano appassionati nelle loro convinzioni e modi, e parlavano con il linguaggio semplice e diretto della classe operaia. La sinistra accademica, al contrario, ha troppo spesso favorito una “teoria” grottescamente pretenziosa in un codice mandarino d’élite.

Sono certa che il mio disprezzo per il linguaggio snob dei teorici postmoderni derivi dalla mia esperienza infantile tra gli immigrati italiani della classe operaia. Tutti e quattro i miei nonni, così come mia madre, sono nati nell’Italia rurale povera: la famiglia di mia madre in Ciociaria e la famiglia di mio padre in Campania. Sono nata in una piccola città industriale nello stato di New York in cui gli italiani erano emigrati per lavorare nella grande fabbrica di scarpe. Un nonno era un barbiere, e l’altro era un operatore esperto di questa difficile macchina per stirare la pelle. Forse solo un contatto personale diretto e sostenuto di quel tipo può illuminare l’autentico sistema della moderna classe sociale.

G.P. Vorrei parlare della scrittura e della comunicazione digitale. Io penso che lo spazio infinito di Internet permetta di non stringere i discorsi dentro a trafiletti e parole contate su giornali e riviste, allo stesso tempo però questo aumenta anche i contenuti falsi e la proliferazione di fake news, nonché la strumentalizzazione delle stesse per la propaganda politica. Penso, per esempio, allo scandalo che investì Cambridge Analytica. Cosa ne pensa e come possiamo prevenire questo fenomeno? 

C.P. Il Web ha rivoluzionato le comunicazioni sia in positivo che in negativo. Sì, lo “spazio infinito” di Internet è una liberazione, ma è anche una maledizione. Nei media statunitensi c’è stato un grave declino della qualità dei commenti politici e culturali proprio a causa dell’assenza di limiti di spazio. Quando negli anni ’90 scrivevo più regolarmente per giornali e riviste cartacee tradizionali, mi piaceva davvero la rigida disciplina del limite di parole: condensare il proprio articolo a 1000 o anche 800 parole richieste dava grande potere e chiarezza. Oggi, al contrario, molti articoli analitici scorrono in continuazione in modo fiacco, monotono e con un ordine poco distinguibile. Manca la fase finale della riduzione della prosa al suo argomento essenziale.

Ho iniziato a scrivere per il Web molto presto, dal primo numero di Salon.com nel 1995. È sorprendente ricordare che il Web non è stato preso sul serio all’inizio. In effetti, quando sono diventata editorialista al Salon, un importante giornalista del Boston Globe mi ha detto che stavo sprecando il mio tempo e che nessuno nei principali mezzi di informazione considerava seriamente il Web. Come sono cambiate le cose! Il mio saggio del 2003 “Dispatches from the New Frontier: Writing for the Internet”, che descrive le mie esperienze a Salon.com, è ristampato in Provocations.

Purtroppo il web ha distrutto o ferito gravemente innumerevoli giornali e riviste, che hanno perso la loro base economica e lottano per la sopravvivenza. Negli Stati Uniti, ciò ha minato i giornali regionali più piccoli e aumentato il potere dei media aziendali con sede a New York e Washington DC, che sono uniformemente sostenitori del Partito Democratico. Sono una democratica registrata che mette in discussione o rifiuta gran parte dell’attuale dogma democratico.

L’enorme problema odierno delle fake news ingannevoli e della palese propaganda peggiora ogni anno. I giovani dovrebbero essere formati presto su come valutare la credibilità delle fonti di notizie. Penso che dovrebbero esserci lezioni obbligatorie di logica formale tradizionale a livello di scuola pubblica. Gli studenti hanno bisogno di esercitarsi nel seguire argomentazioni sequenziali e nel riconoscere distorsioni, errori e conclusioni non supportate.

G.P. Infine, una domanda diretta: la ricomparsa di fascismi e neonazismi in Europa ci dice che dalla storia non abbiamo imparato nulla? E se sì, come è avvenuto questo processo? 

C. P. La parola “decadenza” appare nel sottotitolo di Sexual Personae perché penso che la cultura occidentale sia attualmente in una fase “tardiva”, di graduale declino. Decadenza non è un termine negativo per me: il mio libro esamina molti esempi di meravigliosa arte della fase tarda, come le sculture manieriste contorte e morbosamente sensuali di Michelangelo nelle Cappelle Medicee. Lo stile decadente ha caratteristiche ricorrenti come androginia, voyeurismo e compressione o distorsione dello spazio. Sono fortemente attratta dall’arte decadente e dai suoi eroi, come Oscar Wilde e Andy Warhol.

Tuttavia, la storia mostra che le fasi successive, come nella Roma imperiale o nella Germania di Weimar, possono innescare una reazione da parte dei nazionalisti militanti che chiedono un ritorno alle virtù semplici e stoiche dei lontani antenati. Penso che sia qui che ci troviamo ora, poiché la cultura occidentale su entrambe le sponde dell’Atlantico ha perso fiducia in se stessa ed è stata eclissata da una forza crescente in Asia.

ENGLISH VERSION

G.P. In a dialogue with Jordan Peterson you say that “religions are the real revolution”. I’m an atheist but also an anthropologist: cosmogonies as well as the great contemporary religions allow me to acquire much information on the cultural systems I observe. I would like to ask you to elaborate more on this: how are religions a real revolution for today’s researchers?

C.P.  After the civil rights demonstrations and anti-war protests of the 1960s, university education in the U.S. and U.K. began to shift toward an overtly political orientation, negative toward Western culture, which was portrayed as irredeemably sexist, racist, and imperialist.  Among influential voices taking some or all of those positions were Herbert Marcuse and Edward Said. In the 1970s, sustained attacks began on the “canon” of great Western literature and art, which was increasingly replaced by contemporary works with an overtly political message.

Emerging from graduate school in the early 1970s, I thought that the university curriculum desperately needed major reform, but I believed that “multiculturalism” would be best achieved by a reorganization of university structure via an interdisciplinary model blending the humanities and social sciences. The humanities, in my view, required a major reorientation toward history, as in the wide-ranging scholarship of late-nineteenth-century German professors, who were profoundly erudite in multiple disciplines.  One of the last great scholars in that tradition was the Marxist Arnold Hauser, whose four-volume The Social History of Art (1951) deeply impressed me when I was doing research for my doctoral dissertation at Yale.

Others certainly also saw the limitations of standard academic departmental structure.  However, amid the pressure to bring urgent new subjects such as feminism and African-American literature into the curriculum, university administrators wrongly exceeded their authority by rapidly creating free-standing “studies” units–such as Women’s Studies, African-American Studies, Native American Studies–outside departmental scholarly oversight.  In my view, these extremely important and vital topics were unfortunately heavily politicized from the start, polemically hostile to Western culture and imposing a simplistic oppressor-oppressed dichotomy on all discourse about society and art.

I strongly support multiculturalism as an animating ideal of higher education.  But I oppose the narrow, strident politicization that now rules. This well-intended but crudely reductive practice drags young people down into provincial contemporary quarrels that have become increasingly monotonous and exhausted. Although I am an atheist, I maintain that the real revolution in education would be to make comparative religion the foundation of the university humanities curriculum. I view the great world religions as gigantic symbol-systems containing complex truths about human life. In contrast, Marxism lacks a metaphysics and sees nothing in the universe but politics and economics.  

My last essay collection, Provocations, contains my opening statement for a 2017 debate at the Yale Political Union, where I defended the resolution (a topic I had proposed), “Religion belongs in the curriculum”. There I state: “No society or civilization can be understood without reference to its religious roots. Every student should graduate with a basic familiarity with the history and sacred texts, codes, rituals, and shrines of the major world religions–Hinduism, Buddhism, Judeo-Christianity, and Islam.”

Also reprinted in Provocations is my long essay, “Cults and Cosmic Consciousness:  Religious Vision in the American 1960s” (an expansion of a lecture at the Institute for the Advanced Study of Religion at Yale). Here I argue that the massive influence of non-Western religions on the rebellious 1960s has been strangely forgotten. Zen Buddhism was a major theme in the 1950s Beat movement in San Francisco, which directly inspired the 1960s “counterculture” in that city. The hippie era was suffused with influences from Hinduism, which began in California when Ravi Shankar demonstrated the sitar at the Monterey International Pop Festival in 1967. (His electrifying performance can be seen in the documentary, Monterey Pop.) The spiritual floating notes of the sitar were soon heard throughout 1960s rock music, pioneered by George Harrison of the Beatles, whose group visit to India to study with the Maharishi Mahesh Yogi ended in fiasco.

My own practice as an interpreter of literature and art ultimately derives from anthropology, specifically “myth-criticism”, whose origins were in the impact of the late-nineteenth-century Cambridge School of Anthropology on psychologist Carl Jung. Also included in Provocations is my New York University lecture on the Jungian analyst Erich Neumann, whose 1955 book, The Great Mother: An Analysis of the Archetype, greatly influenced my first book, Sexual Personae (1990).

G.P. When I was young, I wanted to become an Egyptologist. Then I met Hegel, who fascinated me deeply. Then it was “archeology” all over again, which kicked in as a fundamental part to codify the world I live in at the end of my academic path. In my opinion, Sexual Personae comes from a similar instinct. History is essential for the study of complex events, do you agree?

C.P.  What a coincidence! I too wanted to be an Egyptologist. Archaeology was my first professional ambition, inspired by a childhood visit to the Metropolitan Museum of Art in New York. I was stunned and enamored by the magnificent red granite sculptures of a kneeling pharaoh making offerings to the gods. Only many decades later did I discover that the pharaoh was a woman – Queen Hatshepsut!

I later abandoned my goal of archaeology when I realized that all of the great monuments had already been discovered and that I would probably be doomed to reassembling broken pots, for which I had no patience. In response to your question, yes, knowledge of history is certainly crucial for all teaching and scholarship.  But ever since the rise of chic postmodernist “theory”, too many humanities professors have played amateur philosopher and irresponsibly discarded in-depth historical study.

G.P. Recently, in Italy, Blackie Edizioni published Simone Wade’s Foucault in California, a sort of ethnography about Michel Foucault’s first experience with LSD. It is said that when he returned to France, he threw away what he wrote up to that moment and started again from scratch, giving birth to what we know today as The History of Sexuality: he defined it as, and I quote, »the best experience of his life, the most introspective». Do you think, considering this event, that there could be room for a reinterpretation of Foucault’s previous works?

C.P. I have no respect whatever for Michel Foucault, whose knowledge was narrowly limited to Europe since the Enlightenment. Foucault knew nothing about classical antiquity or the Middle Ages, and his remarks about those periods are inaccurate and at times ridiculous.

My strong objections to Foucault and his disciples are contained at great length in my review-essay, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf”, which was reprinted in my first essay collection, Sex, Art, and American Culture (1992). Many people believe that Foucault was erudite, but he was not. He was severely deficient as a researcher of historical materials. In his narrow focus on the ideology of power, he had no instinct for art or aesthetics. He absurdly rejected psychology in his analysis of sexuality.

Furthermore, Foucault dishonestly concealed his enormous debt to the great sociologists Emile Durkheim and Max Weber. Durkheim, Foucault’s true source, had already studied prisons and penal codes and explored the principles of classification and taxonomy. There was a 1985 book by J.G. Merquior that amusingly exposed many of the elementary factual errors made by Foucault. As I said in “Junk Bonds”, some day people will look back, as we do at the eighteenth-century craze for Emanuel Swedenborg, and see Foucault as the Cagliostro of our time. But meanwhile let me simply say this: there are no women in Foucault. Has no one noticed?

G.P. In Italy, many believe in Gender Ideology – which is a hoax. Certainly, part of the blame goes to right-wing parties who constantly pushed and created appalling narratives about it. On the other side, I personally think that this was also a product of the absence of an open and accessible conversation from left-wing parties. We have had many leftist leaders who were far from people and class struggle, sealed inside their forced intellectual bubble and only showing on the outside their contradictions. How do we fill the gap that left-wing parties left?

C.P. Yes, I absolutely agree that many leftists, especially professors at U.S. universities, are often far removed from the people they claim to speak for. They do indeed inhabit an arrogant “intellectual bubble”.

When I was in college in the mid-1960s, I saw genuine leftists among my fellow students.  They were passionate in their beliefs and manner, and they spoke with the simple direct language of the working class. Academic leftism, in contrast, has too often favored grotesquely pretentious “theory” in an elite mandarin code.

I am certain that my own contempt for the snobbish language of postmodern theorists comes from my childhood experience among working-class Italian immigrants. All four of my grandparents, as well as my mother, were born in impoverished rural Italy–my mother’s family in Ciociaria and my father’s family in Campania. I was born in a small industrial town in upstate New York to which Italians had migrated to work in the vast shoe factory. One grandfather was a barber, and the other one was an expert operator of the difficult leather-stretching machine. Perhaps only direct, sustained personal contact of that kind can illuminate the authentic system of modern social class.

G.P. I would like to talk about writing and digital communication. I think that the endless space of the Internet allows us to go beyond discourses inside paragraphs and a limited number of words in newspapers and magazines. At the same time, it increases the spreading of fake news and their manipulation for propaganda. I think, for example, about the Cambridge Analytica scandal. What do you think of it and how can we prevent this from happening? 

C.P. The Web has revolutionized communications in both positive and negative ways. Yes, the “endless space” of the Internet is a liberation, but it is also a curse. In the U.S. media, there has been a severe decline in the quality of political and cultural commentary precisely because of the absence of space limits. When I was more regularly writing for mainstream print newspapers and magazines in the 1990s, I actually enjoyed the strict discipline of the word limit: condensing one’s article to a required 1000 or even 800 words gave great power and clarity. Today, in contrast, many analytic articles run on and on in a slack, dull way and with little discernible order. They are missing the final stage of stripping prose down to its essential argument.

I began writing for the Web very early–from the first issue of Salon.com in 1995. It is startling to remember that the Web was not taken seriously at first. Indeed, when I became a columnist at Salon, a prominent journalist at The Boston Globetold me that I was wasting my time and that no one in the major news media regarded the Web seriously. How things have changed! My 2003 essay “Dispatches from the New Frontier:  Writing for the Internet”, which describes my experiences at Salon.com, is reprinted in Provocations.

Unfortunately, the Web has destroyed or seriously wounded innumerable newspapers and magazines, which have lost their economic base and are fighting for survival. In the U.S., this has undermined smaller regional newspapers and increased the power of the corporate media based in New York and Washington, D.C., who are uniformly supporters of the Democratic party. I am a registered Democrat who questions or rejects much current Democratic dogma.

Today’s enormous problem of deceptive “fake news” and blatant propaganda is getting worse each year. Young people should be trained early in how to assess the credibility of news sources. I think there should be required classes in traditional formal logic at the public-school level. Students need practice in following sequential argument and in recognizing distortions, fallacies, and unsupported conclusions.

G.P. Lastly, a very straightforward question: could the reappearance of Fascism and neo-Nazism in Europe be suggesting that we haven’t learnt anything from history? And if so, how did this process take place?

C.P. The word “decadence” appears in the subtitle of Sexual Personae because I think that Western culture is currently in a “late” phase of gradual decline. Decadence is not a negative term for me: my book examines many examples of marvelous late-phase art, such as Michelangelo’s twisted, morbidly sensual Mannerist sculptures in the Medici Chapel.  Decadent style has recurrent characteristics such as androgyny, voyeurism and compression or distortion of space. I am strongly drawn to decadent art and its heroes, like Oscar Wilde and Andy Warhol.

However, history shows that late phases, as in imperial Rome or Weimar Germany, may trigger a reaction from militant nationalists calling for a return to the simple, stoic virtues of the distant ancestors. I think that is where we are now, as Western culture on both sides of the Atlantic has lost faith in itself and is being eclipsed by a rising force in Asia.

ARTICOLO n. 40 / 2023

PRODAJE SE

Un viaggio jugoslavo

Il viaggio è stato lungo, più lungo del previsto. Ceniamo al Poema di Popovača. Il nome italiano non fa presagire nulla di buono. Intorno a noi il buio della notte, rare case con i mattoni forati a vista. Nella sala che sa di fumo, due tavoli più in là, sta una coppia. Si vede che è una delle prime uscite. Ci trasmettono una certa tenerezza: i due si tengono la mano, chiacchierano, si scambiano sguardi languidi mentre la pizza di fronte a loro si raffredda. La nostra invece no. Appena ce la portano, la ingurgitiamo con appetito, cercando di non curarci che al posto del pomodoro c’è l’ajvar, una salsa di peperoni leggermente piccante, e che il prosciutto non è tra i più saporiti.

Solo al mattino capiamo davvero dove siamo. La villetta di fronte al nostro alloggio, a Potok, ha due leoni azzurri ai lati del cancello; potremmo essere in Veneto, pensiamo subito, se non fosse che attorno non vi è nessuna azienda a conduzione familiare, con relativa flotta di furgoncini bianchi e magazzino strabordante, nessuna bandiera autonomista, nessuna statale congestionata dal traffico. Solo campi, rimesse agricole, galline, case senza l’intonaco o fatte di legno annerito come baite mancate. 

Arriviamo a Podgarić che è ancora presto, dopo aver percorso una strada piena di curve tra alti alberi e improvvise aperture nella campagna. Facciamo colazione in auto: biscotti e succo di frutta che abbiamo acquistato poco prima in un piccolo negozietto che ci aveva sorpreso per l’ampia selezione di lumini da cimitero esposti in ingresso. Come se la morte qui fosse più diffusa di altrove. 

Tra la pioggia sottile che non smette di cadere, avvistiamo il primo spomenik, parola croata che su per giù significa “memoriale” o “monumento”. È in cima ad una collina, in un luogo assai scenografico. Lo raggiungiamo superando una recinzione e avanzando in un campo mezzo allagato. L’erba è zuppa, piena di funghi. Solo successivamente scopriamo che una stradina seminascosta ci avrebbe permesso di raggiungerlo più agevolmente. Con le scarpe sulla terra bagnata, pensiamo alle migliaia di mine che ancora infestano le campagne circostanti. 

La struttura alata, alta dieci metri e larga venti, trasmette tutta la forza del béton brut, la concretezza del reale e insieme un senso di mistero e di spiritualità. Il suo colore grigio ricorda quello dei pilastri delle tante casupole qui intorno. Proviene da un altro mondo, il monumento, e noi ci sentiamo soli, lontani dal nostro tempo. La patina di passato che lo ricopre (insieme al muschio, nella parte esposta a Nord) ci affascina, un po’ come può avvenire per effetto dell’estetica giapponese del wabi-sabi. Da quassù, dominiamo un paesaggio brullo, un piccolo laghetto artificiale su cui si distende un breve pontile di legno. L’Hotel Garić che vi si affaccia dev’essere pieno d’estate; ora è chiuso e silenzioso, sembra anch’esso abbandonato. Si sente solo il belare delle pecore che pascolano a valle, il suono dei nostri passi. Sarà per la voluta asimmetria dell’arco che sorge poco distante, una sorta di Stargate, per come le forme del monumento dialogano con le colline circostanti o forse per la pioggia, ma l’atmosfera è disturbante, malinconica, greve. Podgarić è stata base logistica e ospedaliera della Resistenza iugoslava; ai nostri piedi sono tumulati i resti di centinaia di partigiani e a giudicare dalla presenza di una corona di fiori ormai spoglia, qualcuno se ne ricorda ancora. Eppure il sito ci sembra destinato all’abbandono o, peggio, a diventare icona pop, sfondo per video musicali e spot pubblicitari. A Houston ne esiste già una versione fatta interamente di Lego.

L’intero territorio della ex-Jugoslavia è punteggiato da decine e decine di monumenti incredibili. Non stanno al centro delle piazze cittadine, ma là dove le battaglie, le stragi, le persecuzioni hanno avuto luogo (anche a opera di italiani, come a Podhum, vicino Fiume), quasi che la funzione del ricordare possa essere garantita anche, forse meglio, lontano dagli occhi della gente. 

Le forme e la simbologia di questi monumenti sono nuovi al nostro sguardo mediamente educato alla tradizione estetica occidentale; sono certamente vicini al brutalismo socialista e all’ideologia che promuoveva, ma in modo autonomo, come del resto relativamente autonoma è stata la Jugoslavia dall’Urss. Gli spomenik sono stati costruiti quasi tutti tra gli anni Sessanta e la fine dei Settanta, quando il governo titino cercava di rafforzare l’unità nazionale e di ricucire le ferite della guerra. Si trattava di ricordare le atrocità commesse durante l’occupazione nazi-fascista, ma anche, forse soprattutto, di dimenticare le divisioni etniche che di lì a poco sarebbero riesplose con tragiche conseguenze. Poi, a seguito del disgregamento della Federazione Jugoslava, queste testimonianze uniche sono state distrutte, vandalizzate o nel migliore dei casi abbandonate. Sono finite per parlare d’altro, ancora una volta. I memoriali eretti dal nuovo governo croato sono meno ambiziosi: piccole lapidi con una lista di nomi e il simbolo cristiano della croce.

Dopo pranzo (mangiamo un čobanac, il piatto dei pastori, uno stufato di carne tipico della Slavonia, un gulash più brodoso che scalda le ossa e l’anima), ci perdiamo nelle stradine secondarie verso il confine bosniaco. Case col tetto a spiovente curate in maniera maniacale (vasi di fiori coloratissimi disposti in ordine crescente, altrettanto ordinate cataste di legna da ardere), fienili e prati incolti scorrono nei finestrini. Prima veniamo seguiti dall’auto di una società di sicurezza privata, poi avvicinati da un furgone rosso di un bar (sic!) da cui scende un uomo che ci consiglia di andarcene: siamo in una zona calda, ci dice, è pieno di migranti che attraversano il confine proprio in questa strada. Siamo nel mezzo della cosiddetta “rotta balcanica” e non lo sappiamo. Premono sulle frontiere dell’Europa i disperati, mentre i potenti delle nazioni osservano il panorama imbarazzante delle migrazioni dai loro schermi. Li immaginiamo, gli oscuri burocrati, lavorare in sinergia per il nostro bene, per evitarci ogni seccatura; e gli agenti segreti che ascoltano con le cuffie lo stormire del vento, i fruscii delle foglie – le cimici sono state posizionate con cura – tentando di tracciare i movimenti di chi attraversa i fiumi, le montagne, i confini.

A Jasenovac l’impressione di sacralità è ancora maggiore; e molto più mesta, sarà anche per il treno posto poco distante che ricorda tante altre tragedie del Novecento. Il camminamento che conduce allo spomenik è fatto di traversine ferroviarie. Siamo nel luogo dove sorgeva uno dei più importanti campi di sterminio del collaborazionista Stato Indipendente di Croazia. Qui, per mano del regime degli ustascia, hanno trovato la morte un numero imprecisato, ma altissimo, di serbi, ebrei, zingari e comunisti. L’enorme fiore di cemento alto più di venti metri ideato da Bogdan Bogdanović ci pare bello soprattutto per come dialoga con il resto del paesaggio (il verde dei prati, la campagna). Sull’erba, cumuli e depressioni circolari sorgono in corrispondenza degli edifici del campo ora scomparsi – esempio ante litteram di land art? – come se la terra ribollisse e la vita potesse risorgere. È un monumento di resurrezione, quello che abbiamo di fronte, possente eppure armonico. Un inno alla vita celebrata in modo assai meno didascalico di quanto possa sembrare. In una sua intervista, Bogdanović racconta che la scelta del fiore è stata dettata anche da ragioni di opportunità politica: si trattava di ricordare, appunto, senza alimentare odi etnici e religiosi. Su internet vediamo delle foto dell’inaugurazione del 1966: una folla di persone, come mossa da un’invisibile mano, si accalca lungo le ali di cemento, quasi a volersi unire alla struttura. Il sito, questa volta, non è abbandonato. Ci sono anche delle indicazioni turistiche. Eppure siamo soli, ancora. 

Dopo aver risolto qualche problema con i colori della Polaroid, piccolo vezzo vintage che ci permettiamo, ripartiamo verso Osijek. Come sempre amiamo perderci; è il nostro modo di comunicare con i luoghi, soprattutto con quelli più reticenti. Prendiamo una stradina sterrata che costeggia il fiume Sava che separa Croazia e Bosnia. Sul nostro percorso troviamo numerosi ostacoli: rami e tronchi caduti, strettoie, buche, fango. Ogni oggetto qui è un confine tra noi e il resto, tra noi e la natura che ci appare improvvisamente selvaggia e indomabile. Sulla sponda bosniaca del fiume si intravedono celati accampamenti, tende solitarie erette, immaginiamo, per riparare qualche povera provvista, i resti di un falò di chi nottetempo ha tentato la fortuna a nuoto.

Tra pochissimo il sole sarebbe tramontato. Ma a tratti la Sava compare tra le fronde placida e bellissima, del colore dell’oro, poi sempre più rossastra, come le foglie multicolori degli alberi. La conversazione tra noi si fa più rada. Osserviamo con ansia le mappe sui telefoni che non hanno campo. Il ponte che avrebbe dovuto immetterci nuovamente in una strada conosciuta è crollato. Ne rimangono solo i pilastri al centro di un canale secondario. Prendiamo in considerazione l’ipotesi di tornare indietro, ma la strada è troppo stretta. Non ci rimane che avanzare lungo questo confine, tra i versi lontani di animali sconosciuti.

Al crepuscolo, due cavalli ci sbarrano la strada. Uno è bianco, l’altro baio, maestosi si stagliano nello spazio. Fermiamo il furgoncino, spegniamo il motore, scendiamo. Loro non si muovono di un centimetro. Ci guardano con i loro occhi grandi, puri, non ci stanno giudicando, ci guardano come se fossimo due uomini e basta. 

Per la maggior parte di noi Croazia significa il mare di Krk, le spiagge di Pag, le feste a Novalja, le code al confine la settimana di Ferragosto, l’Istria e le gite in barca. Sappiamo però che i Balcani sono la porta tra la nostra casa e l’Est Europa, sempre misterioso e affascinante. Nei nostri ricordi d’infanzia portiamo le spore di guerre dimenticate, qualche nome, suggestioni che facciamo fatica a organizzare, ma che ci rendono questo mondo non del tutto alieno.

Il fiume è come tutti gli altri. Quali significati porta con sé l’idea di fiume? L’acqua appena rotta in superficie trasporta zolle di terra bruna, rami, cadaveri di piccoli animali. L’aria è umida. Una costellazione di boe lontane brilla come la schiena del mare alla luna. Ripensiamo all’organo marino di Zara: le brevi onde comprimono l’aria in canne invisibili; il suono è sublime, echeggia nel vuoto, una musica del tutto inumana, eppure così naturale. La stessa che sentiamo ora.

Nel bosco, dopo parecchi minuti di auto, la seconda epifania: vediamo una dozzina di uomini silenziosi fissare la foresta. La loro presenza incongrua ci inquieta. Sono disposti a circa venti metri uno dall’altro. Guardano tutti nella stessa direzione, non verso il fiume, il fiume che di solito è perfetto per le razzie dei pesci gatto che mangiano uccellini morenti, gatti, piccoli roditori per poi essere cucinati sulle braci, ma verso l’interno. Non capiamo il perché di questa postura. Abbiamo letto dei respingimenti illegali e inumani, di una bambina morta nel fiume Dragogna (stavolta tra Croazia e Slovenia) nel tentativo di oltrepassare un altro confine. Vicino a noi, una bambina ha lasciato la mano della mamma mentre era in mezzo al fiume, la corrente l’ha trascinata via, il suo corpo non si è neppure trovato, naviga sul Danubio o forse addirittura in mare aperto. Ci domandiamo: se un migrante sbucasse improvvisamente da quei rami laggiù, salisse rapidamente quest’argine e ancora bagnato, con occhi supplicanti ci chiedesse aiuto, che faremmo? Cominciamo a precisare: aiuto per cosa? Per raggiungere il primo villaggio o per raggiungere l’Italia? Un modo come un altro per aggirare la questione. Che faremmo se qualcuno ci chiedesse aiuto? Tenderemmo la mano a quella bambina? Quello che pensiamo di essere coincide con quello che siamo davvero?

Dopo un’ora di sterrato, sbuchiamo in un piccolo villaggio di stalle, trattori e di case a un piano. Siamo inseguiti da un’auto grigia, che poco dopo accende i lampeggianti. Il primo contatto con il mondo lasciato il fiume è la polizia in borghese. L’agente in tuta da ginnastica grigia scende dall’auto. Ci chiede un sacco di informazioni: chi siamo, dove andiamo, che cosa fotografiamo. In effetti non siamo venuti per i migranti, non siamo venuti nemmeno per gli spomenik. Perché allora siamo venuti? Ci fa aprire le borse, il cruscotto. Alla fine l’uomo, serio, ci intima di andarcene. Questo non è un buon posto dove stare.

Proseguiamo verso Osijek allora, via da quel confine. Alloggiamo in una casa a un piano, fuori città. La proprietaria per l’occasione si è trasferita dalla figlia nella casa a fianco. È una donna grassa e rubiconda. Ci dona delle merendine a forma di orsetto ripiene di latte condensato appena ci vede, forse le sembriamo sciupati. Alle pareti della casa ci sono i ritratti di quelli che immaginiamo essere i suoi figli e i nipoti (in uno scatto, uno indossa la divisa jugoslava da marinaio); qualche libro, qualche vecchissima guida del parco naturale lì vicino, una serie di amari e liquori pieni di polvere nella vetrinetta della cucina che non assaggiamo. La signora esce da casa della figlia con un modem in mano, da cui pende un cavo. Internet! Internet!, ci dice, come fosse una ricchezza inestimabile. Si vede che ci tiene a darci un buon servizio.

Il giorno dopo, ci perdiamo a Nord della città capoluogo della Slavonia, tra campi percorsi da una rete di canali e le paludi del parco naturale. Non possiamo non sentirci a casa: potremmo essere tra le barene della nostra laguna, sugli argini del Delta del Po. Pescatori in giubbotto mimetico sono in fila sulla riva di un canale. Visti da lontano, con il binocolo, fanno impressione. Sembra sia in corso una manifestazione sportiva, un torneo. E poi rane, ricci, lontre, casette per il bird watching dappertutto.

Nel vicino paese di pescatori, Kopačevo, ogni casa ha una carpa disegnata sulla porta. Le campane della chiesa bianca, appena vicino all’unico bar, la domenica suonano per dieci minuti almeno. La carne grassa del pesce gatto sfrigola nella cucina di qualche taverna. Edifici fatiscenti o non finiti recano non sappiamo con quale speranza la scritta Prodaje se (si vende), mentre incongrui e sbiaditi cartelli turistici punteggiano questa desolazione. Passeggiamo per il paese: un’unica strada su cui si affacciano case e anziani sospettosi. Ci accompagnano due cani randagi: uno è grande e slanciato, l’altro più tozzo si muove a fatica. Istintivamente ci è simpatico. Il posto ci sembra allegro, con le sue case basse, colorate, con le sue carpe disegnate, con le campane che suonano per un tempo lunghissimo.

Invece Vukovar è scura e seriosa; città martire della guerra di indipendenza croata del ’91. La torre idrica, quasi distrutta dalle bombe, è stata conservata per ricordare la passata devastazione. Al centro, un enorme albergo abbandonato conserva i segni della battaglia, come molte altre abitazioni. Il Danubio è bellissimo a quest’ora, il confine con la Serbia si accende dei colori del tramonto. Immaginiamo di percorrerlo tutto, di arrivare a Belgrado e poi proseguire fino al mar Nero. I pescatori in riva al fiume si scaldano accedendo piccoli fuochi sui massi dell’argine artificiale. A giudicare dalla loro età, tutti hanno vissuto giorni terribili, non riusciamo a non pensarci. Da noi sono ormai pochissimi quelli che possono dire di aver visto direttamente la guerra. Come può vedere il mondo, o anche solo un fiume che è un confine, chi ha vissuto un assedio di ottantasette giorni?  

Al parco Dudik c’è l’ennesimo spomenik. Cinque coni alti 18 metri, sormontati da una punta di rame e circondati da monoliti a forma di barca, quasi che sotto l’erba ci fosse una città sommersa di cui restano appena visibili pinnacoli misteriosi, come il campanile del lago di Resia. Non vi è alcuna indicazione. Il sito, recentemente restaurato su pressione della comunità serba, è in evidente stato di abbandono. Qui è avvenuta una delle più cruente esecuzioni di civili per rappresaglia contro la Resistenza partigiana. Nel boschetto di gelsi (Dudik) dove siamo, c’erano le fosse comuni. Per terra, giacciono i resti di qualche passata commemorazione, una corona distrutta con scritte in cirillico (che qui è sempre più mal sopportato). Stando alle indicazioni di Bogdanović, il progettista è ancora lui, il visitatore dovrebbe arrivarci come arriverebbe alla leggendaria tomba di Porsenna. Tutti questi monumenti, in effetti, implicano una esplorazione e una scoperta. Se fosse voluta, l’assenza di indicazioni sarebbe geniale. 

Vicino, in un campo di calcio non recintato, si gioca una partita. Il silenzio è irreale. Anche il pubblico tace assorto nel sole freddo. Sentiamo i calciatori ansimare. Poi un urlo improvviso: la squadra di casa ha segnato. La partita finisce poco dopo, pacche sulle spalle. Più in là, il muro di una casa è perforato da numerosi proiettili, una barca giace sul ciglio della strada non si sa da quanto.

A cena mangiamo un pesce gatto che non avremmo mai mangiato in altre occasioni. A casa, osserviamo con un certo disgusto i pochi pescatori che si affacciano sul Fratta Gorzone, il corso d’acqua più inquinato d’Italia, denso e grigio, per pescare questi bestioni infestanti che hanno la carne grassa con un riconoscibilissimo sentore di fango. Prima di ripartire tentiamo di acquistare una zucca; sono esposte in una carriola appena fuori dal nostro alloggio. Ma le kune mancano e non c’è modo di pagarla in altro modo. 

Attraversiamo la frontiera bosniaca a Bosanska Gradiška, superando un ponte sulla Sava, il fiume che avevamo precedentemente costeggiato. La fila infinita di Tir in attesa dei controlli doganali ci fa capire che stiamo uscendo dall’area Schengen. Giungiamo a Banja Luka, capitale della Republika Srpska, una delle due entità territoriali in cui è stata divisa la Bosnia ed Erzegovina dopo la guerra, quella a maggioranza serba. Durante la cena, in un locale fumoso, ubriachi in tuta da ginnastica e giovani donne vestite di tutto punto ridono sguaiatamente. Pensiamo che qui morte e vita debbano presentarsi in forme estreme, grottesche. Le famiglie non possono che essere quelle descritte da Danilo Kiš.

Scendiamo verso Sud. La strada si distende tra montagne rocciose, boschi, verdissime colline. La natura forte e impenetrabile non pare adatta ad ospitare l’uomo. Eppure avvistiamo, uno dopo l’altro, piccoli fuochi ardere tra le valli apparentemente disabitate, colonne di fumo che ci fanno percepire l’umano per indizi. Nei rari centri abitati, altri fumi. Sono quelli dei fuochi accesi per distillare la rakija, bevanda nazionale, quasi sempre prodotta da prugne o mele fermentate. Enormi alambicchi in rame stanno sui cortili delle case, come delle piccole locomotive ferme alla stazione. Uomini sono accovacciati attorno alle fiamme, come i pescatori di Vukovar.

Entriamo nella cosiddetta Federazione croato-musulmana. A Donji Vakuf i cimiteri islamici sono a bordo strada. Lapidi semplici a forma di piccolo obelisco riportano solo il nome del defunto. Nessuna foto. Sono dappertutto: vicino ai cortili delle case, sul ciglio della strada; i cimiteri sono diffusi e non protetti da alcuna barriera visiva – muretto, recinto, alberi – quasi che fosse inutile nascondere la morte, radunarla in luoghi specifici per toglierla dalla vista. Il sepolcro è elemento del paesaggio che però ci appare tutt’altro che mortifero. Nei pressi di una moschea, alcuni ragazzi grigliano la carne a pochi passi dalle sepolture. Ridono e scherzano e sorprendentemente non ci sembra irrispettoso.

Sulla collina Smetovi si gode della vista completa sulla città di Zenica. Da quassù brillano al sole le finestre dei lontani palazzi e le colonne di fumo bianchissimo che escono dalle tante ciminiere della zona industriale. Alle nostre spalle, l’ennesimo spomenik: una sorta di enorme cavatappi costruito nel ’68 e poi ricostruito in anni più recenti dopo essere stato distrutto. Qui i cetnici massacrarono più di trenta combattenti partigiani impegnati contro l’occupante nazi-fascista. La collina oggi è un luogo di aggregazione: troviamo decine e decine di famiglie, ciascuna con tavolo, sedie, asciugamani. Tanti sono i musulmani: le donne portano il velo e gli uomini non bevono birra. Un gruppo di amici sta cucinando fagioli e stinco di vitello. Uno di loro, che ha vissuto per venticinque anni in Texas, ci informa che il tempo di cottura è stimato in 4 ore. 

La notte è tesa, un vestito appena stirato pieno di strappi. Nel piccolo paese che attraversiamo, la locanda è illuminata a fatica, i morsi delle tenebre non lasciano scampo alle lampare. Entriamo trattenendo il respiro. Un solo tavolo dove quattro uomini mangiano stancamente (occhi acquorei per il fumo, braccia possenti e sporche, bocche deformate da sorrisi alcolici, una è deturpata da una cicatrice). Ci avviciniamo al bancone. Un cameriere anziano e panciuto sta lustrando posate e bicchieri. È possibile mangiare qualcosa? La fame ci attanaglia, ci morde lo stomaco, un modo come un altro per sentirsi umani e mortali. Seduta ad un tavolo, persa nell’ombra, una donna fuma silenziosa. Il cameriere ci pensa un po’, poi fa un cenno affermativo con la testa. Ci fa accomodare ad un tavolo tra gli altri sparecchiati. Dalla finestra vediamo la strada che si perde nel vuoto, la nostra immagine riflessa sul vetro. La sovrapposizione delle immagini è perenne, il mescolamento impossibile. Più in fondo, i resti di una gru dimenticata, un paio di vagoni ferroviari trasformati in stalle. L’oste arriva poco dopo. Ci apre il menù sotto gli occhi, non parla. Lo scambio è ridotto ai minimi termini. Questo, almeno, bisognerebbe imparare: adottare una comunicazione sostenibile, amica dell’ambiente. Decifriamo solo in parte le lettere che compongono una lingua straniera; le pagine sono unte, le sfogliamo con due dita. Antipasti, piatti di pesce, piatti di carne, contorni. Non riusciamo a deciderci, non abbiamo voglia di leggere. Quando torna, dieci minuti dopo, ordiniamo la prima cosa che ci viene in mente. Lui dice che non c’è scuotendo la testa. Indichiamo un’altra pietanza. Non c’è neppure quella. Allora interviene indicandoci un piatto, un singolo piatto, l’unico disponibile. Ci arriva una brodaglia rossastra nella quale pezzi di carne galleggiano qua e là come scogli perduti, iceberg fumanti. Mangiamo lo stufato con il pane, sollevati, finalmente, dall’assenza di scelta. 

Il giorno seguente, facciamo colazione all’Hotel Pino di Sarajevo; è un albergo di lusso immerso nella natura. Potremmo essere in Alto Adige. Lì vicino ci sono i resti del villaggio olimpico che ospitò i giochi invernali del 1984. La pista da bob abbandonata è diventata un’attrazione per turisti; noi la vediamo di sfuggita, nascosta testimonianza dell’esistenza di un paese che non esiste più e che non abbiamo conosciuto. L’intera città, la capitale multietnica e affascinante, non ci si svela. Sembra nascondere le tracce di quell’assedio sanguinosissimo e logorante di cui abbiamo solo letto.

Il mercato di Džemala Bijedića è un tumulto di persone di tutte le età ed etnie. La gente si accalca tra bancherelle di montagne di vestiti, scarpe, cappelli, cinture, orologi, attrezzi di ferramenta. Qualcuno si prova un vecchio cappotto in vendita per pochi marchi. Tre donne stendono un lenzuolo al sole per tastarne la qualità. Sorrisi sdentati, mani tremanti, qualcuno azzanna le solite salsicce ficcate dentro a panini scaldati sulla griglia. Ci sembra impossibile comprare qualcosa, eppure in questo mercato, tra questi volti, c’è quello che stiamo cercando. Allontanandoci, incontriamo una signora dall’aria dignitosissima; espone su un telo ciò che ha da vendere: due paia di calzini, una bambola sporca, qualche forcina per capelli.

A Vogošća l’ennesimo monumento. La città è stata una delle più colpite dalla guerra civile che ha dilaniano il paese tra il ’92 e il ’95. Nessuna informazione, solo una struttura rettangolare di cemento con incisioni e bassorilievi. Al centro si apre una ferita, uno squarcio: potrebbe rappresentare il dolore che non si rimargina o forse la forza vitale che continua a uscire da quella che è a tutti gli effetti una cripta. Da sopra la collina dove sorge lo spomenik si vede la nuova moschea, bianca, col minareto di vetro. Assomiglia a una piscina. Un gruppetto di giovani che fumano marijuana ci osserva indifferente.

Ritorniamo verso Nord. Lungo la strada le presenze antropiche sono come al solito scarse. Il terreno è pieno di doline e depressioni. Qualche venditore di miele o di cavoli cappucci. Arriviamo a Bihać che è sera, dormiamo in un appartamento vicino a un fiumiciattolo e una piccola cascata. La memoria, ancora. Bihać è stata protagonista di episodi particolarmente cruenti durante la Seconda Guerra mondiale (è stata liberata e poi riconquistata dall’Asse) e poi durante la guerra civile, quando in lungo assedio morirono migliaia di persone. 

La mattina raggiungiamo la collina di Garavice, appena fuori città, dove c’erano le fosse comuni. La nebbia è fitta. L’erba cresce alta, libera, come da noi non succede più. Parcheggiamo il furgone e raggiungiamo il monumento camminando sull’erba, come era successo a Podgarić. L’emozione è forte, intensa. Dalla nebbia, una dopo l’altra, emergono alcune colonne fatte di blocchi di cemento giustapposti. Tredici in tutto. Ci ricordano le enormi statue dell’Isola di Pasqua. Un sentiero ci passa in mezzo, creando così quello che ci sembra un percorso di ascesa e purificazione. L’aria fredda ci riempie i polmoni. Bogdanović (il progetto è ancora suo) le chiamava “le sue donne”, figure in lutto, meste, sebbene prive di connotati umani. Anche qui mancano pannelli informativi, qualsiasi simbolo religioso o nazionale. La salvezza, se esiste, è fuori dall’identità, dal senso di appartenenza. È nelle cose, nella loro silenziosa presenza. In questa sorta di Stonehenge della morte sono le forme a parlare. Tornando, notiamo i resti di un falò, qualche bottiglia di vodka. 

Il viaggio, come ogni viaggio, non si conclude una volta tornati a casa, anzi. Le immagini accumulate lievitano nel cervello. Portiamo con noi la disarmante malinconia emanata da questi luoghi, diffusasi come un vento radioattivo, i colori così diversi da quelli mediterranei, una piantina che morirà poco dopo e un sacchetto di cioccolata con i canditi, dolcissima e indigesta, che pure non abbiamo il coraggio di buttare. Proseguiamo, quindi, a camminare guardinghi tra i nostri pensieri inesplosi.

ARTICOLO n. 39 / 2023

DESERTO VERDE

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini, che ringraziamo. Il volume sarà in libreria il 17 maggio.

Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci. 
La scienza evolutiva e le immagini della religione si sovrappongono, rigirano tra le mani lo stesso oggetto scuro, sbozzato, come un manufatto ultraterrestre o una concrezione lavica nel quale pare di scorgere un volto dalla bocca spalancata. Siamo scimmie spaventate, il giardino dell’Eden è sbarrato alle nostre spalle, una spada fiammeggiante ci separa dal riposo e dall’abbraccio universale, la coscienza della nostra nudità ci esalta e ci umilia. Cerchiamo di leggere il mondo e vi proiettiamo speranze e minacce, sogni di comunione la cui dolcezza sbiadisce al risveglio, orrori e crudeltà che ci attirano come falene al fuoco. Gli uccelli cantano, il buio ci osserva. Avanziamo incerti su gambe malferme e ai bordi dei nostri desideri avvertiamo la pressione di tutto quell’oltre, lo popoliamo di demoni e dei. Ragazze emergono dalle nubi e ci tengono le braccia. Scarpette rosse ci fanno ballare fino a sanguinare e scavare una tomba nel terreno. Mozziamo la testa ai bambini e la chiudiamo in una cassa dove continuano a chiamarci con un pigolio. Facciamo l’amore con lupi e serpenti d’acqua. Infondiamo la nostra vita in un oggetto, lo riveliamo a chi lo spezza sotto il tacco. Ci svegliamo al mattino per scoprire che il nostro amore è stato portato via, o che lo abbiamo ceduto noi stessi al re della morte per ottenere un giorno in più sotto il sole.
I processi di razionalizzazione individuali e collettivi ci fanno incanalare le infinite varianti, tutte vere, tutte false, in percorsi lineari. La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? 
Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi. 
Una storia deve essere tale per essere raccontata, eppure non è solo tutto ciò che in essa è taciuto a darle spessore autentico, ma anche l’infinita tempesta delle possibilità alternative, i suoi tradimenti e rovesci, l’irruzione di tutto ciò che pare contraddirla, come un viso angosciato allo specchio che si veda rispondere da un sorriso nel riflesso. 
Le definizioni aiutano e al tempo stesso limitano e uccidono. Si costruiscono templi solo per scoprire che alla fine il fuoco del sacrificio è sprezzato dal dio, che nel frattempo è volato via.


Edoardo Rialti, Dario Valentini

L’uomo davanti a lei era bendato, non poteva vederla. Aveva una mano legata alla sedia, era troppo distante, non poteva colpirla. E l’interrogatorio andava avanti da ore, senza nessun esito, solo quattro parole ripetute costantemente, ossessivamente, come un mantra, come una verità. La tenente Soledad Valverde si accasciò – il viso sul tavolo di plastica verde scheggiata, il contatto fresco di quella superficie sulla guancia – e si prese la testa tra le mani. Non fu che un attimo, si tirò su, si massaggiò le tempie. Aveva male alla testa e bisogno di bere, ma la bottiglia che aveva accanto – anch’essa di plastica, riutilizzata mille volte e probabilmente ormai tossica – era vuota.

I suoi compagni sarebbero stati ancora dall’altra parte dello specchio spia, a guardarla, a ridere dei tentativi di interrogatorio che con tanto accanimento aveva cercato di portare avanti? O se ne erano già andati e ora si stavano ubriacando nella cantina più vicina, con qualsiasi cosa riuscissero a trovare, qualsiasi cosa si potesse distillare dalla selva?

Tutte quelle ore non erano state altro che uno spreco di energia, di aria ed elettricità – la lampadina che illuminava debolmente eppure ferocemente quella sala sotterranea sporca e spoglia, l’impianto di aria condizionata quasi al limite delle forze, era quasi meglio ai tempi del vecchio ventilatore a pale, ma ormai non funzionava più, pendeva dal soffitto, inutilizzato, con quella che si sarebbe detta mestizia – e uno spreco anche delle sue, di forze. Non aveva funzionato. Per quanto le ripugnasse, alla fine di quella giornata, e mancava poco ormai, non avrebbe avuto altra scelta che affidare il prigioniero ai suoi compagni. La tenente María Mendoza avrebbe riso di lei, era l’unica altra donna della squadra, e la più feroce di tutti, donne e uomini. Sarebbe stata lei a incaricarsi delle torture, avrebbe preteso che Soledad assistesse, che imparasse il mestiere una buona volta, come diceva, con un sorriso splendido – perché María Mendoza era davvero bellissima – che si torceva in un ghigno, o almeno così sembrava a lei, Soledad. Era lei sola a vedere quello che vedeva, a incarnare la solitudine che sua madre le aveva impresso addosso nel nome? Ma questa soddisfazione no, non gliel’avrebbe concessa. Avrebbe chiesto il trasferimento per l’interno della selva, per il minuscolo villaggio di Las Luces, dove era cominciato tutto. Al comando temporaneo avevano bisogno di unità e più volte le avevano fatto capire che la sua domanda, se l’avesse presentata, sarebbe stata accolta con procedura immediata, forse con te parleranno, le aveva scritto il capitano Morales dall’accampamento. Forse anche io, non aveva scritto, potrei parlare di nuovo con te, se tu venissi qui, se tu tornassi, Soledad.

Davanti a lei, l’uomo – il suo nome era Elías Hayes – restava immobile come era sempre stato, un braccio appoggiato al tavolo, ripiegato davanti a sé, l’altro trattenuto dai legacci. Anche il sudore gli colava lentissimo sul viso. Era come se avesse rallentato di proposito la circolazione del sangue, ma come era possibile una cosa del genere? Il fascicolo che la squadra – di cui oggi anche lei, Soledad, faceva parte – aveva iniziato a compilare tanto tempo fa diceva che Elías Hayes praticava la meditazione vipassana. Forse era quella la ragione. La benda nera e sudicia che gli copriva gli occhi lasciava vedere tratti bruniti dal sole. Aveva più di sessant’anni, diceva ancora il fascicolo, lo confermavano i capelli grigi in cui spiccava ancora solo qualche ciocca spessa e nera. Era tarchiato e doveva essere più forte di quanto non sembrasse. Soledad rilesse le frasi per quella che le sembrò la millesima volta, avrebbe potuto ripetere il fascicolo a memoria se avesse voluto.

Elías Hayes era stato diplomatico per gli Stati Liberi all’epoca della loro fondazione, trenta o trentacinque anni prima, quando pezzi e pezzi di America Latina si erano strappati dalle nazioni a cui appartenevano per fondersi insieme, e sogni di libertà e giustizia sociale avevano accompagnato quella come tutte le altre rivoluzioni del passato. Trentacinque anni dopo, ne rimaneva ben poco, questo Soledad lo sapeva bene, questo non compariva nel fascicolo di Hayes, che era stato aggiornato al “caso Quinn”. Dopo la morte improvvisa della moglie Rocío in un’aggressione in Sudafrica, Hayes aveva lasciato l’incarico ed era diventato senza fissa dimora. Aveva molti amici in Europa, nei paesi dove era stato distaccato sia prima che dopo la nascita degli Stati Liberi, in Spagna soprattutto e in Francia. Poi aveva trascorso qualche anno in India, forse addirittura in Birmania. Di tanto in tanto veniva avvistato e segnalato, anche se il fascicolo era incompleto, e la ragione delle segnalazioni non era riportata. I fascicoli erano sempre incompleti in quel modo, e negli anni, Soledad aveva imparato a decifrare le assenze, il vuoto, ciò che non veniva messo nero su bianco. In questo caso, però, non ci riusciva, o non completamente.

Le segnalazioni si infittivano dalla data di pochi mesi prima, quando improvvisamente e senza motivo apparente Elías Hayes era rientrato in patria e si era stabilito nel villaggio di Violeta, nelle case di lamiera o baracche che sorgevano a poca distanza dall’edificio della capitanía dove si trovavano adesso. Aveva accettato l’invito di un amico antropologo, Ian Medina Quinn, che da qualche anno si era stabilito a Violeta, anche se conduceva le sue esplorazioni soprattutto nella zona di Las Luces, nell’interno della regione. Tra i due c’era una qualche differenza d’età, ma anche una solida amicizia. Stando al fascicolo, Hayes e Medina Quinn si era conosciuti quando Hayes era in carriera diplomatica in Spagna. Medina Quinn, la cui madre si era ritrovata in mano il passaporto degli Stati Liberi per lo ius sanguinis, aveva lavorato qualche anno in Ambasciata mentre completava gli studi. Poi Hayes era ripartito per nuova destinazione e Quinn aveva proseguito il percorso accademico, fino a diventare un’autorità nell’ambito della ricerca su quelli che allora si chiamavano, con una terminologia che Soledad non poteva impedirsi di trovare razzista, indigeni non contattati. Negli anni, il campo d’indagine di Ian Medina Quinn si era ristretto a poco a poco, a mano a mano che gli ultimi esponenti delle tribù amazzoniche che avevano evitato, o coscientemente rifuggito dopo pessime esperienze risalenti magari a qualche secolo prima, l’incontro con l’Occidente in una qualsiasi delle sue molte forme, erano entrati inevitabilmente in contatto con il mondo tecnologico avanzato, il mondo di cui anche lei, Soledad, faceva parte, nonostante tutto. E nonostante tutto in quella stanza, fuori da quella stanza, nella capitanía, i villaggi di Violeta e di Las Luces ma anche la stessa capitale, le sembrassero nient’altro che rovine, o forse reliquie sopravvissute di una civiltà sul bordo del collasso. Pochi paesi avevano riconosciuto gli Stati Liberi, c’era stato l’embargo, certo, ma… Soledad si scrollò quei pensieri di dosso, si costrinse a continuare, ancora una volta, la lettura. Doveva esserci, in quel dannato fascicolo, qualcosa, una traccia, una pista, un enigma che non aveva ancora scovato.

In un articolo molto discusso, uscito diversi anni prima su uno dei principali quotidiani del paese, La Voz que es nuestra, Medina Quinn aveva sostenuto che, per quanto la fondazione degli Stati Liberi fosse sembrata offrire, nei primi anni, speranze di sopravvivenza nei propri modi di vita per tutti gli indigeni dei nuovi territori – minacciati dall’industria estrattiva e da quella del legname, dal contagio culturale come dalle nuove malattie, dall’abbattimento di zone sempre più ampie di foresta amazzonica, dall’inquinamento delle acque, dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica già diventata semplicemente per tutti l’oggi, qui – ormai si poteva dare per assodato che le politiche del governo di Ciudad Dorada – perché così si chiamava, pomposamente, pensò Soledad, la capitale degli Stati, la città d’oro, come l’Eldorado sognato dagli antichi conquistadores, dai pazzi e dagli esploratori anche se quasi tutti la chiamavano semplicemente Dorada, come se fosse un’orata d’allevamento – non avevano più nulla di diverso da quelle di altri stati, del presente o del passato, alle prese con la stessa questione.

Medina Quinn non lo diceva apertamente, certo, il suo era un articolo scientifico e quasi tecnico, intessuto di dati e numeri, ma le conclusioni erano chiare. Per i non contattati, chiunque fossero, qualsiasi cosa veramente volessero, non c’era più spazio, non c’era più tempo, e dunque neanche speranza se anche questa deve per forza annidarsi in una piega dello spaziotempo piegato dall’oggetto che siamo noi, pensò Soledad sentendo ravvivarsi nella mente, con una fitta, i ricordi degli studi scientifici che avrebbe voluto proseguire presso l’Università di Dorada, e che aveva dovuto abbandonare quando suo padre era morto, investito per strada, e lei aveva intrapreso la carriera militare, per ritrovarsi in quella piega esatta, lì, in quella stanza, dopo ore di interrogatorio, davanti a quell’uomo. Elías Hayes, che doveva sapere che fine avesse fatto il suo amico Medina Quinn, dopo essere scomparso nella selva, Ian Medina Quinn e i suoi specchi, e che cosa c’entrassero, se davvero c’entravano qualcosa – perché per quanto i suoi superiori ne fossero convinti, a titolo personale Soledad Valverde si concedeva di dubitarne – con le misteriose apparizioni di luci in cielo che forse avevano dato il nome, decenni e decenni prima, al villaggio di Las Luces nelle profondità della selva e che ora, subito dopo l’arrivo dell’antropologo, e poi del suo amico, avevano ricominciato a infestare il cielo, terrorizzando gli abitanti e i loro animali.

Uno di quegli specchi, l’unico che era stato ritrovato nell’abitazione di Medina Quinn a Violeta, dove Hayes si era installato al suo arrivo, era davanti a lei, coperto da un panno, che Soledad sollevò. Era uno specchio antico, di fattura ottocentesca o forse ancora precedente, la tenente non avrebbe saputo dirlo, non sapeva niente di storia dell’arte. Lo specchio doveva essere di bronzo. Con qualche cautela Soledad vi cercò il riflesso del suo viso. La superficie che avrebbe dovuto essere riflettente appariva invece completamente oscura, brunita più del metallo dell’incastonatura, e la luce vi annegava. Con una rapidità dettata da un ingiustificato, si disse, timore, Soledad rimise il panno al suo posto. Da dietro l’altro specchio, lo specchio spia, le giunse qualcosa all’udito, un rumore, forse i suoi compagni erano tornati, forse solo María, e si stava godendo lo spettacolo. Era ora di riprendere l’interrogatorio.

I fatti, apparentemente – Soledad li ricapitolò per l’ennesima volta a beneficio del suo muto, passivo interlocutore – erano questi.

Dopo l’uscita dell’articolo, e le polemiche che aveva suscitato, Ian Medina Quinn era stato oggetto di aggressioni, in uno o due casi anche molto violente, da parte di gruppi estremisti. Cogliendo – o forse avendo provocato? – questo meraviglioso pretesto, con la scusa della sua sicurezza la capitanía generale della regione lo aveva messo sotto discreta sorveglianza, più discreta e più intensa di quanto non fosse già la vigilanza a cui era da tempo sottoposto. Da parte sua, il governo centrale aveva avanzato all’illustre studioso straniero – Quinn aveva la doppia cittadinanza, degli Stati Liberi per via materna ma anche europea, per parte di padre – l’offerta di una scorta, che era stata rifiutata, perché avrebbe interferito con le ultime possibilità di portare avanti gli studi a cui aveva dedicato gli anni e la vita. Invece, Quinn aveva chiesto e ottenuto di potersi trasferire a Violeta, che era poco più di un avamposto militare, e qualche casa sovrannumeraria, nel midollo stesso della selva, e nelle vicinanze dell’ancora più interna aldea di Las Luces, l’ultimo brandello di terra degli stati dove sembrava che gli indigeni non contattati ancora, forse, sopravvivessero in libertà.

La battaglia a cui Ian Quinn intendeva dedicare ora tutte le energie rimaste mirava alla creazione di un’area naturale ad accesso interdetto che proteggesse la zona da ogni ulteriore incursione civilizzatrice, consentendo così, forse, agli invisibili esseri umani che amava – se studium vuol dire: lungo amore – di un amore non ricambiato da decine di anni di andare avanti ancora, almeno fino alla fine della sua vita, nel modo a loro noto di vivere, e traendone per sé il beneficio egoistico di potersi continuare a dedicare – ancora: fino alla fine – all’unica cosa che aveva sempre fatto o voluto fare: studiare la loro esistenza. Medina Quinn non aveva famiglia, né moglie né figli, e neanche amanti, a quanto diceva il fascicolo. Sembrava completamente disinteressato a qualsiasi essere umano avesse già avuto contatti con la civiltà, o, riportava il fascicolo citando una battuta ironica dell’illustre antropologo, “avesse avuto la disgrazia di nascervi”.

A Violeta, Ian Medina Quinn aveva trovato pace, almeno in apparenza. Occupava una casa concessa dal governo al limitare del piccolissimo agglomerato, sulla frontiera estrema della selva che qui sprigionava tutta la sua incandescenza. Pescava e cacciava come tutti, compresi i militari della capitanía, aveva adottato un paio di cani randagi ma li lasciava vagare liberi, a rischio che venissero divorati dai giaguari, e di tanto in tanto si faceva vedere nell’unico minuscolo spaccio dell’aldea per comprare sapone o altri generi, alimentari e non, di prima necessità. Praticava quotidianamente la selva, prima con qualche abitante del paese contrattato come guida, poi sempre più spesso da solo, scriveva i suoi libri che pubblicava in Europa, dove era una sorta di celebrità – l’ultimo si intitolava Deserto verde – ma, in sostanza, non aveva più dato grattacapi. Se aveva avuto incontri, nel folto della selva, con indigeni non contattati, Medina Quinn non ne aveva fatto parola, e questo non sembrava da lui, per cui non restava che concludere, diceva il rapporto, che non fosse accaduto nulla di simile, se si escludeva la nota questione raccontata nell’ultimo documentario di Quinn, anch’esso intitolato Deserto verde, e per cui nel fascicolo si faceva riferimento a un altro dossier, che approfondiva dettagliatamente la vicenda. La sorveglianza sull’inquieto, ora non più così inquieto, studioso si era allentata, o almeno era entrata in sonno.

Forse per questo l’invito improvvisamente rivolto da Ian Medina Quinn a Elías Hayes, l’arrivo di questi a Violeta ospite dell’antico amico, e le spedizioni che i due avevano intrapreso nella selva con rinnovato vigore, avevano risvegliato attenzione e sospetti. Quinn doveva aver pensato che l’ex diplomatico Hayes fosse ancora dotato di contatti ed entrature che avrebbero potuto facilitare il suo progetto di istituzione dell’area protetta, aiutandolo a convincere della bontà dell’idea alti esponenti della capitale, magari la stessa ministra delle Foreste, che era stata allieva di Hayes nei corsi che questi per un certo periodo aveva tenuto a Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università di Dorada. Per questo, probabilmente Ian Quinn aveva invitato Hayes a vedere per conto proprio cosa stava accadendo – se è possibile vedere una scomparsa, in questo caso la scomparsa dei peraltro invisibili non contattati – sperando di suscitare in lui una risposta emotiva, fondamento di una successiva reazione politica. O forse, semplicemente, una vita come la sua, un’intera vita trascorsa in solitudine – o quasi, pensò Soledad, che aveva già completato più volte la lettura del fascicolo, aveva visto il documentario, Deserto verde, e sapeva di Quinn molto più dell’estensore di quelle note all’epoca in cui erano state scritte – cominciava a pesargli, e come Robert FitzRoy, il comandante dell’hms Beagle decenni e decenni prima, cercava la compagnia di un futuro Darwin nel viaggio verso le sue personali Galapagos, anche se qui a parti invertite. Fatto sta che Elías Hayes aveva prontamente accettato l’invito del suo amico, e pagato una cifra non indifferente – forse esorbitante sarebbe stato un aggettivo più appropriato – per un trasporto privato a Violeta in elicottero. Era stata lei stessa, Soledad Valverde, lo ricordava, ad accoglierlo all’arrivo, dato che l’unico eliporto nel raggio di chilometri era quello militare della capitanía.

A solo poche settimane dall’arrivo di Elías Hayes, lui e Ian Medina Quinn, l’ex diplomatico e l’antropologo, si erano già inoltrati più volte nella selva; e l’ultima volta senza guide, con zaini provviste e tende, diretti a Las Luces per via di terra, il che già di suo era una follia, dato che era molto più rapido e sicuro spostarsi tra i due villaggi per via d’acqua. Las Luces era più all’interno della selva di Violeta rispetto alla riva del Victor Jara, il grande fiume della regione, ma c’era un affluente con sufficiente portata d’acqua, El Infiel, che raggiungeva l’insediamento.

Al villaggio, i due, nonostante la grande esperienza di Quinn, non erano mai arrivati. Da quella spedizione, Hayes era rientrato da solo. Che ne era stato di Ian Medina Quinn? Era rimasto nella

selva, era morto, era stato ucciso? Dagli abitanti di Las Luces, dalle misteriose, forse aliene, luci in cielo che recentemente avevano rinnovato con vigore la propria antica e funesta presenza, dallo stesso Hayes resosi di colpo assassino per un movente ancora ignoto; o dai Victor Jara, i terroristi che ultimamente erano dappertutto e che avevano preso lo stesso nome del grande fiume, forse per segnare la loro appartenenza alla regione, forse per farsi gioco dei funzionari del governo degli Stati Liberi che, nei primi anni dopo la creazione della nuova realtà politica, avevano sparso a mani piene sulla mappa della zona i nomi delle più belle voci del secolo trascorso, assassinate o indotte al suicidio dalle mille dittature del continente, come per farle risuonare di nuovo, finalmente libere. È sempre la stessa musica invece, sembravano dire i Victor Jara scegliendo quel nome, non è cambiato nulla, siete come loro. Forse era proprio ai Victor Jara, che sostenevano di proteggere gli ultimi nascondigli dei non contattati con le armi, che si era unito Medina Quinn, ed era questo che Soledad Valverde, e la squadra di cui faceva parte, dovevano scoprire.

Da quando era ritornato, ed era stato prelevato e accompagnato alla capitanía, da quando era iniziato l’interrogatorio sulle sorti del suo amico, Elías Hayes, però, non aveva fatto altro che ripetere le stesse quattro parole: è diventato pensiero vivente.

Solo questo. Quattro parole, o sette.
Ian Medina Quinn è diventato pensiero vivente.
Come se fosse possibile, come se avesse un senso.
Ian Medina Quinn –

ARTICOLO n. 38 / 2023

“CIECO”: MASSIMO FINI IN LUCE

La stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura

Cieco. È il titolo del libro scritto da Massimo Fini alle soglie del compleanno numero 80. È la confessione –ultima dice lui – di un uomo afflitto da un glaucoma che gli ha tolto progressivamente la vista. È un viaggio dentro l’anima esposta di un giornalista, autore, saggista, che ci vede benissimo.Abbastanza, anche ora, forse proprio ora, per continuare a riflettere su se stesso e sui rilanci che la coscienza innesca e determina. Per certi versi, così da sempre. Mi scuso per l’uso qui della prima persona singolare: conosco Fini da molti anni e sono un suo vecchio ammiratore. Per la cultura e la libertà di pensiero; per l’indipendenza e il coraggio; per l’intelligenza e la capacità – talvolta cocciuta, persino autolesionista – di andare contro “pur di…”. 

E non importa nemmeno trovarsi in linea o per nulla d’accordo con le sue opinioni. Conta la stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura. Dunque, un maestro. Anticonformista, presente e attivo, peraltro. In luce, ecco, alla faccia del glaucoma. Per me, per chi ama ancora, ha amato moltissimo questo mestiere. Lo scrivo perché l’ho pensato, per l’ennesima volta, uscendo dalla sua casa colma di libri, dove è un piacere chiacchierare – e fumare – condividendo (anche) qualche comune memoria, un’af-fini-tà per me preziosa.

Giorgio Terruzzi: Il libro, dunque. Cieco. Il titolo maschera una ambivalenza. Annuncia una condizione, una fatica. Ma anche uno stato propizio all’indagine. Non solo intima…

Massimo Fini: Nella mitologia greca il cieco è il veggente. Tiresia, non disponendo della vista, va oltre. Però, porco cane, io ci vedevo benissimo ed ero veggente anche con gli occhi in piena funzione.

G.T. Due date: 1985, 1989. Scandiscono i momenti più difficili della malattia. Puoi ricordarli?  

M.F. La prima data coincide con la prima diagnosi, la seconda segna l’inizio della fine, il momento più doloroso. Guardavo il cielo, osservavo le stelle durante una bellissima notte a Capri. Stavo lì con la mia fidanzata e mentre non riuscivo a mettere a fuoco il firmamento, mi resi conto che non avrei più rivisto nulla del genere.

G.T. Questo testo sembra completare un lungo racconto autobiografico iniziato con Ragazzo. Storia di una vecchiaia, pubblicato nel 2007. È come se l’analisi di te stesso, per certi versi narcisistica, per altri illuminante, sia diventata la vera guida, la fonte del pensiero. Utile a individuare un punto di vista. La cecità su questo procedimento, sino a che punto incide? 

M.F. Be’, io non ho fatto altro che scrivere autobiografie. Se penso a Una vita, soprattutto, a Ragazzo, al Dizionario erotico, a Confesso che ho vissuto, trovo testi autobiografici. Il tema riguarda anche la mia opera filosofica, termine da usare tra virgolette. Come scrive Nietzsche, ogni filosofia è una autobiografia. Credo che questo mio modo di essere, dove è pur possibile riconoscere un certo narcisismo, sia abbinato da sempre a una grande capacità di ascolto. Cosa fondamentale, non solo nel nostro mestiere. Nella vita. Nino Nutrizio, uno dei grandi maestri del giornalismo, direttore de “La Notte” diceva: questo è un lavoro che si fa prima con i piedi e poi con la testa. Bisogna uscire, perlustrare, ascoltare. La testa viene dopo, quando si tratta di dare un senso al materiale che hai raccolto. La cecità ha rafforzato questo modo di fare, quindi di pensare e poi di scrivere. Non avendo la vista sei molto più attento a chi parla, a come parla una persona. In particolare alla musicalità. La scrittura è ritmo, come la musica.Ho notato in che modo i grandi autori di canzoni, ad esempio, collocano un termine in un punto preciso proprio in funzione del ritmo. È ciò che cerco di trasferire nella mia scrittura.

G.T. Penso alle tue passioni. Il calcio, le automobili, la velocità come attrazione verso una spericolatezza che profuma di immortalità. Qui, non vedere, significa fare conti più amari?

M.F. Non è solo una questione di cecità. Nel frattempo sono invecchiato e, in aggiunta, ho dovuto attraversare la pandemia in queste condizioni. Non so come sia riuscito a cavarmela. Certo guidare, usare l’auto per me è stato sempre un segno di libertà. Ti annoi, salti dentro l’automobile, raggiungi un paesino attorno a Milano, una gelataia carina ti sorride e la tua giornata in un attimo cambia sapore. Se parliamo di indipendenza il discorso è più complesso. Il termine vale come cifra della mia vita personale e professionale. Ora non è più così. Dipendo. Dalla segretaria, da una fidanzata, se c’è, da mio figlio, dalla mia ex-moglie. Da tutti. Ho bisogno di assistenza e darmi assistenza diventa difficile perché se una persona mi aiuta troppo mi incazzo, se aiuta poco è un guaio. Per fortuna c’è qualcuno che procede con estrema attenzione. Mio figlio e l’amico regista Edoardo Fiorillo che dispone di autentiche capacità sensitive.

G.T. Leggere per scrivere e scrivere per leggere. Sono queste le inibizioni peggiori?

M.F. Detto i pezzi. Poi li leggiamo, correggo la punteggiatura, la forma, poi verifico la pubblicazione. Ma una cosa è dettare, un’altra è scrivere, anche perché da un aggettivo ne viene fuori un altro mentre lavori sul testo. Ho ammesso più volte che per un bel giro di frase sono anche disposto a dare una direzione diversa, a volte quasi opposta, al senso che avevo immaginato per il mio articolo. Del resto, più o meno meritatamente, mi hanno attribuito il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura, quindi temo molto di perdere la qualità dello scrivere. I miei amici dicono che non è successo, ma sono di parte. Se leggo testi scritti dieci anni fa mi sembrano linguisticamente migliori. 

G.T. Sonno e sogni. Potenziati da questa condizione di cecità?

M.F. Si, certamente. Borges, che come sappiamo divenne cieco, non sognò per tre anni e per questo era assolutamente disperato. All’inizio della malattia il sonno è stato un rifugio. Se dormi, la tua malattia non esiste più. Ma i sogni, talvolta, sono inquietanti….

G.T. Stimolano la memoria, comunque. Penso al racconto dell’estate 1960. Bagni Umberto a Savona. Tutto perfettamente a fuoco. L’hai inserito nel libro per il piacere di ritrovare, da non vedente, ogni dettaglio del passato? 

M.F. Quanti secoli abbiamo impiegato per uscire dall’infanzia? Per uscire dall’adolescenza? Molto tempo. Perché il tempo procede in una progressione particolare. Negli anni della vecchiaia scorre più velocemente mentre le giornate sembrano più lunghe. Meno impegni, molti vuoti. Non so dire se il ricordo assume rilevanza a causa dell’età o della cecità. Walter Tobagi mi aveva soprannominato, con affettuosa ironia, “Passato è bello”: ho sempre avuto un occhio rivolto al passato. Il futuro mi ha sempre fatto orrore. Così, forse, questa precisione fotografica nel ricordare è una inconscia rivincita che mi prendo da non vedente. I dettagli sono importantissimi nel nostro mestiere e ai dettagli bado molto”.

G.T. In Cieco racconti del primo amore. Poi citi De André, Le passanti. Rinunciare al corteggiamento, al gioco di sguardi è insopportabile?  

M.F. È devastante. Passeggiando sento voci di donne, di una ragazza. Intuisco una freschezza, immagino un aspetto fisico. Ma il gioco di sguardi mi è vietato. Se a questo aggiungiamo che sono un voyeur compulsivo, misuriamo l’entità della fregatura. È vero, come dice De André, che lo sguardo di un attimo poteva valere una vita e invece non ne abbiamo fatto nulla. Ma è anche vero che alcune storie d’amore sono nate proprio da uno scambio di sguardi. Nel 2015, appena terminato di scrivere Una vita pensai alla Recherche di Proust. La morte al termine della stesura del testo. Pensai, persino augurandomelo, potesse accadere a me la stessa cosa. E comunque dichiarai di non voler più scrivere. Mi arrivò una lettera inviata da un giovane giornalista, cieco dalla nascita, che mi invitava a cambiare idea. Gli risposi con delicatezza. Ma se avessi dovuto farlo “finianamente” avrei dovuto scrivere: certo, un cieco può fare moltissime cose, tranne vedere”. 

G.T. Scrivi: felicità è una parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata. Però poi la usi a proposito di te stesso di fronte al mare…

M.F. Il mare per me è sempre stato taumaturgico. Per noi che siamo nati al di qual delle colline, come canta Paolo Conte, come scrive Cesare Pavese, il mare è mitologico. Da ragazzo dopo una sbronza pazzesca mi bastava cacciarmi in acqua per uscire come se non avessi bevuto. Il mare è importante anche in questa mia situazione. Non vorrei fare paragoni blasfemi ma perché Nietzsche a Rapallo si consolava accendendo falò sulla spiaggia? C’erano solo tre colori: l’azzurro del cielo, il blu del mare e il verde cupo delle colline. Sono toni che, a fatica, riconosco ancora e quindi per me è come sentirmi sano. Soprattutto in quell’ora sospesa che sta tra il giorno e la notte. Tempo sospeso, appunto. Di notte ho scritto tutti i miei libri. Lavori dentro uno spazio infinito, silente. Il tempo per me ha un valore enorme e il vero peccato è sprecarlo. Quindi, per una facile conseguenza, confesso di detestare quelli che vedono e non sanno usare la propria vista.

G.T. Scrivi della stanchezza del vivere. È tutto vero o è una mezza bugia?

M.F. Purtroppo è una verità. Questo libro è una sorta di De Profundis. Ho avuto poco tempo fa una segretaria giovanissima e molto capace. Disse: non so se augurarti di vivere più a lungo sia un buon augurio. Il paradosso dei paradossi è che sono cieco ma fisicamente sanissimo. Mi sono fatto un’idea: che questa malattia mi abbia protetto dalle altre.

G.T. Infatti, di quell’ “anarcoide russo mezzo pazzo”, come ti definì Giorgio Bocca molti anni fa, vedo ancora delle tracce…

M.F. Finché sono vivo spero che qualche traccia anarcoide rimanga. Io non sono una persona duttile. È un difetto e al tempo stesso una forza. Sono rimasto fanciullescamente lo stesso, nonostante tutte le esperienze attraversate. Sono ancora piuttosto ingenuo di fronte alla vita, anche se a questo punto chiunque mi può fregare. Mi piace ancora catturare l’attenzione altrui attraverso un processo mentale. Il fatto è che una persona devi riuscire a catturarla e questa attività è ormai compromessa. Resta la parola…con la parola me la cavo ancora.

G.T. Insomma, potrà arrivare un altro libro, domani o dopo. In fondo, che ne sappiamo del nostro futuro?

M.F. Noi pensiamo che il futuro sia lineare. Il mondo occidentale sembra destinato al collasso, basato com’è sulla crescita esponenziale. Ma in realtà non funziona così, accadono fatti che non possiamo immaginare. Nella vecchiaia c’è sempre l’imprevisto in agguato. In negativo molto spesso. Ma può essere anche in positivo. Un altro pensiero mi viene in mente: spesso da un male può nascere un bene. Quando castrarono il mio Cyrano dalla televisione, decidemmo di trasferirlo in teatro e ci divertimmo moltissimo. Credo che il tema sia legato alla vitalità residua. Comunque, devo stare attento perché quando le cose vanno bene sono in allarme. Temo una ritorsione, una punizione. Sono agnostico ma, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Non riusciamo mai o del tutto a uscire dalla cultura cattolica. 

G.T. Cosa sei contento di non vedere?

M.F. Di non vedere me stesso che invecchio, allo specchio.

ARTICOLO n. 37 / 2023

TRA ARTIFICIO E ARTIFICIO

A ripensarci sembra passato molto più tempo, forse perché l’interesse è durato pochi giorni, durante i quali, tuttavia, pareva non esistesse nient’altro. 

Era la fine d’autunno, un autunno mite che sarebbe diventato un inverno altrettanto mite; telegiornali, quotidiani, settimanali riproponevano le immagini di un uomo risalenti a un periodo estivo, immagini che suggerivano l’allestimento della felicità accaduta in estate.

L’uomo era ritratto spesso da solo. In una fotografia era pronto alla guida di una cabriolet. La fotografia era stata scattata da una posizione poco al di là dello specchietto retrovisore destro. La cabriolet era ferma in un parcheggio, l’uomo sorrideva e guardava davanti a sé portando le nocche della mano destra al mento incorniciato dalla barbetta chiara; i capelli sembravano di un biondo naturale, eredità degli anni d’infanzia; l’uomo indossava una maglietta blu della stessa tinta del sedile; due palme erano riflesse, rimpicciolite, nel parabrezza pulitissimo. Poteva essere la scena pubblicitaria di una qualsiasi merce: shampoo, auto, finanziamento a tasso agevolato necessario per acquistare un desiderio. 

E invece era la vita dell’uomo.

In altre fotografie l’uomo era in barca, navigava in un punto del Mediterraneo, la Grecia o l’Italia; erano selfie in costume, gli occhiali da sole con una montatura bianca, una catenella d’oro scendeva dal collo, il crocifisso d’oro adagiato sul petto; capitava che qualcuno scattasse le fotografie in barca, e allora l’uomo appoggiava una mano al timone; sullo sfondo, un’isola o un promontorio, il paesaggio allontanato da qualsiasi tentazione omerica: il mare blu, ancestrale, certo, ma la schiuma bianca a poppa era abbinata alla camicia altrettanto candida, le maniche arrotolate, i bermuda panna.

A volte l’uomo era in compagnia della donna con la quale aveva una relazione. Alcuni giornali hanno evidenziato la differenza d’età inserendola tra parentesi – (9 anni), (nove anni) – per sottolineare ciò che, di solito, è trascurato qualora un uomo abbia nove anni più di una donna. 

La donna ricopriva un’importante carica nel Parlamento Europeo; l’uomo, invece, lavorava come assistente di un parlamentare europeo. 

Nelle fotografie pubblicate, loro due, assieme, non comparivano mai durante le rispettive attività al Parlamento Europeo. Le immagini privilegiavano la vita quotidiana. Un po’ di vacanze, un selfie di coppia nel deserto o forse su una spiaggia così sabbiosa da sembrare un angolo di deserto; e poi lo shopping, la foto di una conversazione effettuata sui gradini di una scala, l’uomo stringeva il sacchetto contenente – a giudicare dal marchio impresso sul sacchetto – un costume da mare di alta qualità. La maison, fondata a Saint-Tropez nel 1971, “crea pezzi estivi per ogni istante e per ogni personalità. Che si tratti di costumi da bagno o short chic, questi costumi da uomo, di alta qualità esprimono sempre il motto senza tempo della maison: lusso, sole e libertà”.

Lusso, sole e libertà. In quest’ordine. Adesso, dopo alcuni mesi di prigione, l’uomo e la donna sono agli arresti domiciliari. L’uomo indossa il braccialetto elettronico, poiché, oltre alle fotografie della cabriolet, della barca, delle vacanze, dello shopping, sono arrivate le fotografie di valigie piene di soldi, di tavoli colmi di banconote suddivise a seconda del taglio: 10, 20, 50 (la maggioranza), 100, 200 euro. E tuttavia qui l’interesse non è investigativo e giudiziario, ma per un altro selfie dell’uomo. Un selfie vicino al punto in cui ho edificato l’immaginario luogo letterario di Cortesforza. 

Doveva essere pomeriggio. A giudicare dagli alberi carichi di foglie verdi sullo sfondo destro dell’immagine, è probabile che fosse un pomeriggio primaverile, e a giudicare dalla luce, è probabile che fossero le 17:30 di un pomeriggio d’aprile, e a giudicare dalla quantità di persone lungo la stradina agricola costeggiante il naviglio – stradina agricola che è considerata, in modo improprio, pista ciclabile – è probabile che fossero le 17.30 di una domenica d’aprile, una domenica d’aprile dalla meteorologia variabile. 

L’uomo indossava un maglione azzurro, di cotone, con lo scollo a V e un marchio indistinguibile a sinistra, poco al di sopra del cuore. L’uomo ha scattato il selfie restando sul bordo della stradina agricola, lungo la linea bianca continua. Alle spalle dell’uomo, un campo appena seminato, e in cielo, una nuvola gigantesca sopra i capelli biondi mossi dal vento. Il lato destro dell’immagine era riempito dal naviglio: in quel punto l’acqua è bassa e scorre placida. La vegetazione lungo l’argine era riflessa sulla superficie. Sfuocati, lungo la stradina agricola, a una cinquantina di metri alle spalle dell’uomo, alcuni passanti ignari, anonimi, una macchia finita sui giornali di tutto il mondo. La luce, nonostante la nuvola enorme nel cielo, consolidava la sensazione di un’esistenza serena, domenicale. E per quanto l’uomo fosse lo stesso delle foto in barca o alla guida della cabriolet, qui, nel selfie di Cortesforza, sembrava più giovane, un giovane uomo carico di promesse, quasi ragazzo, che voleva farsi un selfie attraversando i luoghi in cui è nato e cresciuto, luoghi così diversi da Bruxelles, dal Parlamento Europeo, dal timone di una barca nel Mediterraneo. 

Nel 2007, quando ho inventato Cortesforza, ho pensato a Elio Pagliarani. Come è noto Elio Pagliarani (1927-2012) era nato a Viserba, a pochi chilometri da Rimini. Ce lo ricordava lui stesso, nel testo Pagliarani Elio, pubblicato in Autodizionario degli scrittori italiani (Leonardo, 1990), ripubblicato nel 2019 da Il Saggiatore, in Tutte le poesie (1946-2011), a cura di Andrea Cortellessa. Leggiamo a pagina 475: «Romagnolo di nascita (…) Nel frattempo però il suo paese natale (Viserba di Rimini, 1927) non c’è più, è scomparso (…) Adesso non c’è più soluzione di continuità tra Rimini e Viserba, è tutto un Rimini Nord, tutto alberghi e pensioni, una zona balenare un po’ più popolare di Rimini centro, con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere». 

Molti anni fa, ripetevo è tutto un Rimini Nord se mi smarrivo in svincoli caotici, o se infilavo le mani dentro lo zaino, alla ricerca, vana, di qualcosa; e allora è tutto un Rimini Nord, ovvero è tutto uno svincolo, una bretella, una rampa di raccordo, una rotatoria indistinta dalla quale è impossibile uscire.

Ho cercato la mia Rimini Nord sapendo che prima o poi sarebbe stata distrutta da una delle molte autostrade e superstrade lombarde. 

Cortesforza, plastico immobiliare, ridimensionamento della Storia – minuscola di Sforza unita a una corte inesistente – e luogo smemorato, di transito, luogo interstiziale di una comunità posticcia, appartenenza nello sradicamento; Cortesforza e la casa, unico bene, la casa e nient’altro, luogo nel quale non serve nemmeno più il desiderio della merce, poiché il luogo è diventato merce.

Ora, dentro quel luogo immaginario, la realtà sta per arrivare sotto forma di superstrada. La realtà asfalta la letteratura.

L’ubicazione del beneuscito per Einaudi nel maggio 2009, è il libro ambientato a Cortesforza. Dopo la seconda edizione, il libro non è più stato ristampato, da quattordici anni è reperibile solo in ebook. Forse, per essere coerente con quanto accadrà a quel luogo immaginario nella realtà, dovrei interrompere la pubblicazione anche degli ebook, in modo che Cortesforza scompaia.

In attesa di essere distrutto, il luogo immaginario di Cortesforza sarà ancora per qualche tempo un’area topografica precisa, la zona del selfie dell’uomo, il selfie finito su tutti i media d’Italia e del mondo. Per Cortesforza, in particolare, ho pensato a un campo ubicato a metà strada tra il condominio in cui ho vissuto – da bambino e ragazzino – e il ponte dove Michelangelo Antonioni ha girato, nel 1950, la splendida scena di Cronaca di un amore, durante la quale i personaggi interpretati da Massimo Girotti (Guido) e Lucia Bosè (Paola) progettavano l’omicidio del marito di Paola, laddove alcuni operai lavoravano, pochi metri più in basso –  a un centinaio di metri di distanza – all’interno del naviglio in secca. 

Il giorno in cui l’uomo si è fatto il selfie, il naviglio non era in secca. L’irrigazione di questa zona è un sistema di chiuse progettato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci. Ma il reticolo di rogge, fossati e fontanili, risale all’opera dei monaci cistercensi francesi del XII secolo, le cosiddette marcite, terreni irrigati in permanenza: la temperatura dell’acqua protegge l’erba, che cresce anche nei mesi invernali, assicurando cibo fresco per gli animali.

I campi sono delimitati secondo un ordine millenario, costituito da filari di pioppi e da coltivazioni stagionali. I filari degli alberi, disposti lungo i fossati, appartengono a un criterio, a una trama, con al centro le cascine o ciò che resta delle cascine, le stalle dei pochi animali allevati, i fienili, le coltivazioni. 

L’armonia ereditata si percepiva alle spalle dell’uomo, ma tutto ciò che era alle sue spalle nel selfie già da molti anni è destinato alla distruzione, per trasformare quei luoghi agricoli in una superstrada diretta all’aeroporto di Malpensa; progetto ventennale eppure desueto, che tuttavia distruggerà un millennio di civiltà umana, distruggerà la terra per sostituirla con altri capannoni, altri centri commerciali, il vero obiettivo della superstrada: ciò che nella spietata lingua burocratica italiana, intrisa di gergo aziendale, diventa “valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse”.

Chissà come parla l’uomo del selfie a Cortesforza, quali sono i tic verbali, le parole abituali, cosa pensa della superstrada e della zona in cui è nato e cresciuto, la zona del selfie a Cortesforza. Di lui si conoscono soltanto le fotografie. Non ricordo un’intervista, una dichiarazione ai cronisti dopo un interrogatorio. Del resto, prima delle disavventure giudiziarie l’uomo esisteva nell’anonimato mediatico come assistente di un parlamentare europeo. L’uomo era uno di quei collaboratori senza nome, quelli che si notano appena al fianco dei politici durante le riunioni, collaboratori che suggeriscono qualcosa accostandosi all’orecchio. E tuttavia, l’uomo esisteva nel piccolo ecosistema del Parlamento Europeo in quanto fidanzato della donna che ricopriva l’importante carica in quella istituzione; forse, la disparità di posizione all’interno della coppia ha autorizzato i media italiani a dare, come sempre, il peggio di sé, senza che nessuno avesse qualcosa da dire, poiché le medesime dinamiche linguistiche, per molti decenni, sono state applicate alle donne, e allora le guardiane e i guardiani del linguaggio contemporaneo hanno taciuto, a proposito di: “il bel fidanzato”, “il biondo 35enne”, “il biondo 35enne istruttore di vela”, “scopatore inflessibile”, “Mister Europarlamento”, “il surfista dell’Idroscalo”, colui che “sogna di comprarsi una barca da emiro”. 

Ma questo appartiene alla tristezza passeggera italiana, sempre pronta a farsi ammaliare da una nuova tristezza, tristezza nazionale che distrae. 

Pensiamo invece alla tristezza definitiva, la fine di questa piccola parte del pianeta.

«Il popolo italiano è sempre stato un grande costruttore di strade perché è un popolo a tendenza universale. Le strade consolari che partivano da Roma e arrivavano fino agli estremi limiti del mondo conosciuto erano le strade sulle quali correva la grande civiltà. Esaltiamo il lavoro. Esaltiamo coloro che lavorano col braccio. Tutto il nostro Paese deve diventare un cantiere, un’officina». 

Così parlava Mussolini, in un giorno di marzo, nel 1923. Subito dopo aveva affondato il piccone nel terreno della campagna di Lainate, in modo che i fotografi potessero ritrarlo. Era la prima zolla del cantiere autostradale della Milano-Varese. 

Dopo il gesto dimostrativo, quattrocento sterratori armati di badili e picconi avevano iniziato a lavorare, i cavalli avevano trainato rimorchi carichi di frammenti di pietra provenienti da rocce un tempo compatte, quasi indomabili, che sarebbero divenute grani del catrame: era nata così l’Autostrada dei Laghi, considerata la prima autostrada del mondo.

È passato un secolo, l’inaugurazione di un’autostrada o di una superstrada contemporanea non è molto diversa da quella del settembre 1924. La banda suona l’inno nazionale. Le forbici d’oro tagliano il nastro tricolore. I fotografi urlano, presidente, per favore, si giri da questa parte, presidente, grazie! 

Eccolo, giacca e cravatta e casco da operaio dei cantieri, il politico contemporaneo, sottomesso alla retorica del nuovo e alla lingua del passato (“Tutti voi che siete qua, autorità tutte”) con l’aggiunta di un surrealismo deresponsabilizzante (“È l’asfalto che passo dopo passo è andato avanti”) e di anglicismi prelevati dalle aziende (“project financing”)

E così, a parte l’imbellettamento anglofono, le strade comunali e provinciali sono punteggiate di buche o rattoppi frettolosi, come se il potere, anche quello locale, attendesse una grande opera per occultare incuria, indolenza, incapacità.

Le grandi opere di questi anni italiani sanciscono il ritorno alla monumentalità che bilancia, in apparenza, la spinta inesorabile verso il frammento, la disintegrazione, la scomparsa. La massima visibilità, o niente. Chi ha voglia di occuparsi della manutenzione dell’ordinario, del piccolo? La grande opera è il potere esposto, il marchio, il logo dell’autorità. La grande opera, anche qualora sia banale ed equivalente ad altre, è riconoscibile, ma è sempre una riconoscibilità di cui si perde il senso originario. La grande opera rimanda, come tutti i marchi, a sé, conquista l’immaginario, la parola, e ammutolisce il resto. 

La superstrada anacronistica interesserà il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano. La superstrada voluta dai politici – locali, regionali, nazionali – che più di tutti ripetono parole come radici, valori, tradizioni. È la lugubre destra italiana. Ma l’altra parte politica? L’altra parte politica, che amministra il Comune di Milano, dovrebbe occuparsi anche della Città Metropolitana di Milano coinvolta dal progetto della superstrada, e invece è disinteressata a tutto ciò che accade appena al di là dei confini cittadini, e si preoccupa che le auto non entrino in città per gratificare il sogno progressista del proprio elettorato: credere di trovarsi in una metropoli davvero internazionale.

E così, mentre il Comune di Milano ipotizza un limite di velocità di trenta chilometri orari, e pubblicizza la nuova edizione di Milano Green Week, “una manifestazione bella, ricca, partecipata (…) una manifestazione di play street sul modello del Parking Day”, ecco che a quindici chilometri dal confine comunale, nella Città Metropolitana di Milano, continuano gli espropri dei terreni delle aziende agricole, gli espropri di ettari ed ettari da asfaltare per la superstrada e ciò che seguirà: transito di camion e furgoni e auto che peggioreranno, se possibile, la già pessima qualità dell’aria più inquinata d’Europa; aria che peggiorerà anche dentro il capoluogo, poiché l’aria, per fortuna, non conosce confini.

È una visione molto simile a quella di Jovanotti. In un post su Facebook, del 10 agosto 2022, Jovanotti ha risposto a una lettera di Mario Tozzi, il quale, con toni molto accondiscendenti, aveva sottolineato alcuni aspetti negativi del Jova Beach Party. «Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (…) fosse per me la spiaggia di Budelli (…) e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili, tipo Gioconda al Louvre, guardare non toccare».

Ha ragione Jovanotti nel dire che sono luoghi popolari, anche se nessuno di quei luoghi sostiene, di solito, cinquantamila persone pigiate, che saltano e ballano in poche ore di concerto, senza contare il lavoro invasivo di preparazione e smantellamento, prima e dopo l’evento. 

È ovvio, un concerto di Jovanotti non è devastante come una superstrada.

Ma quella di Jovanotti – l’intoccabilità dei luoghi Gioconda a discapito di altri – è la stessa concezione contemporanea del paesaggio alla milanese, che propone un nuovo piatto, anzi, piattino: zolla alla milanese – biologica – coltivata all’interno dei confini comunali (meglio ancora se all’interno dei Bastioni).

Il problema non è soltanto l’uso dell’automobile, dei furgoni, dei camion, non è soltanto gli aerei che volano in questo cielo. È qualcosa di più profondo. L’occultamento del paesaggio, ciò che circonda la figura umana. 

C’è una centralità assoluta del personaggio ritratto, ma il personaggio contemporaneo è isolato dal contesto, si accontenta di essere il protagonista di un monologo che ha la consistenza di un coro stonato, in cui ognuno parla per proprio conto, diventando comparsa, rumore di fondo, come è accaduto all’uomo del selfie di Cortesforza.

Oggi è l’ultimo giorno di secca nel naviglio. Tra poche ore l’acqua tornerà, con una portata molto minore a causa della siccità, ma tornerà, come l’uomo del selfie di Cortesforza, quando finirà di scontare la pena. 

E tuttavia, oggi il naviglio è ancora in secca. Una giovane coppia, a una trentina di metri da me è appoggiata al parapetto di cemento. Apprezzo il loro impulso per nulla sentimentale – chissà se davvero consapevole o casuale – di sbaciucchiarsi presso l’incrocio di due canali vuoti. 

Il ragazzo estrae dalla tasca uno smartphone, i due si fotografano abbracciati, escludendo tutto il resto, il punto in cui arriveranno la superstrada e la campata del ponte di seicento metri che squarcerà Cortesforza. Si guardano nel piccolo schermo, poi fissano per qualche istante il vuoto, la realtà. Forse, liberate dall’immagine, le carezze della coppia racchiudono una speranza più forte dell’immediata gratificazione personale. 

«Predicano sempre il molteplice che sta alle loro spalle», avrebbe detto Zanzotto. Un tempo avrei detto, certo, la ricerca di un equilibrio tra artificio e natura.

Ora non più. È troppo tardi per quello.

La ricerca di un equilibrio. Tra artificio e artificio.

ARTICOLO n. 36 / 2023

C’È CHI DICE NO

Leggo la rassegna ancora distesa a letto, appena sveglia.

Seleziono i giornali principali escludendo sapientemente quelli che so che mi darebbero mal di stomaco fin dalle prime ore del giorno.

Controllo prima la politica, poi la cronaca, poi gli esteri e infine la sezione cultura.

Spulcio tra una testata e l’altra e cerco di vedere come le stesse notizie vengano affrontate in modi differenti.

Mi soffermo sempre sulle interviste. Mi piacciono le interviste.

È a tutti gli effetti una deformazione professionale: da quando ho iniziato a farle, a porre domande ai miei ospiti in radio, nelle presentazioni e a Basement Café mi sono ritrovata spesso a curiosare tra le domande degli altri, cercando di leggere tra le righe i non detti degli intervistati, cercando anche – perché no – alcuni spunti per i prossimi lavori.

Negli ultimi tempi – mesi? anni? orientativamente dall’immediato post-lockdown, ma potrebbe essere iniziata prima, questa tediosa tendenza – noto sempre più interviste simili tra di loro.

Sono quelle rivolte a piccoli, medi e grandi imprenditori che dovrebbero servire per analizzare lo stato di salute del mondo del lavoro italiano.

Queste interviste – tutte molto brevi, tutte molto compatte tra di loro – sono corredate da titoli che suonano come accorati appelli alla popolazione: “Offro tot soldi ma nessuno vuole lavorare”.

Sottotitolo, opzione uno: “Il reddito di cittadinanza ha ucciso l’entusiasmo”.

Sottotitolo, opzione due: “I giovani preferiscono divertirsi o stare sul divano”. A volte i due possono essere fusi in una sola frase del tipo: “Il reddito di cittadinanza ha reso i giovani pigri”, crasi tra le preferite dai maggiori quotidiani nazionali.

Nel corpo dell’intervista, gli imprenditori disperati raccontano di quanto prima (unità di tempo non chiarissima, potrebbe riferirsi al tempo del boom economico come al pre-Covid) non fosse così, come prima le persone non si tirassero dietro davanti alla possibilità di lavorare anche a costo di spaccarsi la schiena.

Subito dopo questo o tempora, o mores, gli imprenditori del caso (si va dal proprietario di un pastificio a gestori di locali, ristoranti, bar, stabilimenti balneari) raccontano sempre quanto sarebbero disposti a pagare i lavoratori.

Ho letto che un cuoco avrebbe rifiutato 63mila euro lordi, di bagnini che avrebbero detto no a tremila euro al mese, di camerieri e cameriere impossibili da trovare a 1600 euro contrattualizzati.

Nei commenti a questi articoli si scatena dunque sempre un incontrollabile panico generazionale.

Chi è nato durante il boom economico non comprende la svogliatezza dei giovani, chi ha lavorato negli anni ’90 non capisce perché questi ragazzi siano tutti così viziati, noi Millennials, invece, sorridiamo sornioni.

Già, perché mentre i nostri genitori godevano del boom economico e di un ascensore sociale in pienissima attività, noi abbiamo capito subito che le cose erano due: lacrime nostre o lacrime nostre – scusa, Elodie.

Dopo due crisi economiche vissute sulla nostra pelle, dopo aver studiato molto più di qualsiasi altra generazione precedente alla nostra, ci siamo ritrovati con un pugno di mosche in mano, ascensore sociale murato, lavori sottopagati e la falsa promessa di un roseo futuro per chiunque avesse aperto una partita iva – spoiler: non fatelo.

Abbiamo quindi imparato ben presto a riconoscere le bugie sul mondo del lavoro, quando queste ci vengono raccontate.

Siamo la generazione con più lavoretti saltuari mai esistita, siamo stati ovunque: dai social alle cucine, dagli uffici alle vigne, dai bar agli studi in cui ci facevano fare stage non retribuiti in vista di future assunzioni che non sarebbero mai arrivate, dalle università allo spaccio di droga per riuscire a pagare un affitto. 

Per questo le parole degli affranti, inconsolabili imprenditori ci suonano come le scuse di Pinocchio dopo esser scappato con Lucignolo verso il paese dei balocchi.

Sappiamo infatti che il famoso contratto che prometterebbe 1600 euro per una settimana lavorativa di 48 ore nell’HORECA con un giorno di riposo nasconde delle zone grigie non trascurabili.

Innanzitutto, la questione straordinari: nei pub, nei cocktail bar e nei ristoranti è difficilissimo calcolare le ore extra effettuate, e solo rarissimamente queste vengono pagate. Subito dopo gli orari: l’imprenditore dell’intervista – che gestisce un pub – dovrebbe sapere che chi fa il lavoratore notturno non ha una socialità (lavorando ogni sera tranne una – il lunedì, che in Italia è la chiusura dei cocktail bar e di quasi tutti i ristoranti – non esistono aperitivi con gli amici, le cene fuori, le serate sul divano, il cinema, il teatro, la birra in piazza, gli appuntamenti romantici), non ha facilità nell’accedere ai servizi più basilari (banca, posta, palestra, spesa, medico, nido, parrucchiere, dentista, centri di analisi ASL, determinati negozi aperti solo al mattino) e non ha garanzia di non essere esente da ore extra durante il giorno (gestione di fornitori, lavanderia, frutta, carico e scarico merce, aperture straordinarie e varie ed eventuali vengono tutte svolte in diurna). 

Perciò, in un momento storico di inflazione alle stelle, crisi economica, affitti raddoppiati rispetto ai primi anni 2000, con 1600 euro che in busta paga diventano poco meno di 1300 per un totale di 8,33 euro l’ora, non se ne voglia a male, questo buon samaritano, ma a noi ci scappa proprio da ridere. 

Se vent’anni fa con uno stipendio di questo tipo potevi affittare una bella stanza o un monolocale, oggi, nella stragrande maggioranza delle città italiane, puoi permetterti un posto bici nel cortile condominiale e le spese per le bollette di luce e gas. 

Simile ma a tratti più inquietante è il discorso per il povero bistrattato cuoco che avrebbe rifiutato i 63mila euro del contratto sopracitato.

Leggendo l’intervista a Gabriele Cartasegna – direttore del Capac di Confcommercio – viene fuori che questa offerta sarebbe stata fatta a uno chef appena formato.

Oltre alla puzza di bufala – non il formaggio, scusate il gioco di parole non voluto: stipendi come quello millantato dal direttore del Capac li vedono gli executive chef di alto rango, non cuochi appena formati – evidentemente a Cartasegna sfugge quanto sia snaturante e alienante la vita di una brigata di cucina, con orari impossibili, caldo micidiale, turni serratissimi, sforzi fisici costanti e una media di 12 ore lavorate al giorno, nonostante il tetto massimo settimanale sia di 48.

Non mi stupisco dunque se negli ultimi due anni il 30% della forza lavoro impiegata in bar e ristoranti si sia data alla fuga insieme agli altri grandi sfruttati del terziario, ovvero gli stagionali: in condizioni di lavoro prive di tutela, prive di rispetto e spesso prive di legalità (il famoso mezzo stipendio in busta paga e l’altro mezzo in nero in busta di carta) perché fare dei lavori che per quanto magnifici ci facciano rimanere poveri e per giunta privi di una qualsivoglia vita sociale?

La risposta è logica e davvero banale, ovvero: per nessun motivo. 

Soprattutto in un’epoca in cui per vivere servono ben più di 1200 euro in busta paga: 800 vanno in affitto, gli altri in bollette, non ci vuole Pitagora per capire che in questo momento storico uno stipendio del genere sia davvero anacronistico.

Eppure ai giornali piace strizzare l’occhio a Confcommercio e Confindustria, leccando un po’ di culi ai piani alti, pubblicando l’imprenditore che piagnucola perché i giovani non hanno più voglia di sporcarsi le mani.

Ma i giovani hanno ben più consapevolezza della situazione in cui versano i lavoratori e il mercato.

Sicuramente ben più di chi ha ereditato aziende o soldi dalle generazioni precedenti.

La morte del settore terziario, ricchissimo di lavori meravigliosi come quello del bartender, di chi serve in sala, di chi lavora nelle brigate di una cucina, sta morendo non per colpa dei lavoratori, ma per chi lo ha svenduto rendendolo un luogo inospitale.

Ma il vecchio adagio dei tempi che, signora mia, non sono più quelli di una volta, i giovani sono tutti scansafatiche, sarà la droga, guardi che capelloni, è un format funzionale e brevettato per non ascoltare i giovani, che del lavoro dovrebbero essere i protagonisti. 

Silenziando i giovani, screditando la loro professionalità e, di conseguenza, i loro sogni e bisogni, i nostri eroi di Confindustria e Confcommercio non dovranno muovere un dito. 

Già, perché in tempo di post-pandemia e con un tasso di povertà alle stelle, per ogni rifiuto a contratti di merda ci saranno almeno due persone che non possono permettersi di rifiutare quelle condizioni.

E questo perché il mercato del lavoro si nutre da sempre della manodopera dei più poveri con questi trucchetti da banditi e ladroni che permettono ai salari di rimanere invariati: tanto basta scavare nelle classi sociali sempre più povere e sempre più sole.

Per questo mi viene da dire – non ai cravattoni con la lacrima facile, ma ai giovani che sognano un futuro migliore – che, fin quando sarà possibile, per quanto vi possa essere possibile, rifiutate le proposte di chi gioca sui vostri diritti, tempo, energia.

La mia generazione è collassata sotto queste false promesse, mangiata e divorata da sciacalli che diventavano sempre più ricchi mentre noi non riuscivamo a mettere da parte neanche due euro.

La mia generazione, quella del lavoro in nero e dei voucher INPS, ha guardato passivamente a tutto questo, rimanendo inerme mentre ci levavano ogni cosa promettendoci però il mondo, per farci rimanere buoni, dei bravi schiavi.

Sono orgogliosa ogni mattina quando vedo le reazioni dei social media ai piagnistei dell’imprenditore di turno, perché vuol dire che il futuro è sempre meno fesso di noi, dei nostri fratelli più grandi e pure di quelli che abbiamo sempre chiamato geni, ovvero i baby boomer.

In questa giornata dal valore così prezioso che stiamo svendendo (guardate come si è ridotto il concertone del Primo Maggio a Roma: sembra Sanremo, ha perfino gli stessi sponsor) mi viene da dire bravi voi, che non vi fate infinocchiare dal sistema.

E ai miei coetanei vorrei ricordare che cosa eravamo e siamo ancora oggi: se abbiamo imparato una cosa dalle generazioni precedenti è il non fare come loro hanno fatto con noi. Perciò ascoltiamo la generazione Z, affianchiamola nelle giuste battaglie che riguardano il lavoro e il clima – che vanno di pari passo – e vi prego. Ve ne prego. Non diventiamo i prossimi che frignano dalle pagine di un giornale.

Il lavoro è un diritto, ma la dignità lo è ancor di più.

Tolta la nostra che ormai è andata in malora, garantiamola a chi verrà dopo di noi interrompendo questa catena di odio generazionale che ha creato solo nuovi schiavi di nuovi padroni.

Capisco solo oggi che quelle lacrime di coccodrillo che leggo ogni mattina dalle pagine dei giornali hanno un nome ben preciso: quel nome è ricatto.

E sono davvero fiera che nessuno, dopo noi Millennial, ci stia più cascando.

ARTICOLO n. 35 / 2023

NON SPARIRÒ COME LILA

A proposito de "L’amica geniale"

Pubblichiamo un’anticipazione dal libro di di Marina Pierri, Lila. Attraverso lo specchio (Giulio Perrone editore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Cammino avanti e indietro su corso Vittorio Emanuele: il salotto buono di cui ogni città è provvista. Cammino tra le palme che grondano semi marrone scuro dalle bisacce nere. È mezzogiorno e devo salire da mio padre. Dobbiamo pranzare assieme, come sempre facciamo quando torno a casa, a Bari. Ma non riesco. Mi siedo su una panchina. Mi alzo. Mi inerpico sulla salita Miramare dove andavo a limonare con il mio ragazzo nell’ultimo anno di liceo. Fa freddo, o forse fa caldo, non mi ricordo. I miei genitori sono separati da quando sono piccola e a oggi, a quarantadue anni, nelle visite frequenti alla mia città natale vado e vengo, vengo e vado, da due appartamenti diversi. Casa mia, o almeno le mura cui attribuisco quello specifico significato, è a Milano. 

Sono Elena Greco: fuggo di casa a diciotto anni. Sono Raffaella Cerullo: resto.
Sono Marina Pierri e sto ascoltando in cuffia il quarto volume de Lamica geniale, da cui non riesco a staccarmi anche se è ora di pranzo, la pasta si raffredda e io non riesco a citofonare per farmi aprire, perché non riesco a smettere di ascoltare.

Lila ha perduto sua figlia. All’improvviso, la bambina non c’era più. Nunzia detta Tina, quasi una crasi del nome delle bambole di Lila e di Lenù quando erano piccole, Nu e Tina – oggetto di un potente incantesimo di inabissamento – è svanita. Tina, bambola viva, è stata inghiottita dal ventre del rione. Ora pure lei riposa nello scantinato dove dormono le Ombre. 

Sto male per Lila.
Lila mi è entrata dentro e forse serve un esorcismo. Questo libro è il mio esorcismo.

Sulla salita Miramare, mentre ascolto, gli occhi che vanno da tutte le parti, mi ricordo la saliva dei baci di diciottenne; la violenza dell’essere diciottenne e la violenza con cui ricercavo la lingua del giovane uomo androgino, assai bello, che mi aveva intossicata e, poco più tardi, mi avrebbe abbandonata. Per tornare, sì, certo, ma solo dopo avermi regalato la mancanza. Da qualche anno si è sposato e si è aperto un negozio di tè qua vicino. 

Conto i minuti che restano alla fine dell’audiolibro, il quarto volume, Storia della bambina perduta, e sono troppo pochi. 

Nel documentario, che ho assai apprezzato, Ferrante Fever, Elizabeth Strout dà la misura di questa sensazione: allora si esce, e si esce così, dal labirinto della tetralogia? Quando si arriva ai confini del dedalo, diventa chiaro che non ci sarà alcun epilogo edificante per Lila. Non sarà possibile un’inversione delle circostanze. Non nel poco tempo che rimane. Nessuno spazio per un lieto fine. So bene che a sparire finirà per essere Lila stessa, e lo so perché è così che L’amica geniale inizia, con la sua scomparsa. Con la sua mise en abyme, cioè l’inabissamento programmatico che informa l’intera tetralogia. Quando la conosciamo, e non uso il plurale a caso perché questa esperienza non è solo mia, ma di noi tutte, conosciamo già la sua fine. Io questa vicenda l’ho letta, l’ho ascoltata quando dovevo fare altro e dovevo staccarmi dalla pagina, per poi fare ritorno alla pagina, sempre. Ora dovevo fare altro, appunto. Devo fare altro. Devo citofonare e salire a casa di mio padre dove mi sta aspettando il pranzo sul tavolo. Mio padre mi sta aspettando e io non riesco ad arrivare. Perché sono bloccata sulla salita Miramare di Bari insieme ai fantasmi: quello della Marina che cerca la bocca di un uomo bellissimo, che ama più di quanto sia riamata; quello di Tina; quello di Lina. 

Questa bambina, mi dico, deve essere ritrovata. Povera Lila.
Povera Lila. 

Mi faccio male mentre ne ascolto il destino. Non ritroveremo Tina, e non ritroveremo Lina che guarda sempre con gli occhi dell’Ombra. Gli occhi di Lila sono gli occhi dell’Ombra. 

Non può essere; non è giusto, penso. 

Il mare puzza, o profuma, e l’odore vero si salda a quello immaginato delle stanze chiuse dove Lila inizia ad aspettare, a guardare fuori dalla finestra senza poter sperimentare la morte. Piango, ma non mi sfogo. La sensazione è quella di un fazzoletto strettissimo al dito che blocca il flusso del sangue. 

Lila! Ti prego, Lila. Non può essere capitata a te, questa cosa. Dopo tanto lottare, dopo tanto soffrire, dopo tanto resistere alla fine sei stata sconfitta; alla fine ha vinto la tua maledizione su tutte le nostre benedizioni. 

Elena Ferrante: perché? Perché hai fatto questo a Lila? 

Non farò la stessa scelta di Lila, nelle pagine che stai per leggere: non sparirò. 

Ci ho pensato, e ci ho pensato a lungo. Sono il tipo di persona che tende a sparire dietro le idee e dietro i concetti. Faccio fatica a postare un selfie e raccontare la mia vita privata sui social, o anche soltanto i miei sentimenti. In tantissimi momenti preferisco inabissarmi, specie quando faccio fatica a trovare un equilibrio tra il dovere di esprimermi e la necessità di farlo. Ma non me ne vado mai del tutto. Piuttosto rallento, provo a diventare trasparente per riprendere consistenza in uno specchio che è solo mio. Spesso ci riesco. Sono presente a me stessa. E con questa presenza dico ora: non sparirò, in questo libro, dietro la maschera di Lila. 

Sono Marina Pierri e ho scritto un libro che si chiama Eroine, sul Viaggio dell’Eroina. Ho fatto e faccio anche altre cose, che potranno apparire o non apparire in queste pagine. Mi sono affezionata a Lila come tantissime altre persone, come Elena Ferrante. 

Lila è chiave di volta, passe-partout, disegno che tutti gli altri disegni contiene, eppure è più simile a un collage, o a un découpage, come quello che lei stessa sforma, costretta a essere una fotografia in uno spazio – quello del calzaturificio Solara – che non è possibile colonizzare. Ma tutto questo già è noto, già esiste, perché Tiziana de Rogatis, nel suo Elena Ferrante. Parole chiave, lo ha già indagato. A me, quindi, tocca fare un passo al lato, non in avanti; trovare un’altra direzione. Per la precisione, intendo fare due passi, uno a destra e uno a sinistra, o se preferisci uno su e l’altro giù, decidendo di restare brevemente al centro, sulla cosa stessa, su me stessa, sulla mia configurazione unica di essere umano che qui non sparirà come accade di solito nei saggi, brevi o corposi che siano. 

Del resto, io non credo che si possa leggere e guardare Lamica geniale in una maniera che non sia in sé stesse. 

Lamica geniale nasce già intrecciata ai nostri vissuti di donne, di persone, di fruitrici, di autrici, di madri, di non madri, di corpi, qualunque corpo abbiamo. 

La peculiarità de Lamica geniale sta nel suo essere saldata in modo pregresso al nostro genere caricato di valori simbolici, quelli del fantasmagorico femminile o di un femminile fantasmagorico che esiste in primo luogo perché qualcuno o qualcosa ce lo ha consegnato alla nascita come un libretto di istruzioni fatto e finito, che poco margine lascia all’interpretazione individuale. In secondo luogo, come eredità comoda o scomoda che ci fa piangere, perché ci ricorda di tutte le madri che non abbiamo conosciuto e pure sono state le nostre, delle figlie che abbiamo o non abbiamo avuto e sono state le nostre, delle nonne, delle bisnonne, delle trisavole, delle suocere, delle donne oppresse, di qualsiasi oppressione abbiano sofferto. 

Leggere de Lamica geniale, e in particolar modo di Lila, significa questo: guardare nel pozzo del sé profondo e terrorizzante in cui peschiamo per compiere le nostre scelte quotidiane, quelle grandi e quelle piccole; e sapere non con il cervello, ma con la pancia, che questa storia ci appartiene. 

Proprio la sensazione di appartenenza mi ha sempre intrattenuta de Lamica geniale, e non nell’accezione comune di intrattenimento; quell’intrattenimento che al più è un’arma con cui veniamo minacciate di essere petulanti, poco a fuoco, di scarso interesse. Intratenuta nel senso latino: Lila mi ha legata, mi hanno legata tutti e quattro i volumi, forse in particolar modo l’ultimo con una corda che a oggi non so staccare, tanto che ho deciso di scrivere questo libro. Non tanto perché volevo liberarmene ma perché volevo finalmente essere capace di toccarla, la corda, di sentire di quale materiale è fatta e perché ha scelto proprio me. Ma ha scelto proprio me? 

ARTICOLO n. 34 / 2023

LETTERA A GIORGIA MELONI

Cosa si può scrivere oggi sul 25 aprile che non sia la solita riaffermazione impettita e retorica dei valori della esistenza, che non incide più, non è più proporzionale al nostro inquietante presente, dentro il quale ci sarebbe invece bisogno di scaraventare, nuda e cruda, questa ferita che ancora sanguina e che chiama a una resistenza ancora più tridimensionale e più grande?   

Rimuginavo dentro di me questi pensieri, in vari momenti della mia giornata, anche mentre camminavo di notte e persino mentre ero a letto sveglio, e mi venivano in mente mille diverse idee e ispirazioni, perché all’inizio avrei voluto parlare del 25 aprile in modo sghembo, diagonale. Ad esempio, mi era venuto in mente di far dialogare tra di loro due cani che avevano seguito scodinzolando eccitati la fiumana dei liberatori nelle vie di Milano, oppure che si erano trovati sotto i cadaveri a testa in giù a Piazzale Loreto. O addirittura di far parlare i cadaveri a testa in giù, tra di loro o magari con un animale, un cane, un uccellino, far parlare un uccellino con il testone capovolto di Mussolini. Oppure di mettere in relazione narrativa il 25 aprile con qualche avatar da me particolarmente amato: Don Chisciotte, Pinocchio, la piccola fiammiferaia, lo scarafaggio di Kafka… 

Queste e altre cose mi passavano per la mente. E forse ne sarebbe venuta fuori una cosa bella e originale. Però c’era qualcosa dentro di me che desiderava parlare del 25 aprile in modo più implicato, magari scomodo, rischioso, ma personale, diretto, senza abbellimenti. Così mi è venuto in mente di scrivere una lettera scorticata e aperta, e all’improvviso, d’istinto, ho pensato di indirizzare questa lettera a Giorgia Meloni.  

Cara Giorgia Meloni,

ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza in mezzo a fascisti. Mio padre era un militare fascista, che è stato fatto prigioniero in Libia e ha passato sei anni in campi di prigionia in India. È tornato a casa con forti problemi psichici e di alcolismo ed è stato internato in due diversi manicomi militari. Ho passato la mia infanzia a vedergli massacrare mia madre e ho ancora negli occhi l’immagine del suo corpo trascinato per terra e nelle orecchie le sue grida da animale scannato. Ogni tanto usciva dal suo mutismo e raccontava del suo trasferimento con gli altri prigionieri dalla Libia all’India, di quando, ammassati su un camion scoperto, passavano sotto un ponte del Cairo e gli arabi gridavano dall’alto “fascisti” e “Mussolini” e poi “si tiravano su quei loro sottanoni e ci pisciavano addosso”. Tutto questo per dire che sono stato attraversato da parte a parte, non in modo astratto ma viscerale, da questa spaventosa tragedia e che riesco persino a comprendere tutta la disperazione e il blocco emotivo e mentale dei vinti.  

Il fratello di mio padre, mio zio Demostene, era comunista. Era sotto sorveglianza dell’OVRA, era stato arrestato più di una volta ed era infine emigrato in Brasile, dopo essere stato minatore in Belgio e in Istria, da dove, pur essendosi dichiarato comunista internazionalista, era dovuto fuggire per non venire gettato nelle foibe. Però era stato lui che, quando mio padre fu dichiarato disperso, aveva fatto ricerche attraverso la Croce Rossa e aveva scoperto alla fine che era vivo e prigioniero in India. È stato il fratello più amato da mio padre, e viceversa, forse perché tutti e due, ciascuno a suo modo, avevano sperimentato una leopardiana “strage delle illusioni”… Tutte cose che ho raccontato in un libro sulla storia della mia famiglia, intitolato I randagi.

Vivevo in una casa di nobili, perché mia madre, poco più che bambina, spinta come gli altri suoi fratelli alla diaspora dalla miseria della propria famiglia contadina, era andata a bussare alla porta di una grande villa di nobili che c’era nelle vicinanze (quella di San Prospero che si vede in Novecento di Bertolucci) ed era rimasta per tutta la vita con loro, come domestica e poi quasi-figlia. Mio nonno (lo chiamavo così anche se non era veramente mio nonno) votava per il partito monarchico (che alle elezioni si alleava con l’MSI). Però non perdonava a Mussolini di avere istituito la tassa sul celibato, che lui – non sposato e senza figli – era costretto a pagare.

Il mio amico di infanzia e di adolescenza era uno dei figli di un’altra famiglia di nobili che abitavano nel nostro stesso cortile. Era fascista anche lui e una volta, per cercare di convertirmi, mi aveva portato nella sede mantovana del MSI (il MIS, come veniva chiamato allora) dove, a un certo punto, un vecchio laido aveva aperto un baule e tirato fuori il suo antico manganello, tra le risa compiaciute degli altri.   

Alcuni anni dopo, quando ormai avevo preso la strada di mio zio Demostene invece che quella di mio padre e prima di sperimentare anch’io la mia “strage delle illusioni”, in una piccola prigione di transito dell’Oltrepò pavese, prima di entrare nella mia cella e di buttarmi sopra il paglione, un ragazzo della cella vicina mi aveva rivolto la parola con gentilezza. Mi aveva detto di essere fascista ma di sapere chi ero e di essere stato a lungo indeciso se andare dalla mia parte politica oppure dall’altra, perché poteva succedere che, nei ragazzi, queste scelte fossero dettate non da convinzioni lungamente maturate ma anche da suggestioni momentanee, superficiali, comportamentali, emotive, a fare la differenza bastava magari un incontro casuale, un amico ammirato, un ragazzo o una ragazza che affascinavano. E poi questo ragazzo mi aveva allungato un romanzo da leggere, perché potessi distrarmi un po’ nelle mie prime ore da prigioniero. E io allora avevo pensato: “ma guarda, se noi due ci fossimo incrociati in una manifestazione ci saremmo avventati l’uno contro l’altro, mentre adesso che siamo tutti e due nella stessa condizione…” 

E adesso, molti anni dopo, mi dico che forse faceva gioco a qualcuno mettere una parte della mia generazione contro l’altra, che mentre si mandavano avanti dei ragazzi fanatizzati quelli che, dietro, comandavano veramente erano sempre gli stessi, come forse sta succedendo anche adesso, in un momento in cui siamo di fronte a emergenze mai viste prima, addirittura di specie. E invece siamo continuamente rigettati all’indietro mentre dovremmo fare un inconcepibile passo in avanti e inventare e reinventare le nostre vite. Siamo riportati alla paura dell’ignoto e dell’aperto, all’illusione di poter fermare, esorcizzare e pietrificare il mutamento con degli editti, all’irresistibile inclinazione per ciò che vi è di più autoritario e retrivo, veniamo riportati a Dio Patria e Famiglia, a una idealizzata famiglia tradizionale, al bambino che deve avere il suo bravo papà e la sua brava mamma, come se questo fosse il paradiso, e io l’ho sperimentato questo paradiso! Mentre avvengono continue stragi nelle famiglie, mentre si sa che le famiglie sono piene di dolore, come d’altronde possono esserlo anche altre forme di aggregazione umana, nessuna esclusa. Dobbiamo assistere alle parole ipocrite di persone che vivono in tutt’altro modo ma che recitano queste giaculatorie perbeniste alle confuse e spaventate moltitudini trattate come nuove plebi da abbindolare con delle semplificazioni, dei simulacri. E poi… un Dio a cui non credono ma di cui ostentano in modo grottesco i simboli religiosi, l’esasperazione delle identità, la Patria e i suoi presunti custodi, che già tanti disastri ha provocato nel nostro recente passato e che nulla ha a che vedere con il vero amore per il proprio Paese, la propria cultura e la propria lingua, che anch’io, come uomo e come scrittore, sento profondamente. L’idea, l’illusione di potersi rinchiudere in un rassicurante orticello nazionale, in un mondo sovrappopolato e interconnesso e di fronte a una sfida di specie che dovrebbe unire piuttosto che dividere gli umani e chiamarli a una grande invenzione. E gli uni abbaiano, e gli altri abbaiano, e così tutti sono costretti ad abbaiare, mentre ci sarebbe invece bisogno di silenzio, di silenzio e ardimento. Durante uno dei miei cammini, in Sicilia, un branco di cani randagi ci aveva affrontato, e i cani che stavano davanti, in prima linea, erano quelli che abbaiavano più forte, fin quasi a strozzarsi, e sembravano sempre sul punto di avventarsi contro di noi per sbranarci. E allora un altro camminatore che se ne intendeva di cani mi aveva detto: «lo vedi, uno può pensare che il capo sia uno di quelli che stanno davanti e che abbaia di più, ma il capo del branco è quello là dietro, che se ne sta zitto, immobile». E infatti, a un certo punto, quello zitto e immobile si è girato e se ne è andato in silenzio, e allora gli altri cani hanno smesso improvvisamente di abbaiare e l’hanno seguito a loro volta in silenzio.    

E così arrivo alla seconda parte di questa lettera.

Cara Giorgia Meloni,

lei si trova a capo del Governo il nostro Paese, proiettata e legittimata da elezioni che ha stravinto. Ha la responsabilità e l’onore di dirigere questo Paese fratricida e perennemente incompiuto, però capace a volte di invenzione, di fervore, di scatto. Un Paese che si trova a condividere con altri paesi europei un sogno continentale di cui è stato uno degli ispiratori, il sogno di un continente boreale composto di nazioni che si sono combattute per migliaia di anni e che adesso, dopo le tragedie causate nel Novecento dai nazionalismi esasperati, dalle tirannidi e da due guerre mondiali nate sul suo territorio, pur con tutti gli egoismi, ritardi e zavorre, ha imboccato una via controcorrente, trascendente, esemplare a livello mondiale, prefigurativa. Tutto questo in un momento in cui sempre nuove tirannidi piccole e grandi stanno crescendo come tumori in ogni parte del mondo, con il loro consueto portato di guerre, deliri nazionali e imperiali che ci riportano continuamente indietro e che non possiamo più permetterci, come specie che si è autoproclamata la più intelligente e che invece si sta dimostrando la più stupida, cieca, folle e suicida, che sta distruggendo le condizioni stesse della propria vita. Com’è possibile che in un momento simile, tra le mille identità su cui i potenti o presunti tali fondano il loro breve potere e il loro divide et impera, non se ne cominci ad affermare anche una nuova, di specie, di una specie che si trova a vivere nello stesso irripetibile habitat, sulla stessa zattera planetaria sperduta tra le galassie, insieme ad altre specie viventi interconnesse, vegetali, animali?  

Come si può, in un simile contesto e passaggio d’era, non avere coscienza che, senza liberarsi del retaggio di radici come quelle di cui la sua parte politica è ancora emanazione, non ci sarà futuro? Lei mi dirà che c’erano al mondo altre tirannidi oltre a quella nazista e fascista, come quella dell’Unione Sovietica di Stalin che, essendo stata invasa dalle orde naziste e avendo pagato per questo un prezzo altissimo, ha potuto mettersi nella schiera dei liberatori e dei “buoni”. Sì, però l’altra parte politica da molto tempo si è liberata di questi retaggi, ha strappato queste radici. Ha visto quale catastrofe, dietro la maschera delle palingenesi ideologiche, è avvenuta nell’URSS, ne ha tratto le conseguenze e fatto tesoro. Noi abbiamo ascoltato e accolto le terribili verità che ci hanno raccontato i testimoni di quella spaventosa servitù volontaria, quello che ci hanno raccontato Šalamov, Vasilij Grossman, Solzenicyn, Bulgakov, Nadežda Maldel’štam… E voi, che pure dovreste sapere cosa hanno combinato Hitler e Mussolini? Non sembra proprio, ad ascoltare le dichiarazioni di uomini della sua parte politica. Quanti ripostigli segreti, quante ambiguità, quanti doppi fondi, quante “sgrammaticature”, ma tutte sempre in un’unica direzione! Era sembrato, con la svolta di Fiuggi, di cui anche lei ha fatto parte, che foste capaci di una ripulsa netta e senza ambiguità del fascismo, ma poi avete intorbidito le acque, dando l’impressione di avere fatto marcia indietro. E anche lei… quanta ambiguità, elusività, reticenza, quanti opportunistici arrampicamenti sugli specchi, quanti italici contorcimenti! Lo so, lei deve tenere insieme i pezzi del suo mondo arrivato al potere, compreso il suo zoccolo duro elettorale, perché anche lei, nella migliore delle ipotesi, è imprigionata dentro la stessa ragnatela che ha contribuito a tessere e non può e non ha il coraggio di lacerarla, di liberarsi e di nascere. Anche se avete giurato sulla Costituzione – antifascista e repubblicana – e quindi qualcuno potrebbe persino dire che siete, tecnicamente, degli spergiuri.

Lei mi dirà: “Povero idiota, e chi me lo fa fare di recidere nettamente queste radici, di non riproporre la paccottiglia nazionalista e clericofascista visto che elettoralmente sta funzionando, che il vento sta girando da questa parte, e non solo in Italia? E poi, cosa credi, nessuno sega il ramo su cui è seduto!” E io le risponderei: “Certo, ma quel ramo è marcio! Sì, certo, lo so, il potere ha un orizzonte breve, non gli interessa il domani, non vede una spanna al di là del proprio naso. E per un po’ vi andrà bene così, ma verrà il momento in cui questa illusione regressiva e questa sproporzione tra i bisogni e desideri umani in questo passaggio d’era e le vostre depistanti, ottundenti ricette diventerà insostenibile, e allora anche voi verrete travolti”. 

Credete di rifarvi una verginità dicendo che siete dalla parte degli ebrei sterminati e che le leggi razziali sono state una vergogna, credete di poter separare questo indicibile orrore da tutto il resto e dall’humus politico e ideologico da cui è sorto. Ma non si può separare questo immane crimine dalla complicità attiva di Mussolini e del fascismo, dalla collaborazione nei rastrellamenti, nelle delazioni, nelle deportazioni, nelle stragi. Io ho camminato lungo un sentiero impervio che va da Pietrasanta a Sant’Anna di Stazzema, e c’era con me anche un uomo la cui nonna era stata assassinata. Ho camminato passo dopo passo sullo stesso identico sentiero che avevano percorso i soldati delle SS saliti a compiere quella terribile strage, mentre era ancora buio, prima dell’alba, con le armi leggere e anche quelle più pesanti che non so come abbiano fatto a trascinare là sopra, e c’erano con loro anche dei fascisti della RSI che facevano da informatori e da guide ai nazisti. Salivano tutti in silenzio, prima di arrivare in cima, di irrompere in quel piccolo paese con le sue case disseminate e di sterminare la sua popolazione, tutti, 560 persone, di cui 65 bambini, persino una neonata di venti giorni. E così in diversi paesi poco distanti, come Vinca e altri, centinaia di persone sterminate, mitragliate, impiccate, bruciate con i lanciafiamme… Non c’è niente da fare, il pacchetto è lo stesso, non si possono separare fascismo e nazismo, non si può prenderne una parte e pretendere di scartare l’altra, non si possono prendere per buone le mistificazioni ideologiche e le chiacchiere e pretendere di separarle dagli orrori, perché le due cose sono strettamente connesse, sono una cosa sola.  

E allora, a questo punto, domando, a lei ma anche e soprattutto ai più catafratti della sua parte politica: che cosa c’è nel fascismo che a molti di voi sembra ancora da ammirare e salvare, tanto da non riuscire a liberarvene? Che i treni arrivavano in orario? Le bonifiche? L’edilizia popolare? Ma anche Hitler poneva molta attenzione all’aspetto sociale, e infatti il suo partito si chiamava nazionalsocialista. E lo scrive ripetutamente nel Mein Kampf, che il suo partito non doveva mai perdere di vista questo aspetto, che doveva presentarsi come il paladino degli interessi popolari, legando a sé il popolo per dominarlo, fidelizzarlo e trascinarlo poi verso le sue deliranti e criminali imprese. Ma cosa c’era sull’altro piatto della bilancia? Il nazionalismo esasperato, il delirio razziale, le guerre di aggressione, il rogo dei libri, l’arte degenerata, la disumanità, l’antisemitismo, l’orrore assoluto e la profanazione dei Lager… 

E in Mussolini cosa mai vi può ancora piacere e affascinare? continuo a chiedermi. Che cosa, che cosa? Non so a lei ma di sicuro a molti di voi. Il trasformismo? La prepotenza? Il bullismo? Ma non vi viene da ridere quando vedete la sua grottesca figura con i pugni sui fianchi, che digrigna i denti? Ci vuole così poco per abbindolarvi? Oppure vi affascinano la cancellazione delle libertà politiche, le stesse di cui avete usufruito voi dal dopoguerra a oggi, oppure il suo conigliesco usa e getta delle donne, o forse gli assassini degli avversari politici, lo spaccare la testa a bastonate agli oppositori, l’umiliarli dando loro da bere dell’olio di ricino, il suo cinico “ci servono qualche migliaia di morti per sederci da vincitori al tavolo della pace”, il patto con il massacratore industriale del popolo ebraico? Come fate a convivere, anche solo in minima parte, con un simile orrore? Cosa può esserci di questo schifo che ancora vi piace e vi affascina? Siete così bloccati, così non cresciuti da non riuscire a liberarvi di questo schifo e ci avete costruito sopra la vostra identità? Siete mentalmente così servi che avete bisogno di un padre cattivo da idolatrare perché possa dare anche a voi il permesso di essere dei padri cattivi? Siete così spaventati e frustrati che avete bisogno di identificarvi a tal punto con l’aggressore?

“Povero idiota” lei potrebbe rispondermi ancora, “io sto facendo un gioco politico grosso, e per fare un simile gioco c’è bisogno di attrarre non solo pezzi di mondo politico precedente sempre in cerca di un nuovo padrone ma anche masse di scontenti, incattiviti, frustrati, che hanno sempre bisogno di dare le colpe a qualcun altro, e allora c’è bisogno di un collante ideologico per poter attirare e galvanizzare queste variegate masse di elettori, c’è bisogno di agitare soluzioni semplici, non importa se strumentali, ma che le possa capire anche un bambino.” D’altronde lo avevano detto chiaro e tondo Berlusconi e anche Trump, che bisogna parlare agli elettori come si parla a un bambino di sette anni, mostrando così tutto il loro disprezzo per le loro stesse moltitudini elettorali blandite.

Ce lo aveva spiegato bene Dostoevskij, come anche altri, che gli uomini hanno paura della libertà, che hanno bisogno di sbarazzarsi del fardello della libertà, che sono portati al servilismo e all’idolatria, a vendere l’anima a chi permette loro di sbarazzarsi del pesante fardello della libertà, che hanno bisogno del miracolo, dell’autorità. Perché si paga sempre un prezzo, un prezzo molto alto, per la propria libertà. È più facile, è più “naturale” essere servi che liberi, tanto più quando si spera di ricevere una ricompensa per il proprio servaggio. Meccanica che funziona non solo nel suo campo ma in ogni campo, compreso quello culturale, e io lo so bene per averlo sperimentato di persona. E lei, in questi primi mesi in cui detiene il potere starà assistendo sicuramente allo strisciare servile o infido di chi ha imbarcato o che potrà in futuro imbarcare, perché le persone, si sa, hanno la tendenza a saltare sul carro del vincitore. Spettacolo che forse, spero, la disgusterà. 

E ce lo aveva spiegato bene anche Tolkien come funzionano il potere e lo stregamento del potere. Voi dite di amare il Signore degli anelli, ma cosa avete capito del Signore degli anelli? Del suo fiabesco e implacabile svelamento dei meccanismi del potere e della fascinazione del potere, del bisogno di resistere e di combattere per la libertà dal dominio e dalla fascinazione della tirannide del potere volto al Male? Una battaglia incerta fino all’ultimo istante e in cui non si sa mai se si vincerà o se si perderà, però non si combattono solo le battaglie che si è sicuri di vincere. Cosa c’entrate con la lotta per liberarsi dal potere malefico dell’anello, voi che avete appena afferrato l’anello e ve lo tenete ben stretto, non vi passa neanche per la testa di gettarlo dentro il vulcano? Cosa c’entrate con Gandalf, con gli alberi che si sradicano, con gli hobbit, gli elfi, i nani?

Che grande leader lei potrebbe essere se trovasse dentro di sé l’indipendenza e l’ardimento per sradicarsi, come gli alberi del Signore degli anelli! Per compiere uno scarto improvviso, da cavallo di razza, per liberarsi della rete di inganni che la proiettano ma la imprigionano! Per traghettare verso un inaspettato e creativo futuro anche il migliore bagaglio della cultura “di destra”, ammesso che si possano operare separazioni di superficie per scrittori, pensatori e poeti che hanno raccontato, indagato e cantato con intensità e radicalità le nostre irripetibili vite e il nostro irripetibile mondo, e che anch’io ho letto, assimilato e amato. E per traghettare anche, attraverso la forza libera dell’esempio, il retaggio di irriducibilità che hanno contrassegnato le vite di interi popoli e di singole e verticali figure: i nativi americani, i sognatori e visionari come Garibaldi, il colonnello Lawrence, Che Guevara…: il coraggio, la sfida, la lotta per la libertà o per quella che ci può apparire o balenare come libertà. Che segno profondo, che ricordo, che eredità indelebile potrebbe lasciare! Lei, come ogni altra persona e vita, se ne andrà, ma potrebbe lasciare dietro di sé, come un interminabile mantello regale, questo segno del suo passaggio nel mondo.

Ma lo so che questo non succederà, che queste sono solo mie illusioni infantili, fantasticherie. Che lei è dentro una macchina, che è trascinata dall’ansia ma anche dall’ebbrezza ascensionale di questa macchina, e che questo taciterà ogni altra voce che può, forse, di tanto in tanto, salirle da dentro, perché lei è nello stesso tempo ammaliatrice e ammaliata, giocatrice e giocata.

E allora…

VIVA IL 25 APRILE
VIVA LA RESISTENZA

ARTICOLO n. 33 / 2023

IL PEDIGREE DEL POLLO

Around The Table. Una serie americana in italiano

«È pronto!», urlo dalla sala. Dopo poco sento una porta aprirsi. È quella di Vera. «Puoi aiutare Andrea a scendere?», le chiedo quasi subito. Vera apre la porta della camera di suo fratello. La sento parlare. «Andrea, dài, vieni che è pronto. Stasera ci sono le bistecche impanate, quelle che tu chiami MAYO perché le mangi affogando ogni pezzo nella maionese. Dài, ti aiuto io. Andiamo ché poi la mamma si arrabbia…».

Con l’estrema e snervante lentezza che lo caratterizza, Andrea scende le scale tenendo in mano il suo iPad, che da tre mesi gli suona la stessa canzone: Enough To Be On Your Way, di James Taylor. Vera è già a tavola, si riempie il piatto con una bistecca impanata e degli spinaci. Ryan intanto sta tagliando la carne per Andrea. Io sono ancora in piedi: mi accorgo che chi ha apparecchiato ha dimenticato pane, acqua, maionese e il mio solito bicchiere di vino.  

«Stasera si mangia tutto quello che vi mettete nel piatto, perché questa cena mi è costata come un viaggio a Parigi in business class. Buon appetito a tutti». Sono ancora sotto shock per la mia esperienza pomeridiana a Whole Foods, il supermercato dietro l’angolo che per correttezza nei confronti dei clienti, si dovrebbe chiamare Gioielleria Commestibile. Quasi ogni prodotto è biologico. Se ne compri uno, come dire, normale, le cassiere ti guardano malissimo, e ti insultano con lo sguardo: «Se sei povera, vai a fare la spesa da un’altra parte, stronza!».

Per arrivare al supermercato, dopo aver varcato la soglia, ho preso le scale mobili che portano alla sezione che vende fiori, piantine grasse e bigliettini per i compleanni. Davanti alle scale, sfoggiata come un quadro di Monet, l’ortofrutta, tutta bella in ordine. Ogni mela o arancia viene accarezzata con tenerezza, a volte spolverata bene e delicatamente appoggiata sulle altre per formare una specie di piramide; le verdure sorridono e invitano i clienti a posarle sui loro carrelli verdi, anche loro biologici. Ho comprato degli spinaci che mi hanno ringraziato per mezz’ora. Ho anche preso due limoni e tre mele. Il totale aveva già superato di gran lunga i quindici dollari. D’altronde, ai ragazzi piacciono le bistecche impanate e gli spinaci… Dopo la frutta e la verdura, ci si trova davanti alla pescheria, dove i pesci vengono ammazzati a botte di complimenti: «Vedrai che sarai buonissimo! Ti cucineranno con spezie fenomenali! Se fossi nato salmone, vorrei essere venduto qui anch’io, mangiato da tutta questa bella gente, che rispetta l’ambiente e che ha delle pentole da mille dollari l’una». Un po’ più in là, la macelleria. Mi sono avvicinata per chiedere un petto di pollo, e il macellaio mi ha raccontato con entusiasmo della stirpe di provenienza del povero pennuto: famiglia onesta, nata e cresciuta in campagna, libera di svolazzare nell’aia, libera di avere le proprie idee politiche e i propri sentimenti. Una stirpe nobile, insomma. Un chilo di pollo figo mi è costato ventun dollari. Con la voce un po’ tremolante da magone, il macellaio ha aggiunto che le uova, della stessa aia, erano dietro di me. «Costano un po’, ma la qualità è irraggiungibile». In effetti, otto dollari per una dozzina di uova possono essere giustificati solo se ci trovi dentro un tuorlo d’argento. 

Mi ritrovo di fianco alla corsia delle creme di bellezza, dei saponi e delle vitamine. Lì non mi fermo dal 2004, e cioè da quando comprai uno shampoo senza guardare il prezzo e mi venne un mancamento. Finalmente sono di fronte al pane: metto due francesini in un sacchetto di carta. Dài, cosa vuoi che siano quattro dollari. Vado a cercare il pangrattato, e sono costretta a fare delle scelte importanti: biologico? Normale? Aromatizzato al rosmarino? E le briciole: piccole, un po’ più grandi, soffici o dure? Per paura degli sguardi violenti delle commesse, prendo quello biologico, briciole piccole, non aromatizzato. Costa tre dollari di più, ma almeno non vengo umiliata davanti a tutti. Mi serve anche il burro (otto dollari e cinquanta), l’olio (diciassette dollari e quarantanove centesimi) e una bottiglia di vino scarso, al modico prezzo di ventun dollari. 

Quando la ricevuta della spesa viene sparata violentemente fuori dalla cassa, tutti noi veniamo colpiti da tremori incontrollabili, dalla mancanza di salivazione e dal dubbio di essere stati presi per il culo. Si prendono le scale mobili per scendere, si va in macchina e si piange. Neanche questa volta avremo i soldi per il cinema: andati tutti in spinaci e petti di pollo.

Per cui, quando un po’ più poveri ma felici, ci ritroviamo attorno al tavolo, se qualcuno si permette di dire frasi del tipo: non ho fame; do gli avanzi ai cani, non mi piacciono gli spinaci, io mi trasformo in Goldrake e spacco tutto. 

Sono appena tornata da Milano, dove sono stata a casa di mia madre. Di fronte al palazzo c’è un supermercato, molto più piccolo di Whole Foods, anche perché si trova in Italia, dove le dimensioni sono a portata d’uomo. Sono andata a fare la spesa anche lì: uova, formaggio, yogurt, pasta, cioccolato Novi con nocciole (due tavolette, vino (Pecorino buono), due etti di salame Milano. Alla cassa, mentre aspetto, tiro fuori dal portafogli la carta di credito. La cassiera, di marcato accento milanese, fa un po’ di battute sulle tavolette di cioccolato che mi fanno ridere. «Sono venticinque euro», mi dice dopo avermi dato un sacchetto. «No, scusi, è impossibile!», a cui lei risponde: «Eh sì, ha comprato il vino più caro…», come a dire che costa tanto per quello. 

Capisco che gli stipendi italiani e quelli statunitensi sono molto diversi, e che il costo della vita è direttamente proporzionato a questo fattore. Capisco poi che Whole Foods non è il tipico supermercato, ma quello dei fighetti o delle persone pigre come me, che non hanno voglia di prendere la macchina per andare a fare la spesa da un’altra parte. È ovvio che le aie americane hanno l’aria condizionata e i polli fanno massaggi e pedicure almeno due volte la settimana, mentre i poveri cristi italiani sono cresciuti in fattorie e vivono in modo semplice e onesto. Capisco tutto, ma mi sembra che il confronto fra il supermarket americano e quello italiano mostri senza ombra di dubbio che i prezzi di Whole Foods siano talmente esagerati da trasformarsi addirittura in un’ingiustizia etica e sociale.

Ogni quotidiano, italiano o americano, parla ogni giorno di salute: come invecchiare bene, come avere rapporti sessuali dopo la menopausa, come fare esercizio fisico una volta al mese. Ma il tema più importante è l’alimentazione. Spiegano che bisogna mangiare molta frutta, verdura e legumi, e meno carne o pane. Aggiungono che l’olio d’oliva, il latte magro, il pesce appena pescato e la dieta mediterranea siano necessari per una vita lunga e gioiosa. Negli ultimi anni, poi, si è aggiunta l’importanza di mangiare cibi biologici, non trattati con pesticidi.

Ma tutto ciò richiede un certo agio sociale: se il pesce fresco costa troppo, può essere acquistato soltanto da un ristretto gruppo di persone. Stessa cosa per quanto riguarda una mela, un grappolo d’uva, un’insalata, un petto di pollo biologici. Sono più sani, ma costano il doppio. Un cheeseburger da McDonalds costa due dollari e cinquanta; una mela biologica anche. Solo che il primo ammazza il fegato, ma sazia; la seconda fa bene, ma sazia per venti minuti. Nel 2013, in una zona povera di Detroit è stato aperto Whole Foods, che notoriamente ha prezzi molto alti. Fortunatamente, i manager del nuovo supermercato hanno capito che nessuno avrebbe fatto la spesa lì e dunque hanno abbassato considerevolmente i prezzi. Una storia a buon fine, ma talmente rara che attira l’attenzione dei mass media.

Ci sono principi che dovrebbero essere uguali per tutti, senza distinzione di genere, etnia o età. Mangiare sano è uno di questi. Negli Stati Uniti, le persone con la pelle di colore scuro sono discriminate anche per quanto riguarda l’alimentazione. La popolazione economicamente svantaggiata mangia cibo preconfezionato, frutta e verdura in lattina invece che fresca, cibi pieni di zuccheri e carboidrati perché ha poche scelte. Infatti sono loro che sviluppano diabete, obesità, ipertensione, e che hanno il colesterolo alle stelle. Noi, con i nostri bei branzini al forno e con la nostra verdurina, cresciuta solo per noi, siamo più sani perché possiamo permettercelo. 

Questo fenomeno di discriminazione alimentare è molto studiato dai sociologi americani che lo chiamano food desert, il deserto del cibo. Il termine viene usato per descrivere zone per lo più rurali o ai margini delle città abitate da persone a basso reddito (per lo più minoranze) che non hanno accesso a supermercati perché sono a chilometri di distanza oppure vivono in zone in cui i prezzi sono troppo alti per le loro tasche. Di conseguenza, sono costretti a comprare il cibo nei negozietti che non vendono nulla di fresco, ma junk food (cibo spazzatura). Fortunatamente, ci sono sempre più iniziative volte a diminuire il più possibile il disagio che questo fenomeno causa.È strano pensare che fare la spesa possa diventare un atto discriminatorio, che spendere così tanto per beni di prima necessità significhi entrare in una macchina del male, che ripudiamo con forza. L’immagine che mi balza agli occhi è quella di un serpente che silenzioso si intrufola nella nostra vita e contribuisce ad aumentare ulteriormente il gap tra chi può e chi no. È facile dimenticare la realtà di persone che non conosciamo, perché nel nostro quotidiano non sono che numeri in uno studio statistico. Fa un po’ impressione, pensavo pulendo la cucina, che anche quando si fa la spesa ci si trovi coinvolti, anche inconsapevolmente, in una macchina sociale iniqua e terribile. Aveva ragione mia madre, quando ci diceva che tutto quello che facciamo anche senza accorgercene deve essere considerato un atto politico.

ARTICOLO n. 32 / 2023

RITRATTO PORTATILE DI PIERGIORGIO BELLOCCHIO

Piergiorgio Bellocchio ha passato tutta la vita a Piacenza. Non si è mai spostato. Proprio come William Faulkner dalla sua Oxford, in Mississippi. E potrebbe essere anche suo, in fondo, il celebre telegramma con cui proprio Faulkner, nel 1950, rifiutò l’invito a cena del presidente Truman, alla Casa Bianca, per festeggiare la vittoria del Premio Nobel: «non ha alcun senso prendere un volo per una cena». Stesso temperamento ispido, stessa insofferenza per la retorica e la vanagloria, e, ancor più, stesso fastidio epidermico per il sentirsi esposti, per il parlare in pubblico. Ne ho un ricordo personale. Vidi Piergiorgio Bellocchio una sola volta, a Siena. Ero ancora studente universitario. A Lettere presentavano la ristampa di Ragionamenti: insieme a Luca Lenzini, c’erano Romano Luperini, Delfino Insolera, Renato Solmi e, appunto, Bellocchio. Mi colpì la sua premessa: «non ho abilità oratorie di alcun tipo: quindi leggo il testo che ho scritto». Così, senza preamboli, diretto e secco. La ritrosia, se non il fastidio, rispetto al sentirsi esposto, al parlare in pubblico, era chiarissima. Piergiorgio Bellocchio è stato un intellettuale radicale, introverso e fuori campo. Dalla sua base provinciale – porto sicuro, eppure mai magnificato – ha co-diretto, insieme a Grazia Cherchi, la rivista culturale più importante della Nuova Sinistra italiana: i Quaderni Piacentini. Rivista che, per quasi vent’anni, è stata molto più che un semplice foglio di ricerca, visto che ha contribuito a formare quella nuova comunità – fatta di battitori liberi, intellettuali senza mandato, storici politici e militanti di base – che è stata protagonista di quanto Primo Moroni, Nanni Balestrini e Sergio Bianchi hanno definito «orda d’oro»: vale a dire, dell’assalto al cielo del quindicennio di lotte del lungo ‘68 italiano. 

A partire dal «golpe Moro» e dalla conseguente implosione dei movimenti anti-sistemici, l’Italia iniziò però a mutare,esattamente come aveva diagnosticato qualche anno prima l’amato/odiato Pasolini; ma questa volta davvero, nel giro di pochi anni e ad una velocità impressionante. I Quaderni Piacentini nel 1984 chiudono. È ormai scomparso, infatti, intorno alla rivista, quel cosmo politico di cui era stata un attendibile sismografo. Bellocchio però non sa stare senza un progetto editoriale condiviso. Perché non è uno scrittore di libri, ma un saggista. E i saggi – si sa – sono come degli assoli che per suonare al meglio hanno bisogno di uno spazio orchestrato: la rivista, appunto. Ma ogni rivista è sempre un progetto politico: parla di Sé, mentre parla del mondo. Quaderni Piacentini aveva costeggiato una rivoluzione impossibile e, anche per questo, era stata un’esperienza editoriale entusiasmante: aveva coinvolto, in oltre vent’anni di vita, centinaia di collaboratori, un microcosmo sociale dentro un’onda politica vasta, radicale, ingenua e generosa. Nel 1985, però, l’orizzonte è tutt’altro. Per questa ragione, Bellocchio fonda un nuovo progetto editoriale, ma di indirizzo diametralmente opposto: si chiamerà Diario, uscirà per otto anni, senza alcuna regolarità. Uscirà quando deve uscire, senza giustificazioni, né tantomeno programmazione. Una rivista, per di più, fatta in casa, a Piacenza, da due sole persone: lui e Alfonso Berardinelli. Una sorta di scrittura a duetto, quasi una raccolta di Lieder: solo voce e piano. Malinconici, ma inconciliati; sarcastici perché disillusi. Accanto alle due voci, stralci di classici amatissimi: Kierkegaard, Leopardi, Baudelaire, Herzen, Thoreau, Tolstoj, Simone Weil e Orwell. Di fronte, la stupidità implosiva degli anni Ottanta: non solo Craxi, il socialismo della Milano da bere e l’inizio delle invasioni barbariche leghiste. Quanto soprattutto Repubblica, con il suo club di progressisti a buon mercato; e poi Umberto Eco, metonimia perfetta, per entrambi, di quella nuova sconfortante cultura del ceto medio riflessivo italiano, a metà strada fra esterofilia provinciale e narcisismo stolido. La diagnosi della rivista è implacabile: di quest’amalgama, che si oppone all’acculturazione politica di massa del decennio precedente, la telecrazia berlusconiana è un effetto; non causa.

Per l’insieme di queste ragioni, Diario è stato un progetto editoriale quasi clandestino perché radicalissimo, sprezzante e sulfureo. Basta leggere anche solo come veniva pubblicizzato, per capirne la nota bassa di fondo: «è in edicola il N.4 di Diario. Contiene sempre meno novità, sempre meno notizie, sempre meno argomenti inediti. Come al solito non contiene inchieste né rubriche di moda scienza bellezza cultura. Leggi Diario, ti darà di meno». Se Quaderni Piacentini aveva provato a cavalcare il futuro, scommettendo su analisi tendenziali e su una creatività intellettuale di tipo nuovo, perché posizionata dentro un conflitto politico di massa; Diario, all’opposto, si ritrae dal presente perché tutti i segnali che la cronaca emette sono inquietanti e inequivocabili; è meglio non decrittarli più. A questo proposito c’è un aneddoto significativo, benché malinconico, che Bellocchio riporta in quello strano Zibaldone personale, da poco pubblicato con il titolo Diario del Novecento a cura di Gianni D’Amo. Ricorda di essere andato a trovare Franco Fortini nel 1992, a casa sua, a Milano, qualche mese prima che morisse. Fortini è stato uno dei mentori di Quaderni Piacentini e, soprattutto, un maestro che entrambi, sia Bellocchio che Berardinelli, maltratteranno; e non senza rimorsi. Bellocchio osserva Fortini, che ha quasi ottant’anni e per di più è mezzo moribondo, mentre continua ad ipotizzare scenari nuovi, mosso da una costante ansia patologica per il futuro, perché non può non essere all’altezza del presente, che va sempre aggredito, rincorso: non si può restare indietro. Bellocchio lo guarda, quasi con tenerezza. Lui, il poeta classico della Poesia delle rose, che ha sempre odiato l’avanguardia, gli si rivela, in quell’istante, per quello che è davvero: un puro avanguardista, che continua, nonostante tutto, a giocare a scacchi con il futuro, senza capire che quella partita è, purtroppo per noi, e da mezzo secolo ormai, truccata. Bellocchio scrive: «gli faccio notare che da molto tempo ho smesso di seguire l’attualità. Mi tengo fedele e fermo a vecchi valori e mi comporto come se fossero sempre validi. Invece di fuggire in avanti, come lui insiste a fare, io retrocedo, mi nutro di passato. Gli ricordo il suo Goethe, che si rifiuta di proseguire nella lettura di Hugo, perché vuol difendere il suo modo di sentire naturale: si può per questo giudicarlo retrogrado?». Diariocontinua in questa cosciente retroversione fino al 1993. Perché l’anacronismo funziona benissimo come reagente di contrasto e il presente, osservato fuori campo, è nitido, benché orrendo. Ma quando ormai nessun anacronismo funziona più perché le previsioni si avverano e nulla più è da scoprire, il gioco si interrompe e la rivista si ferma: 

Quello che soprattutto valeva per noi era l’aver scritto, senza riferimenti politici e in solitudine, contro il mito della politica, la nuova classe media universale e lo strapotere delle comunicazioni di massa. Negli anni Novanta avevamo di fronte una situazione che confermava le nostre più pessimistiche intuizioni e avremmo avuto più da ripetere che da scoprire. I due autori concordano nel considerare quegli anni i più liberamente e felicemente produttivi della propria attività letteraria. Scrivendo “Diario”, ci siamo sentiti politicamente impegnati come mai prima.

I libri che Piergiorgio Bellocchio ha iniziato a pubblicare a partire dal volume intitolato Dalla parte del torto(1989) – e ricordiamo almeno: il delizioso Oggetti smarriti (1996); Al di sotto della mischia (2007); Un seme di umanità. Note di Letteratura (2020); e il suo Zibaldone, Diario del Novecento (2022) – sono tutti raccolte di saggi.  Alcuni sono già apparsi su Diario, altri scritti per rubriche su giornali – ne ha tenuto una bellissima, tra il 1992 e il 1993, per il supplemento libri dell’Unità, dove recensisce libri fuori catalogo miracolosamente ritrovati su bancarelle dell’usato – altri ancora sono prefazioni (stupenda quella dedicata al Pasolini politico, nel Meridiano curati da Walter Siti e Silvia de Laude) o introduzioni a libri altrui. Come ogni vero saggista, la sua è una scrittura di servizio, con un tono immediatamente riconoscibile: sarcastico, asciutto, a tratti giocoso, a tratti malinconico e meditabondo. È stato probabilmente una delle ultime incarnazioni novecentesche del modello goethiano dell’intellettuale dilettante. Che ha sempre difeso, contro il falso professionismo dei giornali e delle cattedre che è tanto più intimidatorio, quanto più è inessenziale.

Non ho mai avuto padroni, semmai dei soci. Del resto, anche negli scarsissimi rapporti di collaborazione con altre testate o case editrici, mai avuto un contratto, sempre stato cottimista, pagato a lavoro, a pezzo. Gusto dell’autonomia, non dover rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza.

ARTICOLO n. 31 / 2023

HO LETTO MOLTO, MOLTISSIMO

Intervista di Fabio Bozzato

Poeta, scrittore, traduttore, editore: Michael Krüger ha vissuto per tutta la vita di libri. Per quarantacinque anni è stato l’anima della Carl Hanser Verlag di Monaco, da editore, direttore letterario e amministratore. Alla guida della rivista Akzente ha pubblicato una quantità di autori italiani, primo fra tutti il suo amato Cesare Pavese. Quaranta volumi tra poesia, romanzi, saggi portano la sua firma. Nel 2013, per celebrare la sua lunga carriera è stato insignito del London Book Fair Lifetime Achievement Award. E a marzo di quest’anno, a Venezia, in occasione del Festival internazionale di letteratura Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, ha ricevuto il Premio Cesare De Michelis.

Fabio Bozzato: Partiamo da alcuni ricordi personali, se permette. Oggi siamo dentro un’atmosfera di guerra, come mai l’Europa ha conosciuto negli ultimi 80 anni. Lei ha passato l’infanzia in un paese devastato dalla guerra. Che ricordi ha? Sognava già da bambino di fare lo scrittore? 

Michael Krüger: Sono nato durante la guerra, verso la fine del 1943, in un paesino a Sud di Lipsia. Peraltro, Lipsia era la città della Sassonia famosa per la sua fiera del libro e per le sue attività industriali già nel XIX e XVIII secolo. In quel paesino mio nonno aveva una grande fattoria, dove sono nato. Mia madre ha presto raggiunto mio padre a Berlino, dove lavorava all’ufficio postale e là hanno avuto altri tre figli. Io sono rimasto con i miei nonni perché mio padre era sicuro che Berlino prima o poi sarebbe stata bombardata. E così ha pensato che fosse meglio lasciarmi in campagna con i vecchi genitori. Nessuno di loro si immaginava in quel momento che ci sarebbero voluti sei anni per ritrovarci. 
Al villaggio erano rimasti quasi tutti anziani, per lo più donne. Gli uomini erano al fronte. Finita la guerra è stata molto dura per i miei nonni. Hanno perso la fattoria, perché era considerata troppo grande per i nuovi funzionari russi, dicevano che le fattorie più grandi di una certa dimensione dovevano essere smantellate. I due vecchi si sono ritrovati praticamente senza soldi. È stato tutto confiscato. I nuovi arrivati trovavano un lavoro solo se iscritti al partito. Ma mio nonno era un contadino con le sue convinzioni e ogni tanto apriva la finestra e urlava. Noi lo riportavamo dentro, «Non farlo, non farlo», gli dicevamo; ma lui era arrabbiato, solo che così rischiava di essere picchiato o arrestato.
Non c’era molto da mangiare, ma trovavamo sempre qualcosa. Andavamo in giro e lui spesso incontrava qualche vecchio amico. E così a volte gli davano un uovo, o trovava quello di cui aveva bisogno, come una lama da rasoio. Non aveva soldi. Comunque, quando ho cominciato a camminare andavo sempre in mezzo alla campagna a passeggiare con lui. In primavera era bellissimo. E d’estate pure. Solo d’inverno era più dura, bisognava trovare abbastanza legna per riscaldare la casa.

F.B. E i libri? Che ricordi ha dei libri?

M.K. Libri non ce n’erano. Avevamo due libri. Una era la Bibbia, una bellissima edizione con le illustrazioni, e l’altra era un libro sulle piante, uno di quei libri che ti spiegano il nome, il tipo e il significato delle piante. Così, nelle passeggiate con il nonno, passavamo tutto il giorno nei campi a raccogliere frutta, semi, funghi. Cercavamo cibo e una volta tornati a casa spulciavamo il libro per sapere che tipo di piante avevamo trovato. Ho avuto un’infanzia tranquilla, sì. Poi, certo, non avevamo nessuna radio, né ovviamente c’era la televisione. L’unica cosa che potevo fare era imparare più o meno a memoria quei libri. La Bibbia in particolare, piena di storie fantastiche. E come si sa, è proprio dalla Bibbia che poi sarebbero usciti tutti i romanzi che conosciamo negli ultimi duemila anni. Ho l’impressione che più o meno tutti i romanzi siano contenuti dentro la Bibbia. La nonna mi leggeva ogni sera un capitolo. A volte era difficile comprendere quelle storie e le domandavo: «come ha fatto Mosè a chiedere al mare di dividere le acque? Come era possibile che il popolo di Israele passasse in mezzo con l’acqua da una parte all’altra?». Allora lei mi spiegava e, a pensarci, le sue spiegazioni sono state davvero una sorta di poetica, di estetica della mia scrittura futura. Lei mi diceva che nella letteratura, nel pensiero e nell’immaginazione, è possibile dire al mare di andarsene. Sono stato con loro fino ai sei anni, poi ho raggiunto i miei a Berlino e ho cominciato andare a scuola.

F.B. E là ha scoperto la lettura

M.K. Ho letto molto, moltissimo. A Berlino vivevamo in un appartamento, i miei genitori, due fratelli e una sorella maggiori. E io parlavo un buffo dialetto della Sassonia, che era strano a Berlino e non si poteva sentire. Era lo stesso dialetto che parlavano i governanti della Germania Est, Walter Ulbricht e Wilhelm Pieck. Io ero molto solo e leggevo, ma tutto sommato stavo bene. Quando sono arrivato alla maturità, mio padre mi ha detto: «potresti studiare filosofia». È che mi aveva visto leggere Aristotele. Ma io, il giorno dopo che la scuola mi ha consegnato i documenti, ho deciso di diventare tipografo. Così ho cercato un posto dove imparare a stampare. A quel tempo avevamo ancora le vecchie macchine, sì, era il ’61 e c’erano quelle vecchie macchine tipografiche e così ho imparato davvero a mettere insieme una pagina, un libro e così via. È stato un periodo molto interessante della mia vita. Nel frattempo, andavo in una casa editrice e l’ha ho appreso a organizzare il lavoro con i libri. Ho lavorato così per due anni e mezzo e poi sono andato a Londra da un libraio. A quel punto dovevo trovare un modo per guadagnarmi da vivere e così ho cominciato a scrivere, scrivevo recensioni per dei giornali. Nel ’68 ero editor di un annuario letterario e incontravo molti scrittori, con cui parlavo di letteratura, poesia, estetica. E alla fine mi son detto: «scriverò io stesso». Ho aspettato un po’ prima di pubblicare qualcosa, avrò avuto una trentina d’anni. Ora sono un uomo anziano e continuo a scrivere. 

F.B. Lei è uno scrittore-editore. Quanto cambia lo sguardo di un editore che è anche scrittore rispetto a un editore-editore? Come guarda la letteratura degli altri?

M.K. Prima di tutto, chiediamoci: perché un editore non dovrebbe essere uno scrittore? Abbiamo avuto ottimi esempi. In Italia penso al mio buon vecchio amico Roberto Calasso. E così, l’altro mio amico Umberto Eco è stato un ottimo editore con Bompiani. Ricordiamoci che T.S Eliot, uno dei più grandi poeti, dirigeva anche una delle grandi case editrici di Londra, Faber and Faber. Quindi è possibile. Certo, non ho mai pubblicato le mie cose nella casa editrice dove lavoravo. Peraltro non sono mai stato proprietario di una casa editrice tutta mia, ero pagato per fare l’editore. Per Roberto Calasso era diverso, il suo lavoro di scrittore rientrava nel suo progetto. Nel mio caso ho sempre pensato che dovessero essere gli altri a pubblicare le mie cose, sennò qualcuno può pensare che la cosa puzzi un po’ disonesta. E comunque il modo di vedere il tuo lavoro cambia se lo sguardo è esterno, ma la logica è sempre la stessa: è il tentativo di aggiungere un libro in più a tutti gli altri libri esistenti. Ed è strano, perché già ci sono molti libri buoni e molti libri fantastici. Dunque, come editore di trovi a pensare che sei nella perfetta condizione di poterne aggiungere un altro. A dire il vero, è anche un pensiero un po’ egoista. Ma io ho sempre trovato un nuovo libro da pubblicare. E continuo a farlo. Pubblico, pubblico, pubblico e scrivo e nel frattempo invecchio. Credo che forse anche sul letto di morte, scriverò le righe di un nuovo libro.

F.B. Lei ha pubblicato anche molta poesia. In un’intervista ha detto: «è una cosa non negoziabile». Cosa significa pubblicare poesia?

M.K. Ho sempre amato pubblicare poesie, nessun’altra grande casa editrice ne ha pubblicate così tante. Ogni anno pubblico dieci, quindici libri di poesia e sempre gli addetti alle vendite mi dicono: «buon Dio, Michael, perché pubblichi tutto questo? Dai poeti non possiamo ricavarne un soldo». Eppure, tutti questi poeti, dopo dieci anni, hanno ricevuto grandi premi, compreso il Nobel. Quindi la mia lista di poesie nel suo complesso ha avuto un gran successo, penso a Iosif Brodsky a Seamus Heaney. Penso che la poesia sia una delle parti principali del mio lavoro. Penso a quanta poesia italiana abbiamo pubblicato, soprattutto i grandi poeti italiani, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Dino Campana, ma anche i poeti più giovani come Valerio Magrelli e così via. Quindi sì, amo la poesia e penso che la poesia sia la più interessante tra le forme letterarie, è la sfida più interessante per scrivere qualcosa di nuovo.

F.B. Perché la poesia può essere uno strumento così importante per la contemporaneità?

M.K. In realtà la poesia non è molto accettata come modo di pensare, guardare il mondo, affrontare il mondo. La poesia non ha davvero una grande reputazione in questo mondo. Succede ovunque, che sia in America, Italia o Germania: ci sono sempre 2430 persone interessate alla poesia, non di più. A volte uno di questi poeti ottiene un grande premio e allora entra nelle librerie e nelle biblioteche. Ma è guardando indietro, a tutta la storia della poesia, che ci si accorge come tutti i grandi poeti siano sopravvissuti molto più degli scrittori di prosa, anche i più famosi. E così alla fine penso che la poesia sia una tartaruga e la prosa una lepre molto veloce. La tartaruga è lenta, ma quando arriva all’obiettivo, è molto più felice e molto più rispettata di tutte le altre. Perché? Credo sia una questione di forma: nella poesia, in quella piccola scatola di parole, puoi trovare tutto il mondo, se sei fortunato a trovarlo. Lo capisci, ad esempio, se pensi a Ungaretti col suo famoso «M’illumino d’immenso»: due righe, sai che quelle due righe faranno per sempre parte della letteratura. «M’illumino d’immenso»: è enormemente più di 800 pagine di un qualsiasi romanzo borghese.

F.B. Eppure siamo un paese strano, ci vantiamo della nostra storia della poesia ma non ci sono programmi che supportino i giovani poeti né i traduttori, né li promuoviamo all’estero. La poesia sembra cristallizzata nel passato.

M.K. L’esperienza americana è molto diversa. In ogni college trovi una cattedra o un docente di poesia, lui stesso poeta. Così i poeti possono insegnare, avere uno stipendio e continuare a scrivere. E averli fa parte della qualità e della reputazione dell’università che li assume. Così fanno tutti i miei amici americani, così hanno fatto John Ashbery al Bard College, Adam Zagajewski a Chicago, Charles Simic alla Northwestern. Quindi tutti avevano un lavoro e i college erano orgogliosi di avere questi poeti come insegnanti. L’ultima statunitense vincitrice del premio Nobel, Louise Glück, ha insegnato ad Harvard, cioè il luogo più prestigioso che può sognare un docente. Dimostrano che sì, puoi vivere di quello. Questa è una situazione, diciamo, molto di lusso. Non ce l’abbiamo qui in Germania. Certo, a volte ci sono lezioni di poesia all’università, lo faccio anch’io ed è così interessante parlare con i giovani.
Tuttavia, penso anche che se nessuno è veramente interessato alla poesia, non ha senso costringere la gente a leggerla. Penso che quel piacere lo devi trovare da solo o sei perso. E posso solo dirlo ai più giovani: senza poesia, la tua vita è molto più povera. Se non mi credi, se non credi a questo segreto che ti sto raccontando, non ti posso costringere. Ma se ti piace, probabilmente avrai un’idea un po’ più chiara di quello che sta succedendo in questo nostro mondo.

F.B. E in questo nostro mondo, mai come ora si scrive e si pubblica così tanto…

M.K. Da quando abbiamo cominciato a sfornare tutti questi programmi educativi, del tipo “come essere uno scrittore”, ci ritroviamo un sacco di libri, a volte interessanti ma non certo affascinanti. E così tutti pubblichiamo centinaia di nuovi libri. Ma a ben vedere, secondo me, la pubblicazione di tutto questo nuovo materiale sembra il tentativo di dare risposte al nostro stare al mondo, ma ha poco a che fare con l’arte. Non sono libri scientifici, non è buona letteratura. A me questa cosa non è mai piaciuta. Probabilmente può suonare un po’ snob, ma a me sono sempre interessati lo stile e le idee. Sappiamo che senza arte ci troveremo in grosse difficoltà. D’altra parte, si dice che l’arte e la letteratura devono essere accessibili, semplici semplici, e quando si presentano difficili significa che non sono buone. Ecco, per me invece, quando una cosa mi si presenta difficile è meraviglioso. Quindi, che dire? Non dobbiamo per forza leggere dalla mattina alla sera per essere persone gentili e istruite, ma dobbiamo sapere cosa leggiamo.

F.B. In una intervista lei hai detto che «per essere editore devi essere psicologo, imprenditore, lettore e amico allo stesso tempo». Quindi cosa significa oggi essere un buon editore?

M.K. È un’ottima domanda che dovremmo farci. In realtà nessuno ti insegna a essere un editore, puoi solo fare del tuo meglio. E forse solo alla fine puoi scoprire se sei stato un Calasso, un Bompiani, un Garzanti o un Einaudi. Quindi, dal momento che non puoi saperlo, devi avere molti lectores intorno a te, perché non puoi fare tutto da solo. Devi avere persone che stanno imparando altre lingue o che parlano lingue che tu non conosci. Devi avere uno psicologo in azienda. Devi avere a fianco un ottimo uomo d’affari: un editore vuole spendere i soldi, pagare gli autori, ma ci vuole uno che ti dica: «cosa spendi se non ci sono abbastanza soldi?». E poi devi avere degli ottimi addetti alle vendite che seguano le tue idee: per me, è sempre stato importante avere un meraviglioso settore vendite, gestito – detto entre-nous – quasi sempre da donne. 
Quando sono in una città straniera, entro sempre in una libreria. Guardo cosa c’è in vetrina, cosa c’è sul tavolo o le raccomandazioni appese alla parete. E mi chiedo sempre: «perché? Come si arriva a questo?». La risposta è che è necessariamente un lungo lavoro di squadra. Persino Calasso, che era così presente tra i suoi libri, anche lui aveva una squadra, aveva bisogno di ascoltare tutti, discutere e scegliere.
Certo, da Giulio Einaudi era molto visibile, dietro ai suoi capelli bianchi c’erano Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Italo Calvino. Erano il cuore della Einaudi, editor coltissimi, che sapevano davvero leggere. È vero che ora c’è un nuovo tipo di editor, che annusa solo e annusa solo il successo e poi pubblica. No, un editor deve saper leggere attentamente e deve essere molto, molto colto. Penso a uno come Bobi Bazlen a Trieste, che ha il merito di aver portato la letteratura tedesca dopo la guerra in Italia. Ecco, lui è un vero esempio di editore.

ARTICOLO n. 30 / 2023

L’ASPARAGO, AFRODISIACO E ARISTOCRATICO

La mistica del cibo

La leggenda narra che il re Juan Carlos, assaggiando un piatto di asparagi, abbia esclamato «están cojonudos!» (“sono cazzuti”), e che da allora siano stati etichettati con questo nome suggestivo, che li distingue da molti altri.  Questi sono gli asparagi di Navarra, chiamati direttamente “cojonudos”, un prodotto che si caratterizza per essere più grande del normale, anche se, dicono, questo non toglia nulla al loro sapore. Coltivati nella parte alta della fertile valle del fiume Ebro, in Navarra, e raccolti a mano, sono un simbolo dell’ispanicità. Sembra quasi che, per gli spagnoli, il simbolismo sia direttamente legato al nome fortemente didascalico, senza sforzo alcuno nell’essere pudichi, anzi, facendosi forti di questo singolare primato mondiale.

Per me, il primo asparago dell’anno è sempre stata una piccola festa, perché voleva dire che la primavera era, finalmente, arrivata. Ricordo benissimo come, quando lavoravo al ristorante, la cella si riempisse di asparagi, cipolle novelle e fragole, unendo i loro profumi in un’unica fragranza inaspettata e gioiosa. Da poco prima di Pasqua alla fine di maggio, gli asparagi hanno accompagnato le mie primavere, sia che li usassi in cucina, sia che li mangiassi per diletto.

Nel Nord Europa, la stagione degli asparagi è un periodo dell’anno molto speciale. Pasqua e Pentecoste, che vengono celebrate con la stessa gioia del Natale, non sarebbero complete senza un piatto di asparagi imburrati.All’inizio della primavera, quando gli asparagi freschi iniziano a comparire sui banchi dei mercati, tutti sanno che il freddo è finito: questo ortaggio porta con sé, in qualche modo, la promessa di calde giornate estive dopo il lungo inverno.

Pianta dalla storia millenaria, i suoi germogli hanno forma cilindrica, il che li rende da sempre un simbolo fallico.Anticamente si credeva che bastasse sotterrare corna di montone forate perché i turioni (così si chiamano i germogli della pianta d’asparago che consumiamo in cucina) crescessero di loro sponte. Un fallo vegetale e il montone, anch’esso simbolo di potenza sessuale, uniti in un unico rito, per un prodotto dai poteri prodigiosi!

Gran parte dell’aura dell’asparago riguarda la sua reputazione di afrodisiaco ringiovanente. In effetti, alla base di questa descrizione c’è la convinzione che questi germogli fallici, dalla crescita prodigiosamente rapida, aumentino il desiderio e la potenza sessuale. Gli antichi greci attribuivano gli asparagi alla dea dell’amore, Afrodite. I Beoti facevano corone di asparagi per le spose. Il poeta Apuleio, autore de L’asino d’oro, avrebbe conquistato il cuore della ricca vedova Pudentilla con un filtro d’amore contenente asparagi, code di granchio, uova di pesce, sangue di colomba e lingua di uccello (il matrimonio gli valse un processo per stregoneria, ma fu assolto).

Questa pianta della famiglia dei gigli è decisamente aristocratica. I libri di cucina la elogiano come la migliore delle verdure, lodata in molti modi dai tempi antichi a oggi. Faraoni, imperatori, re, generali e grandi capi spirituali, poeti principeschi come Goethe e buongustai come Brillat-Savarin: tutti loro mangiavano e mangiano asparagi con grande entusiasmo. Ne consegue che gli antichi fitoterapeuti astrologi vedevano nell’asparago la firma del dio Giove, signore e fruitore di tutti i piaceri sensuali. Per gli antichi egizi l’asparago era un alimento sacro; per questo motivo lo includevano nelle offerte agli dèi. Durante gli scavi della Piramide di Saqqara, gli archeologi hanno rinvenuto preziose stoviglie con tracce di cibo identificate come asparagi. Fasci di punte di asparagi – insieme a fichi, meloni e altri cibi sontuosi – sono stati trovati anche nelle tombe di ricchi egizi sepolti circa cinquemila anni fa. All’incirca nello stesso periodo in Cina, gli ospiti onorati venivano trattati con un rilassante pediluvio agli asparagi al loro arrivo. Gli antichi greci erano soliti raccogliere asparagi selvatici, ma gli antichi romani si spinsero oltre, sviluppando i metodi di coltivazione necessari per la domesticazione di questo ortaggio.

Il modo in cui l’asparago è sempre stato consumato – e in alcuni casi lo è ancora – lo rende quello che gli antropologi chiamano cibo “cerimoniale”, ovvero, cibo consumato in un contesto speciale. I delicati germogli primaverili di questo membro della famiglia delle Liliacee si adattano perfettamente all’immagine della natura che finalmente si risveglia in primavera e alla resurrezione pasquale. Per la cena di Pasqua gli asparagi vengono spesso serviti con il prosciutto, e per una buona ragione: in questo abbinamento si annida un elemento simbolico arcaico. Un tempo, infatti, il maiale era considerato un simbolo di vita, gioia e fertilità per i Celti-Germanici-Slavi del Nord Europa. In alcune occasioni speciali, le tribù germaniche sacrificavano un maiale o un cinghiale per Freyt, dio fallico della fertilità e fratello della bellissima dea Freya. Si credeva che in primavera i due gemelli celesti attraversassero la campagna su un carro, mentre Freya spargeva fiori dalla carrozza. In epoca precristiana la gente celebrava una festa orgiastica di maggio durante il periodo della luna piena. Si innalzava il palo fallico del maggio, si ballava in cerchio e ci si abbandonava a un amore sensuale ed estatico. Dopo la cristianizzazione dell’Europa, questa festa fu trasformata in Pentecoste, che celebrava lo Spirito Santo che scendeva sul popolo per esprimersi nella lingua comune. Per questo motivo, in alcune regioni europee, il pasto della Domenica di Pentecoste consiste in lingua cotta di vacca servita con asparagi.

Tornando in epoca romana, si tramanda che Cesare Augusto fosse particolarmente ghiotto di asparagi, forse perché i germogli erano considerati uno dei più grandi afrodisiaci: e si sa, quello che fa l’imperatore, lo fanno tutti. 

Le cronache storiche riportano che l’imperatore Carlo V (1500-1558), sovrano dell’Impero asburgico, fece una visita inaspettata a Roma durante il periodo del digiuno. Poiché non c’erano molte provviste a portata di mano con così poco preavviso, il cardinale incaricato ebbe un’idea che salvò la situazione: fece preparare ai cuochi tre diversi piatti di asparagi, serviti su tre diverse tovaglie profumate e accompagnati da tre diversi vini squisiti. Si dice che l’imperatore sia stato conquistato da queste prelibatezze primaverili, tanto da lodarle per molti anni a venire.

I piatti a base di asparagi erano molto apprezzati anche alla corte del Re Sole (Luigi XIV). Chi voleva conquistare Madame de Maintenon, la seconda moglie del re, doveva solo portarle una nuova ricetta a base di asparagi. Tutte le ricette che ricevette dettero vita a un libro, e la zuppa di asparagi alla Maintenon è ancora oggi nota tra i buongustai. 

C’è inoltre un aneddoto di lungo corso che riguarda gli asparagi e la Roma dei Cesari. Ce lo racconta Plutarco in una delle sue Vite parallele, la De vita Caesaris. Siamo fra il 54 e il 53 a.C. quando Cesare e i suoi generali giungono a Mediolanum, cioé Milano, durante le vittoriose campagne belliche contro le Gallie. Invitati nella domus di Valerio Leonte, vengono festeggiati con un enorme piatto di asparagi al burro, tipico condimento celtico. I generali romani si sentono offesi per quell’ “unguento” – che le matrone dell’Urbe usavano come belletto – sparso sugli asparagi. Ma Cesare, inappuntabile, divora gli asparagi e ringrazia il padrone di casa, poi chiama a raccolta i suoi generali ed esordisce con una delle frasi capitali sull’estetica del gusto: »de gustibus non dispuntandum est», sui gusti non si discute. 

L’asparago godeva fama di afrodisiaco, e al tempo stesso di anticoncezionale: a tali fini erano utilizzati il decotto della pianta, oppure se ne usavano i semi misti a quelli di aneto, ma secondo alcune fonti anche un sacchetto di turioni nascosti tra le vesti poteva fungere allo scopo.

Aveva grande fama di afrodisiaco anche tra gli antichi greci e romani, che però pare ne avessero opinioni contrastanti: tuttavia lo stesso Plinio lo raccomanda come alimento utile ad accrescere l’eros. Viene prescritto e utilizzato come afrodisiaco anche nel periodo medievale e rinascimentale: il medico cinquecentesco Castore Durante scrive nel suo Herbario novo che gli asparagi, »mangiati caldi con un poco di sale e butiro, provocano al coito».

Oltre che come afrodisiaco, Plinio lo consigliava come cibo salutare per lo stomaco; consigliava inoltre la radice, tritata e bevuta in vino bianco, per espellere i calcoli, calmare le lombalgie e i dolori renali. Sempre secondo Plinio, l’asparago funzionava come deterrente per le api: a tal fine, bisognava aspergersi di asparago tritato e imbevuto d’olio perché le api non si avvicinassero a pungere!

A Francavilla Fontana, con i rami si intrecciavano le corone di spine utilizzate dai confratelli nelle processioni della Settimana Santa.

Sebbene questo pregiato ortaggio sia stato posto sotto il dominio di Giove, non vi risiede in modo esclusivo. I medici medievali, non a caso, lo attribuivano anche a Venere, la dea planetaria che governa gli organi urinari e sessuali. Di conseguenza, questi medici prescrivevano di cuocere l’asparago in acqua o vino e di berlo per aumentare la produzione di sperma e stimolare la libido. I medici galenici umorali prescrivevano la pianta anche per le ostruzioni del fegato, della milza e dei reni, nonché per i calcoli renali, poiché era considerata “diluente, diuretica e divisoria”. 

Dapprima pianta selvatica infestante, che cresceva lungo i bordi delle strade e i binari della ferrovia, nel XVII secolo l’asparago iniziò a essere coltivato in Europa centrale come ortaggio e pianta medicinale.

Da quel momento in poi viene citato nei libri di erboristeria. Negli speziali la radice era chiamata “officinale” – da cui deriva il nome botanico officinalis – che significa che si trovava nell’officinarum, il laboratorio degli speziali. Questo significa anche che la radice di asparago era riconosciuta dai medici galenici come una vera e propria medicina, in particolare per la “fluidificazione del sangue”, per i “dolori alle anche” (reumatismi, sciatica), per l’epatite, per i calcoli renali e per i disturbi urinari. Pietro Andrea Mattioli (1501-1577), medico personale dell’imperatore asburgico, scrisse nel suo libro di erbe del 1544: «L’asparago fa venire agli uomini desideri piacevoli», una convinzione condivisa anche dalla gente più semplice, come recita un ironico detto popolare svevo: «Il pastore sa bene perché ha gli asparagi nel suo orto». In Transilvania era noto come “fuso nei pantaloni”. In Stiria, regione dell’Austria che un tempo fu Slovenia, il vino con i semi di asparagi veniva prescritto contro la sterilità. 

Nella medicina rinascimentale lo si prescriveva come afrodisiaco, «mangiati caldi con un poco di sale e di butiro».

Nella fitoterapia moderna, l’asparago è ancora considerato un efficace diuretico. I preparati a base del germoglio prodigioso vengono consigliati per i calcoli renali, gli edemi, l’artrite, i reumatismi, la gotta, l’insufficienza cardiaca e le affezioni del fegato e della milza. Come tale, è efficace per il diabete, i disturbi cardiaci e le affezioni renali minori.

L’asparago è presente anche in alcuni ricettari magici: tra le antiche ricette rinvenute a fini etno-antropologici dal tossicologo Malizia (una selezione da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800), si ritrova insieme ad altri ingredienti nella composizione di un impiastro indicato nella forma di un »composto per riparare la verginità perduta» e come »rimedio per recuperare la virilità».

Ritorna qui la singolarissima credenza magico-popolare per cui, se si sotterravano delle corna di montone forate, da lì nasceva un asparago, come vi raccontavo poco fa.

Come spesso nella storia, la forma rievoca il simbolo che si associa a un oggetto e l’asparago era quindi chiaramente associato alla sessualità in virtù della forma dei turioni, che rammentano il pene in erezione: e così, secondo la teoria della segnatura, il consumo dei germogli di questa pianta influisce in modo benefico sull’organo umano a cui i germogli assomigliano.

In effetti la pianta, soprattutto quella selvatica, è ricca di sostanze energetiche: vitamina A, B, B2, amminoacidi e oligoelementi che migliorano le funzioni renali e ne rimuovono i sedimenti. 

L’asparago era considerato un tonico sessuale anche in altre culture. Gli indù lo attribuivano al loro “cupido”, Kamadeva, che poteva aiutare una bella fanciulla, la giovane Parvati, ad abbindolare persino il dio più ascetico, Shiva; ciò avvenne aiutando Parvati a distrarre il dio asceta ricoperto di cenere per il tempo sufficiente a farlo innamorare di lei. Anche se in seguito sposò Parvati, lo yogi estremo Shiva si infuriò per aver interrotto la sua profonda meditazione e ridusse Kamadeva in cenere con il suo terzo occhio infuocato. Scioccate, le dee implorarono Shiva di riportare in vita il dio dell’amore e del desiderio sensuale. Shiva finalmente acconsentì e riportò in vita Kamadeva, ma non avendo più un corpo divenne ancora più insidioso, soprattutto quando invisibile scagliava le sue frecce al miele nei cuori più sfortunati.

Nella tradizione medica indiana dell’Ayurveda, sebbene l’asparago selvatico (satavar o satamuli: sat = cento, muli = radici) sia usato anche come tonico del cuore e del cervello è generalmente considerato una pianta curativa per i disturbi sessuali e l’infertilità, soprattutto perché si ritiene che aumenti l’ojas, l’energia luminosa generale. Il succo delle radici viene cucinato con burro chiarificato (ghee), succo di limone, miele, pepe lungo (Piper longum) e latte per creare un afrodisiaco che aumenta lo sperma, favorisce la produzione di latte materno e tonifica l’utero. 

In una tradizione simile, i musulmani cucinano le radici (safed musli) nel latte come sostituto del salep, il famoso elisir a base di bulbi di orchidea per aumentare la prestanza maschile e per “addensare e aumentare lo sperma” (de Vries 1989, 303). 

In Cina, l’asparago (conosciuto da più di cinquemila anni con il nome di Tien men Tong) è utilizzato come diuretico ed espettorante. Germoglio prediletto dai regnanti, quando scende di classe assume aura di prezioso, proibito, afrodisiaco, un po’ come quasi tutti gli alimenti nobilitati dall’attenzione delle mode dei potenti. Ed è proprio in una delle città austroungariche più aristocratiche che ho potuto consumarli alla maniera austriaca: una volta, da ragazzino, mi sono trovato a Vienna, a mangiare in un ristorante lungo il Danubio, dove dicevano di servire i migliori asparagi fritti della capitale! Erano effettivamente buoni, ma era forse più suggestiva tutta la scenografia attorno, rimane il fatto che per me gli asparagi bianchi si gustano al meglio bolliti e quelli verdi abbrustoliti direttamente in padella, con olio e sale: la semplicità paga sempre quando l’ingrediente è prezioso.

ARTICOLO n. 29 / 2023

CORPI IN ASCOLTO

Conflitto, rivolta, femminismo

Quando parliamo di femminismo, comunicazione, corpi e teorie c’è sempre un momento in cui dobbiamo scegliere se ascoltare anche la nostra voce critica oppure andare avanti senza ascoltare i dubbi, le immobilità, le incoerenze che una pratica come quella femminista inevitabilmente si porta dietro. Djarah Kan è una scrittrice, una femminista e un’attivista. Ha la forza comunicativa di un vulcano in eruzione e non ha paura di infilarsi dentro gli argomenti più complessi e spinosi, per questo andiamo d’accordo. In due ore di conversazione abbiamo toccato tanti punti, spesso difficili e complessi, ma con un ascolto costante e reciproco importante. Vi serve un divano comodo, una birretta e un po’ di tempo a disposizione. Buon viaggio!

Giulia Paganelli

Parole e contesti

Djarah Kan: Quindi stai abbracciando la tua ombra ora.

Giulia Paganelli: In realtà io ho sempre studiato tanto i mostri e le ombre. Perché raccontano l’imperfezione, ma anche perché generalmente vengono affrontati come narrazione superficiale di una struttura sociale vera, e cioè: esistono corpi che sono costantemente presi come modello di negatività – se studiamo Michel Foucault è chiaramente questo ciò che dice sui corpi non conformi, che cioè sono corpi resi oggetto per educare le altre persone a non diventare mai quelle ombre. Quindi in questo momento forse sto guardando tutte le cose – me compresa – da fuori, e penso che ci siano tante cose che posso provare a fare, così come altre che posso fare meglio.  

D.K. Stai attenta però, stai attenta a questo tipo di pensiero, perché è molto insidioso. Sulla base della mia esperienza, che è individuale ma è anche universale perché comunque io sono parte di un tutto, quando mi sono trovata a fare questo tipo di pensiero sono caduta in un imbuto, perché ero convinta che, qualsiasi cosa facessi, potevo sempre farla meglio. Quindi mentre facevo una cosa proiettavo su di me un desiderio di insoddisfazione che in qualche maniera governava in modo nascosto tutto quello che facevo. Come se ci fosse qualcuno di invisibile che io non vedevo, ma percepivo, che muoveva le mie mani, che muoveva anche il modo in cui strutturavo una cosa, il modo in cui la immaginavo. Sono inciampata nei miei piedi e sono dovuta ritornare un po’ indietro e capire che tutto quello che io faccio è abbastanza, l’importante è non fermarsi mai. L’assurdo è la quantità, la qualità è una cosa che dentro di te sai quando c’è. Bisogna stare attente perché il perfezionismo è un suicidio.

G.P. Il perfezionismo è una delle cose che sto razionalizzando, che sto osservando in tutte le sue sfaccettature caotiche, perché non mi sono mai accorta di essere governata da questi fili. 

D.K. Perché abbiamo questa convinzione hollywoodiana del perfezionismo, della pulizia e del controllo totale. Invece il perfezionismo è caotico, per essere perfezionista devi avere un caos dentro infernale. Il perfezionista sta chiuso in una caverna per anni perché deve spostare un frammento da un posto all’altro.

G.P. il perfezionismo è una narrazione coercitiva. Perché se le cose vengono fatte con ordine di facciata, sono più controllabili. Quindi ricade sempre all’interno della struttura di potere. 

D.K. Infatti in questo periodo ho detto “fanculo l’ordine”, io sono per la vendetta e il caos più totale. Non mi interessa più nulla. Mi ha fatto male in questi anni pensare che l’ordine mi avrebbe portato alla gioia. No, ciao e vendetta. 

G.P. Mentre parliamo provo un senso di sollievo molto profondo, perché sento una persona che ascolta – e ascoltare è cosa rara. Perché per quanto facciamo proclami sull’ascolto e sull’intersezionalità della nostra pratica… 

D.K. Ma quando mai. Sono messaggeri di un mondo che non vogliono nemmeno loro. Io non credo che le persone sappiano cosa stanno creando ed è drammatico. Vogliono tutte essere perfette, sai cosa diceva mia madre? Una cosa molto vera: tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire. Crescendo, questo detto è cambiato in ogni fase della mia vita. Oggi tutte le persone vogliono creare questo mondo pacificato, dove non ci sono più conflitti e dove le persone devono imparare solo in un ambiente protetto che sono i libri, le conferenze, le newsletter, i pantheon di persone che ti insegnano cose. Un ambiente medicalizzato, e a me non piace perché, forse, sono cresciuta come un animaletto che ha subito sul suo corpo un controllo poliziesco e non sono, quindi, molto amante del controllo in alcuna sua forma. 

G.P. Diventa un controllo quasi poliziesco della realtà, dei comportamenti. E questo diventa difficile poi da applicare alla formulazione del ragionamento che, per sua natura, ha bisogno di non avere vincoli e confini e di essere conflittuale. Il ragionamento riconosce ciò che non è coerente con i tuoi valori, ma sondare anche quello che non condividiamo è urgente per comprendere le dinamiche generali. 

D.K. L’altro giorno sono andata al bar e il barista, che avevo visto un paio di volte, mi ha tirato i capelli per capire se era una parrucca oppure no. Ti rendi conto? Era il mio quarto Negroni, però ti dico una cosa. Lui è stato molto maleducato, ma il suo gesto non era cattivo. Un ragazzo a cui nessuno ha insegnato l’educazione, che non significa razzista, significa che non sa comportarsi. Io noto che non sappiamo gestirci, mi è successo anche a me di pisciare fuori dal vaso. E tutta questa retorica del controllo poliziesco delle nostre relazioni sociali, tutta la retorica del self-help anche, tutta la narrazione della tossicità sono forme di controllo sociale che mirano ad annullare i conflitti che sono alla base dei processi che servono per imparare a relazionarsi. Ed è dura. Io a volte ho a che fare con persone bianche più progressiste, ragazze della mia età, che parlano con me e dicono “no ma io da persona bianca privilegiata penso che…”, allora io le guardo e dico »ti rendi conto che abbiamo entrambe 20 anni, ci stiamo bevendo un caffè e ci facciamo una chiacchiera e tu mi stai mettendo in una posizione di subordinazione perché ti relazioni con me sapendo che sei superiore, però ti dispiace e allora me lo vuoi dimostrare». 

G.P. Se non c’è conflitto, non c’è storia. Questo per me è uno spunto interessante perché quando parlo di privilegio e dico »guardate che il privilegio non è una proprietà dell’individuo, ma è qualcosa che viene calato dall’alto dai poteri e in cui tu sei avvolto e coccolato perché facendoti venire voglia di mantenerlo, inneschi la competizione sociale. Ma non è mai in tuo potere». 

D.K. Molte persone, infatti, sono convinte di avere la proprietà del privilegio. “Il mio privilegio”. Ma alle persone che iniziano con me una conversazione impostata in questo modo io chiedo ma tu chi cazzo sei. La mia migliore amica è nigeriana, viene da una famiglia benestante e i suoi genitori sono ricchi. L’altro giorno mi dice: «sai stavo riflettendo sulla questione delle quote razziali all’interno delle università che cercano di fare diversity & inclusion, però a me fa ridere perché sinceramente come fai a dire in partenza che io sono svantaggiata? Io sono ricca. E come fai a dire che una persona bianca è più avvantaggiata di me quando, per esempio, ha dovuto lavorare e fare sacrifici per pagarsi l’università restando indietro anche con gli esami. Come fai a dare per scontato che la sola etnia generi una situazione di svantaggio?» Lei è una mia compagna, è intelligente, è progressista e a me fa ridere pensare a tutte le persone progressiste che guardandola affermano che è una povera nera.

G.P. Secondo me dovremmo rivedere anche la hit parade del privilegio, perché se non partiamo dalla ricchezza e dalla povertà sbagliamo la lettura di tutto quanto. 

D.K. Certo, perché tu puoi insultarmi e darmi della ne*ra, ma se le tue offese non fungono da ostacoli per la mia carriera o per la mia realizzazione a me cosa me ne frega? La categoria della classe è la prima forma di discriminazione. E se teniamo a mente questa cosa poi riusciamo anche a capire dove sta il privilegio e, soprattutto, chi agisce il privilegio. Non c’è nulla di più razzista che stare lì a pensare in automatico che tu sei superiore perché sei bianca. Solo che adesso l’arco del razzismo è cambiato, perché è stato attraversato dal discorso liberale e progressista, per cui io riconosco il mio personale privilegio di essere una persona bianca, però mi dispiace perché tu non lo sei. 

G.P. Esiste, indubbiamente, la tendenza a voler eliminare il conflitto, ma se elimini il conflitto annulli le storie personali e la narrazione. E la narrazione è fondamentale per poter evolvere e risolvere le questioni. 

D.K. Ma io come faccio a capire se sono nel giusto o nello sbagliato se con te non mi scontro? Devo stare buona ad ascoltare la lezioncina che mi fai dal tuo essere dispiaciuta non perché sei bianca, ma perché non lo sono io? L’altra sera a Carnevale un ragazzo aveva una maschera di scimmia e mi fa «hai visto che mi sono travestito da te?» Lui era un altro che pensava di essere talmente progressista da poter dire questa cosa. Io non ho detto una parola, l’ho guardato per un quarto d’ora. Io penso di aver fatto di più guardandolo con disprezzo per un quarto d’ora che a fargli un discorsetto perché non aveva gli strumenti per capirlo. 

G.P. Qui ci sono due ragioni che si intrecciano secondo me. La prima è che tutte le persone sono vittime di una carenza sostanziosa di educazione emotiva, quindi se fai riferimento alle sei emozioni di base – tipo Inside Out – le uniche che capiscono, le persone forse ci arrivano. La seconda è che non stiamo mai affrontando il problema dell’accessibilità alla comunicazione. Io mi domando spesso: ma noi, esattamente, a chi stiamo parlando? Perché mi sembra sempre di essere tra quattro persone e che non si riesca mai ad andare fuori. Per parlare fuori con le persone che non ci conoscono, non conoscono le nostre marginalizzazioni, non hanno studiato le cose di cui parliamo, dobbiamo essere noi a tradurci. 

D.K. Noi viviamo nel capitalismo. Le persone sono educate a lavorare, riprodursi e a soffrire il meno possibile. Questo è lo stato delle cose. Noi dobbiamo capire che tipo di umanità ci offre questo sistema economico e sociale. Allora tu, sulla base dello scenario che hai davanti, puoi cominciare a pensare a un linguaggio. Ma non possiamo pensare che il contadino o la tua vicina di casa che lavora dodici ore al giorno voglia sorbirsi il discorso sulla razza che gli vuoi fare. Quel ragazzo faceva il garzone, probabilmente non aveva mai avuto modo di confrontarsi su questi temi in modo complesso. Ma io devo tenerne conto, io devo capire il suo livello di socialità. Allora è meglio guardarlo con disprezzo per un quarto d’ora perché quello lui può comprenderlo a un livello che va oltre i processi cognitivi.

G.P. Capire il contesto in cui ci troviamo e ci muoviamo è fondamentale, perché non con tutte le persone ti puoi mettere a fare i discorsi alti argomentando l’offesa. Dobbiamo capire in che contesto ci troviamo, altrimenti non possiamo farci capire.

D.K. Io dopo gli ho detto «ma secondo te questo che hai detto è una cosa accettabile per una persona nera? non ti sembra datato ormai come concetto?» E lui mi ha risposto che bisogna essere autoironici, «ho un sacco di amici neri». E lui ha continuato a parlare, sempre più a disagio, sempre più a disagio mentre io lo fissavo e basta fumando una sigaretta. Secondo te gli è rimasto più questo o una bella lezioncina sul razzismo?

La scrittura 

G.P. Cosa stai facendo in questo momento? 

D.K. Io scrivo e cerco di scrivere. Per me è molto difficile gestire questa cosa della scrittura soprattutto quando hai una tecnica che deriva dai tuoi stati emotivi e dalla tua capacità di rimanere concentrata. Non è facile. Però sì, ora sto ricominciando a trovare il senso di scrivere di nuovo, perché per un periodo per me non ha avuto molto senso scrivere, non avevo niente, ero troppo concentrata sul mio dolore. Quindi sì, ora sto cercando di finire il mio libro. 

G.P. Parliamo della difficoltà della scrittura. Sentire l’urgenza della storia da raccontare impone un ritmo in cui tu, inevitabilmente, ti perdi. Almeno, io passo tanto tempo rincorrendo parole e mi rendo conto che se dovessi definirmi come scrittrice di certo non userei la parola “veloce”. La pratica della scrittura per me a volte è una gabbia. “Devi scrivere perché hai delle deadline” solo che io sono una persona di fuoco, funziono a sfiammate. Ci sono giorni in cui parto e posso farlo per 14 -16 ore, altri in cui non posso restare davanti al computer oltre i cinque minuti. E mi rendo conto che questa incostanza genera un artefatto: io scrivo secondo le mie regole che non sono quelle degli altri, ma mentre io non voglio imporre le mie regole a nessuno, il mondo fuori vuole impormi le sue. 

D.K. Io ho capito che non posso affidare la scrittura a come mi sento. Quando devo scrivere mi do un metodo: non esco, zero relazioni sociali. Non sempre è una cosa positiva, ma ne ho bisogno, perché per me scrivere è una cosa molto violenta. L’atto di scrivere costantemente e di restare iper-concentrate su una cosa richiede un rapporto di reciproca comprensione con questa violenza. Ed è una scelta, secondo me. A un certo punto devi scegliere se essere una persona che vive normalmente nel mondo oppure essere una che scrive. Perché se scrivi cambia anche il tuo processo cognitivo e la comprensione di tutto.

G.P. Hai detto bene, è un gesto violento. Perché devi guardare attraverso quelle lenti. 

D.K. Io a volte ho paura di guardare perché non è detto che tutto sia trascrivibile per il mondo dei vivi, a volte ci sono cose che non possono essere scritte. Lo scrittore è una sorta di strana bestia che vive a metà tra il mondo degli esseri umani e un mondo davvero molto diverso, fatto di immagini e suggestioni, fatto di cose spesso misteriose. E tu continuamente fai questo passaggio, tra un mondo e l’altro, un viaggio tra dentro e fuori come Caronte. 

G.P. E Caronte, comunque, non era uno risolto.

D.K. Certo, guardare e osservare quelle ombre, fare in modo che quelle ombre abbiano una sostanza attraverso le tue parole e che si traducano in una lingua che è la tua lingua. E deve farla capire alle persone. 

G.P. È il mito della Caverna di Platone. Tanti abituati a guardare le ombre proiettate sul muro convinti che siano reali e poi il folle che distrugge la catena e vuole colmare quel corpo opaco, vuole tradurla ai suoi compagni. Ma i suoi compagni non lo ascoltano. 

D.K. Certo, la scrittura è sempre fraintendimento. Deve generare un momento di conflitto. Per questo io mi infastidisco quando sento «eh ma quella persona ha usato quella parola e non doveva»Le parole non sono situate in un solo luogo. La parola non ha una casa. Come la n* word, per me non ha una sola casa. Ha tante case diverse perché le persone si muovono nel tempo e nello spazio. 

G.P. Quindi parliamo del politicamente corretto. 

D.K. Il principio del Politicamente Corretto è giusto, ma la sua applicazione è problematica. Se le parole non restano in un solo luogo, l’utilizzo di una parola in me cambia significato nel tempo. 

G.P. Io decido di non usare alcune parole come atto politico. La mia scrittura non perde niente, possiamo usare la lingua con più sinonimi al mondo. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di chiedermi quanto valore abbia oggi, quando si sono polarizzate due parti, da una parte la rivendicazione della libertà di espressione e dall’altra l’ascolto obbediente e pio delle istanze. Mi manca la parte di conversazione in mezzo, lo spazio in cui capiamo che le parole non sono immobili e costruiamo una lingua collettiva. Io oggi non vedo questo terreno comune, neanche dentro al Femminismo Intersezionale. 

D.K. io per molto tempo ho usato la n*word, poi l’ho smessa, poi l’ho ripresa. Ma il modo in cui la uso io è chiaramente diverso dal mondo in cui lo usa una persona in modo dispregiativo. Noi dobbiamo iniziare a valutare questi contesti, dobbiamo iniziare a porci queste domande. 

G.P. Le parole non sono immobili, lo ripeto. Le parole non sono un insieme di lettere, ma un insieme di immagini storiche, comportamenti e queste cose cambiano a seconda del posto del mondo in cui vivi e del tempo in cui respiri. Quando ho iniziato a studiare e decodificare i corpi, per me è stato subito chiaro che le pratiche discorsive sono alla base della conformazione visiva del mondo in cui viviamo. Io mi sono sempre occupata di antropologia applicata al sistema culturale occidentale, mi sono sempre rifiutata di andare in altri luoghi e trattare ambienti e persone come cavie da osservazione, non fa parte di me. Ma, cazzo, il sistema occidentale ha bisogno di essere guardato dall’antropologia per essere visto e smantellato. Così arrivi al punto in cui capisci che le parole, il modo in cui vestono i corpi, la facilità con cui comunicando conformiamo uno sguardo, sono Il Punto. 

Identità e Nazioni 

D.K. Parliamo di corpi e di identity politics, perché noi prendiamo dal contesto americano tante categorie e teorie pari-pari senza che in contesto italiano sia possibile applicarli. Quando io ho letto il Manifesto della Razza del 1938 ho capito che quella era La Lettura, quel libello spiega perché in questo paese le persone non bianche faticano a trovare uno spazio. Noi siamo corpi astorici, tutto quello che facciamo non è previsto e, anche quando accade, inizia e finisce là, perché viene giudicato un caso. Quindi tutto ciò che non è bianco non è considerato qualcosa che ha valore abbastanza da dover essere indagato. In questo paese c’è stata la strage di immigrati più crudele della Repubblica – a Castel Volturno la camorra ha ucciso sette persone non bianche – causata da motivazioni razziali. In quel momento c’erano molti immigrati e la Camorra ha deciso di andare a sparare a quei sacchi di carbone, li chiamavano così. Sette persone uccise, ma tu senti mai di questa strage? 

G.P. Mai. 

D.K. All’inizio i giornali avevano raccontato questa strage come regolamento di conti tra Mafia Nigeriana e camorra. Invece erano innocenti, persone giovani. E ancora ci chiediamo se l’Italia è razzista. Certo che l’Italia è razzista, perché l’Italia è diventata bianca nel tempo. 

G.P. La storia d’Italia è una storia che va in questo senso, le stesse persone meridionali non venivano considerate bianche quando ci sono stati i primi tentativi di unione. Nel manifesto della razza si parla di omogeneità della pelle, quindi è il corpo che ti rende italiana. E questo ritorna sul discorso dei corpi e delle parole, perché tutti i corpi non conformi indossano degli stereotipi e per questo sono astorici. In Italia abbiamo una complessità ulteriore, perché l’Italia mutua dalle altre nazioni il concetto di identità nazionale, senza averlo costruito davvero. La storia d’Italia si racconta di una frammentazione perenne in ducati e signorie, frammentazione che rivomitiamo fuori costantemente. 

D.K. Rivomitiamo costantemente nel razzismo, perché le autonomie regionali sono feudi che si arroccano perché non vogliono condividere nulla con le altre persone. Noi non solo siamo razzisti, vittime di costanti guerre interne tra territori e territori, ma addirittura a un certo punto ci siamo guardati e abbiamo detto “come costruiamo un’identità nazionale? Andando a invadere altri territori”, così possiamo dire di essere un popolo unito perché siamo andate a massacrare persone che per noi sono inferiori. 

G.P. Quello che sottovalutiamo nell’analisi dell’Italia come nazione è il gap che abbiamo con la storia identitaria delle nazioni che hanno avuto Monarchie assolute e che, nel loro avere un potere centralizzato dall’alto, hanno costruito un tessuto sociale su scala macro, con categorie sociali macro che attraversano il territorio. In Francia con la potenza dell’aristocrazia e delle corti, ma anche con l’opposizione delle classi più povere che a un certo punto hanno agito. In Gran Bretagna con una storia fatta anch’essa di territori divisi ma che vanta un’unificazione ben più longeva e politicamente omogenea della nostra. In Prussia, quando con la Casata degli Hohenzollern si fissa il potere e poi si declina unificando i grandi Elettori sotto un unico presidio, ma anche in questo caso parliamo dell’inizio del 1400. L’Italia non è fatta di queste cose. L’Italia è fatta di una storia che parte già da un Impero Romano che per funzionare ha decentralizzato il potere nelle preture e queste preture erano Stati a se stanti. Certo, esisteva la grande narrazione divina dell’Impero, ma in realtà al suo interno deriva la frammentazione che già fu delle poleis greche. 

D.K. Certo, anche la storia tra Impero Romano e popolo ebraico va in questa direzione. L’Impero Romano impone un dominio, ma lascia alle singole parti la gestione. Questa è la storia dell’Italia, la storia di un paese che ha fatto tantissimi sforzi per concepirsi come unico, ma ha sempre fallito. Solo col sangue dell’unificazione si è arrivati ad avere un solo paese. 

G.P. Un solo paese geograficamente parlando, ma resta totalmente intatta la divisione fino alla storia dell’autonomia recente. Perché noi, nella divisione in piccole province, stiamo comodi. Tanto che la stessa lingua dell’Impero, il latino, muore per lasciare lo spazio alle lingue volgari. Certo, si somigliano tra loro per una questione fisiologica, ma la chiave per interpretare questa cosa è la particolarità territoriale della lingua, data dalla sopravvivenza dei dialetti e dalla loro trasformazione in modi di dire che valgono spesso per un paese e non per quello accanto. Per questo, per questo motivo, quando avere un’identità è stato necessario, abbiamo deciso di essere bianchi e di essere contro tutte le persone non bianche. Il Fascismo ha risposto con slogan e pratiche criminali a questa necessità di aggregazione identitaria. Lo fa anche oggi, è il motivo per cui Meloni vince. 

D.K. Noi siamo italiani perché siamo bianchi, perchè siamo cristiani, perché non vogliamo far abortire le donne, perché non vogliamo immigrati e vogliamo proteggerci. 

I Corpi 

D.K. Teorizzare e parlare di corpi significa rendere consapevoli le persone che ci sono cose che senza esperienza non possono leggere e vedere. Il razzismo non è un problema solo per le persone nere, è un problema anche per le persone bianche, perché non hai la possibilità di vedere quello che ti capita intorno con una consapevolezza trasversale e condivisa. Io non ti parlo di razzismo perché voglio essere riconosciuta, te ne parlo perché la tua è un’identità fasulla e, anche se non riconosci quella violenza perché dici di non essere violenta, io voglio dimostrarti che non è così. Io voglio strappare il velo di Maya che hai davanti agli occhi. 

G.P. Quando vivi in un sistema artificiale e non ti rendi conto di come sia la realtà, è un problema. Questa cosa è molto simile anche al rapporto che abbiamo con i corpi grassi. Quando parlo con persone che subiscono altri tipi di marginalizzazione mi rendo conto che ci sono delle continuità cognitive. Parlare di stigma del peso e di grassofobia a persone con corpi magri o corpi – diciamo – normali è un gran lavoro. È mettermi nella condizione di poter assorbire molta parte della violenza che hanno dentro. Le persone non si rendono conto di essere vittime di un sistema che le porta a performare continuamente col loro corpo e nel loro corpo. Questa cosa di cui non si rendono conto è violentissima, perché li porta a infliggersi pratiche non perché siano giuste, ma perché sono persone terrorizzate di cadere dentro il gruppo di persone ai margini. 

D.K. Ma certo, chi ti ama quando sei grassa? Chi ti ascolta, chi ti vuole, chi ti considera? Nessuno. E te lo dico io, non ho nessun problema a dire che io sono grassofobica con me stessa. Ho avuto per tanti anni disturbi alimentari. Sai che di quel periodo non mi ricordo nulla di me? Ricordo solo che ero grassa, anche se non lo ero per niente. Io ho vissuto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in modo violentissimo. Da piccola bambina magrissima mi sono trasformata in una donna col seno e sessualizzata. Non mi dimenticherò mai tutte le persone che mi hanno costantemente fatto notare quanto seno o sedere avessi. 

G.P. Ma certo, perché fin da quando sei piccola ti insegnano che non puoi meritare nulla se non hai un corpo magro. E questo significa che le persone che hanno a che fare con te sono giudicate come perverse e tu, che non hai ricevuto educazione emotiva neanche per sbaglio, accetti molte cose che mai dovrebbero essere fatte a una persona. Nel DMS c’è ancora l’adipofilia nell’elenco delle parafilie. Significa che in un processo per violenza sessuale se il mio abuser ha un avvocato furbo, nessuno verrà incriminato. 

D.K. Perché è considerata una malattia. Questa è una cosa terribile. Terribile. 

ARTICOLO n. 28 / 2023

IL GIOCO DEL SILENZIO

Esistono cose che non si raccontano. E questo lo sappiamo un po’ da sempre: di certi argomenti è meglio non parlare.

Un vecchio detto italiano recita “alla donna nessun vestito sta meglio del silenzio” e direi che non è stato poi così difficile, viste le nostre premesse culturali, aderirvi in modo pressoché letterale.

I modelli femminili per antonomasia sono infatti incredibilmente silenziosi.

Mi vengono in mente le muse dei grandi stilnovisti: erano donne miti, angeliche, meravigliose, giovanissime, sempre zitte e preferibilmente morte.

Ma anche le educande, allenate al silenzio; le donne della nobiltà di ogni secolo, anche il più moderno, che rimanevano quel famoso passo indietro per permettere agli uomini di mostrare la loro ruota di pavoni; le madri devote; le grandi attrici del passato come Marilyn Monroe, la cui duplice esistenza – sempre in bilico tra una gioia fotogenica di facciata e una pura, solitaria disperazione privata – è quasi emblematica di quel silenzio femminile di cui sto scrivendo.

La dimensione privata femminile è difatti sempre stata sotterranea, impercettibile, inenarrabile: di maternità, violenza, odio, lutto, desiderio, corpo era per le donne indecoroso parlarne; come se questi fossero argomenti tabù, permeati di un malsano orrore e capaci di rendere mostruose le donne che volessero esprimerne pareri – o legittime emozioni – a riguardo.

Le poche voci che riuscivano a levarsi e affrontare certi discorsi venivano prontamente silenziate o brutalmente esposte, come monito per le generazioni a venire: Artemisia Gentileschi è in questo senso un perfetto esempio di emarginazione indotta dalla sua ricerca di giustizia. Ma, senza andare troppo indietro nei secoli, possiamo pensare ad Amber Heard e al processo contro Johnny Depp. 

Le donne che parlano – parlavano? a volte mi piacerebbe poter usare solo il tempo passato – di argomenti intimi e potenzialmente disturbanti vengono da sempre allontanate dal dibattito o rese mostruose.

O meglio, citando Jude Ellison Sady Doyle, il loro femminile viene reso mostruoso.

Si pensa infatti che queste donne non siano adatte a essere mogli, madri, muse, femmine. Ma siano nate sbagliate, corrotte.

Questo perché “i panni sporchi si lavano in casa”, per usare un altro Leitmotiv nostrano, e la casa è ovviamente femmina.

Quello che succede dentro alle mura domestiche non deve uscire, deve rimanere privato e lì deve morire.

Il sistema di isolamento femminile – e isolamento delle voci femminili – è figlio utilissimo di un paese per uomini: se le donne non parlano allora non potranno comunicare tra di loro e, al contempo, il loro dolore e la loro rabbia non verranno accolti, lasciando gli equilibri di potere intatti.

Nei secoli – specialmente nel Novecento – questo atteggiamento si è andato a smorzare, facilitato anche dall’ingresso di sempre più donne nel mondo dell’arte che, per antonomasia, si fa portatrice di significati e messaggi nuovi, rivoluzionari, immediati – nel senso di privi di mediazione tra l’artista e il suo pubblico.

Specialmente dagli Anni Venti del secolo scorso le donne hanno preso sempre più spazio nell’industria dell’arte e della cultura. 

Questo ha portato a un rinnovamento dei temi e delle rappresentazioni stesse dei generi.

Pensiamo al surrealismo, corrente artistica del ventennio passato, profondamente maschile e spesso piuttosto acerba nella rappresentazione del femminile – nel senso che gli artisti usavano i corpi femminili come oggetti per veicolare la soavità, il desiderio, l’eleganza e la passione senza mai far vedere i volti delle modelle che vi erano ritratte, sessualizzandole ogniqualvolta fosse stato possibile – che si vide travolta dalla produzione di opere di artiste come Leonor Fini e Leonora Carrington. Le donne di questa corrente portarono per la prima volta una nuova immagine del corpo della donna, rendendolo feroce, brutale, pericoloso, respingente, dolente, egoista; e, in un panorama culturale ancora così maschiocentrico, questa era una vera e propria rivoluzione.

La possibilità di autorappresentarsi dava modo alle artiste di riprendere temi classici e finalmente caricarli di voci del tutto nuove, interpretazioni carnali, rumorose, terrene, reali, soggettive, prive di romanticizzazione.

La performance art degli Anni Settanta riprese in pieno questo desiderio di stravolgimento del silenzio – anche e soprattutto grazie alla spinta del movimento femminista – e diede voce ai sentimenti da sempre taciuti fino ad allora. 

Marina Abramović, con la sua performance Rythm 0 del 1974 a Napoli, in cui invitava gli spettatori a prendere in mano degli oggetti situati su un tavolo posto vicino al suo corpo immobile e a usarli su di lei, è stata in grado di dimostrare quanto il gioco del silenzio sia stato emblematico nell’isolamento del genere femminile: gli spettatori all’inizio della performance si limitavano a scriverle qualcosa addosso, spostarle capelli, attaccarle dei cartoncini. Ma con il passare delle ore il corpo muto di Abramović andava incontro a vere e proprie violenze: l’artista fu ferita, denudata, brutalizzata; venne perfino impugnata una pistola – carica – contro di lei.

Lo scopo di Abramović non era rendere il suo corpo il centro dell’opera, anzi: lo scopo di Abramović era rendere lo spettatore carnefice davanti al corpo immobile di una donna: dove può portarci il silenzio? La risposta che hanno dato gli spettatori in quelle sei ore di performance è piuttosto significativa.

Dagli Anni Settanta in avanti la voce delle donne dell’arte – in ogni sua declinazione – si è sempre più fatta sentire. Da Vanessa Beecroft – le cui performance costringono chi guarda a passare tra corpi femminili assolutamente erotici ma al contempo respingenti e spaventosi – ad Alda Merini, il silenzio intorno al tema del femminile si è man mano squarciato.

Ci siamo riappropriate della narrazione su argomenti come la perdita – L’anno del pensiero magico di Joan Didion è in questo emblematico – la maternità, la malattia mentale, l’aborto, il sesso, la violenza – dove Lidia Yuknavitch è stata maestra indiscussa con La cronologia dell’acqua –  e perfino l’amore, ripulendolo da quella patina melensa che era da sempre stata abbinata al sentimento di devozione, ritenuto femmineo – e qui mi torna alla mente la mia amata Sheena Patel – dando loro nuovi significati (e se non nuovi, almeno completandoli), aggiungendo voci laddove mancavano e riempiendo i silenzi intorno a sentimenti ritenuti ancora inenarrabili. 

Le scrittrici contemporanee sanno bene quanto sia prezioso questo momento storico e culturale per poter finalmente togliere un po’ di magia all’idea statica di femminile che ci portiamo dietro da secoli e che ci vuole martiri perfette o vittime inattaccabili.

Ecco, è in questa mia lunga, spicciola premessa che si inserisce Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, edito da Einaudi e uscito lo scorso 14 marzo.

Nella sua ultima opera, Lattanzi abbatte il silenzio sulla genitorialità e racconta di due anni della sua vita – e di quella del suo compagno – passati a cercare una gravidanza, a trovarla e poi perderla.

Nel racconto – velocissimo: il ritmo è travolgente, l’impaginazione non lascia fiato anche quando sembra volertelo concedere, il tempo presente ti incalza frase dopo frase – della sua corsa verso il desiderio, poi la paura e poi il dolore, il silenzio non esiste.

Non ci sono assolutamente tabù, non si lascia niente di non-narrato, e al lettore non viene dato spazio per altre interpretazioni se non quella dell’autrice, che ricostruisce due anni della sua vita in modo precisissimo.

In duecento pagine Lattanzi sa prendere il dolore e renderlo tridimensionale, affrontandolo da ogni sfaccettatura: dalla bolla familiare alla paura per il suo lavoro, l’autrice analizza ogni dettaglio su cui si è posata la disperazione, quasi fosse materiale vischioso che non vuole staccarsi da ogni cosa che tocchi.

Un viaggio intimo, profondamente personale, che tocca nodi delicati che si ha poca voglia di vedere da vicino – l’odio verso chi riesce a portare a termine una gravidanza, la determinazione di chi vuole un figlio, la solitudine di chi affronta certi percorsi che ancora non sono annoverati tra le cose che si raccontano – e che conferisce una voce nuova a un altro pezzetto di femminile rimasto per secoli silenzioso.

Lattanzi fa questo con la consapevolezza che il contrario di silenzio sia rumore, eppure non lo fa mai alzando la voce, guidandoci  bensì verso il centro di questo dolore, Caronte consapevole del ruolo della sua letteratura, così intima ma, al tempo stesso, di valore collettivo.

Da quando ho letto Cose che non si raccontano non posso fare a meno di pensare che questo libro si possa inserire tra quelle opere che ti aiutano ad avere un quadro più completo sul complessissimo mondo dell’emotività e della vita femminile, che per secoli ha subito una  costante e micidiale punizione del silenzio.

E questo silenzio ha avuto come conseguenza un isolamento di un intero genere, che è stato incapace di poter esprimere un complesso mondo emozionale legato al proprio corpo e ai desideri e alle paure più ancestrali che ci siano.

Negli ultimi anni si parla di maternità in modo differente, privandola di romanticizzazione, stigma, beatificazione. E non posso fare altro che pensare a come sarebbe stato meno solo il mondo per migliaia e migliaia di donne se voci come quella delle artiste fossero state accolte ben prima, e con diversa attenzione e sensibilità.

Realizzo dunque quanto sarà utile a tantissime persone questo romanzo di Lattanzi, in grado di abbattere il silenzio e spostare l’asticella del taciuto ancora un po’ più un là.

Rendendo le cose che non si raccontano cose che finalmente si possono dire senza paura.

ARTICOLO n. 27 / 2023

SAFFO, LA RAGAZZA DI LESBO

Tasmania, Australia, 9 marzo 1825. Sul “Tasmanian and Port Dalrymple Advertiser” di quel giorno compare un lotto di beni venduti all’asta, tra cui alcuni quadri, e tra questi un ritratto immaginario di Saffo, la poeta vissuta sull’isola greca di Lesbo alla fine del VII secolo Avanti Cristo, la cui ombra dorata si allunga sulle migliaia di anni a venire, fino al giorno in cui si svolge questa scena dall’altro capo del mondo, fino a noi.

Come un’archeologa che dolcemente e tenacemente riassembli una statua ellenica in frantumi, sapendo che dovrà fare i conti con mancanze e vuoti, Silvia Romani, docente di Mitologia, Religioni e Antropologia del mondo classico all’Università Statale di Milano, già autrice di studi dedicati al mito di Arianna e ora di Saffo, la ragazza di Lesbo (Frontiere Einaudi), ne ricostruisce per frammenti la figura e il lascito: dall’Antichità ai giorni d’oggi passando per l’Ottocento, in cui il nome di Saffo diventerà emblema dell’amore delle donne per le donne e, più ampiamente, della libertà di amare senza tabù chi e ciò che si vuole. 

La Saffo di Silvia Romani può essere quindi paragonata a una statua di cui ricostruiamo tra ipotesi e lacune la bella figura, o a un ritratto impressionista sempre in fieri, in cui il tratteggio avviene per intense pennellate: dato che dell’autrice, che Odisseas Elitis descriverà come una creatura minuta e bruna «che tuttavia ha mostrato di essere in grado di sottomettere una rosa», e a cui Lawrence Durrell ha dedicato nel 1950 Sappho. A Play in Verse, non ci restano che esigue e spesso incerte notizie di vita. In più, dei molti volumi che un tempo componevano la raccolta della sua produzione poetica nella Biblioteca di Alessandria, non è arrivato fino a noi che un Inno ad Afrodite, più qualche brandello di componimenti in versi, sufficienti però a tramandarne la grandezza. 

Infinite riscritture e interpretazioni, tra cui, naturalmente, l’Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, e uno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – in cui a discorrere con la dea cacciatrice Britomarti è proprio l’autrice nata a Ereso e vissuta a Mitilene, sull’isola che si diceva fosse stata razziata dagli Achei diretti con le loro navi nere alla non lontana Troia, l’isola dove poi, dopo dieci anni di guerra, avrebbero fatto di nuovo sosta prima di intraprendere la lunga e spesso mortale via del ritorno – ci consentono di pensare a Saffo, scrive Romani, «anche come a una persona che ci è familiare. Il suo mondo è a un tocco di mano, sbattono le vele delle navi, si gonfiano i tessuti leggeri che indossano le compagne, si svelano i giardini dietro siepi di rose che paiono alberi. E Saffo è lì». 

La ragazza di Lesbo balza così fuori dalle pagine di questo libro come la prima poetessa «ad aver avuto il coraggio di dire “io” con tanta risoluta determinazione. E se pure ora sappiamo che quel pronome di prima persona vuol intendere talvolta un io più grande, un mondo intero, ugualmente raccontare di lei significa anche parlare di ciascuno di noi». Le sue parole sono le nostre parole, scrive Romani, cielo e mare, luna e stelle, rose e viole, e i suoi fantasmi quelli che abitano gli scenari diurni e notturni di tutti: «l’abbandono, la solitudine, la fine di un amore, la vecchiaia, la morte», e anche gli infiniti mondi del perturbante, se a un certo punto la studiosa ricostruisce il tiaso dove Saffo fu forse educatrice, e amante, di ragazze giovanissime nelle forme di un Picnic a Hanging Rock molto ante litteram, sulle tracce del romanzo del 1967 di Joan Lindsay ancora più che del notissimo film, di quasi un decennio successivo, di Peter Weir. 

Nell’era della letteratura in prima persona, e della vita più che mai in prima persona, la stella Saffo – e vogliamo immaginarla non lontana dall’asteroide Saffo 80 che nel 1864 le è stato dedicato – splende più intensa. Accanto al saggio di Romani varrà citare titoli recenti, e in primo luogo la Saffo per bambine e bambini di Io sono la mela, di Beatrice Masini, affermata autrice per adulti e ragazzi e direttrice editoriale di Bompiani. Nel volume, uscito per l’editrice palermitana rueBallu, collana Jeunesse ottopiù e illustrato da Pia Valentinis, figura un sottotitolo: Una storia di Saffo. “Una” e non “la” storia, perché, racconta Masini ai suoi (piccoli) lettori e lettrici, «tutto ciò che è stato raccontato in queste pagine non è successo. Sappiamo così poco di Saffo che qualunque cosa ci azzardiamo a scriverne è una fantasia». I papiri su cui erano state riportate le sue poesie, per esempio, «sono stati gettati via e sono finiti in una discarica, alla periferia della città egizia di Ossirinco, e sono rimasti sotto la sabbia per secoli», fino al loro ritrovamento nell’Ottocento. «Certe volte poemi, tragedie, poesie sono stati usati per imbottire delle mummie (il mondo antico era un posto dove non si buttava via niente. Pezzetti di papiro, tagliati, bucati, macchiati. E sopra le parole. Alcuni erano finiti a foderare la pancia della mummia di un coccodrillo», che possiamo ben dire essere un posto ben strano, conclude Beatrice Masini, per una poesia o un canto. 

Dall’Antichità nuda di oggetti, viva di passioni, in cui Saffo ha vissuto; al racconto di Beatrice Masini, non «basato sulla realtà, ma nemmeno del tutto inventato», attraversando un impossibile buco nero che immaginiamo collocato a sufficiente distanza dall’asteroide Saffo 80 perché non lo risucchi, ci catapultiamo da vicinanza estrema a distanza abissale. Dalla Saffo materica di Silvia Romani – la cui migliore resa in immagini è forse la vulnerabile, lattea statuetta che il Metropolitan Museum di Boston commissionò e poi rifiutò a Auguste Rodin, e di cui oggi, dopo i saccheggi di opere d’arte perpetrati dai nazisti, ci resta solo una fotografia – alla Saffo mediatrice cognitiva tra mondo interiore amoroso prima e mondo dopo l’invenzione della scrittura che la poeta canadese Anne Carson tratteggia in Eros il dolceamaro (Utopia, traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emanuela Tandello). In questo primo saggio del 1986, rielaborazione della sua tesi di dottorato, Carson, da poeta a poeta, a partire dal Frammento 31 – meglio noto come Ode alla gelosia – fa di Saffo la prima detentrice di quello sguardo lirico che triangola il soggetto amato e l’Altro, simile agli dèi, che l’osserva nella distanza della composizione nero su bianco, nel nuovo spazio dentro la mente e dietro il cuore che la pratica solitaria della grande novità dell’epoca, la scrittura alfabetica, rende possibile. È lì che nasce l’ossimoro, esemplarmente incarnato nell’aggettivo dolcemaro attribuito a Eros. È lì che si afferma la compresenza degli opposti, che la scrittura diventa la dimora privilegiata del senso inteso come ambiguità, come irriducibile complessità. «Il sé prende forma al confine del desiderio, e una scienza del sé nasce dallo sforzo di lasciarsi quel sé alle spalle». È davvero una coincidenza, scrive Carson, «che i poeti che inventarono Eros, facendone una divinità e un’ossessione letteraria, furono anche i primi autori della nostra tradizione a lasciarci le loro poesie in forma scritta?» O, per porre la domanda in modo più diretto, che cosa c’è di erotico nella nascita dell’alfabeto? Una domanda a cui, sembra sorridere maliziosamente Carson, è impossibile rispondere. O forse una domanda di cui solo la poesia, sorride ancora più maliziosamente Saffo nella nostra mente, detiene la risposta. 

ARTICOLO n. 26 / 2023

ANTONIONI IN MANICOMIO

Il documentario: sublime e rovesciamento

Pubblichiamo in anteprima un estratto da Decreazione di Anne Carson in libreria dal 31 marzo (traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli). Ringraziamo l’editore Utopia per la disponibilità.

Il Sublime è una tecnica documentaria. Documentario: «relativo a, basato su documentazione; oggettivo, fattuale» (dal Dizionario della lingua inglese di Oxford). Si prenda il trattato di Longino Sul Sublime. Quest’opera è un cumulo di citazioni. Presenta argomentazioni confuse, poca organizzazione, nessuna conclusione parafrasabile. I suoi tentativi di definizione sono incoerenti o tautologici. Il tema chiave (la passione) rimanda a un altro trattato (che non esiste). Si riemerge dalla lettura dei suoi quaranta capitoli (incompiuti) senza avere un’idea chiara di cosa effettivamente sia il Sublime. Ma la sua documentazione è, a dir poco, elettrizzante. Come un pattinatore, Longino volteggia tra Omero e Demostene, Mosè e Saffo, su lame di pura spavalderia. 

Cos’è una citazione (quote, in inglese)? Una citazione (il termine inglese deriva dal latino quot ed è affine alla parola quota) è un taglio, una sezione, uno spicchio dell’arancia di qualcun altro. Si succhia lo spicchio, si getta la scorza e via, sui pattini. Parte di ciò che ci piace di una simile tecnica documentaria è proprio l’idea di banditismo. Saccheggiare la vita o le affermazioni di qualcun altro e scappare con un punto di vista, che viene definito oggettivo, perché, trattandola in questo modo, si può trasformare qualsiasi cosa in un oggetto; è eccitante e pericoloso. Vediamo chi controlla questo pericolo.

Nel capitolo venti del trattato Sul Sublime, Longino si congratula con l’oratore greco Demostene perché, quando racconta una scena violenta, sa far piovere le sue parole come colpi: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! L’uomo che colpisce può fare all’altro cose che questi non può nemmeno descrivere». 

«Con parole come queste», sorride Longino, «l’oratore produce lo stesso effetto di chi sferra un destro, percuotendo le menti dei giudici colpo dopo colpo», e cita ancora: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! Quando sembra agire con insolenza, quando si comporta come un nemico, quando si serve dei nudi pugni, quando colpisce alle tempie». 

Il punto di Longino è che, mediante la brutale giustapposizione di nomi coordinati o frasi nominali, Demostene traspone la violenza dei pugni nella violenza della sintassi. I suoi fatti traboccano dalla cornice del loro contesto originale e prendono a pugni le menti dei giudici. Pensate a questo rovesciamento. Dall’«uomo che colpisce», alle parole di Demostene che lo descrivono, ai giudici che ascoltano queste parole, a Longino che analizza l’intero processo, a me che ricordo la discussione di Longino e, infine, a voi che leggete il mio resoconto. Questo momento appassionante riecheggia da anima ad anima. 

Ciascuno lo controlla temporaneamente. Ciascuno ne gode citazione dopo citazione. 

Perché un’anima dovrebbe goderne? Longino risponde a questa domanda affrontando la psicologia del guardare, dell’ascoltare, del leggere, dell’essere spettatori. Questa psicologia comporta uno spostamento e un dispiegamento di potere: 

«Toccata dal vero Sublime la vostra anima viene naturalmente elevata, si innalza a un’altezza superba, si riempie di gioia e di vanto, come se avesse creato lei stessa ciò che ha udito». 

Provare la gioia del Sublime significa essere, per un momento, dentro il potere creativo, condividere un po’ di quella vita elettrica che si aggiunge mediante l’invenzione dell’artista, per traboccare insieme a lui. Consideriamo un altro esempio. Quando Michelangelo Antonioni stava girando Cronaca di un amore con l’attrice Lucia Bosè nel 1950, capì che doveva lasciarsi alle spalle la macchina da presa per attraversare il set e plasmare lui stesso la psicologia dell’attrice: 

«Quanti sganassoni prese, povera Lucia, per l’ultima scena. Il film si chiudeva con l’immagine di lei pesta e singhiozzante addossata a un portone. Ma lei era sempre contenta, e non aveva abbastanza mestiere per fingersi disperata: non era un’attrice. Per ottenere il risultato che volevo dovetti usare la violenza, psicologica e fisica. Insulti, frasi mortificanti, umiliazioni, e schiaffi cattivi. Alla fine le saltarono i nervi, piangeva come una bambina piccola: fece benissimo la sua parte».

Tra Antonioni e Lucia la soglia di un portone è una zona di pericolo. È un pericolo documentario. In un duplice senso. «Documentario» implica, da un punto di vista cinematografico, la preferenza per ciò che è reale, nella preparazione di un film, rispetto al ricorso all’immaginazione. Quando emerge da dietro la macchina da presa e si cala nella Cronaca di un amore per migliorare le prestazioni di Lucia Bosè con i suoi meravigliosi sganassoni, Antonioni fa razzia del confine tra l’attrice e la sua parte. «Documentario» si riferisce anche a qualcosa che dipende dai documenti. Chi avrebbe saputo di questo incidente se Antonioni non l’avesse raccontato a un giornalista del Corriere della Sera nel 1978 e non l’avesse incluso nel suo libro Architetture della visione, agendo come il Demostene di se stesso e poi come il suo Longino? Allo stesso modo, forse non avremmo mai saputo dell’effetto di Demostene sui giudici, se Longino non l’avesse elogiato nel trattato Sul Sublime. Forse non avremmo mai saputo della violenza dell’«uomo che colpisce», se Demostene non l’avesse denunciata nel suo discorso Contro Midia. In ogni caso, viene creato, citato e poi spifferato un momento appassionante. Potremmo sentirci le mani che formicolano, l’anima che si invola. 

Il primo maestro nell’arte di far traboccare la forza, ci dice Longino, fu Omero. Ecco Longino che descrive come Omero si trasformi nel suo stesso poema per diventare sublime quanto il suo soggetto: 

«Guardate, questo è il vero Omero che spira come vento accanto ai combattenti, nientemeno di quell’Omero che “infuria come Ares sferzante con la lancia, o come un rovinoso fuoco che divampa sui monti, nelle pieghe della profonda foresta, e la schiuma affiora intorno alla bocca”». 

La schiuma è il segno di un artista che ha immerso le mani nella propria storia, ma anche di un critico che si accanisce e si infuria nelle pieghe della propria, profonda teoria. È evidente alla maggior parte dei suoi lettori che Longino si muove attraverso il trattato Sul Sublime lui stesso coperto di schiuma. «Longino è lui stesso il grande Sublime che dipinge», dice Boileau. «Che cos’è più sublime: la battaglia degli dèi in Omero o l’apostrofe che ne fa Longino?», chiede Gibbon. «Le nature sublimi sono raramente pure!». Lo stesso Longino si esprime così. Uno schiaffo: paf! 

STOP

Il Sublime è grande. «Grandezza» (o «magnitudine») è uno dei sinonimi di sublime adoperati da Longino nel suo trattato. La sua grandezza minaccia di finire sempre fuori controllo, di sommergere e sopraffare l’anima che cerca di goderne. Questa minaccia fornisce al Sublime la sua struttura essenziale, un’alternanza di pericolo e salvezza, che altre esperienze estetiche (la bellezza, per esempio) non sembrano condividere. La minaccia fornisce al Sublime anche il suo contenuto necessario: cose terribili (vulcani, oceani, estasi) e terribili reazioni (morte, terrore, trasporto) all’interno delle quali l’anima sublime è tutto fuorché persa

La schiuma è un segno di quanto sia vicina questa minaccia. Infatti, un’anima sublime è minacciata non solo dall’esterno ma anche dall’interno, perché la sua natura è troppo grande per l’anima stessa. L’oratore sublime, il sublime poeta, il critico sublime, non sono che persone selvaggiamente smarrite nella propria arte, sospinte fuori di sé, incuranti, temerarie, in errore. «Bruciano tutto ciò che trovano dinanzi mentre vengono trascinati!». Longino insiste sull’estasi, sul genio che turbina fuori controllo, come il Reno o il Danubio o anche l’Etna, «le cui eruzioni scagliano dal basso rocce e rupi intere e versano fiumi di quel fuoco strano, spontaneo, nato dalla terra». Allo stesso tempo gli piace soffermarsi sull’orlo dell’Etna, osservarne la mostruosa emorragia, giocare con il controllo concettuale:

«Non si potrebbe forse dire di tutti questi esempi che… Il mostruoso suscita sempre meraviglia!». 

I film di Antonioni presuppongono molte forme di gioco con momenti di passione, diversi modi di diffonderne i contenuti. Al regista piace, per esempio, attirare l’attenzione sullo spazio fuori campo ponendo uno specchio al centro della scena, in modo da lasciarci intravedere un frammento decontestualizzato di mondo. Oppure gli piace regalarci due inquadrature in successione della stessa porzione di realtà, dapprima in primo piano, poi un po’ più in lontananza, non troppo diverse eppure sensibilmente disuguali. Usa anche una procedura, chiamata dai critici francesi temps mort, in base alla quale la telecamera viene lasciata girare su una scena dopo che gli attori pensano di aver finito di recitarla: 

«Quando tutto è stato detto, quando la scena sembra finita, c’è il dopo… Gli attori continuano per inerzia, per alcuni momenti che sembrano “morti”. L’attore commette “errori”».

Ad Antonioni piace documentare questi momenti dell’errore, quando gli attori fanno cose fuori copione, recitano «al contrario» come dice lui. Lì si può manifestare la schiuma. Ha iniziato ad allargare l’inquadratura in questo modo mentre lavorava a Cronaca di un amore. Ha poi lasciato che le riprese proseguissero anche dopo che gli attori erano usciti di scena. Come se qualcosa potesse continuare a frusciare, ancora per un po’, intorno a un portone vuoto.

Che i film di Antonioni siano o non siano sublimi, l’impiego che Antonioni fa di Antonioni lo è certamente. Così come lo è l’impiego che Longino fa di Longino. «Il Sublime è l’eco di una grande mente, come credo di aver detto altrove», dice Longino, facendo eco a se stesso con dolcezza. Si può ritrovare un simile effetto eco anche in Antonioni, soprattutto quando ci racconta la storia del giorno in cui è andato al manicomio, che si ripete in ogni intervista, in ogni conversazione o studio della sua opera. Racconta che la prima volta che ha puntato gli occhi in una telecamera è stato proprio in un manicomio. Aveva deciso di girare un film sui pazzi. Anche il direttore del manicomio sembrava pazzo, o almeno così parve ad Antonioni quando lo incontrò il giorno delle riprese. Eppure i pazienti si sono mostrati efficienti e disponibili nel fornire gli oggetti di scena e le attrezzature, oltre che nel preparare la stanza. «Devo dire che sono rimasto sorpreso dal loro buon umore», confessa Antonioni, prima di accendere i suoi grandi riflettori. 

La stanza «divenne un inferno». I pazienti urlavano. Si accartocciavano, si contorcevano e si rotolavano sul pavimento, cercando di scappare. Antonioni rimase impassibile, e così il suo cineoperatore. Alla fine, il direttore del manicomio gridò «via quella luce!». La stanza si fece silenziosa, con un lento e debole movimento di corpi che si lasciavano alle spalle l’agonia. Antonioni racconta di non aver mai dimenticato questa scena. Se quel giorno avesse girato un film, sarebbe stato un documentario fatto di schiuma. Ma i matti, che sapevano bene cosa fosse un rovesciamento, non volevano essere citati. Bisogna ammirare i pazzi. Sanno come valorizzare un momento di passione. Anche Longino lo sa fare bene. Il suo trattato termina così: 

«Meglio lasciare queste cose e passare a ciò che viene dopo: le passioni, riguardo alle quali mi sono impegnato a scrivere in un altro…». 

Qui il manoscritto Sul Sublime si interrompe. La pagina successiva è troppo danneggiata per essere letta e non si può dire quanto davvero manchi alla conclusione. Longino pattina via. 

IL GIORNO IN CUI ANTONIONI ARRIVÒ IN MANICOMIO
(Rapsodia) 

«Fu un momento inquietante. Si avvicinò». 

Lucia Bosè 

È stato il suono della sua scrittura a svegliarmi. Visto che me lo chiedete, questo è quello che ricordo. La sua scrivania è appena fuori dalla mia stanza. Certi giorni sento suoni troppo forti. Altri, sento una folla e la folla non c’è.

Sulla sua scrivania tiene appunti. Compila liste dei nostri medicinali. Fa le parole crociate o mette un segno di spunta ai margini degli annunci economici. Un suono lieve, secco e stridente. Gli altri ne sono inconsapevoli. Queste differenze sono difficili da sopportare. 

Poi c’è stato l’ammutinamento. Ci hanno detto di scendere in fretta nel salone e «partecipare», quindi ci siamo tutti spogliati. Diciotto persone nude in sala. Lei non ha detto una parola. E questo ci ha spaventato. Ci siamo rivestiti. Tute da lavoro, niente più donne e uomini. 

Ciò che l’occhio poteva scorgere era una pila di documenti sulla sua scrivania, con minuscoli paragrafi, firme e graffette. Questi documenti non sono stati più visti nel salone né altrove. Li tengo d’occhio. Sono stati i documenti a portare la maggior parte di noi qui. «È lui», disse qualcuno mentre scendevamo le scale. Antonioni indossava un maglioncino marrone e sembrava un gatto. Volevo dargli una leccatina o una carezza.

«Incline allo svenimento», direi, era l’umore nella stanza. L’arrivo improvviso di un bell’uomo, più che ingannare le persone, le terrà ben sveglie: ubriachi del nostro stato di veglia ci siamo precipitati a eseguire i suoi ordini. Essere svegli era qualcosa di cui molti avevano sognato, pur continuando a dormire per anni, come la famosa principessa nella bara di vetro. Una volta ho aperto un biscotto della fortuna cinese che diceva «alcuni realizzeranno il desiderio del cuore, purtroppo».

Si è messo dietro la sua cinepresa Bell & Howell da sedici millimetri. Due dei suoi uomini davano istruzioni. Patty, Bates e io spostavamo le sedie trascinandole. Gli spessi cavi neri dovevano esser srotolati del tutto per raggiungere le prese. Non stavamo commettendo errori. Eravamo estremamente attenti. Niente scherzi. Niente sonno. Niente sguardi indiscreti. E lei stava al proprio posto vicino al muro, a ripiegare il suo cruciverba, e cercava di apparire calma. Dal momento che contiene la parola issopo, il Salmo 51 è il mio preferito. 

L’issopo (come forse saprete) è un’erba purificatrice che profuma di una menta proveniente dallo spazio siderale. «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Ho sentito una zaffata di issopo proprio quando quei grossi cavi neri si sono attivati (la luce inizia a puzzare quando ce n’è troppa) e un improvviso bagliore mi ha allineato ai tappeti, sul pavimento. Eravamo tutti sul pavimento e Patty ha urlato «continuate a girare», e così abbiamo fatto (per scongiurare la morte) e ogni volta che Bates mi passava davanti ci baciavamo, come avevamo stabilito di fare durante le attività di gruppo (ce ne sono molte, qui), perché la vita è breve e il desiderio ardente è desiderio ardente. 

Secondo Patty, se non mi trovassi in questo posto, non avrei tempo per uno come Bates. Le ho risposto che sono un tipo pratico e Bates è la mia pratica in questo momento. «Avere tempo per» è esattamente il punto. I giorni qui sono lunghi duecento anni. Gli estranei (Antonioni) entrano alla velocità sbagliata. 

Scommetto che lui lo sapeva. La sua faccia era quella di chi entra in una stanza e non trova il pavimento. Nel frattempo, siamo rotolati fino alla parete e a un segnale di Patty abbiamo fatto retromarcia e siamo rotolati indietro. Meravigliosamente, ho pensato, era come giocare a bowling. Antonioni sembrava addolorato dalle grida di tutti. 

Gridare è la regola qui – la regola dei pazzi –, nasconde i baci e ci rende meno tristi.

Antonioni aprì gli occhi. Lei si allontanò dal muro e gli si avvicinò. «I pazienti hanno paura della luce», gli spiegò, «pensano che sia un mostro». Questo tipo di disinformazione spontanea è tipico della professione medica. In fin dei conti, suppongo che difficilmente avrebbe potuto dire «i pazienti venerano Afrodite, donatrice di vita, ogni volta che ne hanno l’occasione, grazie per aver favorito questa opportunità». Comunque, non ho certezza di quanto intelligente lei sia. Un giorno le ho raccontato dell’evoluzione: che all’inizio le persone non avessero un sé, almeno non come noi abbiamo un sé oggi, c’erano le braccia le teste i torsi e compagnia bella a vagare intorno ai frangenti della riva della vita, le caviglie staccate, gli occhi senza sopracciglia, finché alla fine ciò che unì le varie parti in creature complete fu l’Amore, e lei disse «conosci una parola di sei lettere per “donna dissoluta o sfrenata derivante dal suono degli zoccoli di un cavallo che scende lungo una strada di notte”?». Al che ho risposto «sì, la conosco e posso fare la doccia con Bates stasera, giusto?». 

Pianificare sempre in anticipo, questa sono io, pratica come il purgatorio, come diceva sempre mia madre. «Esulteranno le ossa che hai spezzato». Ma adesso eravamo diciotto persone orribili, in una stanza. Cercavamo di non guardarci mentre ci alzavamo dal pavimento. Antonioni si è dato una scossa come un gatto ordinato e si è ricomposto. Il direttore del manicomio era accanto a lui e mormorava, con un tono di voce sottile, qualcosa tipo «vediamo cosa abbiamo imparato oggi». Sobri cenni di assenso da ogni parte. Avrei voluto ascoltare un commento di Antonioni. I gatti non si spendono ma notano tutto. Ho visto che ha notato Bates. Così, per un istante, i nostri destini si sono sfiorati.Della fresca neve bianca si era depositata sulla scura fanghiglia all’esterno. Patty ha espresso disappunto per il tono e il tenore generale della mattinata. «Un losco spettacolo di merda, amica mia», credo siano state queste le sue parole precise. Eppure, ci prendiamo la fortuna quando accade. Niente migliora la vita comunitaria quanto un’ora di aerobica, come prima attività, la mattina. Le grida sono lievi per tutto il resto della giornata. «Purificami, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve». Ed era venerdì, angel cake per cena, docce calde a seguire e chissà quali disposizioni interne. Dal giorno in cui le ho dato la parola che cercava («tittup») mi tratta con particolare cura. «Non startene in lutto», dice, inclinandosi all’indietro su due gambe della sedia. 

ARTICOLO n. 25 / 2023

ARTE O VANDALISMO?

Arte activa volume 1

Quando un’opera d’arte viene aggredita, per qualche tempo i titoli dei giornali e le bacheche dei social si gonfiano di indignazione. Sporcare una cornice, tagliare una tela, scrivere uno slogan su una statua, che si tratti di azioni simboliche o reali, in molte persone scatenano un biasimo pari se non superiore a un attacco alla loro proprietà – e in un certo senso è comprensibile, perché l’arte è un bene comune.

Il caso più recente è quello dell’attivismo ambientale legato a gruppi come Just Stop Oil e Ultima Generazione, che hanno attirato l’attenzione attraverso azioni che consistevano principalmente nell’incollare o sporcare con vernice lavabile i vetri protettivi di alcune importanti opere d’arte. La logica dichiarata dietro queste proteste, che si sono ripetute in vari musei europei, è che l’impegno profuso per preservare le opere d’arte non è commisurato a quello dedicato a evitare eventi che mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana che produce e ammira quest’arte. In tempi meno recenti è accaduto per l’abbattimento o la vandalizzazione di statue considerate celebrative verso persone o eventi tutt’altro che positivi. Tra i tanti idoli caduti (o macchiati) c’è la statua di Jefferson Davis a Richmond (USA), presidente degli stati confederati e combattente nella guerra di secessione, la statua di Edward Colston, uno dei benefattori della città di Bristol, ma anche uno schiavista responsabile del commercio di decine di migliaia di persone dell’Africa occidentale. In Italia non sono al corrente di statue abbattute, ma c’è chi ha sporcato più volte la statua del giornalista Indro Montanelli, per rivalsa verso il suo passato fascista e colonialista, mai rinnegato. Chi non si è scandalizzato per questi eventi o li ha valutati positivamente è possibile che non abbia ben accolto la distruzione da parte del governo talebano delle antiche statue dei Buddha di Bamiyan nel 2001.

Se mettiamo da parte una reazione immediata ed emotiva, non è facile spiegare cosa accomuna e cosa differenzia queste azioni. Si tratta di attacchi all’Arte o addirittura di una sua manifestazione? Per facilitare l’analisi è anzitutto necessario fare qualche distinzione. Semplificare il mondo in dicotomie è una tendenza che porta spesso a gravi errori, perché di rado troveremo qualcosa di genuinamente binario in questo vasto e vario mondo; nel caso specifico, etichettare come “violenza” tutte queste azioni per darne un giudizio analogo è un po’ come considerare un omicidio e l’uccisione di una zanzara allo stesso modo, in quanto entrambi atti di violenza. Al netto della grande questione della liceità della violenza in determinati contesti, stiamo parlando di casi molto diversi, perché in nessun modo aggredire simbolicamente un’opera per attirare l’attenzione su una tematica ecologica è equiparabile a distruggerla in quanto giudicata blasfema. Se però il gesto di Ultima Generazione e quello dei talebani non è comparabile, questo non significa che quest’ultimo – che, a scanso di equivoci, condanno – sia un affronto all’Arte.

Partiamo da una banalità: le opere d’arte non sono eterne, perché nulla lo è. Non solo prima o poi saranno tutte distrutte in qualche modo, ma la loro identità è soggetta a un continuo mutamento anche nel (raro) caso in cui il loro supporto materiale resti perfettamente integro, perché a mutare è il contesto in cui sono situate. La Monna Lisa, per fare un esempio, non ha subito alcun danno fisico dall’operazione artistica di Duchamp o di Andy Warhol, ma la sua portata simbolica è inevitabilmente mutata; per il banale scorrere dei secoli, perché le nuove generazioni guardano con occhi nuovi le opere antiche, ma anche per la stratificazione di significato che altre operazioni artistiche (come quella di Duchamp o Warhol) hanno posato su di essa. Le opere d’arte sono delle prassi simboliche intense e operative, che l’uomo si tramanda di popolo in popolo e di generazione in generazione. Non sono mai inerti e agiscono diversamente in base al contesto. Le statue dei Buddha, che per me sono delle inestimabili opere d’arte e la testimonianza di una filosofia millenaria, nel contesto culturale dei talebani sono delle blasfemie.

Se il distinguo con l’operazione di Warhol, Duchamp o Ultima Generazione è semplice, perché sono casi in cui l’opera d’arte ha subito una naturale risemantizzazione senza subire alcun danno fisico – cosa che potremmo anche tradurre: senza eliminare la possibilità dei suoi significati precedenti – nel caso delle statue colonialiste o dei Buddha di Bamiyan la situazione è ben diversa. Ma perché, mi sono chiesto, sono d’accordo con l’abbattimento della statua a Bristol e contrario alla distruzione di quelle a Bamiyan? I motivi sono essenzialmente due. Il primo è legato a un’adesione etica: per motivi che qua non è necessario specificare sono simpatetico verso il messaggio politico dei manifestanti di Bristol e contrario a quello dei talebani. Il secondo è un’istanza estetica: non considero la statua di Edward Colson (o quella di Montanelli, se è per questo) rilevante dal punto di vista artistico, a differenza dei Buddha di Bamiyan. A conferma di questo va detto che se Giuliano de’ Medici fosse stato un orrendo despota schiavista, non per questo avallerei la distruzione della statua di Michelangelo Buonarroti. Un po’ è perché le ferite più lontane nei secoli non fanno più male (distruggereste una statua a Gengis Khan?), ma molto è per via del valore artistico dell’opera, motivo per cui non abbatterei nemmeno il complesso dell’EUR, nonostante la sua ascendenza fascista. Per quanto suoni banale, abbattere delle statue “brutte” è incommensurabile rispetto ad abbatterne di “belle”, quale che sia il loro valore simbolico; spiegare la differenza però non è facile, dato che non esiste alcun criterio oggettivo di bellezza artistica. Ciononostante non penso che ci sia qualcosa di anti-artistico in questi atti, perché tutti si muovono all’interno della normale vita dell’opera d’arte, ovvero una continua e operativa risemantizzazione, la cui durata coincide con l’interesse della nostra specie. Senza una sufficiente motivazione a preservarle, infatti, difficilmente le nostre opere ci sopravvivono.

A questo si affianca il fatto che l’iconoclastia è una prassi che torna spesso all’interno della stessa storia dell’arte, sebbene con oggetti diversi. Il caso più celebre è forse il Futurismo, che sin dal Manifesto decreta: »Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie». Un caso meno noto è quello del Situazionismo, che come riporta Stella Succi in un interessante articolo sul vandalismo nell’arte, si schierò a favore dell’accoltellamento da parte del pittore Nunzio Van Guglielmi della tela dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano:

L’artista Asger Jorn interviene a sua difesa, stilando, il 4 luglio 1958, un documento che firma a nome della Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista [sic]: «Noi situazionisti protestiamo contro l’internamento ipocrita in un manicomio di Nunzio Van Guglielmi, perché in giugno a Milano è arrivato a scalfire leggermente un mediocre quadro di Rafaello. Noi constatiamo che il contenuto del manifestino posto da Guglielmi sul quadro di Rafaello (…) esprime il voto di un grande numero di italiane col quale siammo. Vogliamo quindi attirare l’attenzione sul fatto che esso sarà un crimine contro la vera scienza psichiatrica di interpretare, col’aiuto della polizia psichiatrica, un gesto ostile alla chiesa ed al defunto valore culturale dei Musei, come una prova sufficiente di follia. Sottolineiamo il pericolo che presenta una tale precedenza per tutti gli uomini liberi e per tutto il futuro sviluppo culturale ed artistico».

Quale che sia la nostra opinione riguardo ai casi particolari, come ha modo di sottolineare Succi, «che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno compiuto un’operazione simile: hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite». Questo perché, che si tratti di baffi o di vernice, di collage o tagli, machine learning o dinamite, ogni azione su un’opera d’arte ne muta il significato, e, anche se apparentemente la uccide, la rende vitale. Nel commentare la distruzione dei Buddha da parte dei talebani, Fabrizio Rondolino scrisse su La Stampa del 14 marzo 2001, che: 

«Il diritto di erigere statue, che nessuno finora ha messo in discussione, deve infatti contemplare il diritto di abbattere altre statue. Si tratta anzi di uno stesso diritto, che appartiene al vincitore di turno non importa se politico o religioso proprio in virtù della vittoria conseguita. Forse, parafrasando Brecht, si potrebbe sostenere che è felice quel popolo che non ha bisogno di statue. Ma finché qualcuno vorrà erigerle, qualcun altro potrà abbatterle. La storia, al pari della natura, non è un museo da conservare intatto per turisti distratti, ma un movimento incessante che alterna creazione e distruzione. Non si può conservare tutto. Purtroppo, non sempre possiamo decidere che cosa tenere e che cosa buttare».

Credo che il fulcro sia proprio in quel “poter decidere o meno che cosa tenere e che cosa buttare”. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la distruzione dei Buddha a Bamiyan non è sbagliata perché “non si deve toccare le opere d’arte”, ma perché la nostra cultura ci ha insegnato – e noi siamo d’accordo – che certe opere d’arte vadano preservate, che non c’è nulla di blasfemo nel buddismo e che i millenni lavano la portata etica delle vestigie storiche. O anche, semplicemente, che erano delle statue bellissime. L’arte è un processo di continua significazione, distruzione e risignificazione, motivo per cui anche distruggere un’opera è farla parlare: bisogna però capire se siamo d’accordo con questa sua nuova voce.

C’è una prassi che esemplifica bene la natura antinomica della questione, ovvero il caso del reimpiego. Questa pratica, che consiste nel riutilizzo di materiali da costruzione esistenti come sculture ed elementi architettonici, era molto comune nell’antica Roma e nell’Europa medievale. In molti casi i materiali reimpiegati venivano incorporati in altre opere d’arte, in modo da conferire loro un nuovo significato e una luce più in linea con la morale dei tempi. Così le antiche colonne e i capitelli romani venivano riutilizzati nelle chiese e nei monasteri medievali, dove venivano adattati alla nuova iconografia religiosa. Ecco il paradosso: queste opere d’arte, che ora giudichiamo inestimabili, sono nate grazie alla distruzione di opere altrettanto inestimabili – sia condannare che avallare questa pratica implica dunque l’inesistenza di opere d’arte.

Per risolvere questo dilemma mi sono rivolto a ChatGPT, un motore per la creazione di testo su base statistica che spesso si dimostra una sorta di enciclopedia vivente dei nostri pregiudizi. La sua risposta, frutto di tira e molla e prompt engineering, è stata interessante: «È importante notare che il riutilizzo di materiali di riuso nell’arte antica e medievale era generalmente una pratica eseguita con l’approvazione di chi deteneva il potere. La distruzione di opere d’arte esistenti senza autorizzazione o autorità non è una forma legittima di espressione artistica e può essere vista come una violazione dei diritti dell’artista e del proprietario dell’opera». Insomma, il vandalismo è tale solo se il consesso sociale lo condanna. Più avanti, ChatGPT mi ha suggerito che nel caso della creazione di una nuova opera d’arte attraverso la distruzione di un’altra il valore della prima dipende da una serie di fattori, tra cui il merito artistico della nuova opera, il significato culturale e storico dell’opera distrutta e il contesto in cui la nuova viene creata. In definitiva, secondo questa esternazione della mente popolare collettiva «il valore della nuova opera sarà determinato dal giudizio collettivo di storici dell’arte, critici e pubblico».Ricorda l’arguta espressione di Dino Formaggio, che nel 1973 scrisse che »l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte». Una definizione meno ingenua e soprattutto più precisa di quel che potrebbe sembrare, perché di fatto è l’unica che non viene in qualche modo smentita da qualche argomento o prassi artistica. Dobbiamo dunque guardare al “vandalismo” verso le opere d’arte come a una pratica più complessa e meno anti-artistica di quel che sembra, in quanto ci informa del modo in cui una determinata società reagisce e parla ai (e con i) simboli del passato. Ogni opera è collettiva, ogni linguaggio vive distruzioni e rinascite. La domanda che dobbiamo porci non è se sia giusto o meno distruggere un’opera d’arte, quanto piuttosto: cosa ci dice questo intervento? Come risemantizza l’opera? Qual è la nostra reazione al nuovo significato?

ARTICOLO n. 24 / 2023

FIGLI CHE SI SCOPRONO NON ETEROSESSUALI

Around The Table. Una serie americana in italiano

I nomi dei personaggi di questa serie sono inventati, anche se avrei tanto voluto chiamare mia figlia Vera, ma ho perso quella discussione sui nomi. Pazienza. Falsi anche alcuni (pochi) dei racconti di famiglia. Ma, credetemi, non sono una bugiarda: pensate che l’enorme balena bianca si chiamasse davvero Moby Dick? O il ragazzino di Ida, Useppe, o la tipa che perde la scarpa Cenerentola? E io mi adeguo.

Eravamo tutti e cinque a tavola: io, mio marito Ryan e i nostri figli Andrea, Martina e Vera. Si chiacchierava del più e del meno e si cercava di convincere Andrea (autistico ventiseienne tendenzialmente asociale) di stare a tavola con noi, con i soliti scarsi risultati. «Ah, a proposito», dice Martina, che stava frequentando il primo anno di università, «sono di genere non binario». Rispondo: «Bene, sono contenta!». 

In effetti, è da quando Martina era piccolina che ha sempre preferito amici maschi, perché le femmine litigano sempre; il monopattino alle bambole, perché dopo un po’ che noia, vestiti di colori neutri piuttosto che il rosa, a parte un periodo di principesse scemato molto velocemente. Le avevo comprato le Barbie, nascondendo al meglio possibile la mia insofferenza nei confronti di corpi sproporzionati, capelli che a toccarli vengono un po’ i brividi e vestiti improbabili. Ci ha giocato per due, tre settimane al massimo. Al pomeriggio, dopo la scuola, andava al parco di fronte a casa (allora abitavamo a Brooklyn, ma poi ci siamo trasferiti a Cambridge, nel Massachusetts) a incontrare Henry, Zac, Anton, Maceo: la sua banda. Tornava sporca e sudata. Stanca e felice. Ha avuto, a dire il vero, un’amica femmina, ma quando la madre telefonava per chiedere se Martina volesse andare da lei a giocare, Martina mi faceva cenni con le mani per farmi dire di no. 

Quando le ho imposto di cercare uno sport, quello che le piaceva di più, perché non è che si può stare in camera davanti al computer tutti i pomeriggi, ha scelto il roller derby, un gioco violento e di contatto, giocato sui pattini a rotelle, con atlete esclusivamente femmine, quasi tutte lesbiche. Lì ha cominciato a frequentare più ragazze, ma non quelle che da piccole giocavano alle bambole. Erano molto neutre per quanto riguarda il genere, e spesso tra loro nascevano amori detti e non detti. Martina era entrata a far parte di quel gruppo con estrema naturalezza. Io e Ryan eravamo convinti che fosse anche lei lesbica, ma un giorno ci ha annunciato, sempre con la naturalezza di cui sopra, di aver conosciuto un ragazzo. In Internet. Il ragazzo era un tipo dell’Alabama, che lei voleva andare a conoscere. Dopo lunghi pianti e ancor più lunghe discussioni, siamo arrivati a un compromesso: se vuole, può venire lui. Che infatti puntualmente è arrivato, lui con degli stivali da cowboy bianchi francamente improponibili e io con un bicchiere di vino (il terzo) pieno fino all’orlo.

Oltre che essere terrorizzata del fatto che sicuramente la mia bambina di diciotto anni fosse in camera sua a far l’amore (l’ho preparata bene? Cosa faccio, busso e le dico di non avere senso di colpa, che anche la mamma e papà ogni tanto lo fanno? Li avrà dei condom? Credo di averle detto che se non vuole fare nulla, per l’amor d’un Dio, deve saper dire di no, ma non sono sicura) ero stupita, e non poco, del fatto che si fosse innamorata di un maschio. Ricordo, nel panico generale, di aver chiesto a Ryan: «Ma scusa, non era lesbica?»

La sera a cena, quando ha annunciato il suo cambio di genere, ero molto contenta di aver scoperto un aspetto importante di lei. Anche per Martina deve essere stata una liberazione: è una conquista importante capire chi si è e condividerlo con gli altri, malgrado non sempre sia una notizia accolta a braccia aperte. Molte persone infatti cercano di sopprimere la propria identità di genere. parte qualche storia con delle ragazze, finora ha sempre preferito avere morosi Mi ha spiegato, perché la maggior parte di quelli della mia generazione è un po’ ignorante sul soggetto, che essere di genere non binario non ha nulla a che fare con la preferenza sessuale: una persona come mia figlia si sente un po’ in mezzo tra il sentirsi donna o uomo, ovvero non riesce a sentirsi a suo agio né quando si dichiara maschio né quando si dichiara femmina. È attratta da maschi o come Martina, di genere non binario (ma nati col pisello, per intenderci).

La sua richiesta è stata che da quel momento, quando parlavamo di Martina, avremmo dovuto usare un pronome neutro: they. È un pronome plurale, è vero, ma per ora sembra essere il più gettonato. Ho fatto molta fatica a ricordarmelo, perché è grammaticalmente sbagliato, ma da qualche anno a questa parte ho fatto passi da gigante: non mi sbaglio quasi mai. 

A Cambridge, dove viviamo, la gente è particolarmente liberal, nel senso che è aperta alle diversità di razza, di classe e di genere. Moltissimi ragazzini delle medie e del liceo si sono dichiarati di genere diverso da quello che è stato dato per scontato alla loro nascita, perché è una città che accetta le diversità con molta disinvoltura: per anni abbiamo avuto una sindaca gay, nera e musulmana, per esempio. I ragazzi qui si sentono compresi e accettati. A scuola non si percepisce discriminazione da parte dei compagni o degli insegnanti. Infatti, molti studenti preferiscono fare coming out a scuola prima di farlo a casa, perché esistono alcune culture che fanno fatica ad accettare questo tipo di discorsi.

Quando anni fa Martina ha annunciato la sua vera identità di genere, non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo in Italia, il suo futuro sarebbe molto più difficile, anche se percepisco un vento di cambiamento. Ho letto di molti genitori che raccontano di figli simili a Martina; i giornali ne parlano sempre di più, intervistano sessuologi e psicologi su questo tema. Mi sembra di capire che alcune cose stanno cambiando. 

Due anni fa stavo ancora lavorando al mio ultimo libro, in cui mi sono posta molte domande su come affrontare da genitori la sessualità dei propri figli senza piangere o senza volersi buttare giù dalla finestra. Avevo appena finito il capitolo in cui descrivevo la rivoluzione di genere come una delle più significative della Storia con la esse maiuscola. Per i maschietti ancora adesso si mette il fiocchetto azzurro (il colore dei principi) per le femminucce quello rosa (il colore delle Barbie). Siamo il risultato di millenni in cui siamo stati guidati dagli uomini, i “protettori” di noi povere femminucce deboli e servili. Se non ci fosse un genere considerato superiore, non ci sarebbero le discrepanze maschiliste che noi donne subiamo senza neanche accorgercene. Nel capitolo cercavo di spiegare come le dichiarazioni sul proprio genere, esprimere quello che si è senza timore, aggiungano un senso alla nostra sacrosanta libertà. L’editor che mi aiutava mi ha chiamato che a Milano erano le tre di notte per dirmi che avrei dovuto cambiare o addirittura togliere quel capitolo, «altrimenti ti leggeranno solo le lesbiche e quelli di estrema sinistra», gruppo, tra l’altro, di cui sarei fiera di avere tra i miei lettori. Diceva: «è tutta una questione di moda, questi ragazzini sono privilegiati e davvero non hanno nient’altro a cui pensare? Un’americanata che in Italia non capiterà mai». Sono stata gentile, ma ben ferma sulla mia posizione: che vantaggio avrebbe un ragazzino ad annunciare che si sente femmina se non è vero? Sono temi difficili da accettare e da condividere con genitori, amici, insegnanti. Altro che moda. C’è dietro a tali dichiarazioni una grossa sofferenza, che parte dal terrore di non essere accettati per come si è. Tzè… la moda… È complesso essere cresciuti in una società storicamente omofoba. Figurati te: una moda… Una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto ragione: me lo ricordo perché mi capita raramente.

Gli Stati Uniti sono un Paese notoriamente bigotto, ancora lì a discutere se il diritto di abortire è la strada più sicura per arrivare all’Inferno. È un Paese complesso, pieno di problemi sociali, strutturali; è un Paese violento, fervido sostenitore del diritto di comprarsi tutte le armi che si vuole, difensore spietato della proprietà privata. Ci vivo da trent’anni e posso affermare di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Eppure, benché Cambridge sia particolarmente aperta mentalmente, non è certamente un’eccezione: negli Stati Uniti i diritti per le persone LGBTQ sono diventati leggi. Si chiama TITLE IX quella che proibisce la discriminazione nelle scuole; il TITLE VII (parte del Civil Rights Act, approvato nel 1964) condanna discriminazioni sul lavoro. Si chiama FEDERAL FAIR HOUSING ACT l’atto giuridico in materia di alloggi che vieta discriminazioni per quanto riguarda case o appartamenti in affitto o sul diritto di ottenere un mutuo. Nel 2020 è stato stipulato che non occorre più mostrare documenti medici per certificare il proprio genere sul passaporto americano. Ma soprattutto: è federalmente proibito discriminare persone dello stesso sesso (o genere) che si vogliono sposare o che vogliono adottare o avere dei bambini. Il che significa che, quando uno o una della coppia muore, per esempio, l’altro ha diritto all’eredità. Significa che se John e Steven si sposano, i loro diritti sono esattamente uguali a quelli di Giorgio e Susanna. E queste sono solo alcune delle leggi antidiscriminatorie: non siamo certamente ancora arrivati all’uguaglianza di diritti fra le persone cisessuali e tutti gli altri, ma la strada pare ben spianata per altre leggi. 

L’Italia, invece, è considerato il Paese dell’Europa occidentale peggiore per quanto riguarda i diritti LGBTQ. Non lo dico io, lo afferma ILGA, un’associazione mondiale in difesa dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans. In Italia, se si nasce fuori dagli stereotipi, non è possibile sposarsi, né adottare. La legge ZAN, che tutela crimini o incitamento all’odio, sembra essere sparita dai programmi legislativi. Nel 2007, Romano Prodi propose un disegno di legge per la tutela dei diritti di persone come Martina, ma poi finì tutto in un enorme nulla. 

Ho parlato di leggi antidiscriminatorie, perché malgrado ci siano discriminazioni in entrambi i Paesi, il fatto che esistano obbliga anche la società, volente o nolente, di accettare e accogliere la presenza di persone diverse da loro. In Italia, per ora, facciamo ancora fatica. Mi è stato confermato anche qualche tempo fa, quando in Italia è nata un’ennesima polemica sulla presenza di una cantante trans, Rosa Chemical, a Sanremo. La deputata di Fratelli D’Italia Maddalena Morgante, nel suo discorso intenzionato a stoppare la “promozione di propaganda transgender”, non si vergogna a sostenere che «la rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La TV rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori. Il Festival della Canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». A proposito di tutele delle minoranze, appunto.

Sono palesi le differenze tra la riflessione tradizionalista della signora Morgante e le serate dedicate ai premi per cinema e musica qui, negli Stati Uniti. Forse l’evento più simile al Festival di Sanremo è quello dedicato ai Grammy, cioè alla musica contemporanea con la differenza che questi vengono seguiti in tutto il mondo, mentre sul nostro Festival non troveremo certamente articoli sul New York Times. Il premio per il disco migliore dell’anno è stato vinto da Harry Styles, ex-membro del famosissimo gruppo One Direction. Che, nonostante l’abbigliamento, classificato come “gender fluid fashion”, non ha mai voluto condividere le sue preferenze sessuali. Ha vinto anche l’artista tedesca Kim Petras, la prima trans a vincere nella categoria Best Pop Duo. Oltre a loro, in gara c’erano più di dieci artisti LGBTQ. Ai Golden Globes una persona trans ha vinto l’ambito premio Emma D’Arcy e molti altri sono stati concorrenti. I giornalisti più seguiti su CNN negli Stati Uniti sono gay e non lo nascondono: Anderson Cooper, il più conosciuto, ha avuto un figlio grazie a una gravidanza surrogata, cosa che in Italia viene vista come un atto demoniaco.

Detto questo, spero di non passare per una di quelle persone convinte che gli Stati Uniti siano una specie di paradiso terrestre: lo è per chi è bianco, maschio, ricco, cristiano ed eterosessuale, proprio come Fabio Volo (ma in inglese). Per tutti noi che ci viviamo cercando di stare a galla, è un esperimento per capire se le persone che arrivano da tutto il mondo possano convivere in pace. La strada è ancora molto lunga, ma la speranza è l’ultima a morire.

ARTICOLO n. 23 / 2023

IL TEATRO COME POSSIBILITÀ

Intervista di Isabella De Silvestro

La longevità e l’ossessività sono una risorsa immensa. Lo dice Armando Punzo, che nell’agosto del 1988 varca le soglie del carcere di Volterra per un laboratorio teatrale di duecento ore che si trasformerà nella pratica artistica a cui dedica la vita da più di trent’anni. Fra le mura della galera Punzo trova un luogo dove restare, dopo anni di moto insoddisfacente per l’Italia e l’Europa. «Della mia vita fuori dal carcere non ricordo quasi niente». Sembra ricordare invece ogni parola pronunciata nello stanzino di tre metri per nove dove nasce la Compagnia della Fortezza, un gruppo costituto da detenuti attori che lavorano con lui per dare vita, giorno dopo giorno, a un’idea di teatro che valica tanto la tradizione quanto la pretesa rieducativa e assistenziale: una pratica artistica che fa della ricerca la chiave per mettere in scena l’umano e le sue infinite potenzialità. La sofferenza e la fatica, gli ostacoli dell’arte e della vita pratica, le lacrime versate per qualcosa che davvero non amiamo e quelle per qualcosa che amiamo davvero.

Ho conversato con Armando Punzo un venerdì sera. Lui usciva dal carcere, io uscivo da Un’idea più grande di me, il libro edito da Luca Sossella Editore che raccoglie il lungo scambio tra il regista e Rossella Menna, studiosa di teatro e collaboratrice di Punzo. Ne uscivo affaticata e insieme colpita. La luce che l’esperienza della Compagnia della Fortezza è in grado di emanare viene dall’incontro tra un’idea ambiziosa e un lavorio costante e severo, un confronto senza risparmi con ciò che dell’umano confligge con lo stato delle cose. Del lavoro teatrale di Punzo insieme ai detenuti di Volterra colpisce la serietà e il rigore. Non vi è nessun cedimento al “sociale” come categoria che aggiunge valore per il solo fatto di promettere redenzione dalla propria condizione marginale. Vi è invece uno sguardo preciso su come è bene fare arte: senza prendersi un giorno di vacanza, capendo che, di un artista, la vita è ciò che accade mentre disperatamente cerca un linguaggio per dirla. E se non ci riesce, che almeno lo si veda disperatamente cercarla. La nostra conversazione si apre senza convenevoli. E questo credo venga dall’abitudine a non voler perdersi in chiacchiere. Si parli di qualcosa di serio o non si parli affatto. Ricordo una frase del libro: «Non è che non mi piaccia la vita, è che sento che solo se mi assicuro un livello profondo di relazione può esistere anche quello superficiale».

Isabella De Silvestro: Tra le prime cose evidenti a chiunque entri in carcere per la prima volta c’è il fatto che ad abitarlo è il Sud del mondo. Questo suo essere meridionale porta con sé miseria e vitalità, una certa violenza e un alto grado di onestà e introspezione. Ci sono però altri avamposti del Sud del mondo, altri luoghi dolorosi e vitali. Se si trattava di portare il teatro dove nessuno lo aspettava, la tua compagnia avrebbe potuto prendere forma anche altrove?

Armando Punzo: In linea teorica poteva accadere anche altrove. Resta il fatto che io da altre parti non sono andato. Avevo rifiutato il teatro ufficiale, non mi sentivo attratto dalle strade dritte e in verità nemmeno da quello che era allora il teatro di ricerca. Ho alzato gli occhi un giorno e ho visto il carcere: l’ho scelto interiormente. A me interessava la questione dell’essere prigionieri e il carcere era il luogo dove la prigionia di ognuno di noi, uomini e donne liberi, diveniva evidente, senza maschere. Ho iniziato a fare teatro a partire da quest’idea: le prime letture, prima ancora di Grotowski, mi hanno portato a scoprire un punto di vista su di me e sul mondo come di una persona che aveva degli automatismi di cui non era consapevole, che probabilmente non gli appartenevano e finivano per opprimerlo. Non sapevo di non sapere tante cose. Il carcere, dunque, mi è sempre interessato come metafora, mai come cronaca.

I.D. Il carcere è metafora della prigione che viviamo anche fuori e, contemporaneamente, della marginalità e dell’esclusione. Racconti di aver lasciato Napoli, la tua città natale, senza rimpianti e senza nostalgie; dici spesso che il distacco è una condizione auspicabile. Mi sembra una presa di posizione quasi mistica, da anacoreta del terzo secolo. Il carcere è forse il luogo del distacco per definizione, un luogo ermetico dove il flusso delle città è sospeso e la vita in arresto. Questo distacco, tanto dalle proprie origini quanto dalla frenesia e dalle convenzioni, è necessario all’arte?

A.P. Il distacco è la conseguenza dell’incontro con un linguaggio artistico, nel mio caso il teatro. Questo incontro mi ha permesso di negare la realtà in cui ero calato, creandone una a me più affine. Nasciamo in un luogo che non abbiamo scelto e molti lo abitano come una condanna. Praticare un linguaggio artistico permette di dare forma ad un’altra realtà, entrando in relazione con parti di sé che altrimenti rimarrebbero per sempre celate: è una questione di espansione del sé. Io ho desiderato fortemente prendere distanza dal mio luogo di nascita. Il luogo che ho cercato è il teatro, e mi è capitato di crearlo in una prigione, un luogo che sembra impedire ma allo stesso tempo preserva e protegge. La galera è simile a un monastero, un posto dove la riflessione può raggiungere livelli altissimi. Certo, esiste anche lì la vita ordinaria con le proprie regole, le scocciature e gli impedimenti. Sono cose che affronto e vivo ma a cui non do molto peso. Generalmente le persone pensano che scegliere di lavorare in un luogo marginale debba diventare un tema. È il male di questo periodo storico: l’ossessione per i temi. Il valore del mio teatro rischia di essere ridotto al tema della marginalità. Dal punto di vista del linguaggio artistico, quando il tema è più importante di ciò che fai significa che non hai ottenuto un grande risultato. Mi aveva colpito molto Contro l’impegno di Walter Siti, dove in fondo lui dice questo: c’è un’arte che è testimonianza, e dunque tema, e c’è un’arte che è viaggio di conoscenza, dunque processo. È un aspetto, quello della testimonianza, che non mi piace praticare. Il processo artistico è molto più complesso e mette in discussione l’essere umano più del discorso intellettuale o politico.

I.D. Vorrei parlare di questo processo. Quello che colpisce del lavoro della Compagnia della Fortezza è l’adesione tra idea e pratica: l’una si manifesta nell’altra e viceversa. Sembra esserci un grande lavoro corale sui testi, un rimestare e scavare, leggere e rileggere finché il testo non prende forma e consistenza, una ricerca continua di protagonisti sempre nuovi e in comunione intima con i personaggi che interpretano. Cosa accade nel concreto nello stanzino del carcere dove preparate gli spettacoli? 

A.P. Io arrivo con delle proposte. Si tratta di testi che ho letto e per qualche motivo mi interessano. Ma il percorso lo sviluppo sempre insieme ai miei attori, ho bisogno di capire se una ricerca interessa solo a me o se è qualcosa che effettivamente può risuonare anche in loro. È capitato negli anni che io proponessi qualcosa e lo vedessi morire nei loro occhi in un attimo. Quando ci approcciamo ai testi viviamo le parole come se fossero pensieri fondamentali che sono lì da sempre in attesa di incarnarsi in qualcuno. Ecco, rispetto ai protagonisti, normalmente nel teatro sono attori che si sono fatti un nome, hanno una pratica che li caratterizza e vengono scelti proprio in base a questo loro nome: il loro percorso artistico è in qualche modo scritto. Intorno ai nomi si costruiscono i ruoli. Questa è una modalità che io ho deciso di non praticare. Chi è stato protagonista di un mio spettacolo lo è stato perché quel tema, quelle parole, quel preciso momento della sua vita lo hanno portato a impegnarsi in maniera tale da farlo emergere come protagonista, talvolta anche suo malgrado, in maniera dolorosa. Non è una cosa che si può decidere a tavolino, emerge da quanto di sé un uomo impegna. E non è una conquista per tutta la carriera: un anno o due anni dopo, pur avendo delle capacità magari innegabili, la stessa persona può non essere protagonista perché la necessità, l’urgenza profonda, emerge in un altro. Questo destabilizza lo star system, per così dire. A me interessa far emergere le necessità umane delle persone con le quali lavoro, cosa che va molto oltre la questione di mettere in scena un ruolo. Mi interessa far capire che quando uno ha un’urgenza profonda riesce a superare incredibili difficoltà.

I.D. Nel vostro Pinocchio, il burattino di legno vuole tornare a essere albero. Non bambino, come ci si aspetta, ma il legno da cui è venuto “per augurarsi una foresta di alberi”. Come si concilia il protagonismo che richiede la pratica teatrale con l’idea di valicarsi, andando oltre il sé? 

A.P. Sono due livelli separati. Bisogna suddividere tra un io ordinario e un io superiore.

I.D. E il teatro sarebbe il mezzo tra queste due cose?

A.P. È una possibilità. Ma lo è di fatto, non a parole. Un attore, quando è in scena, non sta usando il suo io ordinario. Anche se non è consapevole di questo processo, chi entra in scena si immerge completamente in ciò che sta facendo proprio per prendere distanza dal suo io ordinario, nel quale auspicabilmente non si sente a suo agio: il teatro è una pratica per accedere a delle potenzialità superiori. Se uno legge la letteratura di formazione degli attori, da Stanislavskij a tutto ciò che viene dopo, si accorge che si tratta di una letteratura fortemente utopica. Viene chiesto a un uomo di lasciare se stesso e di mettersi alla prova attraverso un processo di scoperta. Un attore che sta in scena dà il meglio di sé, offre al pubblico la sua parte più luminosa: se abbiamo lavorato bene abbiamo un uomo al massimo delle sue potenzialità. 

I.D. A proposito di dare il meglio di sé, mi interessa il valore della stanchezza. Parli spesso della fatica come risorsa artistica, come se solo spingendosi oltre il sostenibile si raggiungesse il nucleo delle questioni. Mi chiedo se l’altra stanchezza, quella che viene dal contesto in cui tu operi, e cioè dal rapporto con l’istituzione carceraria e i suoi meccanismi, sia altrettanto vitale o sia piuttosto un brutto gioco a cui fare buon viso. 

A.P. Sicuramente la seconda ti mette alla prova. Il carcere è molto particolare in questo, è un sistema che ti affatica enormemente ma va affrontato e trasformato in una motivazione. In tutte le resistenze e le forze contrarie trovi il motivo per affermare il tuo lavoro che ha un segno completamente diverso rispetto alla vita ordinaria del carcere e merita di essere protetto. La fatica artistica invece è quella di una pratica: un danzatore sa cosa significa logorarsi fisicamente per un lavoro. È come uno scioglilingua, una cosa molto semplice, ripetitiva, ma molto complessa. Quando ti spingi oltre una certa soglia abbatti alcune resistenze naturali. L’uomo tende ad adagiarsi e a risparmiare, come gli uccelli. I pretesti degli uccelli migratori sono straordinari: non vorrebbero partire alla ricerca di una cosa che pure riconoscono come importante e necessaria, fanno una grande fatica ma poi si convincono e partono insieme. E arrivano lontanissimo. 

I.D. Cosa spinge le persone a seguirti in questa fatica? 

A.P. Io credo che ognuno trovi la sua motivazione. Alcune inizialmente possono sembrare futili, banali, ma ciò che importa è che la maggior parte delle persone rimangono perché scoprono che c’è molto di più. 

I.D. Il carcere è un’istituzione poco ambiziosa, forse figlia di una società poco ambiziosa. Sembra già miracoloso riuscire a garantire la presenza di una scuola professionale per i detenuti, ma apparirebbe assurdo pensare a un liceo classico. Assurdo e inutile. Come ciò che hai creato tu. La cultura e il teatro non servono che alla cultura e al teatro, e cioè all’uomo. In un luogo di privazioni e punizioni che valore ha porsi obiettivi più grandi di sé e del contesto nel quale si è immersi?

A.P. Io credo che questa tendenza ad accontentarsi del minimo sia lo specchio di ciò che succede anche fuori, dell’umanità di oggi. E sottolineo di oggi. Tutto è fatto per un tornaconto materiale. Sembrano discorsi sentiti e risentiti eppure non è che si sia risolto un granché. In carcere già sembra tanto riuscire ad affermare che serve una scuola, che serve un teatro. Andare più in là è difficilissimo: ci si propone magari di aumentare l’alfabetizzazione, di fare uno spettacolo bello, ma non si pensa a un futuro di uomini migliori con valori diversi da quelli che ci hanno portato dove siamo. È chiedere troppo.

I.D. Mi ha colpito un passo del tuo libro nel quale ti descrivi come una persona molto fragile nel rapporto con gli altri. Ti meravigliano l’ostilità, la malevolenza. Credi ci sia un valore nel porsi disarmati di fronte agli altri? L’illusione e l’ingenuità possono essere risignificate? 

A.P. A me non piace la parola illusione. Però vedi, ciò che faccio da anni dentro il carcere con gli attori della Compagnia della Fortezza non fa male a nessuno. Lo ripeto: non fa male a nessuno, ne sono certo, non ho alcun dubbio. Non può che fare del bene. Quindi, quando trovi qualcuno che ti viene contro, l’unica cosa che puoi fare è accettare che si tratta di persone che si trovano a un grado diverso di evoluzione. Non è permesso loro di capire. Puoi provare rabbia, pietà, dolore, ma resta il fatto che quelle persone, in quel momento, non arrivano a comprendere quanto ciò che fai possa fare del bene.  

A volte siamo dentro al carcere nel nostro stanzino e io chiedo ai miei attori: a quest’ora, alle cinque e mezza del pomeriggio, quante sono le persone che a Volterra stanno affrontando questo tipo di discorsi, si stanno affaticando per cercare delle soluzioni a questo tema, che sembra qualcosa di inutile? Forse nessuna, siamo solo noi. Forse c’è qualcun altro. E in Toscana? E in Italia? E così via allargando la scala. 

Io sono convinto che, se tanti facessero questa fatica, il mondo sarebbe migliore. E non mi sento stupido a dirlo, non mi sento ingenuo. Ne sono convinto. Mi rendo conto che è molto complesso, ci mancano i fondamenti. Dovremmo partire dalla scuola, o da prima ancora, dalla famiglia. Ma ci vorrebbe qualcosa che aiuti la famiglia se la famiglia è carente. Dovremmo crescere in maniera completamente diversa e non credo che stiamo andando in questa direzione. Se prima la scuola era una questione di cultura, ultimamente quasi per niente. L’idea del lavoro sta fagocitando ciò che è rimasto della scuola come opportunità di conoscenza.

I.D. Sembri leggere gli ultimi cinquant’anni sotto il segno della decadenza.

A.P. Questo è il mio difetto. Io sono nato negli Anni Settanta, e forse mi sbaglio. Nato dal punto di vista filosofico, si intende. In quel clima culturale. Mi spiego: io non penso che prima gli uomini fossero migliori. Però nei Settanta non mi sentivo da solo. Oggi sono più solitario e le altre persone che cercano una strada e una possibilità sono anch’esse sole. Non c’è più un clima generale. Mi sembra di vedere persone molto disperate, a partire dai giovani.

I.D. Durante il tuo spettacolo Mercuzio non vuole morire hai chiesto agli spettatori di riporre in una valigia «una lacrima versata per qualcosa che davvero non ami». Lo trovo bellissimo e non ho idea di cosa voglia dire. 

A.P. Quello spettacolo nacque dalla necessità di riscattare Mercuzio dal suo destino di morte. In Romeo e Giulietta Mercuzio è l’amico poeta di Romeo, il sognatore che parla della vana fantasia e muore quasi subito. Nella mia lettura, la morte di Mercuzio è la scaturigine di tutta la tragedia che segue, come se morto lui non ci fosse più niente da fare. Metaforicamente, se uccidi la tua parte sognante non rimane che sfacelo. La lacrima versata per qualcosa che davvero non ami non è propriamente un rammarico, è la lacrima per una mancanza, è la lacrima che versiamo quanto il mondo ci appare come un’aggressione e siamo chiamati a difendere le cose preziose di cui abbiamo parlato finora: questa ricerca, questa idea, questa pratica. È necessario versare una lacrima anche per le idee che non amiamo. Riguarda ciò che dicevamo rispetto alle persone e alle idee ostili al bello, chi non arriva a vedere oltre sé e ciò che gli è noto da sempre. È una lacrima versata per chi crede che non ci sia niente da fare: dentro il carcere, fuori dal carcere, si può sempre fare qualcosa.

ARTICOLO n. 22 / 2023

LA CIPOLLA DI MARTE E DI LUNA

La mistica del cibo

Accendo la stufa economica e ascolto lo scoppiettio della legna che prende pian piano. La cucina e la casa iniziano a mutare, a farsi più piccole, accoglienti, si sente nell’aria l’odore della ghisa che si scalda ed entro in una dimensione parallela di rusticità che mi riporta nelle campagne francesi, in una tipica casa contadina dal tetto di paglia.

All’imbrunire, la cipolla diventa più dolce, un ingrediente amico, che può diventare alimento principe di una cena scalda cuore.

Sotto al lavello di marmo tengo sempre un sacco di cipolle dolci francesi, proprio per questi momenti.

Le sbuccio, ne pregusto la succosità all’interno della croccantezza delle sue foglie: gli strati commestibili di questo bulbo sono a tutti gli effetti delle foglie modificate.

Succosa, leggermente piccante e dolce al punto giusto, croccante, è la cipolla perfetta da mangiare assieme ai čevapčiči, uno dei cibi che mi preparava d’estate mia nonna in Slovenia.

È lei che mi ha insegnato a mangiare la cipolla cruda dicendomi: «la cipolla è come una mela!» e a seguire ha mollato un morso pieno a una cipolla bianca enorme. Ci sono rimasto di stucco, ma ho imparato una lezione: la cipolla non è ostile, ma è un simbolo, risveglia in noi un classismo interiorizzato.

In epoca romana classica le persone colte evitavano chi puzzava di cipolla, e “mangiatore di cipolle” era un termine dispregiativo. Tuttavia, Varrone, un romano contemporaneo di Cesare, scrisse: «I nostri nonni erano persone molto rispettabili anche se le loro parole puzzavano di aglio e cipolla».

Il cibo è sempre stato segno di identità sociale, tanto che andava di pari passo con la propria estrazione, e chi non rispettava questa regola attentava al privilegio di classe, evadendo l’ordine sociale.

Zuco Padella, contadino della campagna bolognese, dopo essere stato colto a rubare le pesche del suo padrone, Messer Lippo, catturato con una trappola per animali, viene punito con un lavaggio di acqua bollente e la frase che gli viene detta rimarrà nella storia: »Un’altra volta lassa stare le fructe de li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cepolle, e le scalogne col pan de sorgo».

Il mangiare cipolla è da sempre stato simbolo della bassezza sociale, di una condizione di non-agio. Un mangiare da contadini, lavoratori o soldati, tanto da essere conditio sine qua non della razione kappa dei soldati romani, e data ai gladiatori, prima dei combattimenti, per aumentarne il furore bellico.

La cipolla è una delle prime piante addomesticate al mondo: nel Neolitico veniva coltivata in India, Cina e nel Mediterraneo orientale. Lo storico greco Erodoto ha notato come un’iscrizione sulla piramide di Cheope in Egitto indichi la quantità di cipolle, aglio e ravanelli mangiati dagli schiavi che la costruirono. 

Per i Pitagorici la cipolla aveva proprietà afrodisiache, quindi era un alimento da evitare nella propria dieta. Un bulbo che è pregno di significati e credenze erotiche, forse per la sua forma sensuale evocativa che assume se tagliato per lungo.

Una dose giornaliera dell’umile bulbo era considerata una condizione necessaria per un’attività erotica intensa e gratificante.

Si pensava infatti che contenesse la piccantezza di Marte, il dio responsabile dell’ardore. Per questo motivo i Greci ritenevano che le cipolle stimolassero il desiderio sessuale e la vivacità generale. Per i Romani non era diverso, come afferma questo detto sull’impotenza maschile: «Se le cipolle non possono aiutare, niente lo farà!»

L’Ayurveda indiano sostiene inoltre che la cipolla nutre il seme dell’uomo (shukra), per cui i medici la prescrivono per aumentare la quantità di sperma.

In effetti, i penitenti e gli asceti indiani (sannyasi) che hanno rinunciato alla mondanità e alla procreazione evitano di mangiare cipolle e aglio in qualsiasi circostanza, avendo questi una forza eccessivamente distraente.

La zuppa di cipolle è anche una famosa specialità francese che, si riteneva, portasse a delle “longue nuits de fole”, lunghe notti di follie sessuali: la soupe à l’oignon come afrodisiaco a basso costo!

Era considerata dai popoli mediterranei un miracoloso stimolante del desiderio, tanto che il poeta Marziale, in un celebre epigramma (dal Liber XIII), consiglia di saziarsi di cipolle per risolvere problemi con le voglie e con la moglie.

Cum sit anus coniunx et sint tibi mortua membra,

nil aliud bulbis quam satur esse potes.

Se hai una moglie vecchia e hai perso il vigore delle membra, le cipolle possono solo servire a saziarti.

Nella loro conquista delle terre del Nord, i legionari romani portarono con sé varietà di cipolle coltivate che piantarono nei loro giardini. I Celti e i Germanici erano entusiasti di questo nuovo “porro”, soprattutto perché l’aglio orsino, chiamato anche “ramsons” o “aglio selvatico”, era già considerato sacro dagli abitanti del Nord, che lo consideravano vitalizzante, depurativo del sangue e afrodisiaco.

Questo “porro” straniero, per il quale i barbari usavano vari nomi, come ynnlek, allouk, oellig, ublek o ullig, entrava nell’orto di ogni donna, dove, si dice, rimaneva. Il botanico tedesco Hieronymus Bock (1498-1554), che aveva sentito parlare del culto della cipolla sacra da parte degli Egizi, commentò: «Anche noi tedeschi non possiamo fare a meno di questi beni divini. […] Ci sono molti che credono che se mangiano un po’ di cipolla cruda a stomaco vuoto come prima cosa al mattino saranno protetti dall’aria cattiva e velenosa per tutto il giorno. […] Molti la usano per piacere lussurioso, altri per uso medico». Inoltre, egli notò che in Germania quasi nulla era più usato delle cipolle per preparare le torte tanto che ancora oggi nelle regioni della Germania meridionale la torta di cipolle rimane una specialità.

Le cipolle e l’aglio non hanno solo la piccantezza di Marte, ma appartengono anche alla luna acquatica e alla purezza, al candore. L’antichità classica e il primo cristianesimo vedevano nella cipolla un altro aspetto dei vari membri della famiglia dei gigli: erano visti come simboli di purezza, innocenza e verginità. In Grecia si credeva che i gigli nascessero dalla terra dal latte che colava dai seni di Era, la regina del cielo. Per i cristiani, il giglio divenne un simbolo dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria: l’arcangelo Gabriele scese dal cielo con un giglio bianco in mano quando annunciò il concepimento a Maria. Queste credenze si basano sulla percezione che le piante di giglio non sono del tutto ancorate a terra: le loro radici sono poco profonde e il modo in cui i bulbi si arrotondano alla base ricorda una goccia d’acqua. Questi bulbi simboleggiano il percorso compiuto dalle anime che si incarnano quando passano dall’alto dei cieli, attraversando la porta della luna fino alla sfera materiale della terra. Ma simboleggiano anche il ritorno dalla terra all’eterno grembo dell’essere.

La cipolla, una pianta triennale del genere Allium cepa, cipolla-aglio o allium, è originaria delle steppe asiatiche, un clima estremo al quale si è completamente adattata. Nella primavera umida, le piccole cipolline iniziano a germogliare e ad assorbire luce e calore fino all’inizio dell’estate. Più tardi, quando il clima diventa più secco, si formano i bulbi succulenti e semisotterranei, cioè le cipolle mature a grandezza naturale.

L’anno successivo questi germogliano in fiori e semi. Nel frattempo, per sopravvivere all’inverno secco e gelido delle steppe, i bulbi immagazzinano le forze vitali acquose della luna nella loro pelle stratificata, arricchendola di glicosidi solforati. Secondo gli alchimisti di un tempo, lo zolfo è un trasportatore di luce e calore. È questa combinazione di acqua lunare e di energia del fuoco di Marte che conferisce alle cipolle il loro straordinario potere curativo.

Porri selvatici e cipolle di vario tipo si trovano anche nelle steppe dell’America settentrionale, dove i nativi americani li raccoglievano per scopi alimentari e curativi. Il nome “Chicago” deriva appunto da una parola degli indiani Fox che significa “un luogo che puzza di cipolle selvatiche”. Proprio come le loro controparti eurasiatiche, i nativi americani usavano le cipolle per le punture d’insetto, le infezioni e le infiammazioni; estraevano il veleno e il pus dai carbuncoli e dagli ascessi con cataplasmi di cipolla o con uno sciroppo di cipolla ridotto (un metodo particolare degli Irochesi). Per guarire raffreddori e sinusiti, gli indiani Piedi Neri mettevano le cipolle su rocce arroventate e ne respiravano il vapore caustico. Le donne native americane in allattamento bevevano decotti di cipolla per trasferire le sue qualità curative ai loro bambini nel loro latte!

Le cipolle hanno una lunga storia nelle usanze popolari, nel simbolismo e nelle pratiche curative di India, Cina e Mediterraneo orientale. Ad esempio, il simbolo cinese di “intelligente” è lo stesso di “cipolla”. Le levatrici cinesi tradizionalmente toccavano la testa del nuovo nato con una cipolla, affinché crescesse intelligente.

La cipolla era una pianta sacra anche nell’antico Egitto di cinquemila anni fa.

I bulbi di cipolla venivano offerti agli dèi e messi nelle mani, sugli occhi o sui genitali delle mummie. Sulle cipolle si facevano giuramenti sacri. La pianta, delicata e succosa, era dedicata alla grande dea Iside e ai suoi sacerdoti era vietato mangiare cipolle. Iside è la padrona della periodicità della luna e dei ritmi femminili. Gli egizi credevano che la crescita della cipolla fosse legata alle fasi lunari, così come lo è il ciclo mestruale.

Il geroglifico egizio che indica la luna nella sua forma calante e crescente è una cipolla. La luna dà alle piante la loro energia vitale e governa i liquidi della vita. In quanto padrona della luna, la dea governa anche sulle acque, il latte cosmico della vita. La cipolla assorbe questo latte cosmico; quando una persona mangia quella cipolla, le ghiandole si attivano, comprese quelle riproduttive. Così, la cipolla divenne anche un simbolo di lussuria e procreazione. L’antica parola egizia che indicava i testicoli, oltre al geroglifico della luna di cui sopra, era la stessa che indicava la cipolla.

Questo bulbo così a buon mercato è stato a lungo un alleato dei poveri, sia come alimento che come importante guaritore, soprattutto per coloro che non potevano permettersi una visita medica.

Ancora oggi è una tra le piante curative più utilizzate nella medicina popolare. 

Cataplasmi a base di cipolle finemente tritate e cotte al vapore sono utilizzati con successo per molti disturbi, tra cui infezioni sinusali, ascessi e foruncoli, infiammazioni polmonari, infezioni alle orecchie medie e tonsilliti. Il pastore svizzero e guaritore Johann Künzle (1857-1945) ha sottoscritto l’uso tradizionale quando ha annunciato che: «Le cipolle tritate e cotte al vapore tirano fuori la malattia in modo così forte che diventano nere e puzzolenti; le cipolle assorbono il veleno della malattia».

La credenza nella capacità del bulbo di assorbire il veleno e le “radiazioni” negative era condivisa dall’Inghilterra all’Europa orientale. Gli inglesi appendevano un mazzo di cipolle in cucina per “assorbire la sfortuna” e addirittura indossavano una cipolla come amuleto o la strofinavano sulle piante dei piedi per far uscire le malattie dal corpo. In Boemia e nelle montagne di Erz, le cipolle bianche consacrate venivano appese in salotto il giorno dei Re Magi “perché attirano e neutralizzano le febbri”. Allo stesso modo, gli abitanti delle campagne olandesi appendevano un cesto di lino con cipolle tritate sopra un bambino malato che implorava. Si credeva che la cipolla fosse in grado di allontanare non solo malattie e pestilenze, ma anche streghe malvagie, spiriti maligni e vampiri. 

Per la nostra tradizione italiana, si pensa che portare una cipolla in tasca protegga dal malocchio. I serbi infilavano una cipolla tra i seni di una giovane sposa per proteggerla dai cattivi desideri che i vicini invidiosi potevano nutrire nei suoi confronti.

E queste superstizioni sulle cipolle si sono diffuse ben oltre l’Europa. In India, nei periodi di peste del bestiame, i contadini appendevano cipolle dipinte di rosso a una corda che attraversava l’ingresso del villaggio. In Cina era comune indossare una “collana” di cipolle durante l’epidemia di colera. In molti luoghi era considerato di buon auspicio per un convalescente sognare una cipolla, un segnale che garantiva il ritorno alla salute.

Lo sciroppo di cipolla (succo di cipolla ridotto in miele o zucchero), antinfiammatorio, espettorante e sedativo, è popolare in molti luoghi per la bronchite o la tosse persistente: questa ricetta è conosciuta sia in India che in America, portata dall’Europa dagli olandesi della Pennsylvania. Per il naso che cola, il guaritore naturale svizzero Alfred Vogel (1902-1996) consiglia il decotto di cipolla: cipolle a fette in infusione con acqua bollente, da sorseggiare durante la giornata. 

La medicina popolare raccomanda anche di tenere un cataplasma di cipolla calda per quindici minuti sui muscoli affaticati dalla lombalgia. Le articolazioni reumatiche, la sindrome del dolore sciatico e il dolore neuropatico, persino le punture d’insetto e le verruche, possono essere trattati con cipolla cruda appena tritata. Per un trattamento simile, le fette di cipolla cruda e salata possono essere avvolte sui calli durante la notte. Insomma, un toccasana per ogni male!

Non c’è da stupirsi, quindi, che si sia sviluppata un’intricata tradizione intorno alla coltivazione delle cipolle. Le cipolle da seme venivano messe nel terreno nel segno del Capricorno affinché diventassero sode e dure, mentre in Acquario sarebbero marcite e in Sagittario sarebbero spuntate senza formare un bulbo. Quando le si piantava nel terreno si consigliava di farlo con rabbia, imprecando, in modo da rendere le cipolle vigorose.

I contadini europei usavano le cipolle come oracolo durante i dodici giorni di Natale: si sbucciavano dodici bucce di cipolla, una per ogni mese dell’anno, poi le si cospargeva di sale. Il mattino seguente, in base a quanta umidità vi si era accumulata durante la notte si prevedeva la quantità di precipitazioni che si sarebbero verificate nei mesi corrispondenti dell’anno successivo. 

L’oracolo della cipolla è conosciuto in tutta Europa. Le giovani donne usavano la cipolla anche come oracolo matrimoniale. La Vigilia di Natale mettevano una cipolla per ogni scapolo conosciuto in un angolo del caldo salotto. Il 6 gennaio, per l’Epifania, vedevano se qualcuna era germogliata: nessun germoglio voleva dire nessun matrimonio per l’anno seguente.

Si pensava anche che le cipolle piantate il Venerdì Santo, giorno in cui il Signore fu inchiodato alla croce, sarebbero state pungenti, facendo “scorrere molte lacrime” quando mangiate.

Un detto siciliano dice: “iu manciu cipudda e a iddu c’abbrucianu l’occhi” (io mangio cipolla e a lui bruciano gli occhi): c’è chi si lamenta senza ragioni, e chi invece mangia cipolla, ovvero accetta la sua condizione con umiltà, anche se da lamentarsi ne avrebbe a buona ragione.

Ma perché la cipolla ci fa così piangere? Sono il solfuro di allile e propile, che assieme costituiscono uno dei più potenti lacrimogeni mai inventati. Il composto solforato allicina ha un effetto antivirale e antimicrobico. Inoltre, l’allicina rafforza il sistema immunitario aumentando l’attività delle cellule killer. Ostacola l’ossidazione del colesterolo nel sangue, proteggendo così dall’arteriosclerosi.

I “mangiatori di cipolle” regolari hanno valori ematici migliori; questo perché l’allicina rallenta l’adesione delle piastrine e accelera lo scioglimento dei puntini nel sangue. Inoltre ostacola i batteri nitrificanti e quindi lo sviluppo di nitrosammine carcinogeniche nell’intestino. Ma i benefici per il sangue non finiscono qui: gli acidi fenolici e i flavonoidi della cipolla hanno anche un effetto benefico sul sistema circolatorio, compreso l’abbassamento dei livelli di zucchero nel sangue dei diabetici. 

Mia nonna ha origini umili, nata nelle campagne della Slovenia dell’Ovest: mi ha insegnato tante cose della vita in campagna, oltre a cucinare, e anche a mangiare cipolle. Da quel giorno, non ho più visto la cipolla come un alimento da evitare, ma come un ingrediente che di per sé poteva essere principe di un pasto prelibato, di alta gastronomia!

Cruda o cotta, ridotta nel vino, flambata con il rum o messa sott’olio, la cipolla è uno degli ortaggi che preferisco, da sempre, nella mia cucina.

ARTICOLO n. 21 / 2023

IL MITO DELLA VERGINITÀ

Un uomo che posa accanto a due bambine, entrambe vestite con un elegante e raffinato abito bianco. Un altro che cinge la vita di una giovane adolescente e appoggia la fronte al suo capo. Ancora, un primo piano di un ragazzo e una ragazza – potrebbero sembrare coetanei – avvolti in abiti eleganti che si abbracciano con occhi chiusi ed espressione sognante.

Le immagini che ho descritto potrebbero comporre il portfolio di un fotografo specializzato in cerimonie. A un primo sguardo sembrano scatti di una comunione, di un diciottesimo, di un matrimonio. David Magnusson, il suo autore, è un artista visivo. Tra il 2011 e il 2014 ha dato vita a un progetto chiamato “Purity”, che raccoglie immagini di padri e figlie durante lo svolgimento di un purity ball in Texas, un evento molto sentito in cui figlie e padri si scambiano una promessa solenne: le prime giurano di rimanere vergini fino al matrimonio, i secondi di vegliare e proteggere sulla loro verginità.

Se, come abbiamo cercato di raccontare con l’articolo precedente, sussiste un forte legame tra maternità e matrimonio, dobbiamo riconoscere che ve ne è un altro che pone in stretta connessione l’abito bianco con un certo ideale di verginità che le future spose devono garantire. Per chi vive in occidente può sembrare un ragionamento ormai superato: oggi si arriva al matrimonio sempre più tardi, magari dopo anni di flirt, relazioni e convivenze. Tuttavia, è vero che in molte parti del mondo la verginità delle donne è ancora un parametro valido per determinarne “il prezzo” e la dote che deve assicurare alla famiglia del marito. In alcuni paesi la verginità viene considerata un prerequisito indispensabile per sposarsi; le donne indonesiane che volevano arruolarsi nell’esercito erano obbligate, fino a un paio di anni fa, a comprovarla mediante un apposito test. In Egitto, durante le rivolte del 2011, moltissime attiviste sono state sottoposte a questa pratica senza il loro consenso.

Ma come si effettua questo esame e cosa dovrebbe garantire?

Si tratta di una procedura (nel migliore dei casi effettuata dal personale sanitario) teoricamente necessaria per accertarsi che l’imene – cioè la membrana posta in corrispondenza dell’apertura vaginale – sia intatta. Come sostengono le scienziate Ellen Støkken Dahl e Nina Dølvik Brochmann, autrici del volume “Il libro della vagina” e ospiti al Ted talk di Oslo nel 2018, il test si basa su due premesse che oggi sappiamo essere del tutto infondate. La prima ha a che fare con il sangue: si ritiene cioè che durante il primo rapporto penetrativo l’imene si laceri provocando il sanguinamento; la seconda che questa lacerazione modifichi radicalmente il corpo femminile così da poter distinguere, proprio grazie al test di cui abbiamo parlato, quello di una vergine da quello di chi ha già avuto rapporti sessuali. 

Il mito intorno alla verginità femminile non è storia recente e, in qualche modo, precede la medicina. Come ricorda la giornalista Kate Lister, è il medico Michele Savonarola, vissuto nel XV secolo, a usare per la prima volta la parola “imene” descrivendone il suo funzionamento e la rottura in concomitanza con il primo rapporto sessuale. Prima di lui altri medici, come il greco Sorano, negavano la presenza di membrane vaginali sostenendo che il sangue scaturisse dalla rottura di vasi sanguigni per effetto dell’azione meccanica penetrativa e ciò potesse accadere anche a ogni rapporto.

Il fatto che l’imene sia stato “scoperto” solo in epoca recente non significa che prima non vi fosse interesse nei confronti della purezza del corpo femminile. La sessualità delle donne è stata da sempre oggetto di controllo ed è questo l’aspetto per noi più significativo. In una società patriarcale, monitorare l’attività sessuale delle donne garantiva a padri e mariti una legittima discendenza, da qui il motivo che spingeva medici e letterati a cercare dei metodi per comprovare quella femminile, mantenendo quella maschile nel più assoluto silenzio.

Prima “dell’invenzione” dell’imene, gli studiosi ricorrevano ad altri sistemi per accertare la verginità di una donna. Nel Medioevo, ad esempio, si ricorreva all’analisi delle urine: quella di chi aveva già scoperto le gioie del sesso appariva torbida e scura, mentre quella delle fanciulle risultava trasparente e frizzante (sì, avete letto bene). Secondo altri studiosi, le vergini erano insensibili all’odore del carbone, pertanto una stoffa vaporizzata con questo elemento e posta accanto alla bocca o al naso non provocava in loro alcun tipo di reazione.

Se ci muoviamo indietro nel tempo e andiamo all’origine dei primi, rudimentali test, ci imbattiamo nella vicenda di Tuccia. Come tutte le sacerdotesse consacrate alla dea romana Vesta, anch’ella era obbligata a mantenersi vergine per tutta la vita. Quando fu accusata di esser venuta meno al suo dovere, le fu concessa la possibilità provare la sua innocenza. La sacerdotessa invocò Vesta che le consentì, grazie a un miracolo, di trasportare in un setaccio l’acqua del Tevere fino all’altare; in virtù dell’aiuto ottenuto dalla dea stessa, fu giudicata moralmente pura. Da allora il crivello è un simbolo di verginità, tanto da essere rappresentato in molti dei ritratti nelle mani di Elisabetta I, nota per il suo rifiuto radicale della sessualità. 

Da quando la medicina ha affermato di poter situare la verginità in un preciso punto anatomico del corpo femminile, ha prodotto un vero e proprio cambio di paradigma: ai metodi scarsamente verificabili se ne sostituisce uno apparentemente inconfutabile basato sulla presenza di un riscontro – il sangue – visibile e inoppugnabile. Ai test inaffidabili subentra così quello del lenzuolo che consiste nel cercare la prova, il giorno dopo la prima notte di nozze, dell’avvenuto rapporto tra i coniugi e, conseguentemente, della verginità di lei e dell’onore di lui.

Grazie alla presunta scoperta compiuta dalla medicina, la presenza dell’imene trasforma la verginità in qualcosa di concreto: analogamente a qualsiasi oggetto, essa si può “perdere” o “conservare” e la sua eventuale presenza può essere avvalorata o smentita tramite indagini accurate. Non solo: la purezza e la moralità del genere femminile, per la prima volta, può essere localizzata in un punto preciso del loro corpo che deve essere protetto pena la perdita delle virtù morali ad esso correlate. Inoltre, il fatto che vi siano persone nella posizione di procedere alla verifica è un modo per ricordare alle donne che i loro segreti e le loro condotte potrebbero essere sconfessate in qualsiasi istante. Per evitarlo è necessario proteggersi, per esempio evitando di andare in bici o fare sport impegnativi, scegliendo con cura tamponi interni delle dimensioni giuste, rifuggendo il sesso (come accade a chi partecipa ai purity ball). Vegliare sulla propria verginità diventa un modo per limitare le opportunità di vita delle donne, soprattutto di quelle più giovani, creando le premesse per la disparità di genere.

I miti su cui si basano i test di verginità hanno così contribuito a sostenere l’idea che le donne “serie” facciano un certo uso del corpo, così da poter distinguere quelle meritevoli e caste dalle altre, considerate socialmente pericolose perché licenziose e depravate.

Oggi sappiamo che l’imene non assomiglia tanto a una membrana quanto a una sorta di lembo ripiegato e posizionato nel vestibolo vaginale. Secondo le già citate Ellen Støkken Dahl e Nina Dølvik Brochmann lo stereotipo più comune che lo descrive come una sorta di sigillo, intatto e solido fino al momento del primo rapporto, è in realtà quello che in natura si presenta con meno frequenza, essendo patologico. L’imene imperforato, impedendo il passaggio del flusso mestruale, viene diagnosticato al momento del menarca e trattato chirurgicamente per poter permettere al sangue di defluire. Secondo uno studio apparso su Journal of Pediatric and Adolescent Gynecology che ha studiato un campione di circa 150 bambine in fase pre-puberale, la forma dell’imene è soggetta a variazioni – può ricordare un anello, forato al centro, o una manica di camicia – avere bordi più o meno frastagliati e presentarsi con una singola o più aperture. Se l’imene possiede forme variabili e il sanguinamento passa dall’essere un riscontro oggettivo a una possibilità, nessun test può essere in grado di comprovare scientificamente la verginità della donna che vi si sottopone.

Nonostante le nuove conoscenze di cui disponiamo, basta una rapida ricerca online per capire che la questione della verginità è ancora al centro di un grande interesse. Sui siti di chirurgia estetica è possibile conoscere i costi e le modalità di intervento per effettuare l’imenoplastica, innumerevoli pagine social si sono specializzate nella vendita di kit per ricrearlo artificialmente o di fialette di sangue finto da versare sulle lenzuola al termine del primo rapporto, per confermare al partner la propria illibatezza.

Il significato e la presenza dell’imene sembra trascendere la dimensione prettamente anatomica per diventare cartina di tornasole di altri significati. Gli stereotipi con cui guardiamo al sesso e, in particolare, quelli che attribuiamo alle donne che decidono di vivere liberamente la propria sessualità suddividono ancora il genere femminile in “sante” e “puttane”. L’importanza che l’immaginario conferisce al mito del primo rapporto sessuale, del sangue e della lacerazione ci ricorda che l’unica sessualità ammessa e riconosciuta è, ancora, quella penetrativa ed eterosessuale.

Il mito della verginità, basato su assunti di cui oggi conosciamo l’inconsistenza, continua a determinare la vita delle donne e a conferire potere agli uomini che hanno il compito di vigilare sulla loro condotta. L’associazione RFSU, che in Svezia si occupa di educazione e benessere sessuale, ha proposto di riferirsi all’imene usando l’espressione “corona vaginale” e ha messo online una guida per fare sensibilizzazione sfatando le leggende che ancora vi ruotano attorno. Nel 2018 l’OMS ha condiviso una dichiarazione in cui chiedeva l’abolizione di qualsiasi tipo di test volto a comprovare la verginità femminile, definendo la pratica una discriminazione e un abuso perché il più delle volte eseguita per motivi politici o sociali e senza il consenso esplicito della donna. 

Non bastano le conoscenze sul piano medico o le piccole rivoluzioni linguistiche per abbattere uno stereotipo così radicato nel tempo e nello spazio. Per cambiare la coscienza collettiva, per guardare al sesso come a un’esperienza umana e non solo maschile, per abbattere la disparità di genere che conferisce agli uomini potere e alle donne responsabilità, ci sono ancora molti passi da fare. Cambiare prospettiva, decostruire i miti con cui siamo cresciute e cresciuti può essere il primo.

ARTICOLO n. 20 / 2023

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

E se per una notte, solo una, la parità fosse davvero realizzata?

Inizia così un mio ormai vecchissimo post, ispirato al lavoro del collettivo transfemminista sudafricano chiamato @girlsagainstoppression.

Decido infatti di tradurre un loro sondaggio, previo consenso da parte delle amministratrici della pagina, rivolgendomi a quella immaginaria audience che è il mio Instagram.

Domando dunque alle donne che mi leggono – per donne intendo sempre tutte le donne, da chi si identifica nel genere femminile a chi è una donna trans e a chi è donna cisgender, poiché alcune – molte, troppe – delle discriminazioni che viviamo ci accomunano tutte – e chiedo loro: se per una notte non esistessero la violenza e le discriminazioni, cosa fareste?

Lo chiedo consapevole dell’ondata di vittimismo maschile piccato che riceverò in risposta, ma so esattamente dove voglio andare a parare, posso perfino immaginare e condividere quelle risposte che mi arriveranno a breve.

Premo invio, il post è online. Dopo pochi secondi iniziano ad arrivarmi le notifiche, una dopo l’altra, come un fiume in piena.

Non faccio in tempo a cliccare su una che ne arrivano altre, a decine. 

È come un diario segreto, la storia di una notte immaginaria che tutte, tutte quante, più di una volta abbiamo sognato con gli occhi aperti.

Le risposte sono devastanti.

Vorrei uscire a correre da sola, di notte. Vorrei vestirmi come meglio credo. Farei un viaggio da sola. Andrei in Interrail da sola. Farei finalmente il figlio che non posso permettermi di avere. Chiederei un aumento. Cambierei lavoro. Avrei una cura per la mia malattia. Guadagnerei di più. Non verrei molestata. Da donna nera, non verrei sessualizzata costantemente. Non mi chiederebbero se faccio sesso a pagamento mentre sto facendo la spesa. Non verrei discriminata in quanto donna trans. Non avrei paura a fare la strada da sola. Non metterei il reggiseno. Non avrei paura a denunciare il mio abuser. Andrei in campeggio da sola. Metterei vestiti corti, non sai da quanto vorrei metterli per uscire ma poi non lo faccio mai perché ho paura. Potrei ubriacarmi senza paura. Potrei camminare con gli auricolari mentre passeggio per strada da sola la sera. Non dovrei girare con lo spray al peperoncino in borsa. Prenderei lo stipendio che merito e che mi spetta. Troverei lavoro. Farei coming out senza paura. Mi sentirei felice di essere rimasta incinta. Farei sesso con chi voglio senza rischiare di passare per puttana. Non userei le chiavi come tirapugni. Metterei i tacchi la sera, tanto non dovrei scappare da nessuno. Firmerei un contratto per approfittare del momento e ricevere la stessa paga di un uomo. Passeggerei di notte. Avrei già abortito, ma non trovo medici non obiettori. Cambierei la legge sul congedo parentale. 

Camminerei per strada la notte: chissà come è bella la città piena di lampioni quando non hai paura. 

Come un fiume in piena mi trovo tramortita dalla quantità di messaggi che ricevo: tutti simili, tutti così puri, tutti incredibilmente agrodolci. 

Se li leggesse un alieno che nulla conosce della nostra società penserebbe che siamo un branco di imbecilli o strafatti di LSD. 

Rimango ferma per un po’, fissando lo schermo che continua a riempirsi di notifiche: voci di donne che raccontano stralci brevissimi delle loro vite, ferite sottili come quelle fatte con la carta, millimetriche ma dolorosissime. 

Sento, riesco a percepire la dolcezza di ogni pensiero che si accompagna a doppio nodo con l’amarezza del sapere di non poter fare nessuna di queste cose, vuoi per una logica e giustificabile mancanza di coraggio, vuoi per una impossibilità strutturale, vuoi per una impossibilità politica. 

Annuso un profumo che conosco benissimo: è familiare questo sentimento di sconforto sognante, ha un cuore di rabbia e una nota di fondo di tristezza quotidiana. 

Sono passati più di due anni da quel post e il sentimento che provo ogni volta che mi pongo la domanda con cui ho iniziato questo mio scritto è sempre il medesimo.

Mi sento sognante, ma ho ancora moltissimo amaro in bocca. 

In questi giorni che precedono l’8 marzo – data in cui uscirà il pezzo che sto scrivendo in questo esatto momento – la discussione sui diritti femminili si fa sempre un po’ più calda. E, con il governo Meloni, si è fatta sicuramente più aspra.

Negli anni abbiamo iniziato a lasciarci dietro il concetto di otto marzo come festa in cui le donne entrano gratis nei club, hanno sconti sugli shot – ma da bere rigorosamente senza mani – e possono infilare banconote negli slip degli spogliarellisti. Eppure, quando si parla di otto Marzo si continuano a non comprendere alcune questioni centrali di quella che storicamente è una giornata di lotta, non di gif animate coi glitter da mandare a tutte le donne che si conoscono (che è una variante degli “auguri a tutte le befane”, immancabile tragedia di ogni 6 gennaio).

Eppure, nonostante ci sia stato un significativo miglioramento nel recepire l’importanza di questa data, il tono della discussione è ancora acerbo, e a tratti piuttosto stupido.

Tra le centinaia di commenti sull’inutilità di una festa come questa “visto che la parità è ormai cosa già raggiunta” (ultimo a dirlo, il tassista che mi ha portata a casa lo scorso sabato sera: mi duole ribadire anche a voi che se così fosse non avrei mai usufruito di un servizio così caro per fare due chilometri di notte), vedo anche proclami politici poco incoraggianti in termini di autodeterminazione della donna.

In questo senso è emblematica la copertina dell’ultimo numero di Grazia, uscito qualche giorno fa, che ritrae il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – non è misgendering, è che mi andava di rispettare le circolari: sanno essere divertenti, di tanto in tanto – affiancata dal titolo “Ragazze, liberiamo il nostro potere”.

Sorvolando sulla non parzialità dell’informazione offerta da Grazia (la direttrice Silvia Grilli è da mesi che endorsaMeloni dalle pagine di un magazine “femminile” che si vanta spesso di essere super partes), quello che possiamo leggere nell’intervista al presidente del Consiglio è un fotogramma incredibile della percezione della disparità di genere, a oggi. 

Da un lato, Meloni attacca la mono e omogenitorialità facendo leva sul suo personale trascorso di vita: terribile e doloroso, ma da qui a farne un modello per lo Stato mi pare vagamente egomaniaco. Segue subito un trafiletto sull’interruzione volontaria di gravidanza, dipinta come esperienza triste, solitaria e dolente: è una narrazione incredibilmente funzionale, per chi sta cercando di svuotare la legge 194 dall’interno. Poco più avanti, possiamo leggere una lunga riposta sulla prevenzione della violenza di genere in cui Meloni elogia la formazione sul tema a polizia e carabinieri e anche gli interventi legislativi per punire chi commette i crimini previsti dalla legge in materia (per precisare, nessuna di queste cose è prevenzione, bensì risoluzione del danno: prevenzione equivale a fare cultura e offrire lavoro e spazi sicuri, ma nessuna delle due voci è presente nel testo). Sul lavoro femminile, tutto tace. Gender pay gap pure. 

Il punto però più interessante è quello in cui Meloni si aggrappa al femminismo per proteggere le donne.

Le parole che usa il presidente del Consiglio sono le seguenti: «Oggi per essere donna si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe».

È un abbraccio alla linea TERF (femminismo transecludente) che fa intuire che la femminilità (qualsiasi cosa questa parola voglia ancora dire, nel 2023) sarebbe in pericolo.

Di cosa, non ci è dato sapere.

Ma a livello propagandistico funziona bene: sarebbero a rischio le facoltà per cui una donna è ritenuta importante, ovvero quelle riproduttive (che poi sono proprio quelle che spesso ci tengono lontane dal mondo del lavoro), carissime alla destra.

Eppure, non esiste niente di più falso.

E le voci che due anni fa mi hanno scritto quei messaggi sulla notte di libertà – perché quando parliamo di parità parliamo sempre, sempre, ostinatamente di libertà – lo sanno bene.

Sanno bene che le parole di Meloni su Grazia sono propaganda fatta per mantenere intatto il sistema di accesso a numero limitato per i diritti civili e sociali. Sanno anche che pubblicare questa intervista è un ottimo tentativo di pesca a strascico tra le file delle donne, magari lontane dagli ambienti di lotta, che vedendo la parola femminismo possono pensare che finalmente la prima donna al governo farà qualcosa per loro.

Ma in uno Stato in cui l’accessibilità all’interruzione di gravidanza sicura e non giudicante è ormai complicatissimo, in cui il lavoro di cura non retribuito ricade ancora sulle donne (per il 74% del totale), in cui il gender pay gap fa guadagnare ancora il 15% in meno degli uomini a parità di impiego e l’accessibilità dei lavori full time è ancora riservata principalmente agli uomini, capiamo bene quanto non ci servano nuovi nemici da incolpare: abbiamo già i nostri e mi sembrano anche piuttosto determinati.

Viviamo in una condizione che è estremamente precaria su ogni fronte, su ogni diritto di autodeterminazione. Il dibattito è molto attivo e le voci di attiviste, intellettuali e scrittrici sono sempre di più.

In questi anni di dibattito sui temi civili e sociali interconnessi al femminismo si è però venuta a creare una netta spaccatura, soprattutto nella destra e in alcuni ambienti del movimento stesso. 

Da un lato è innegabile che si sia fatta luce su alcuni temi che non possono più essere ignorati, ma dall’altro si cerca di tamponare nuove, legittime, importanti richieste di tutela e inclusione semplicemente facendole passare come pericolose. E, nel primo otto marzo di questa nuova destra al governo, appare subito lampante di quanto ancora abbiamo bisogno di una data di lotta come questa. Ma che sia una data di lotta per tutte.

Se infatti rileggiamo bene l’intervista al presidente del Consiglio, vedremo subito quanto sia subdola la promessa di potere che il titolo di copertina vuol far credere. 

Quel potere non viene infatti mai dato alle donne che vogliono abortire, ad esempio: nel testo Meloni promette aiuti a chi vorrà tenere il bambino, non a chi vuole ricorrere con facilità e sicurezza alla propria autodeterminazione. Nel testo non si cita mai la responsabilità politica del mantenimento del soffitto di cristallo, si invitano invece le ragazze (generico ma, vedendo le sue posizioni TERF, molto cisgender) a impegnarsi per distruggerlo, ignorando ovviamente la questione di classe. Glissando sulla monogenitorialità ignora il dolore di tante di noi donne single, che vorremmo procreare o adottare ma non possiamo. E ignora ancora di più le coppie omogenitoriali, contrapponendole alla famiglia naturale. 

La lotta tra “vere donne” e tutte le altre non esiste, perché ogni rivendicazione è profondamente interconnessa e la matrice – sic – è sempre la stessa cultura patriarcale che si nutre di un capitalismo insaziabile che mette in ginocchio le categorie marginalizzate.

Le donne cisgender non hanno nessuna lotta contro le donne trans. Non siamo in pericolo. O meglio, il pericolo non sono le nostre sorelle trans.

Il pericolo è questa sciapa, scialba, stupida propaganda fatta sulle paure ataviche di una classe dirigente vecchia, stantia, bigotta e borghese, che del perbenismo ha fatto il suo marchio di fabbrica.

Senza che ce ne rendessimo neanche troppo conto ci siamo ritrovate a doverci accontentare di carezze e pacche sulle spalle, in un continuo, paternalista e petulante coro di “ragazza, se vuoi puoi”.

Se vuoi, puoi.

Ditelo alle donne trans quando si vedono usare come spauracchio da una fazione politica. O che non vengono assunte. 

O alle persone che vorrebbero abortire in regioni piene di medici obiettori.

Alle madri che non possono far altro che abbandonare il lavoro o alle donne che vorrebbero un figlio ma la loro famiglia è arcobaleno. 

Ditelo a chi vorrebbe uscire di sera senza paura, a chi vorrebbe fare un viaggio serenamente, a chi vorrebbe avere il coraggio di denunciare le violenze subite ma non lo fa perché la cultura è inesistente in questo paese. 

Se non facciamo figli è anche perché non possiamo permettercelo. Se non rompiamo il soffitto di cristallo è perché il mondo del lavoro ci schiaccia e quello familiare ci soffoca, perché il carico non viene diviso (anche per colpa dei congedi di paternità inesistenti). Se le donne muoiono non è soltanto perché mancano leggi, ma perché manca cultura. Se non possiamo permetterci di fare coming out è perché viviamo nella paura. Se non possiamo avere tutele speciali contro i reati d’odio è perché alcune categorie sono ritenute ancora invisibili. E non vederlo è impossibile: i corpi delle donne – tutte le donne, mi piace ripeterlo – sono ottimo terreno di propaganda da secoli. Da sempre.

Sulla nostra vita – e sulla nostra fica: sono tutti ossessionati da ciò che abbiamo o meno nelle mutande – si fanno politica e soldi, come se fossimo merce di scambio.

E sottobanco, con il favore delle tenebre – sic bis – hanno provato a farci credere che volere fosse potere e che le donne fossero di nuovo nemiche delle altre donne, come il vecchio adagio ci insegnava.

Il problema è che adesso noi vediamo benissimo anche nel buio, come gli animali notturni.

Abbiamo abitato con paura nel buio per secoli. 

A forza di stare nel buio, abbiamo adattato la vista alla mancanza di luce.

Per questo, nella merda di questo quadro politico attuale di sotterfugi, mascherati più o meno bene, noi ci vediamo benissimo. 

E sappiamo dunque che dell’otto marzo c’è ancora moltissimo bisogno.

La nostra sempre ostinata ricerca della libertà non ci ha mai fermate.

Il mondo è cambiato, e con lui anche i nomi che diamo ai fenomeni e alle cose (nomina sunt consequentia rerum, lo scriveva Dante nella Vita Nova, che ai tempi era ritenuto un pessimo scrittore proprio per le sue forme lessicali innovative: non ditelo ai puristi della lingua italica, verrebbe loro un coccolone).

E con i nomi e i fenomeni di questo nuovo mondo abbiamo bisogno di nuovo spazio.

E in questo spazio i diritti e i nostri corpi non possono essere usati come mezzo di propaganda di una fazione politica o di un frammento ormai morto di movimento.

I diritti ci rendono libere, non averli ci rende ostinate. 

Occhio a quel soffitto di cristallo, che ve lo buchiamo.

ARTICOLO n. 19 / 2023

IL FEMMINISMO COME LAVORO DI UNA VITA: DEDICA A BELL HOOKS

A cura di Maria Nadotti, traduzione di Camilla Pieretti

Sara Ahmed è attivista, scrittrice e teorica femminista, interessata all’intersezione fra teorie femministe lesbiche e queer con processi di razzializzazione. Durante la sua carriera accademica ha fondato il Centre for Feminist Research e insegnato Race and Cultural Studies al Goldsmiths College di Londra fino al 2016, quando si è licenziata per protestare contro il modo in cui l’università gestiva il problema delle molestie sessuali. Oggi è una ricercatrice indipendente e, fra le altre cose, gestisce un blog dal titolo significativo “feministkilljoys”, da cui – per gentile concessione dell’autrice, che ringraziamo – abbiamo tratto il testo che qui presentiamo in versione italiana: “Femminismo come lavoro di tutta una vita. In onore di bell hooks”. L’originale inglese è stato postato il 20 settembre 2022 su https://feministkilljoys.com/.

Di Sara Ahmed, che ha al suo attivo una decina di titoli su femminismo, colonialità, emozioni, queer e razzismo, è per ora disponibile in italiano solo Vivere una vita femminista (a cura di Liana Borghi e Marco Pustianaz, trad. it. di Matu D’Epifanio, Roberta Granelli, Bea Gusmano, Serena Naim, Edizioni ETS, 2022). Di prossima pubblicazione un suo saggio del 2010, La promessa della felicità (Luca Sossella Editore, 2023) e Il linguaggio della diversità (Fandango Libri, 2023).

Il 3 dicembre 2022 Sara Ahmed ha partecipato al convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” con un’intervista realizzata in videoregistrazione. Il video, doppiato in italiano, è disponibile sulla pagina Facebook del Giardino dei Ciliegi di Firenze. (Maria Nadotti)

Il “lavoro di una vita” costituisce l’attività principale, se non l’unica, nel corso dell’esistenza o della carriera di una persona. Essere femminista significa fare del femminismo il lavoro della propria vita. Sono profondamente in debito con bell hooks per avermi insegnato tutto questo e molto, molto altro. Questo post è dedicato a lei.

Quando bell hooks è morta non sono riuscita a scrivere di lei, di quanto il suo lavoro abbia significato per me, per gli studenti e le studentesse a cui ho insegnato nel corso degli anni, per coloro con cui condivido un progetto politico e una comunità. Ho letto ciò che è stato scritto da altri, grata che esistano persone a cui il dolore del lutto non toglie la capacità di esprimersi. Nel mio caso ci vuole tempo per far fluire le parole, tempo per arrivare al punto di poter dire qualcosa sulla perdita di qualcuno. Si può perdere qualcuno nel conoscerlo. Oppure si può conoscere qualcuno tramite ciò che ha dato al mondo.

Le parole mi vengono grazie a ciò che tu hai saputo dare al mondo. In Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, hooks ha scritto di «un modo per catturare il parlato, non lasciarlo andare, tenerselo vicino. Così mi sono annotata spezzoni e frammenti di conversazioni, affidandoli a diari da quattro soldi che in breve si disfacevano per i tanti rimaneggiamenti, esprimendo l’intensità del mio dolore, il tormento del parlare, perché mi trovavo sempre a dire la cosa sbagliata, a fare le domande sbagliate. Non riuscivo a confinare i miei discorsi agli angoli e alle angosce indispensabili della vita. Nascondevo quegli scritti sotto al letto, tra le imbottiture dei cuscini, fra mutande sbiadite» (1988, pp. 6-7). Nella scrittura, nello scrivere, bell hooks si rifiuta di accettare qualunque limitazione. Dissemina le proprie parole, la propria presenza in ogni angolo. Tutta quella intensità deve finire da qualche parte. Le pagine si disfano «per i tanti rimaneggiamenti». Usa quaderni da quattro soldi, quello che ha a disposizione. Se li fa bastare, se la sa cavare. Le pagine si consumano perché sono importanti. Scrivere è il suo modo di sfogarsi, di tracimare, l’intensità del dolore che le riempie, infilate dove può, dove sta, dove vive, sotto il letto, nelle federe dei cuscini, tra la biancheria intima, sotto, tra, fra: ficcate tra i capi più delicati, tra le altre sue cose. Nel nascondere lì i suoi scritti, i suoi pensieri e le emozioni che le si riversano fuori, ciò che sente, «spezzoni e frammenti di conversazioni», trabocca dallo spazio che le è stato dato, dalle preoccupazioni che si suppone che abbia, che le è consentito avere, dagli angoli, i limiti della stanza.

Nell’interrogarci su un mondo che ci limita così tanto, ci facciamo le domande sbagliate.

Negli scritti di bell hooks sulla scrittura, nella sua descrizione di ciò che c’è di usurante nello scrivere, nelle parole, c’è qualcosa di straordinariamente bello. Ma c’è anche molto dolore.

hooks scrive di come si possa essere colti in fallo da chi pensa di aver scoperto qualcosa su di noi leggendo le nostre parole. Racconta come le sue sorelle trovassero quello che scriveva e finissero per «deriderla» (p. 7). Parla del lasciare in giro i suoi scritti come di uno «stendere i panni appena lavati all’aria, sotto gli occhi di tutti» (p. 7). Si noti che non dice “panni sporchi”, espressione spesso usata per riferirsi allo sbandierare segreti in pubblico. I suoi sono panni appena lavati, appesi sotto gli occhi di tutti dopo che ci ha già lavorato sopra. Quando scrivere è un lavoro, lo si fa per dare spazio alle proprie parole, per mettersi in gioco. È comunque un modo di esporre qualcosa, qualcuno, questo arieggiare, questo rendere il proprio mondo interiore vulnerabile allo sguardo altrui.

Protendersi verso l’esterno può voler dire tornare indietro nel tempo, uscire allo scoperto facendo leva su chi è venuto prima di noi. hooks racconta come, da giovane ragazza nera, ha dovuto imparare a non cedere terreno, a sfidare l’autorità genitoriale, a rispondere. Inoltre, descrive come è arrivata ad assumere la propria identità da scrittrice: «Uno dei tanti motivi per cui ho scelto di scrivere sotto lo pseudonimo di bell hooks, un nome di famiglia (madre di Sarah Oldham, nonna di Rosa Bell Oldham, mia bisnonna)» (p. 9). Scegliere uno pseudonimo può essere un modo per rivendicare un’eredità nera femminista. I discorsi ribelli un altro. Altrove, hooks spiega che la nonna era «nota per la lingua audace e scattante» (1996, p. 152). Scrivere può essere un modo per rispondere, ma anche per riprendere qualcosa, essere audaci e scattanti nel recuperare le fila di una storia.

In Talking Back, hooks parla anche della memoria, condividendo un ricordo sul modo di ricordare della madre: «Mi è tornato in mente il “baule della speranza” di mia mamma, con quel meraviglioso odore di cedro, e ho ripensato a quando prendeva gli oggetti più preziosi e li riponeva al suo interno per tenerli al sicuro. Certi ricordi per me sono altrettanto pregiati. Vorrei poterli mettere da qualche parte per tenerli al sicuro» (p. 158). Un odore è in grado di viaggiare nel tempo e di far rivivere in noi delle memorie quando lo annusiamo. Un oggetto ci aiuta a trattenere i ricordi, li conserva per noi, perché ci possiamo ritornare. Per hooks, ciò che ricordiamo non è sempre chiaro o neppure vero. Dice di ricordare «un carretto che io e mio fratello abbiamo condiviso da bambini» (p. 158). Ma poi aggiunge che secondo la madre «non c’era mai stato nessun carretto. Quella che condividevamo era una carriola rossa». 

Un carretto, una carriola rossa. La domanda non è quale fosse l’oggetto giusto. Le cose tendono ad acquisire colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Nella scrittura è lo stesso: gli oggetti acquisiscono colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Uno può essere una carriola rossa o un carretto. La domanda non è quale dei due. A volte, allentando la presa sulle cose (e su noi stessi) infondiamo loro vita. In una conversazione con Gloria Steinem, bell hooks si descrive circondata dai propri oggetti preziosi, oggetti femministi. Sono la prima cosa che vede quando si sveglia. Dice: «Gli oggetti della mia vita mi chiamano». E aggiunge: «[ho] Litania per la sopravvivenza di Audre Lorde proprio di fronte quando mi alzo dal letto; ho tante bellissime immagini di donne che mi guardano nel corso della giornata».

Il femminismo diventa un modo di crearsi il proprio orizzonte, di circondarsi di immagini che ci rimandano qualcosa di vero e prezioso sulla vita che stiamo vivendo o che abbiamo vissuto.

Una storia di sopravvivenza, di perseveranza, anche di amore.

Anche scrivere, ci dimostra hooks, può essere il nostro modo di circondarci.

Scriviamo per darci alla luce. Scriviamo, in compagnia. Scriviamo per reagire a un mondo che, in un modo o nell’altro, ci rende difficile esistere alle nostre condizioni. Quando penso a quel che ci vuole per scrivere per reazione, a chi ci vuole, penso a quanti, prima di noi, hanno contribuito ad aprire delle strade che potessimo seguire. E penso a te. Trovarti può essere una vera fortuna. A volte mi toglie il fiato pensare a quanto poco ci voglia per mancarsi.

Scriviamo perché ci manca qualcosa. Scriviamo per aiutarci a ritrovarci l’un l’altro. Nel riflettere sul suo irrinunciabile libro Il femminismo è per tutti, bell hooks racconta come il suo impegno verso il femminismo sia maturato nel corso di tutta una vita. La prefazione alla seconda edizione comincia con la frase: «Dedita da più di quarant’anni alla teoria e alla pratica del femminismo, sono orgogliosa di affermare che il mio impegno nei confronti di un movimento femminista, rivolto a sfidare e cambiare il patriarcato, si è fatto ogni anno più risoluto» (2014, p. 15). Trovo molto bello che tu non abbia scritto «il movimento femminista» ma «un movimento femminista». Senza «il» si riesce a sentire il movimento. Penso a quanto sia incoraggiante per noi che tu abbia condiviso questa testimonianza. Mi hai insegnato che si può trovare una via in mezzo alla violenza di questo mondo, ribadendo il nostro impegno a cambiarlo. Portare avanti (o persino intensificare) la nostra attività a sostegno del femminismo è un atto politico, considerato che ciò che noi mettiamo in discussione e cerchiamo di cambiare altri lo difendono, altri che hanno le risorse per trasformare la propria difesa in un ordine. Esprimere la propria adesione ai principi femministi ha delle implicazioni che durano tutta la vita, perché si finisce per essere in contrasto con tante cose e persone. Mi hai insegnato anche che essere «in contrasto» non riguarda solo ciò che è doloroso o difficile, ma può essere anche un’apertura, se non addirittura un invito. In fondo è così che hai definito l’essere queer, come un «contrasto». Quello che può sembrare il lato negativo della critica, nominare ciò a cui siamo contrari, mostrare come la violenza sia implicata nelle forme culturali più amate, così diventa un modo costruttivo di fare spazio, per permetterci di vivere in un altro modo.

Nel raccontare la storia del suo impegno lungo una vita nei confronti del femminismo come di una politica con cui cambiare il mondo, bell hooks si rivolge a noi, al suo pubblico. Sottolinea che i suoi libri, per quanto «poco recensiti», hanno comunque «trovato un pubblico». Si dice «sbalordita» che il suo lavoro «trovi ancora lettori, che educhi ancora alla coscienza critica» (p. 16). Se un libro femminista non viene recensito dai giornali ad ampia diffusione né esposto nelle vetrine delle librerie perché dissidente e progressista, come lo si trova? hooks sostiene che i suoi libri si siano diffusi tramite «passaparola» o perché «adottati come libri di testo». Io l’ho scoperta proprio così. Una delle sue opere ci è stata assegnata durante un corso che ho frequentato nel 1992 (l’insegnante che ce l’ha assegnata si chiamava Chris Weedon, grazie Chris per avermela fatta conoscere). Così, tramite il passaparola o i corsi femministi, i libri di bell hooks hanno trovato i loro lettori e ci hanno salvato la vita.

Il modo in cui si scopre bell hooks è legato a ciò che lei ha da insegnarci. Scoprire il femminismo non significa seguire le strade convenzionali che portano a un premio, a un riconoscimento. Tu definivi il femminismo come «un movimento per mettere fine al sessismo, allo sfruttamento e all’oppressione sessuale» (2000, p. 33). Una definizione estremamente istruttiva. Il femminismo è necessario per combattere ciò che ancora persiste: sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale. In più, per hooks, «sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale» sono un tutt’uno con il suprematismo bianco e il capitalismo. Ecco perché è importante continuare a dare un nome a ciò a cui ci si oppone. In Outlaw Culture, hooks fa uso del termine «patriarcato capitalista suprematista bianco» per ben diciotto volte! Per forza poi mi hai ispirato a diventare una guastafeste. Gli hai dato un nome, cogliendo nel segno, ogni singola volta!

Cogliere nel segno può avere un costo. Ripenso a quanto hooks si sia stupita che i suoi libri abbiano trovato dei lettori. In quel suo stupore si può intravedere la storia di ciò che bell hooks non ha fatto per “trovare” il suo pubblico. In un dialogo aperto con Marci Blackman, Shola Lynch e Janet Mock alla New School nel 2019, hooks ha dichiarato: «Dico ai miei studenti: decolonizzate. Ma decolonizzare ha un prezzo. Non si diventerà mai ricchi. Non si riceveranno premi per geni finanziati dai militaristi e imperialisti della fondazione MacArthur». hooks ci tiene a chiarire che non ha nulla contrario verso coloro che accettano quei premi, ma che vuole solo sottolineare come decolonizzare la nostra dipendenza sia un modo per crearsi i propri standard di vita. Ricevere finanziamenti, premi o borse di studio da organizzazioni che devono il proprio potere a un sistema che critichiamo significa accettare una limitazione. Persino quando pensiamo di riuscire ad aggirare il sistema è difficile non finire a darsi da fare per far girare il sistema. Tu mi hai insegnato che per cambiare il sistema bisogna impedirgli di funzionare. Penso a quanto ci costa, al prezzo da pagare per ciò che facciamo.

Il femminismo può diventare un modo per evitare di pagare quel prezzo. Bisogna trovare un’altra strada. Penso a come le critiche di bell hooks al femminismo bianco ci abbiano offerto tanti strumenti, come per esempio la critica alla soluzione di Betty Friedan all’infelicità delle casalinghe, il «problema senza nome» (senonché, ovviamente, tu un nome glielo hai dato). Hai scritto: «[Friedan] non ha spiegato chi verrebbe chiamato a prendersi cura dei bambini e della casa se ad altre donne come lei venisse consentito di lasciar perdere i lavori domestici e di accedere alle professioni lavorative al pari degli uomini bianchi» (2000, pp. 1-2). Mi hai insegnato anche a «fare della teoria femminista» nel riflettere su cosa succede quando si «fa del femminismo». Hai scritto: «Un gruppo di attiviste femministe bianche che non si conoscono può partecipare a un incontro per discutere delle teorie femministe, sentendosi legato dalla condivisione della condizione femminile. L’atmosfera, tuttavia, cambia radicalmente se nella sala entra una donna di colore. Le donne bianche diventano più tese, meno rilassate, meno festose» (2000, p. 56). Questa descrizione rivela una straordinaria capacità di comprendere ogni cosa. Basta che una donna di colore entri nella stanza perché l’atmosfera si faccia tesa. Un’atmosfera sembra quasi sempre intangibile. Se però si è causa di tensioni, quella stessa atmosfera può diventare un muro. La donna di colore finisce per sentirsi esclusa dal gruppo, un intralcio a una solidarietà verosimilmente condivisa.

Esistono molti modi per essere esclusi da una conversazione. Tale esclusione aiuta a dare una sensazione di unità. Il fatto che alcuni spazi femministi vengano percepiti come più uniti di altri può essere la misura di quante persone ne sono tagliate fuori. Tu mi hai insegnato a notare chi manca, che è il nostro modo di diventare guastafeste, di opporci all’occupazione dello spazio.

Mi hai insegnato a volermi mettere in mezzo.

Mi hai insegnato a insegnare.

Insegnare è il nostro modo di imparare, ma anche il nostro modo per cambiare le cose. Scrivi dell’insegnamento come di un modo per dare forma al cambiamento sociale, come della «pratica della libertà […] che ci consente di vivere appieno, liberamente» (1988, p. 172). Ho sempre presentato le tue opere nei miei corsi. L’ho fatto per tutti gli anni in cui ho insegnato, osservando gli studenti venire trasformati da ciò che apprendevano. Spesso abbiamo letto il tuo articolo «Eating the Other». L’ho anche usato come ispirazione per uno dei miei primi libri, Strange Encounters, in un capitolo dal bizzarro titolo «Going Strange, Going Native». Tu scrivi: «La mercificazione dell’Alterità ha avuto successo perché la si è presentata come un piacere tutto nuovo, più intenso e soddisfacente del nostro classico modo di fare e sentire. Nella cultura del commercio, l’etnicità è una spezia, un condimento utile a dare sapore a quel piatto insipido che è la cultura bianca mainstream» (1992, p. 21). L’etnicità come spezia è forse una delle descrizioni più azzeccate di come funziona il razzismo nella cultura consumista. Con quell’articolo mi hai insegnato a teorizzare la bianchitudine, quel suo modo di non essere solo un’assenza ma una neutralità, un piatto insipido, per cui le persone di colore diventano spezie, supplementi, sapori, qualcosa da aggiungere, da metterci sopra.

Non hai mai smesso di trasmettermi insegnamenti.

Te l’ho mai detto?

Non ho mai comunicato direttamente con bell hooks. Un giorno le ho inviato un messaggio scrivendo al suo editore, South End, nel 2009. Il testo recitava: «So che avete pubblicato le opere di una delle studiose e attiviste contemporanee che ammiro di più: bell hooks. Io stessa sono una femminista di colore che opera all’interno e dall’interno dei contesti inglese e australiano. Le opere di bell hooks hanno avuto una forte influenza sul mio lavoro, in particolare sul mio libro Strange Encounters (2000), che riprende la sua splendida critica dell’esoticizzazione dell’alterità. È stato un privilegio, oltre che un piacere, poter lavorare sulle sue opere». Mi hanno detto che ti avrebbero trasmesso il messaggio, ma non so se lo abbiano fatto davvero. Vorrei averti scritto ancora. In ogni caso, penso che avesse più senso comunicare con te tramite scritti indirizzati non alla tua persona ma a «un movimento femminista».

Noi siamo quel movimento.

È stato solo durante la stesura di Vivere una vita femminista che ho percepito fino in fondo la profondità del mio debito nei tuoi confronti. Quel libro portava le tue impronte su ogni pagina, segno di ciò che io ero riuscita a fare grazie a ciò che tu ti sei adoperata a mostrare, a ciò che hai lasciato sotto gli occhi di tutti. Ricordo di aver messo il tuo nome in cima all’elenco degli studiosi che speravo di coinvolgere nella promozione del libro, senza immaginare che potessi accettare. La prima volta che ho letto le tue parole sulla mia opera sono quasi caduta dalla sedia. Sapere che non solo l’avevi letta, ma l’avevi anche caldeggiata, mi ha commosso profondamente. Poi il mio editore ha deciso di mettere una tua frase in copertina.

Diceva: «Un libro che tutti dovrebbero leggere».

Vedere quella copertina mi provoca ancora oggi una profonda emozione, perché ogni volta che la guardo vedo il tuo nome. La guardo e vedo te. Sto per mandare alle stampe un altro libro, The Feminist Killjoy Handbook [Guida pratica per guastafeste femministe], sempre rivolto al movimento femminista. Tu fai capolino in ogni pagina, soprattutto nel capitolo su come sopravvivere come guastafeste, sulle guastafeste femministe come poetesse, le guastafeste femministe come attiviste. Quell’ultimo capitolo è dedicato a te.

Ci sono molti modi di trasmettere per iscritto il nostro amore per il mondo che siamo abbastanza audaci da desiderare l’una per l’altra.

Grazie, bell, per quello che mi hai aiutato a vedere.

Per essere abbastanza audace da desiderare.

Da una guastafeste all’altra,

Sara


Bibliografia

hooks, bell (2014), Il femminismo è per tutti: una politica appassionata, trad. di Maria Nadotti, Tamu, Napoli 2021.
hooks, bell (2006), Outlaw Culture: Resisting Representations, Routledge, New York.
hooks, bell (2000), Feminist Theory: from Margin to Centre, Pluto Press, London.
hooks, bell (1996), «Inspired Eccentricity: Sarah and Gus Oldham» in Sharon Sloan Fiffer e Steve Fiffer (a c. di), Family: American Writers Remember Their Own, Vintage Books, New York.
hooks, bell (1992), Black Looks: Race and Representation, South End Press, Boston.
hooks, bell (1988), Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, South End Press, Boston.

ARTICOLO n. 18 / 2023

L’ULTIMO BLOCKBUSTER SULLA TERRA

In Oregon è rimasto l’ultimo Blockbuster della terra. Un tempo questo colosso colonizzava col suo servizio di noleggio ogni città sufficientemente grande da poter contenere abbastanza appassionati di cinema, ma l’arrivo delle piattaforme di streaming ha via via eliminato questo gesto intimo e collettivo, la voglia di recarsi in un luogo, prendersi il tempo giusto e scegliere due o tre pellicole da fagocitare in una manciata di giorni. Però il Blockbuster Bend esiste e resiste, diventando un luogo quasi sacro nel tempo come lo fu l’Oracolo di Delfi: persone da tutto il mondo si recano in pellegrinaggio per replicare quel gesto nostalgico e famigliare o semplicemente per provare il brivido della prima volta. Durante il Super Bowl è andato in onda uno spot ambientato in un futuro post apocalittico in cui tutto è morto e polveroso, ma il Blockbuster Bend ancora vive e insiste nel perpetuare quel gesto: raccolgo la custodia vuota dallo scaffale, mi reco al bancone e in cambio mi viene fornita la pellicola che dovrò inserire obbligatoriamente in un lettore DVD se non addirittura in un VHS. Quale sarebbe il vostro ultimo film? Questa domanda mi risuona con lo stesso fastidio e la stessa apprensione di quando mi chiedono una classifica dei lungometraggi che ho amato di più. Sono quelle liste che rassicurano e trovano spesso una sistemazione comoda nelle somiglianze e nelle differenze che riscontriamo quando misuriamo noi stessi con le storie che ci hanno cambiato la vita. Allo stesso tempo, però, sono anche richieste leggere che non tengono conto della dimensione emotiva e privata, quel battito sordo in fondo al ventre, il posto in cui dormono tutti i racconti che in qualche modo per noi hanno significato cambiamento, aggiunta, una nuova coperta con cui avvolgersi di notte, la luce accesa sul comodino perché non sai mai che mostri possono nascondersi dentro l’armadio. Però continuo a pensare a quel Blockbuster, e se ormai ho rinunciato a scegliere un solo film per la mia notte, la parte che preferisco di questa intrusione dall’Oregon è senza ombra di dubbio la finestra spalancata sul videonoleggio che ha cambiato la mia vita.

Dovete sapere che la mia storia con i film è iniziata prestissimo, complice un padre che mi ha trasmesso quell’amore puro per le storie e un negozietto di Maranello che ogni venerdì riusciva a trovare almeno tre titoli in grado di stuzzicare la curiosità del mio vecchio. Quando tornava a casa dal lavoro faceva sempre finta di essersi dimenticato di fermarsi al videonoleggio mentre io gli saltavo intorno, smaniosa di sapere che cosa avremmo guardato nel weekend. Era un momento magico, oggi posso definirlo così con consapevolezza, perché come potrei spiegare diversamente quel movimento curioso che seleziona una storia basandosi su pochi elementi e che la fa sedimentare nel tempo e nello spazio per anni e anni, facendoci imparare a memoria battute e formule, mimare gesti e intere scene, cercare nel mondo reale quello che abbiamo visto trasmettere da un televisore? I più cinici diranno che non è magia, ma sono i neuroni specchio che impongono un processo di identificazione e che, queste nuove facce, noi le indossiamo per essere un’ipotetica versione migliore o per diventare completamente qualcun altro. Così nel tempo sono stata la Morgana di Excalibur (1981), la Deborah di C’era una volta in America (1984), Mia Wallace in Pulp Fiction (1994), la Jenny che urla in mezzo al Campidoglio per Forrest Gump (1984) e Laura Palmer, Shelly Johnson e Audrey Horne a seconda di come mi alzavo alla mattina nella mia personale Twin Peaks. I miei genitori non hanno mai posto troppi veti su quali film o meno avrei potuto guardare con loro, tanto meno sulle serie e gli sceneggiati che agli inizi degli anni ‘90 andavano ancora fortissimo in RAI. Non avevamo nemmeno un genere preferito, da validissimi spettatori assoluti guardavamo qualsiasi cosa, ed eravamo capaci di passare dalle musiche straordinarie de Il segreto del Sahara alla penna di Pupi Avati per Voci Notturne, una miniserie diretta da Fabrizio Laurenti che ancora oggi disturba il mio sonno. Ecco, in mezzo alla meraviglia dobbiamo riconoscere che il prezzo da pagare per una vita da spettatrice libera fin dalla prima infanzia è il bagaglio di incubi in agguato nei periodi di maggiore stress.

Tutte le storie che entrano dai nostri occhi creano fotogrammi che si agganciano a frammenti di emozione ancora in costruzione. Quando guardiamo un film o una serie TV si creano dei ponti tra noi e i personaggi dello schermo, e passeggiandoci sopra abbiamo il potere di indossare quelle maschere o metterle in bocca e masticare, ingoiare e digerire fino a renderle profondamente parte di noi. Crescendo e studiando ho capito che certamente la visione ha un potere emotivo, comportamentale ed economico enorme, spesso sottovalutato o sminuito, non solo sui singoli, ma anche sulla performance collettiva che ne scaturisce. Per quanto mi riguarda, ho ricordi vivissimi dell’estate 1991. Nonostante il caldo afoso sono certa di aver dormito con la coperta fino alle sopracciglia, abitudine che ho ancora oggi, e con le ascelle adese al corpo, stringendole fortissimo, per paura di essere morsicata. Avevo appena finito di leggere IT di Stephen King dopo aver guardato il film di Wallace con i miei genitori. Vorrei dirvi che crescendo le cose sono migliorate, in realtà ho solo capito che quella visione in me ha creato una scatola caricata a molla e che nei momenti di forte stress il coperchio si spalanca nella notte e fa uscire un pagliaccio con i denti lunghissimi che punta dritto alla mia ascella destra. Se è vero, però, che i prodotti audiovisivi non fanno morti, è anche vero che diventa fondamentale, nell’era dei social network, fermarsi sulla Vista come senso che distrugge e costruisce, entra ed esce, chiude e apre, generando piccoli spifferi o grandi correnti.

Nella storia dell’Occidente sono stati sterminati popoli interi a causa della Vista, sono stati emulati comportamenti omicidi, sono stati propagandati messaggi all’inconscio, senza consenso, e lavati più cervelli che medaglie apposte sulle divise. Secondo Michel Foucault è proprio attraverso gli occhi che riceviamo l’educazione più rigida su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, messaggio che viene veicolato dal modo in cui dividiamo i corpi in sani e malati, innocenti e colpevoli, conformi e non conformi. Il Blockbuster Bend e la mia prima pellicola sono parzialmente consapevoli di questo passaggio, perché la superficie economica è molto più spessa di quanto sia forte l’analisi socioculturale sottostante. Quando le storie raggiungono i nostri occhi si portano dietro comportamenti che noi potremmo adottare, modi di dire e di pensare, ma anche un’industria che vive esattamente di questa miscela tra noi e quello che vediamo. Il processo educativo e performativo della visione ha sempre un cuore economico, se non altro perché così è strutturata la parte di mondo in cui viviamo. Può essere un guadagno monetario immediato o a lungo termine, oppure la creazione di abitudini e consuetudini che, nel tempo, diventano terreno fertile per altre pratiche di guadagno che ancora devono essere inventate e che, a loro volta, saranno sfruttate nel qui-e-ora oppure si trasformeranno in un nuovo trampolino di lancio. La cosa vera è che quelle storie ci arrivano veicolate dai corpi rappresentati, e che questi involucri non sono semplici insiemi di cellule epiteliali e vasi sanguigni, ma una maschera semantica che attraversa la nostra pelle e instilla inevitabilmente qualcosa che può essere innescato o sfruttato da altre persone per ottenere qualche vantaggio. Non ho tardato molto a capire, per esempio, che il mio corpo sugli schermi non ha valore se non quando deve essere l’involucro del cattivo della storia, manifestare povertà estrema e isolamento, fare da stampella muta al protagonista o alla protagonista della storia. Il mio corpo è il mostro delle storie che preferisco, qualcosa di oscuro e maligno che deve essere sconfitto e risolto, annientato e silenziato. Mentre attacco il cavo HDMI al lettore Blu-Ray e faccio partire Buio Omega per la millesima volta penso a Phineas Tylor Barnum e alla sua gallina dalle uova d’oro, quello che lui decantava come The Greatest Show on Earth e probabilmente aveva anche ragione: il Freak Show

Nella seconda metà dell’Ottocento, a ridosso della seconda Rivoluzione Industriale, il Corpo riveste un ruolo sociale consolidato: dimmi cosa indossi e ti dirò chi sei. A seconda della forma del corpo, dei vestiti, del peso, dell’altezza, della mobilità, del colore della pelle, del sesso esibito, le persone potevano essere associate a precise categorie sociali. In realtà, il corpo ha sempre svolto questo ruolo perché primo baluardo a servizio, appunto, del senso della Vista. Ma nel corso dell’Ottocento l’acuirsi di trattazione politica e le filosofie sul lavoro e sul salario e i moti del 1848 e la crisi incontrovertibile dell’aristocrazia mettono la borghesia nella posizione favorevole per ereditare il potere della nobiltà – e con essi anche tutti i vincoli per mantenere quel potere – restando a contatto col popolo e non chiusa dentro la corte di un palazzo. Questo passaggio del potere dalle mani di un cerchio significativamente chiuso a una classe sociale larga e diffusa, a contatto diretto con le categorie più povere, impose la Vista come strumento atto a identificare, catalogare, sorvegliare e punire chiunque fosse considerato esterno al sistema stabilito di norme. In questo contesto storico trova terreno fertilissimo la monetizzazione della non conformità, un’operazione poderosa di marketing sociale in cui la legge della domanda e dell’offerta non è solo economica, come dicevamo prima. I Freak Show rappresentano la coperta di Linus di una classe sociale che paga per vedere la diversità trattata come un fenomeno da circo, l’esposizione circense di corpi considerati devianti che vengono ridotti a oggetto di divertimento per chi mantiene invece l’ordine stabilito dai poteri. Nelle fiere e nei luna park, persone con caratteristiche fisiche fuori dalla norma vengono esposte e usate per spettacolarizzare il mostruoso e renderlo remunerativo, certo, ma anche pedagogico nei confronti del pubblico: chi oserebbe mai non seguire rigorosamente i diktat sul corpo sapendo che una briciola di deviazione potrebbe portare loro a divenire bestie da esibire e umiliare pubblicamente? 

La parte, però, più interessante di questo fenomeno fu effettivamente il modo in cui andò a evolversi una volta sgonfiata la curiosità per la novità. Nel 1872 Barnum decise di lasciare New York, in cui inizialmente sostava il suo spettacolo, e di renderlo itinerante. In quel momento, buona parte dei materiali in vitro e collezionati a sostegno dello spettacolo furono donati alla Smithsonian Institution di Washington e alla Tuff University, contribuendo alla revisione della teratologia, lo studio della mostruosità: da disciplina di supporto per studi biologici e medici a brand strategy per l’attività museale e non solo. I Musei di Anatomia Comparata rivedono le loro collezioni e iniziano ad avere focus specifici sui corpi che maggiormente possono attirare l’attenzione del pubblico pagante. Ci sono teche piene di alcol con dentro feti fatti a pezzi, raccolte embriologiche complete dall’uovo fecondato al formato del nono mese di gravidanza, tanti preparati anatomici degli organi vitali, sezioni longitudinali e trasversali di corpi umani adulti. E poi ci sono i corpi interi, i mostri. Il rapporto tra le didascalie e le immagini è un esercizio di sapere e di potere del sapere perché, se alla vista abbiamo un mostro, le parole sono mutuate dalla medicina e acquisiscono criterio di veridicità. Guardiamo i mostri, ma siamo alleggeriti da eventuali turbamenti perché ci stiamo facendo una cultura. E funziona. Funziona fino alla nascita dei social network, che su questo principio del corpo da guardare e da incamerare come oggetto del nostro piacere senza alcuna coscienza sociale hanno costruito un impero e un inferno. 

Nelle scorse settimane molte persone hanno parlato del “trend delle ragazze col sondino” un naming affascinante e deleterio a sua volta per intendere ore e ore di dirette di ragazze vittime di anoressia nervosa e dei comportamenti degli utenti, dei genitori e del personale medico a riguardo. In alcuni casi si è arrivati a parlare di narcisismo delle ragazze che, ottenendo attenzione, ne vogliono sempre di più, ma anche di colpevolizzazione dei genitori che assecondano e promuovono questi spazi in cui le ragazze mangiano, per esempio, in diretta e gli utenti sotto applaudono o scherniscono. Eccolo, il Freak Show. Ci sono due aspetti non trascurabili quando si cerca di fare analisi sociali di questo tipo: 1) studiare e storicizzare il qui-e-ora sociale perché non ci interessa il gossip, ma la dinamica generale e imperitura del mondo in cui viviamo che non è spuntato in una notte ma in secoli 2) non trasformarci a nostra volta in Barnum, sfruttando i corpi altrui per portare avanti il nostro show personale. La dinamica che sottende ai trend di Tik Tok ha un’origine ben precisa nella Vista e nel potere che attribuiamo a questo senso, sia come mittenti che come destinatari. Così, il corpo che si mostra vuole essere visto non per narcisismo, ma per ingannevole necessità prodotta dal disturbo di cui è vittima. Ci sarebbe un enorme discorso sul reale consenso in questo senso, ma criticare l’agency delle persone demandandola completamente ai genitori o alle persone vicine non funziona perché, se da un lato abbiamo un disturbo grave del comportamento alimentare capace di uccidere le persone, dall’altro abbiamo persone non preparate a gestirlo e in totale improvvisazione. Mancano le strutture sanitarie adeguate, gli interventi domiciliari, i processi educativi per tutte le generazioni, non solo per le persone più giovani, perché di fronte a questi corpi tutti quanti – ripercorrendo le stesse dinamiche cognitive del pubblico del Freak Show – proviamo stupore e superiorità. Questo è quello che accade quando la Vista svolge il ruolo di selezionatore del nostro interesse perché in realtà non compie solo questa procedura, ma stabilisce un dentro e un fuori dal nostro perimetro. E visto che selezioniamo quel perimetro sulla base del nostro gusto personale, pensiamo non solo di avere una voce in capitolo, ma anche il potere di sottomettere quello che vediamo al nostro volere. Così il passaggio da corpo in esposizione a corpo che fa cose per soddisfare il pubblico è innescato dallo stesso filo che sorveglia e punisce, sottomette e plasma, educa e forma i corpi dall’inizio della loro rappresentazione. 

Il movimento che effettua il pubblico non è nulla di diverso dal gesto intimo e nostalgico riportato alla mente da quel Blockbuster Bend: sfogliamo una copertina dopo l’altra, ne selezioniamo una che potrebbe soddisfare il nostro sguardo e il nostro gusto, la appoggiamo sul bancone e aspettiamo di ricevere in cambio qualcosa da fagocitare in una manciata di giorni. Poi torniamo, riportiamo quanto ci avevano dato perché ha già finito il suo tempo e passiamo alla prossima. Alla prossima pellicola, al prossimo mostro, al prossimo trend.

ARTICOLO n. 17 / 2023

ANNA ACHMATOVA ERA BRAVISSIMA, A NON SAPERE LE COSE

Pubblichiamo un estratto dal volume di Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicato ad Anna Achmatova, in questi giorni in libreria per Mondadori (che ringraziamo per la disponibilità).

12.1 Dire il rosario 

Nel 1914 esce la seconda raccolta di poesie, di Anna Achmatova, che si intitola Rosario

Dice Amanda Haight che Rosario ha ancor più successo di Sera, e che fa diventare Anna Achmatova uno dei più grandi poeti russi. C’è un gioco che diventa popolare in Russia: dire il rosario; uno comincia una poesia dell’Achmatova, l’altro la finisce.

Ol’ga Černen’kova scrive che il marito, Nikolaj Gumilëv, cominciano a chiamarlo Nikolaj Achmatov, e loro, come coppia, gli Achmatovy. 

12.2 L’Italia 

Una delle poesie di Rosario si intitola Venezia. Dice: 

Dorata colombaia sullacqua Tenera e verde languido;
Un venticello salato spazza
Le scie sottili delle barche nere. 

Quanti teneri, strani volti tra la folla.
In ogni bottega giochi luccicanti:
Un leone col libro su un cuscino ricamato; Un leone col libro su una colonna di marmo. 

Come su unantica tela scolorita
Si indurisce il cielo grigiazzurro…
Ma non si sta stretti in queste strettezze, Non c’è caldo in questa afosa umidità. 

Viene in mente il libro di Pavel Muratov, Immagini dell’Italia, la parte in cui Muratov scrive che, a Firenze, le pietre sembrano più leggere che in qualsiasi altre città del mondo, che quando l’ho letto ho pensato “Ma coglione, te abiti a trentacinque minuti di treno da Firenze, cosa aspetti ad andarci”. È stupefacente la passione che hanno i russi per l’Italia.

Anna Achmatova studia l’italiano per leggere Dante in originale. Nella poesia La musa, del 1924, chiede, alla musa, «Sei tu che hai dettato a Dante le pagine dell’Inferno?», e la sua musa risponde «Sì». E quando, anni dopo, degli studenti stranieri le chiedono se legge Dante in originale, Anna Achmatova risponde «Non faccio altro». 

Anche Mandel’štam, come sappiamo, studia italiano per leggere Dante e gli piace moltissimo il modo in cui noi usiamo la lingua quando parliamo, la lingua fisica, la nostra lingua, il modo in cui la spingiamo contro i denti davanti, e dice che l’italiano è «la più dadaista delle lingue romanze», e si chiede quanti sandali ha consumato Dante per scrivere la Divina Commedia che a me, io non sono un poeta, ma questa mi sembra proprio una domanda tra poeti, uno russo e uno italiano. 

E Dostoevskij, quando, quindicenne, arriva a Pietroburgo, scrive al padre, che è rimasto a Mosca, che il clima, a Pietroburgo, è “meraviglioso, italiano”; non è mai stato in Italia, ma, per lui, quindicenne russo negli anni Trenta dell’Ottocento, italiano è sinonimo di meraviglioso. 

Il protagonista di uno dei grandi romanzi dell’Ottocento, Bazarov, dice che dei russi gli piace in particolare «la pessima opinione che hanno di sé stessi» (il romanzo è Padri e figli, di Turgenev), che è una cosa che noi italiani, secondo me, capiamo benissimo, ma se la loro relazione con sé stessi è così critica, è stupefacente, per un italiano, accorgersi dell’ottima opinione che hanno di noi, del fatto che, a loro, sembriamo «meravigliosi».

12.3 Il visto 

Quando chiedi il visto per la Russia devi mandare all’ambasciata, con il passaporto, una foto dove non sorridi; devi guardare serio in macchina e dev’essere una foto che hai fatto negli ultimi sei mesi. E io ho fatto così, ho fatto una foto seria, e l’ho mandata. Io nelle foto, tra l’altro, non sorrido quasi mai. 

Dopo qualche giorno mi hanno scritto che la foto non andava bene perché sembrava uguale a quella del passaporto, che risaliva al 2019. Era una foto di quattro anni prima quando pesavo quindici chili in più. Avevo una camicia blu col colletto, mentre in quella nuova avevo una camicia blu senza colletto. Comunque, mi hanno fatto sapere dall’ambasciata, non era solo quello, era da correggere anche il visto che mi aveva fatto il Museo Achmatova. Non avevano scritto di che sesso ero. Bisognava aggiungere il sesso. 

Ho scritto al Museo Achmatova, gli ho chiesto di aggiungere, nel loro invito: «Sesso: maschile». 

E ho rifatto le foto con una camicia azzurra. Non mi metto mai le camicie azzurre, per fare le foto per l’ambasciata russa mi sono messo una camicia azzurra. 

12.4 Situazioni difficili 

Secondo Ol’ga Černen’kova, nell’aprile del 1914 Anna Achmatova si viene a trovare in una situazione difficile, delicata. 

Ha avuto una relazione con il giovane compositore futurista Artur Lur’e, e è rimasta incinta. 

E decide di non avere il bambino. 

Quando, l’11 aprile del 1914, Achmatova scrive: «Il destino della madre è un tormento radioso, / Non ne sono stata degna», secondo Černen’kova non si riferisce al rapporto con Lev, ma a questa gravidanza. 

Sembra che dopo questo aborto, Anna non possa più avere bambini. 

Racconta la cosa a Gumilëv, che intanto ha una relazione con Tat’jana Adamovič, la quale non è contenta del ruolo di amante. 

Dopo che Anna gli ha confessato la sua relazione con Lur ’e, lui le confessa la propria con Tat’jana Adamovič. 

Adamovič insegnava musica e danza e aveva raccontato a Gumilëv che delle signore della buona società erano andate nella scuola dove insegnava per scegliere le insegnanti di ballo per le loro figlie, e quando la direttrice aveva loro proposto Tat’jana, una aveva detto «Ma cosa dice, quella è l’amante di Gumilëv!». 

Tat’jana chiede all’amante di diventar suo marito, ma quando Gumilëv racconta questa cosa alla moglie, ad Anna, lei gli risponde «Ma figurati. Figurati se delle signore dell’alta società sanno che tu e Tat’jana siete amanti». E aggiunge: «E poi, anche se lo sapessero? Pretenderebbero un’insegnante di danza illibata, per le loro figliole? Lo chiederebbero come requisito?». 

Gumilëv si convince, e sembra che tutto sia risolto, ma, dice Černen’kova, Anna purtroppo trova le lettere di Gumilëv all’amante. 

Le legge tutta la notte e ha una spiegazione col marito, nel corso della quale Gumilëv le chiede il divorzio. 

Lei accetta a condizione che il figlio Lev resti con lei. 

Quando lo sa la suocera, non accetta l’idea di separarsi dal nipote e di lasciarlo alla nuora, che non è molto portata per la vita pratica. 

Sembra che, per accontentare la suocera e la mamma, Anna e Nikolaj acconsentano a non divorziare. 

E sembra che Nikolaj lasci Tat’jana. Povera Tat’jana.

12.5 La grappa 

Un mio amico russo, quando gli ho detto che tra qualche settimana vado a trovarlo a Pietroburgo, mi ha detto «Non presentarti senza grappa». 

Io ho degli amici così, che gli piace la grappa. 

12.6 Complicato

Nel luglio del 1914 Anna scrive una poesia che si intitola Eredità. Fa così: 

Sii la mia legittima erede
Vivi in casa mia, canta le canzoni che ho composto io. Piano piano le mie forze vanno via,
Il mio petto sofferente vuole aria. 

Lamore dei miei amici, lostilità dei miei nemici,
E le rose gialle del mio piccolo giardino,
E la tenerezza di un amante appassionato, tutto questo Lascio a te, presagio dellalba. 

E la gloria, quello per cui son nata, 

Perché la mia stella, come un dolce turbine si è alzata in volo 

E adesso cade. Guarda, la sua caduta
Annuncia il tuo potere, il tuo amore, il tuo estro. 

La mia eredità è ricca,
Tu vivrai a lungo e bene,
Sarà così. Vedi, son tranquilla, Sarai felice, ma ricordati di me. 

Secondo Černen’kova, questa poesia è per Tat’jana, quell’insegnante di ballo che voleva che Gumilëv divorziasse per sposarlo lei.

C’è un modo di dire russo: «Drugoe pokolenie, drugie dela», che significa, più o meno, «Cambiano le generazioni, cambiano i comportamenti», e capisco bene che la nostra morale di coppia, rispetto a quella di due poeti russi dell’inizio del secolo scorso, siano diverse, ma mi sembra che, per essere la relazione tra due che si erano concessi la piena libertà, la relazione tra Achmatova e Gumilëv fosse molto complicata. 

Come tutte le relazioni di Anna Achmatova coi mariti e con gli amanti. 

12.7 Cosa insegnava Mandel’štam ai bambini 

Nel 1916, quando Lev Gumilëv ha quattro anni, Osip Mandel’štam gli insegna, in segreto, a dire: «Mio babbo è un poeta, mia mamma invece è isterica». 

Quando il bambino dice, tutto serio, questa battuta davanti ai genitori, il babbo si offende, la mamma è entusiasta. Bacia il bambino e gli dice «Bravissimo, Levuška, hai ragione. Tua mamma è isterica». E poi gli chiede, continuamente: «Di’ un po’, Levuška, cos’è tua mamma?». 

«Mia mamma è isterica» risponde lui, e lei gli dà una caramella. 

12.8 Cosa facciamo noi in Occidente 

Sul primo canale russo, in un programma dove di solito si parla della operazione speciale in Ucraina, hanno parlato del processo tra Johnny Depp e Amber Heard, che, come credo la maggior parte dei lettori sappia, sono due attori che erano sposati e poi hanno litigato e sono andati per tribunali. 

Hanno detto, sul primo canale russo, che sono stati condannati tutti e due per reciproca diffamazione, lui deve pagare due milioni di dollari, lei deve pagare quindici milioni di dollari. 

«Questa è la dimostrazione» ha detto il presentatore russo «che in Occidente mentono tutti. Raccontano delle gran balle, in Occidente» ha detto il presentatore russo tutto contento. 

12.9 Il momento più bello della sua vita 

Scrive Černen’kova che Nikolaj Gumilëv voleva andare in guerra prima ancora che ci fosse, la guerra. 

La Germania dichiara guerra alla Russia il 19 luglio del 1914 alle 22. 

Il 5 agosto Gumilëv è già in divisa. 

Il primo novembre scrive al suo amico Lozinskij: «In generale, posso dire che questo è il momento più bello della mia vita. Mi ricorda un po’ le mie sortite abissine, ma è meno lirico e molto più emozionante». 

Manda delle lettere a Anna, che contengono dei versi (le lettere tra di loro hanno quasi sempre in calce dei versi, e loro si chiedono, per tutta la vita «Ti sono piaciute, le mie poesie?»); dal fronte Gumilëv scrive: «Io porto in me un’idea grandiosa. / Non posso, non posso morire» e «Il cuore dorato della Russia / Batte cadenzato nel mio petto». 

Gli piace tutto, della guerra, anche i nemici, che considera «dei soldati coraggiosi e dei nemici onesti, e senti, per loro, un’involontaria simpatia, perché è, in qualche modo, con loro, che costruisci quella grande cosa che è la guerra».

Anche per il figlio, Lev, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, per motivi forse diversi (vale, per lui, la libertà) sarà un momento bellissimo. 

Nel dicembre del 1914, Nikolaj Gumilëv viene decorato con la croce di San Giorgio di IV livello. 

A chi legge potrebbe forse sembrare che i russi siano bellicosi, un popolo a cui fare la guerra piace tantissimo. 

Può darsi, ma non sono tutti così. 

Velimir Chlebnikov, che, allo scoppio della prima guerra mondiale, era stato arruolato, scrive a Nikolaj Kul’bin, medico militare, pittore impressionista e già suo editore, che come militare pensa di essere uno zero, utile soltanto in un battaglione ausiliario di campagna, per andare a pescare dei pesci. 

«Io» scrive Chlebnikov «sono un derviscio, uno ioghi, un marziano, quel che si vuole, ma non sono un soldato di un reggimento di fanteria di riserva.» 

12.10 Particolarmente 

«Il cuore dorato della Russia / Batte cadenzato nel mio petto» ha scritto Gumilëv dal fronte. 

Quando torna in licenza, Pietroburgo non si chiama più Pietroburgo, ma Pietrogrado. 

Burg è un suffisso germanico, la Russia è in guerra con la Germania, i russi lo cambiano con il suffisso grad (città, in russo, si dice gorod): Petrograd. 

Io, quando andrò a Pietroburgo, se mai riuscirò a andarci, volerò con la Turkish Airlines, faremo scalo a Istanbul. 

I voli diretti sono stati soppressi. 

Quando gli aerei Aeroflot collegavano ancora l’Italia e Pietroburgo, una volta arrivati lo speaker diceva «Benvenuti a Pietroburgo, Leningrado, città eroica». 

Pietrogrado è stata Pietrogrado per dieci anni; dopo la morte di Lenin, nel 1924, è diventata Leningrado. 

E nella seconda guerra mondiale, Leningrado è stata, per novecento giorni, assediata dai nazisti. 

C’era, all’epoca, e c’è ancora, un circuito di altoparlanti che si sentono, nel centro della città, e trasmettono musica e, nel caso, informazioni. 

Durante l’assedio di Leningrado, da questi altoparlanti si sentiva, regolarmente, un metronomo. Era il segnale che la città non era ancora caduta. 

Il cuore dorato della città batteva nel petto di Leningrado. 

La prima volta che mi hanno raccontato questa storia è stato al Museo Achmatova, sulla Fontanka. 

Perché in quei giorni del 1941, Anna Achmatova, sfollata, diceva per radio: «Tutta la mia vita è stata unita a Leningrado; a Leningrado sono diventata un poeta, Leningrado ha ispirato e dato il tono alla mia poesia. Come tutti voi, in questo momento, vivo nella fede incrollabile che Leningrado non cadrà mai in mano ai nazisti». 

Il Museo Achmatova, sulla Fontanka.
Chissà se riuscirò mai a rivederlo.
Che uno pensa “Perché non dovresti riuscire?”. Non so. C’è sempre un momento, quando devo andare in Russia, che mi accorgo che forse parto davvero e mi sembra incredibile. 

Quest’anno mi sembra particolarmente incredibile. Incredibilissimo, direi, se si potesse dire.
E anche se non si potesse: incredibilissimo.
Comunque, intanto che io aspetto il mio visto, ho letto che nel 1916 Gumilëv ha una relazione con una donna bellissima, Larisa Rejzner, discendente del condottiero russo che aveva battuto Napoleone, Kutuzov, futura rivoluzionaria e, sembra, modello di Pasternak per la figura di Lara, la coprotagonista del Dottor Živago. 

Lei è follemente innamorata di Gumilëv, e, ci informa Černen’kova, confessa di avergli concesso «tutto».

Gumilëv, racconterà poi la Rejzner, le propone di sposarla, ma lei dice che ama e rispetta Anna Achmatova e che non vorrebbe mai procurarle un dispiacere. 

Gumilëv, dice la Rejzner, le risponde che, purtroppo, lui, ormai, non è più in grado di procurare dispiaceri a Anna Achmatova. 

Dopo che Gumilëv è tornato al fronte, la Rejzner, in un cabaret di Pietroburgo, Il riposo del commediante, incontra l’Achmatova, a uno spettacolo di marionette. Alla fine dello spettacolo, l’Achmatova la saluta e lei si commuove. E, con le lacrime agli occhi, confusa, comincia a dire che non si aspettava affatto di essere riconosciuta e salutata da lei in modo così gentile dopo che lei era stata con Gumilëv e che lui le aveva proposto di sposarla. Dice la Černen’kova che la Rejzner era stupita dalla generosità dell’Achmatova, solo che, l’Achmatova, dice la Černen’kova, della relazione tra la Rejzner e Gumilëv non sapeva niente. 

L’aveva capito in quel momento, dice la Černen’kova, che di fronte a lei c’era «un’altra vittima del temperamento arabo di Gumilëv, una vittima che credeva di essere la sua fidanzata». Se avesse saputo quante fidanzate aveva. 

12.11 Era bravissima 

Quando, nel 1946, escludono Anna Achmatova dall’Unione degli scrittori chi la incontra è stupefatto dalla sua indifferenza. Un’indifferenza regale, pensano. 

E probabilmente è vero, Anna Achmatova ha quest’aria da regina, indifferente alle cose del mondo, anche a quelle che la riguardano personalmente. 

Solo che lì, quella volta, lei era così indifferente perché nessuno gliel’aveva detto, che era stata esclusa dall’Unione degli scrittori. Non lo sapeva.
Come con la Rejzner.
Era bravissima, a non sapere le cose.

ARTICOLO n. 16 / 2023

«NON C’È SOLO IL ROMANZIERE»

Gli 80 anni di Franco Cordelli

Affacciata sull’informe piazzale di Ponte Milvio, l’Antica Trattoria Pallotta sta lì addirittura da prima che Stendhal pubblicasse (1829) le Passeggiate romane. Ci si sono sempre mangiate le solite cose romane, matriciane e carbonare, saltimbocca, puntarelle. Tutto buono, «come a casa». Singolare paradosso anche questo romano: ciò che viene chiesto a un ristorante, è il farti mangiare come a casa. E allora, perché mangiare fuori? Ma da Pallotta non si andava a fare i buongustai. Ho imparato più cose lì sulla letteratura che in tutti gli anni dell’istruzione, comprensivi di un dottorato di ricerca portato avanti con molta approssimazione, quando ormai avevo capito che non era una vita per me, che non sarei mai diventato quello che si dice uno studioso.Chiunque abbia frequentato Franco Cordelli, ad ogni modo, conosce a memoria il menù di Pallotta: dar supplì ar tartufo nero. Regolarmente Franco optava per i rigatoni, e altrettanto regolarmente qualcuno usciva dalla cucina ad avvertire che ci sarebbe voluto qualche minuto in più. E chi se ne fregava, di certo non avevamo fretta. Sotto la pergola nei mesi buoni, e dentro d’inverno, Franco governava con piglio di vero monarca quelle cene di cui non sarebbero bastati dieci fratelli Goncourt per redigere i verbali. Si faceva così tardi che ci imploravano di andarcene, e allora continuavamo a parlare andando su e giù per il venerabile e tetro ponte, con il Tevere – quel corso d’acqua psicotico e rancoroso – che spumeggiava tra i piloni. Chi c’era? La formazione delle cene da Pallotta è talmente variata nel tempo che, come per le squadre di calcio, non ha senso citarle se non specificando l’epoca, la stagione. A fare la parte dell’Alex Ferguson sulla panchina del Manchester c’è stato solo Franco. Aveva anche un vice, Luca Archibugi, ma tutti gli altri rischiavano di finire fuori rosa anche quando giocavano bene, o credevano di. Io posso parlare dell’ultimo lustro del Novecento, periodo in cui Cordelli pubblicò due libri per me decisivi, entrambi per Einaudi: La democrazia magica (1997) e Un inchino a terra (1999), che forse è il suo romanzo più bello (la palma però è contesa da Guerre lontane). Tra le presenze più fisse da Pallotta, in quel periodo oltre a Luca Archibugi ricordo Arnaldo Colasanti, Eraldo Affinati, Aurelio Picca. Poi c’erano degli ospiti speciali: milanesi di passaggio, gente che lavorava nell’editoria, giornalisti curiosi di libri. Non era affatto una comunità esclusivamente maschile, e poteva capitare che serpeggiassero sulla tavola correnti di seduzione e gelosie. Ricordo che una notte d’inverno una grande poetessa, Antonella Anedda, bella come un ritratto del Fayum, ci parlò a lungo delle lettere di Marina Cvetaeva che Serena Vitale andava pubblicando per Adelphi. 

Non era un salotto letterario, non era un’accademia, non era la redazione di una rivista. Anzi, fu proprio il fatto che a Franco non piacesse affatto come gestivamo «Nuovi Argomenti» un incidente molto problematico nella nostra amicizia. Era stato Franco stesso a convincere Enzo Siciliano ad affidare la testata, ancora letta e prestigiosa, a un gruppo di persone molto più giovani di quelle che se ne erano occupate fin dai tempi di Moravia e Pasolini. A distanza di tanto tempo da quella grande querelle posso dire che Franco aveva ragione su un punto: avevamo cominciato a pubblicare troppe cose per puro gusto dell’esperimento, imbarcando troppe persone, come sarebbe di lì a poco accaduto nei primi blog. Personalmente, io non sapevo dire di no a nessuno, più simile per carattere a Siciliano che a Franco, che detestava la mollezza e non la scambiava per bontà d’animo. Questo è solo un esempio delle cose su cui finivamo per accapigliarci. Perché la caratteristica principale delle cene da Pallotta non era la chiacchiera, ma la disputa. Delle cose su cui eravamo tutti d’accordo (che ne so: che Cinque stagioni di Yehoshua fosse un capolavoro) era meno interessante parlare che di quelle che oggi si definirebbero divisive. Un esempio epico di divisività pallottiana furono i romanzi senili di Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, pubblicati tra il 1993 e il 1996. Tentare di convincere Franco della bellezza, della necessità poetica, dell’efficacia emotiva di quel manierismo terminale si rivelò un’impresa più impossibile che scalare il ghiacciaio del Nanga Parbat con le ciabatte da spiaggia. Non si trattava del solito gioco fra generazioni, con i figli che per fare dispetto ai padri esaltavano l’opera delle nonne. Su un singolo libro, su un singolo scrittore si può pensare tutto e il contrario di tutto. In ogni giudizio storico o estetico c’è un margine oscuro di soggettività che si ingrandisce via via che ci avviciniamo al presente. A volte il tempo si rivela un ottimo giudice salomonico, ma ancora oggi, riguardo alla prosa della Ortese, non saprei dire se avessi ragione io a estasiarmene o Franco a trovarla ripugnante. Ma che belle, quelle interminabili battaglie verbali, in cui si ricorreva a tutte le astuzie, a tutte le perfidie. Ma ancora più importante mi sembra il fatto che, senza saperlo, ci credevamo ancora in viaggio su un treno, il venerabile treno del Novecento, che invece era arrivato all’ultima stazione, e non avrebbe mai ripreso servizio. Certo, ingannarci era facile, perché intorno a noi, in quegli ambigui anni Novanta, le cose sembravano procedere come al solito: registi come Luca Ronconi o Peter Brook mettevano in scena spettacoli memorabili; Philip Roth pubblicava uno dietro l’altro i suoi romanzi migliori; nel 1994 il Comandante Marcos iniziava a guidare l’ultima rivoluzione proletaria classicamente intesa; un regista come Tarantino sembrava capace di scardinare e ricombinare, con tutta l’arroganza della gioventù, l’apparato retorico e stilistico del cinema; chiusi nei loro cassetti dagli anni Settanta, esplodevano due ordigni letterari come Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise… insomma, era facile ingannarsi, ragionare come se nulla fosse accaduto, e continuare a spaccare in quattro ogni tipo di capelli, in attesa che i lenti rigatoni di Franco finissero di cuocere a puntino.     

Ma cos’era successo esattamente? Volendo usare impropriamente come allegoria un bellissimo racconto di Lernet-Holenia, potremmo sostenere che per qualche anno, come il barone Bagge, il Novecento aveva continuato la sua guerra senza accorgersi di essere morto. E per quello che mi riguarda, non c’è un libro italiano di critica che più della Democrazia magica di Cordelli abbia fotografato e interpretato questo immane dramma che ha colpito tutti coloro che, cresciuti in un’epoca, si sono trovati a diventare maturi e invecchiare in un «tutt’altro» (non saprei nemmeno come definirlo) nel quale l’unico posto che era rimasto disponibile era quello dello spettatore – più o meno privilegiato a seconda del caso, del talento, del suo ruolo all’interno del grande circo dell’industria culturale. Cercherò di definire questa nuova condizione in termini psicologici ed esistenziali ancora prima che estetici e intellettuali. Lo faccio dal punto di vista di una persona che (come Cordelli, del resto) ha sempre goduto di attenzioni, privilegi, editori adeguati, premi, eccetera eccetera. Alle soglie dei sessant’anni, quello che ho fatto ho fatto e non posso lamentarmi: ho avuto anche troppo. Ma ogni volta che riprendo in mano La democrazia magica, sono in grado di sentire perfettamente l’eco di qualcosa che non ho più avuto, e che era così connaturato alla modernità che sembrava del tutto naturale: il confronto delle idee, e la certezza che la letteratura non fosse una serie di libri, ma un’opera collettiva e multiforme, che impregnava ogni aspetto della vita, ogni ora della veglia e del sonno. Non eravamo diversi, per molti aspetti essenziali, dai surrealisti, o se è per questo dai veristi, con i loro cenacoli, le loro guerre intestine, i loro ritrovi. Ma a partire da un certo punto tutti noi, pur essendo rimasti animali perfettamente sociali (gente urbana, che esce ogni sera) abbiamo iniziato a procedere in solitudine, ognuno solo di fronte al suo pubblico. Abbiamo incarnato la terribile diagnosi così formulata dal grande critico americano Lionel Trilling: «la nostra cultura è probabilmente unica nell’isolare strettamente l’individuo entro le paure prodotte dalla società». Specificherei meglio: la nostra cultura, quando il suo aspetto di mercato prevale su ogni altro, genera solipsismo. Genera, per meglio dire, l’idea che la letteratura sia una carriera, una serie di prodotti: e non c’è nulla di male, se non che né l’una né gli altri hanno bisogno di una vita vera da vivere. Basta quel surrogato di vita che si definisce life style, così come si materializza su Instagram: ecco la scrittrice con le amiche del cuore al tavolino di un bar, o ci tiene informati sulle gioie e le fatiche del diventare mamma; ecco lo scrittore che passeggia in montagna o gioca con il gatto, o visita un antico borgo. Nel mercato, o se preferite nel circo, non si lavora male, ogni anno escono quelli che possiamo definire dei bei libri, ce ne saranno anche in questo 2023, ma il presupposto di questi libri non è più l’esistenza, la mortalità, ma il consenso: e saranno pure belli, ma avrebbe potuto scriverli qualcun altro, chiunque altro con un minimo di competenza artigianale.

Ebbene, nelle centoventi pagine della Democrazia magica c’è tutto. Tra i cinquanta e i sessant’anni, Cordelli si è reso conto di questa disgregazione quando ancora non era così visibile, si confondeva tra residue forze contrarie in via di estinzione. Il sottotitolo è illuminante, perché assegna a tre figure emblematiche e allegoriche (come i vizi e le virtù nell’arte medievale) il ruolo di rappresentare le forze in campo: Il narratore, il romanziere, lo scrittore. Mi soffermo un po’ sul primo membro di questa triade, il narratore, perché in molte pagine del suo libro, ora implicitamente ora esplicitamente, Cordelli dialoga con il celebre saggio di Walter Benjamin su Leskov, scritto nel 1936 e dedicato, appunto alla figura dell’Erzähler, «narratore» nella traduzione di Renato Solmi.  Questa del narratore è una figura in tutti i sensi archetipica, impregnata di tempo, di oralità, di saggezza («l’arte di narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza»). Implica un legame psicologico tra chi racconta una storia, chi la ascolta e la storia stessa quasi inconcepibile per la modernità e i suoi commerci, la sua frammentazione e specializzazione dell’esperienza. Lo stesso Leskov, più che l’ultimo esemplare di una razza estinta, è il frutto di una proiezione di Benjamin, una specie di maschera individuale di un’energia anonima e plurale. È un simbolo, in ultima analisi, né più né meno del Mishima di Marguerite Yourcenar o del Lovecraft di Houellebecq. Il vero Nikolaj Semënovič Leskov, l’autore di capolavori come Il viaggiatore incantato e Una famiglia decaduta, ahimè, è molto più romanziere di quanto, ammaliati dal fascino della prosa gnostica di Benjamin, si desideri ammettere. È molto più Erzähler di Leskov, a voler seguire fino in fondo il ragionamento di Benjamin, quel servo cieco di cui parla Tolstoj nelle memorie sull’infanzia, che sua nonna si teneva in camera per farsi raccontare favole e leggende russe, potendosi nel frattempo spogliare senza imbarazzo. Resta il fatto che, se la critica non fa esempi, non indica questo o quel libro a sostegno delle sue idee, non è critica, non conta nulla. E dunque fa bene Benjamin, invece di menare il can per l’aia come fanno molti filosofi, a inventarsi il suo Leskov: mezzo vero e mezzo ermeneutico. Il tipo di sapere di cui stiamo parlando non ha nulla a che vedere con l’estetica, e meno ancora con la teoria letteraria ancora in auge, quando Cordelli scrive i saggi della Democrazia magica, nelle due varianti principali: la noiosissima “scienza semiologica” e la sua sorella svalvolata, “decostruzione” (chi se la ricorda oggi? Eppure, imperversò). Noi facciamo un mestiere molto più umile, nato con la letteratura stessa: investiamo energie e ricaviamo valore da singoli libri. Ognuno ha i suoi criteri (tanto è vero che se non ami una cosa difficilmente qualcuno ti convincerà ad amarla), ma non ci distogliamo mai dal concreto, il concreto è la nostra religione. Un criterio molto attivo in Cordelli, direi il suo criterio più tipico, è quello della distinzione dell’autentico dal finto, ovvero dal recitato: esemplare è la stroncatura dell’Ussaro sul tetto di Jean Giono (capitolo 12). L’antipatia di Cordelli può stupire. Non si tratta del «più travolgente romanzo del Novecento», secondo il giudizio autorevole di Daria Galateria? Ma «travolgente» è il tipico aggettivo che la dice di più sul lettore travolto che su un’opera in sé. Se Cordelli punta i piedi, è perché ci sente, nell’Ussaro, puzza di falso: uno stendhalismo tutto di testa, esclusivamente scritto, che non lo convince.  

È fin troppo ovvio che, quando la pubblicità spodesta la critica, il romanziere prevale sia sull’ancestrale narratore che sullo scrittore. Il fastidio di Cordelli è anche quello di un testimone che ha passato due stagioni assillate da slogan contrari ma equivalenti nella loro rozzezza. Anni Sessanta/Settanta: morte al romanziere. Anni Ottanta: come un dittatore in esilio che torni al potere più forte che mai, conta solo il romanziere. Di qui la protesta di Cordelli, alla fine della prefazione: «Non c’è solo il romanziere; e senza infamia si può benissimo essere un non romanziere, o un’altra cosa ancora». Ce n’è di che riempire una vita, davvero. Non vorrei forzare la mano a Cordelli proprio su questo punto così delicato, ma è questa rivendicazione di indipendenza e libertà che mi fa comprendere cosa intenda per «scrittore»: la più enigmatica delle figure della triade. La copertina della Democrazia magica definisce lo scrittore con un’icona, eloquente ma arbitraria: è un bellissimo ritratto di Uwe Johnson, cappotto e guanti neri, che cammina per la Berlino del 1956. Non si vedono più macerie, ma la luce è ancora quella di una città rasa al suolo. Va bene per una copertina, ma definire cos’è uno scrittore non è facile. Si potrebbe dire che mentre il narratore di Benjamin è una figura mitica, e dunque proveniente da un passato recuperabile solo intuitivamente, per via di folgorazioni e proiezioni, lo scrittore appartiene al regno delle possibilità, e dunque del futuro. Voglio dire che solo un cretino potrebbe auspicare un ritorno alle condizioni pre-industriali mitizzate da Benjamin. Scrittore è quell’individuo che recupera per sé la possibilità di scrivere libri che solo lui avrebbe potuto scrivere. E dunque, come diceva il Pasolini di Petrolio – confidandosi con Moravia – è in grado di vivere la genesi della sua opera. Ma come Benjamin ha bisogno di Leskov (e come Baudelaire aveva bisogno di Poe) anche Cordelli ha bisogno di una proiezione efficace. Nella Democrazia magica in realtà ce ne sono molte, ma nessuna, mi sembra, ha l’intensità raggiunta nel capitolo 6 parlando di Malina di Ingeborg Bachmann. Per leggere questo libro così impervio, infatti, «occorre credere che un romanzo può non essere un romanzo ma, diciamo, niente altro che una narrazione». Ma non basta: occorre anche credere che «una narrazione può trasformarsi rapidamente in una fiaba, se non addirittura in una nenia, in una pura evocazione musicale». L’ombra del vecchio narratore non è così lontana, e infatti, «il lettore viene chiamato intorno a un fuoco». Nel 1997, quando avevo appena iniziato a percorrere la mia strada, avevo sottolineato queste parole con freghi di pennarello che tradiscono ancora oggi il mio entusiasmo, la mia adesione a un tale tipo di programma. Perché Cordelli non suscita un ennesimo immaginario filosofico, ma indica un libro, come un amico che te lo presta: un libro del 1971 non sarà certo un mito, ma in compenso puoi fartene un’idea, è stato scritto da una persona come te, non da un postulato astratto. Il vantaggio cognitivo, rispetto a Benjamin, è che nel pensiero di Cordelli non c’è nemmeno bisogno di inventare un finto Leskov, tirato fuori come il coniglio dal cilindro dell’illusionista. Malina esiste, lo si trova facilmente in libreria, basta provare. Proprio come, se davvero desideri vivere una vita che sia solo tua, basta provare a viverla, con quel poco o tanto di disperazione e di coraggio che il destino ha assegnato a ognuno di noi.

ARTICOLO n. 15 / 2023

RAGAZZO A CASO

Non guardo video di quel genere, ma volevo scrivere questo pezzo e allora non ho potuto esimermi. Ecco come è andata, almeno, dentro lo schermo. 
Prima del video su RepTv, però, uno spot pubblicitario esaltava i prodotti tipici liguri. 
La focaccia con il formaggio. Un po’ di dialetto – la fùgassa co formaggio – la musica rilassante in sottofondo, la constatazione, ancora dialettale, di quanto sia buona la focaccia ligure e l’invito finale – gusta anche tu la focaccia della Liguria con stracchino italiano – dell’azienda francese Carrefour: il marchio Terre d’Italia.
Poi, l’avvertimento.

Attenzione. Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Forse le aziende che comprano gli spazi pubblicitari su RepTv o su CorriereTv li acquistano molto in anticipo, per ottenere un prezzo migliore. Acquistano spazi pubblicitari a pacchetti, ignare del contenuto trasmesso dopo il proprio prodotto. 

Un video che ritrae il tragico utilizzo di un’auto e la morte di due persone è un buon investimento commerciale per l’azienda Carrefour e il marchio Terre d’Italia? Oppure Manzoni Advertising, concessionaria di pubblicità esclusiva di Gedi Gruppo Editoriale Spa, in rapporto al video caratterizzato dalla morte di due persone, ritiene interessante proporre quello spazio a un certo tipo di azienda? 
Oppure, come spesso capita, è tutto casuale?
Per verificare quale azienda, oltre Carrefour, sponsorizza un filmato con due morti, ho visionato ancora il video, soltanto l’inizio, il giorno seguente: Mulino Bianco, Barilla. 

Forse la pubblicità, come la morte, ha stancato, la duplice morte ha stancato, e perfino la duplice morte causata da un’auto Tesla a guida assistita – benché sia un tipo di morte ancora poco diffusa, quasi inedita, la morte novità del mercato – ha stancato. 
Il video, dopo una settimana, non era tra i primi dieci più visualizzati.
L’incidente è avvenuto in Cina. Una Tesla Model Y – auto elettrica a guida assistita – di colore bianco ha accostato senza fermarsi del tutto, sul margine sterrato di una strada, la strada periferica di una cittadina nella provincia meridionale del Guangdong.
L’orologio, in alto a sinistra, segnava le 6:42.

A bordo della Tesla c’era soltanto il proprietario cinquantacinquenne. Un uomo in sella a uno scooter ha sorpassato l’auto. Allora la Tesla si è immessa di nuovo sulla strada. 

Un’altra telecamera ha mostrato la visione d’insieme: due palazzi, il dorsale di una montagna in lontananza. La Tesla è rimasta per un paio di secondi alle spalle dell’uomo in scooter, ha accelerato sfiorandolo in modo enfatico. L’uomo in scooter ha proseguito ignaro di quanto sia andato vicino all’essere investito e ucciso. 

La Tesla ha aumentato l’andatura, il tratto percorso è stato ripreso dalle telecamere posizionate ai bordi della strada e in prossimità degli incroci. A un incrocio, la Tesla ha sorpassato una monovolume bianca, poco dopo si è ritrovata davanti un’altra persona a bordo di uno scooter. Se la Tesla avesse schivato la persona in scooter sterzando come nel primo caso, è probabile che si sarebbe ribaltata, vista la velocità alla quale viaggiava. E invece ha investito la persona, colpendola alle spalle. Nell’inquadratura successiva, la Tesla è passata ancora a grande velocità, portando con sé un pezzo dello scooter o del proprio cerchione. Nell’inquadratura successiva, l’auto viaggiava a sinistra, pur essendo una strada a doppio senso di circolazione. Una persona, forse una donna, procedeva in bicicletta, poco al di là della banchina. È probabile che questa persona abbia visto sopraggiungere la Tesla fuori controllo e impaurita abbia tentato di scostarsi. Avrebbe potuto scostarsi di più, perché in quel punto c’erano almeno sei o sette metri di sterrato davanti alla saracinesca chiusa di un negozio. È probabile che la persona in bicicletta non abbia fatto in tempo, mai avrebbe immaginato che l’auto sopraggiungesse a una tale velocità. La Tesla ha preso di striscio la persona in bicicletta. Forse non l’ha presa di striscio. Forse l’ha solo sfiorata. Forse la persona, che ha tentato di rialzarsi, era traumatizzata. Forse la Tesla l’ha colpita quel tanto che basta per non ucciderla. Forse l’ha colpita quel tanto che basta per provocarle una lesione interna, un’emorragia lenta, ma letale. 

Le cronache dalla Cina riferiranno, oltre alla morte di un motociclista – credo l’uomo in scooter – di una persona morta in sella a una bicicletta. 

La Tesla è arrivata a un incrocio un po’ più trafficato. In mezzo all’incrocio, un piccolo camion carico di sabbia e, a sinistra del piccolo camion, un motocarro a tre ruote. Dietro il piccolo camion carico di sabbia, una ragazza in bicicletta. La Tesla ha colpito la parte anteriore destra del motocarro a tre ruote, distruggendolo. Ha sfiorato la ragazza in bicicletta che si è scansata per non essere colpita. L’impatto con il motocarro ha provocato la sbandata che ha condotto la Tesla a schiantarsi contro ciò che ha incontrato sul margine destro della strada: soltanto oggetti. Polvere, fumo sollevato, il cauto avvicinarsi di alcuni passanti, come se l’auto potesse ancora nuocere, anche immobile e semidistrutta. Illeso, o quasi, il conducente.

Tesla Model Y, accelerazione da 0 a 100 km/h in 3,7 secondi, ma è presumibile che, durante quel mezzo minuto di tragitto, l’auto sia andata molto più veloce. 

Dall’accelerazione allo schianto: la vecchia Cina, persone tranquille, in bicicletta; la Cina di ieri, persone tranquille, in scooter, sul piccolo camion carico di terra, sul motocarro a tre ruote; e infine il presente e il futuro, non solo della Cina, ma di tutti: monovolume bianca ferma all’incrocio, e auto a guida assistita, fuori controllo.

In questi anni è diventata abituale la definizione di auto a guida autonoma. Bisognerebbe capire il motivo per cui i media hanno insistito su questo concetto e non sulla guida assistita, che prevede ancora la partecipazione e la responsabilità umana. 

Il sistema di guida assistita, il cosiddetto Autopilot, era attivato o disattivato sulla Tesla Model Y in questione? Il 55enne cinese, cosa faceva, durante quei secondi? C’è stato un guasto meccanico? Un malfunzionamento del software o un banale guasto ai freni? Oppure, come sostenuto da alcuni, il 55enne cinese, ex-camionista proprietario della costosa automobile, ha confuso, preso dal panico, il pedale dell’acceleratore con quello del freno, visto che mai, durante il breve tragitto, i fanali posteriori si sono illuminati di rosso? È plausibile pensare che un ex-camionista, con milioni di chilometri percorsi alla guida di un camion tradizionale, possa disimparare come si guida, confondendo il pedale del freno con quello dell’acceleratore? 

Non sono i primi morti causati da un’auto a guida assistita. Una volta ho detto che se fossi uno scrittore infatuato di trame distopiche sarei un po’ in crisi. Alludevo alla morte di Joshua Brown, il primo essere umano deceduto il 7 maggio 2016 in un incidente stradale causato da un’auto a guida assistita. Non c’è già tutto nella follia che viviamo ogni giorno? Abbiamo davvero bisogno di spostare le storie un po’ più in là, nel tempo e nello spazio, per rappresentare un futuro-presente indesiderabile e angosciante, quasi per innalzare a qualcosa di grande e misterioso la banalità del nostro morire contemporaneo? Anni fa, in Ipotesi di una sconfitta, guardando un gruppo di persone nella sala fatiscente di un ambulatorio pubblico, a Milano, tutte con una benda sull’occhio dopo un intervento di cataratta, avevo definito quello che viviamo come “fantascienza dell’oggi pomeriggio”. Joshua Brown si era schiantato a bordo della sua Tesla contro un camion che attraversava un incrocio. L’Autopilot, benché attivo, non aveva riconosciuto la lunga e mastodontica struttura bianca che ingombrava il centro di quella strada in Florida. Joshua Brown non si era accorto poiché, secondo la polizia accorsa sul luogo dell’incidente, è probabile che stesse guardando un DVD di Harry Potter, dato che il lettore, anche dopo l’impatto, aveva continuato a trasmettere quel film. L’Autopilot non aveva riconosciuto la fiancata bianca del camion “sullo sfondo luminoso del cielo”, così aveva ribadito il comunicato Tesla, in un afflato lirico. Ribaltando la questione, potremmo dire che il cielo sopra una strada a scorrimento veloce in Florida ha il colore della fiancata di un camion lungo una ventina di metri: insomma, è simile al cielo milanese di Elio Pagliarani, “questo cielo colore di lamiera”, “questo cielo d’acciaio che non finge”. 

Ma le immagini scattate dall’auto stessa poco prima dell’impatto mostravano un cielo tipico dell’alba o del tramonto: infatti le auto che sopraggiungevano in direzione opposta avevano i fari accesi. 

Joshua (Salvatore inviato da Dio) Brown aveva sperimentato una nuova tecnologia automobilistica guardando il film di Harry Potter attraverso la tecnologia morente dei DVD, e così si era sacrificato per il progresso dell’umanità. 

Nel 2018, un’altra auto a guida assistita aveva investito una donna di cinquant’anni, Elaine Herzberg, la prima vittima pedonale. 

La morte di Elaine Herzberg ci rimanda all’incidente della Tesla Model Y in Cina e al quarto episodio di Quella bestia gigante che è l’economia globale, la docuserie con Kal Penn trasmessa da Prime Video.

Nell’episodio dedicato all’Intelligenza Artificiale, ci si chiede come debbano comportarsi le auto senza conducente in presenza di un ostacolo umano. 

Penn intervista Louis Rosenberg, dirigente dell’azienda Unanimous AI. Rosenberg stabilisce un legame tra la capacità dell’Intelligenza Artificiale nell’analizzare i dati, la conoscenza umana e l’unione tra le due intelligenze, unione capace di creare un’intelligenza superiore, o meglio, un’intelligenza collettiva, che trae ispirazione dagli stormi di uccelli, dai banchi di pesci, dagli sciami di api: animali che, in gruppo, pensano come fossero un tutt’uno. 
L’intelligenza del gruppo supera quella del singolo, sostiene Rosenberg.

Certo, ma allora, nel caso dell’essere umano, anche la stupidità del gruppo supera la stupidità del singolo che, anzi, può aumentare nascondendosi dentro la stupidità di gruppo, e più il singolo diventa stupido trincerandosi dentro il gruppo, più la stupidità collettiva del gruppo ne beneficia. 

L’azienda diretta da Rosenberg seleziona gruppi di persone, pone loro alcune domande alle quali rispondere sfiorando un tablet. Non è un vero e proprio sondaggio, è piuttosto l’azione di un piccolo magnete che, grazie alle anonime dita umane, appare sullo schermo e si sposta, spinto dal volere del singolo verso una delle possibili risposte, in modo che anche le altre persone possano vedere la dinamica di scelta. 
Questi incontri si chiamano swarm

Un’applicazione interessante, dice Rosenberg, è rappresentata dalle domande con implicazioni morali. Quale morale deve avere un’auto a guida assistita, definita, ahimè, anche nella docuserie, auto che si guida da sola?
Ammettiamo che l’auto non si fermi ma, finendo fuori strada, possa mettere a repentaglio la vita del passeggero e ucciderlo per salvare un bambino. 
È questo che vogliono davvero i produttori di auto? Salvare la vita di un bambino o preservare l’esistenza di un cliente che ha speso 100.000 dollari per quel prodotto? 

Certo, in teoria, le aziende vorrebbero privilegiare, nella progettazione e costruzione delle loro auto semi-indipendenti, valori umani che rappresentano un campione significativo della popolazione, del sentire comune, o almeno, ciò che farebbe una persona alla guida.
Allora Kal Penn, in accordo con Louis Rosenberg, propone un quesito a un gruppo di persone riunite in una stanza.

“Un’auto che si guida da sola non riesce a frenare in tempo e deve sterzare investendo uno tra sei diversi pedoni”.

1.   Un bimbo su un passeggino
2.   One boy (nella traduzione italiana scrivono ragazzino).
3.   One girl (nella traduzione italiana scrivono ragazzina).
4.   Una donna incinta
5.   Due medici uomini
6.   Due medici donne

Chi deve morire tra queste persone?

Ciascuno dei partecipanti manovra il cursore del tablet, il magnete al centro dello schermo, il magnete sospinto dal vociare in sottofondo, dal brulichio di manine digitali, che indirizzano il magnete verso la decisione. Oh my God, dice una voce femminile. Risate in sottofondo, una specie di giochino, di videogame.

E infine, l’esito, quasi unanime. 
Il prescelto è il ragazzino, o meglio, il ragazzo. 
Il ragazzo deve morire.

Analizziamo i pro e i contro delle alternative.

Il bimbo su un passeggino. Molti anni davanti a sé. È normale e umano salvare un bimbo su un passeggino. Certo, potrebbe diventare un fascistello che entra in una scuola armato e uccide a caso una trentina di studenti. Ma potrebbe essere anche colui che serve i pasti alla mensa dei poveri…

La donna incinta. Per alcuni giudici statunitensi sarebbe come uccidere due persone in un colpo solo. La donna incinta è più al sicuro del bimbo sul passeggino…

I due medici donne, i due medici uomini. Sono medici, possono salvare altre vite umane, possono salvare la vita del bimbo sul passeggino, della donna incinta e del nascituro…

La ragazza. È coetanea del prescelto, ma è di sesso femminile, e dopo secoli di discriminazioni, il sentire comune è pronto a salvare la ragazza al posto del ragazzo, sebbene in molte zone del pianeta le persone di sesso femminile siano più numerose delle persone di sesso maschile. 

È significativo il fatto che questo quesito sia stato posto negli Stati Uniti.

Nelle domande non c’è traccia di età precisa, né tantomeno di origine etnica o di classe sociale. Ma due medici donne e due medici uomini sono comunque un indizio sulla classe sociale di appartenenza. Eppure se questa domanda fosse stata rivolta ad alcuni abitanti di Fagnano Olona, Varese, ovvero a coloro che avevano manifestato ostilità alla nomina di un medico nero nato in Camerun, a tal punto da restare senza medico pur di non averne uno africano, ecco, credo che molti residenti di Fagnano Olona avrebbero salvato il ragazzo al posto del medico uomo, purché, beninteso, il medico fosse africano.

E così il ragazzo è sacrificabile. Un diciottenne, un ventenne. Uno qualsiasi. Ragazzo a caso. Aveva ancora molti anni davanti, più tempo dei medici. 

Questo filmato risale al 2018. Vista la situazione bellica perdurante dal febbraio 2022, e il desiderio guerresco diffuso in modo quasi unanime a un anno di distanza, è probabile che oggi ci sarebbero ancora meno esitazioni nella scelta. Sono soprattutto i ragazzi ad andare in guerra. Di solito, i ragazzi degli altri.

E se in guerra ci andasse tuo figlio? E se il ragazzo sacrificato dal gruppo fosse tuo figlio? E se la l’auto a guida assistita decidesse di ammazzare tuo figlio?
Torniamo all’incidente della Tesla Model Y e ricapitoliamo il comportamento dell’auto.

L’auto ha evitato, quando procedeva a velocità ancora ridotta, la prima persona in scooter; ha evitato il monovolume bianco fermo all’incrocio; ha travolto e ucciso la seconda persona in scooter, forse perché, ripeto, se avesse sterzato a quella velocità la Tesla si sarebbe ribaltata e avrebbe ucciso il passeggero-proprietario dell’auto; ha sfiorato la persona in bicicletta, forse uccidendola; ha travolto il motocarro a tre ruote; e infine si è schiantata. Tra tutte le varie opzioni, la Tesla ha evitato l’impatto più pericoloso per l’incolumità del passeggero-proprietario: lo schianto contro il monovolume. 

Forse, tra qualche anno, l’intelligenza collettiva riunita in una stanza potrebbe aiutare davvero i produttori di auto a guida assistita e l’auto sarà a guida autonoma. 

Forse, tra qualche anno, al posto del cinismo contemporaneo, una dimensione etica dedicata all’umano sarà prevalente e non minoritaria e derisa, come oggi. 
Ma a quel punto, cambiare la sensibilità di un’auto progettata anni prima, secondo i parametri del sentire comune attuale, sarà troppo costoso. 
E molte persone, anche le più sensibili e consapevoli, avvaloreranno la decisione aziendale ripetendo, sì, però, è un costo, è un costo, è un costo…
E allora lo scrittore infatuato di trame distopiche si rassegnerebbe, ma avrebbe già l’incipit del suo testo. 

Goditi il viaggio in tranquillità e sicurezza. La tua auto ha già ucciso venti ragazzi.

ARTICOLO n. 14 / 2023

DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI

L’uomo che mi piace mi infastidisce.
Per questo ho disattivato i suoi post e le sue storie.
Ma stanotte ho deciso di andare a vedere cosa fa.

Mentre scrollo sul suo profilo e ne spulcio veloce le storie lo trovo insopportabile, mediocre nella comunicazione, lento, vecchio.
Eppure dal vivo non è così.

Mi infastidisco mentre scrollo tra un’immagine e l’altra. Mi infastidisce la sua comodità, il fatto che lo amino tutti senza neanche un commento di critica, la pace che regna sovrana sul suo profilo, l’assenza di commenti sessualizzanti verso la sua persona, il suo potersi permettere di postare solamente foto banali, l’assenza di una qualsiasi causa sociale o civile nel suo feed, l’egoreferenzialità, il fatto che nessuno gli chieda come mai stia lì.

Provo invidia, eccitazione, fastidio, curiosità. Forse lo odio. 

Ma niente di quel che provo è reale perché, mi dico, quello che vedo sui social media non può essere COSÌ reale.

Eppure non ne sono sicura, me ne rendo conto, al buio della mia camera da letto, mentre fisso lo schermo del mio telefono. Ho difficoltà nel percepire cosa in una persona sia vero e cosa no, in questo mondo parallelo fatto di tondini rossi e foto quadrate. 

Spulcio i primi like sotto al suo nuovo post, per capire dove va forte, quale sia il suo pubblico: sono tutte donne cis, come me, stessa età, a occhio stessa provenienza sociale e tutte bianche. Ha un tipo di fascino assolutamente targettizzabile, per questo monotono. 

Muovo il pollice con un gesto automatico e torno in home page: l’immagine che mi appare subito dopo è il post di una mia amica sotto il quale noto immediatamente un suo mi piace.

In passato ho provato fastidio, competizione, inadeguatezza ogni volta che vedevo cuoricini rossi di un uomo che mi piaceva sotto alle foto di altre donne bellissime, come fosse una scelta implicita di un canone che non combaciava con il mio. Un silenzioso assenso verso forme di femminilità diversa dalla mia, meno rumorosa, spigolosa, respingente, dolente. 

Sono cresciuta con i social network che, anno dopo anno, prendevano sempre più spazio nella nostra vita e ho decodificato le nuove regole del gioco amoroso piano piano: oggi sono diventata così brava con questi linguaggi digitali che so distinguere corteggiamenti tra due persone semplicemente osservando i loro post che appaiono nel mio feed di Instagram. 

Lo specchio che riflette le nostre interazioni e pulsioni è così banale da annoiarmi.

Per questo ho disattivato l’uomo che mi piace: per non vederlo, perché rispetto alla noia che mi provoca la banalità della sua forma digitale preferisco la delusione tangibile ma progressiva. 

E perché il controllo ossessivo mi stava rendendo un mostro.

Ho cercato di capire, carpire, annusare, decodificare, smembrare e acquisire messaggi subliminali dai profili degli uomini che mi piacevano per tanto tempo, come se fosse una conseguenza diretta della dimensione digitale, un prezzo da pagare per la ricerca di una verità universale sull’amore e sui suoi demoni.

Ho iniziato a provare disagio, odio, fastidio, inadeguatezza, competizione senza inizialmente capire il perché. Ho semplicemente staccato i miei occhi dal mezzo social disattivando i profili di ogni uomo che negli ultimi anni mi è piaciuto, come se fossero veleno, acido corrosivo, dal quale dovevo mettermi in salvo.

C’era qualcosa di morboso nel mio atteggiamento, che so essere atteggiamento di molte altre persone, ma non comprendevo da dove emergesse tutto quel fastidio.

Certo, una parte era fisiologica quanto banale sindrome da competizione: nella società performativa e patriarcale le donne sono nemiche e una sola è la prescelta, questo vale anche nelle relazioni sentimentali applicate al digitale. Lo posso vedere chiaramente quando leggo i commenti alle foto di coppie famose, ricche, bianche, abili: sono un tripudio di “beati voi”, “come vi invidio” e “siete un sogno”. La favola della prescelta è dietro l’angolo e non si nasconde neppure troppo per dissimularsi.

Ma mi mancava un pezzo per comprendere in pieno tutto questo senso di angoscia che mi produceva e spesso produce ancora il mezzo digitale elevato a prolungamento della vita amorosa. 

Volevo capire perché mi spaventassero così tanto alcune proiezioni social degli uomini che mi sono piaciuti.

Volevo capire se l’amore aveva un modo per sopravvivere ai social.
Se le mie esigenze potevano trovare spazio in un amore digitale. 
E, per trovare delle risposte, mi è venuta in aiuto Sheena Patel.

Conosco Sheena Patel a Roma, alla Nuvola, durante l’ultimo Più libri più liberi: dobbiamo dividere il palco per un panel sul digitale e le relazioni interpersonali e di fianco a lei mi sento microscopica. 

Sheena Patel ha infatti scritto un libro che ho letto da poco, si chiama I’m a fan, in italiano Ti seguo, edito da Edizioni di Atlantide e tradotto magistralmente da Clara Nubile.

Ti seguo è uno dei libri più devastanti, deliranti ma al tempo stesso lucidissimi che abbia letto negli ultimi anni, e la penna di Patel è talmente affilata, dolorosamente ironica e graffiante da farmi dire subito dopo l’incipit che quella che sto leggendo è davvero una coltellata con i fiocchi.

Patel nel suo libro racconta, con un ritmo incredibile e la prima persona singolare, l’amore ossessivo e ripetitivo dei tempi del digitale. La sua protagonista, una giovane donna di origini indiane che vive a Londra e lavora nella cultura, ha una relazione con un uomo ricco e famoso, che è sempre lontano, appare a intermittenza, e che lei monitora quotidianamente tramite i social. 

Ed è proprio dai social che la protagonista apprende dell’esistenza di una seconda – saranno poi molte di più- donna: una ricca ereditiera che vive negli Stati Uniti, viaggia molto, è bianca, abile, magra, molto attenta alle cause sociali e civili da copertina, al bricolage, all’arte contemporanea ricca di appropriazione culturale; è il ritratto perfetto dell’ipocrisia finto buonista della classe dominante, da cui ancora siamo attratti come lo sono le falene dalla luce.

Il libro è una visione perfettamente bilanciata del mondo dei social – e dell’amore al tempo dei social – come riflesso di una cultura eurocentrica, bianca, sessista e basata sul privilegio di classe. 

E questo viene meravigliosamente fuori dai due personaggi secondari della sua storia. 

I due personaggi che catalizzano l’attenzione della protagonista – di cui non sappiamo mai il nome – sono nominati come “l’uomo con cui voglio stare” e “la donna da cui sono ossessionata” e incarnano perfettamente il concetto stesso di privilegio: sono due persone mediocri, di base neanche troppo brillanti, ma la loro immagine riflessa dai device elettronici li rende incredibilmente affascinanti, creando una dipendenza da contenuti che la protagonista subisce con tigna stoica.

Se lei infatti, da un lato, percepisce quanto ipocrita sia il loro atteggiamento digitale (white saviorism, feticizzazione dei corpi neri, ricerca di approvazione, un perenne nozionismo usato come scudo contro la profonda ignoranza, la costante ricerca di essere al passo con i tempi senza tuttavia comprenderli mai), dall’altro non riesce proprio a separarsene.

E non può farlo per un motivo banale quanto inquietante: perché sono lì, sullo schermo, a portata di mano, pur sapendo che sono tutto ciò che odia.

La figura della donna da cui è ossessionata simboleggia perfettamente la competizione femminile di cui scrivevo sopra e che però è persa in partenza se non si è ricche, bianche, tendenzialmente fancazziste perché libere da un lavoro totalizzante. 

Ma i social sono spazi monodimensionali in cui le distanze sembrano minuscole e ci danno l’illusione di poter partecipare alla gara e raggiungere la capolista. 

Per questo si innesta la competitività, perché ci dimentichiamo della tangibilità del mondo e della sua non compassionevole classificazione sociale. 

E niente di più vero è mai stato descritto: quante volte siamo state gelose, invidiose, rancorose verso i profili delle supermodelle a cui i nostri amati – corrisposti o meno – mettevano fior fior di cuoricini? Lo siamo state e spesso lo siamo ancora perché abbiamo creduto, fino a quel momento, fino a quel like, di essere tutte sulla stessa linea di partenza, agli stessi blocchi. Questo è l’effetto social, quello che ti fa pensare “perché lei sì e io no?”

L’uomo di cui la protagonista vorrebbe essere la compagna è invece un poveraccio con traumi irrisolti, una moglie trofeo, un ego smisurato in compensazione delle mancanze emotive, un sacco di soldi e la spocchia di chi sa di essere in cima alla catena alimentare. Se parla di cause umanitarie lo fa solo per accrescere la sua immagine, non perché deve, non perché le senta, perché di base lui è esente da qualsiasi privazione. 

Se si connette con una donna, lo fa solo per cannibalizzarne le attenzioni. Il modo in cui usa le donne è meccanico, rapido, in una parola: sessista. Insomma, lo standard del maschio bianco cis etero dell’industria culturale, da cui di base e in teoria sappiamo tutte di dover fuggire ma nella pratica non riusciamo, perché subiamo il famoso fascino della narrazione.

E quella narrazione ce la fanno rimbombare dentro proprio i social.

Questi personaggi possono sulla prima sembrare agli occhi inesperti – o privilegiati – delle macchiette. Eppure nel digitale non esistono caratteri più comuni di quelli descritti da Patel. 

E nell’era in cui l’amore lo troviamo e manteniamo proprio grazie ai social media, questi personaggi dovrebbero insegnarci qualcosa, ovvero a proteggere quel fastidio di cui accennavo sopra, perché sintomatico di contatto con il reale.

E nell’amore al tempo dei social le distanze si annullano facendoci credere di appartenere tutti quanti a una stessa comunità, in cui le differenze non esistono e in cui tutti possiamo essere famosi per cinque minuti. In questa dinamica, riconoscere chi non è altro che problematico – o chi gongola nel proprio privilegio – diventa sempre più difficile, proprio perché sviluppiamo dipendenza in brevissimo tempo. 

Pensiamoci un attimo.

Soprassediamo sui profili di uomini adulti che seguono solo donne giovanissime e ragazze neanche maggiorenni riempiendole di emoticon di goccine, occhi a cuore, pesche, perché ci piace pensare che al fondo non siano così, che ci sia dietro qualcosa di misterioso. Ci giriamo dall’altra parte quando chi ci piace non sposa neanche una causa che ci sta a cuore, perché non vogliamo vedere la grande verità, ovvero che non la condivide perché non ne ha bisogno, perché non rivolta a lui. Romanticizziamo relazioni tra personaggi famosi che puzzano di abuso da diecimila chilometri di distanza (ultima tra tutte: Megan Fox e Machine Gun Kelly). Selezioniamo piaceri e infatuazioni replicando il sistema più antico del mondo ovvero quello che ci porta ad amare chi è in vetta alla classifica sociale, e l’odio nell’essere ignorati e ignorate è sovente figlio di un viscerale e problematico “non è possibile che non mi veda, eppure guarda come sono attraente con il mio profilo perfetto”. Ci allineiamo a modelli digitali preconfezionati nella speranza di essere contraccambiati, scritturati per la parte, scelti in una marea di banalità che vuole solo essere come gli altri, quando questi “altri” non sono mai come noi – principalmente perché sono ricchi e più famosi di noi. Cerchiamo di impersonare modelli che non ci rispecchiano solo per sembrare migliori agli occhi di chi ci guarda, ma sono solo dei grandi castelli di carta che ci rendono grotteschi, ben più grotteschi dei due personaggi di Sheena Patel, perché noi siamo reali e non di fantasia.  

E scritta così sembra una condanna, sembriamo succubi della performance anche nella ricerca del partner. Ma il fastidio, questo fastidio che mi tiene incollata alla pagina dell’uomo che mi piace, è la soluzione a questo dilemma. 

Nell’era digitale basta infatti pochissimo per trasformare un sentimento in un altro, totalmente opposto e ugualmente intenso: odi et amo, mai è stato più vero.

E con quel fastidio, con la ricerca spasmodica di una falla nella corazza digitale dell’altra persona, stiamo cercando di interrompere un flusso, quello che ci porta a guardare acriticamente le pagine che ci si presentano davanti, le vetrine di privilegio declinato in differenti modi ma che rimane pur sempre privilegio.

Alla fine della nostra chiacchierata a Più libri più liberi, Sheena Patel mi ha chiesto se vedessi nei social una via di fuga, se pensavo che la collettività – e dunque a seguito ogni singolo – potesse evolvere nel digitale. Sono rimasta in silenzio. Lei mi ha guardata e mi ha detto «Sai che non è possibile, vero, in un luogo dove per essere ascoltati gli esseri umani devono usare la lingua del padrone?».

Ho ripensato a questa frase, cercando di estenderla alla sfera sentimentale che si sviluppa nel digitale e non posso che confermare ciò che detto da Patel: stiamo replicando un mondo in cui il privilegio e la prepotenza degli stereotipi sono immutati. Solo che è più difficile capirlo, in un non-luogo in cui le distanze non sembrano esistere. 

E allora dove sta la verità? Chi siamo, di chi ci siamo innamorati?
Cosa abbiamo guardato finora?

La risposta arriva di nuovo da Sheena Patel: ci siamo innamorati delle aspettative figlie di una società che ci fa rincorrere la stabilità delle persone scintillanti. Queste vanno necessariamente ridimensionate, o ci renderanno ancor più tossico l’amore. Ci faranno piacere persone che nel mondo reale non considereremmo neanche sotto tortura. Ci renderanno sopportabili cose che non dobbiamo mai sopportare, come l’inedia, silenzio, la mediocrità, come il white saviorism, come il sessismo subdolo che serpeggia incessante tra le pagine dei profili. 

E noi, in questo limbo, non possiamo fare altro che continuare a controllare e ricontrollare i profili dei potenziali partner, nella speranza che sia cambiato qualcosa a distanza di qualche secondo, nella speranza che quel bagliore che vediamo sia un diamante quando in realtà è quasi sempre il riflesso del sole su una lattina accartocciata sul ciglio della strada. 

Questo controllo compulsivo ci corrode perché da un lato speriamo davvero che stavolta sia la volta buona, che nessuna lattina ci attenda seminascosta tra i cespugli.

Dall’altro però ci vuole ricordare che ricercare l’errore in mezzo alla vetrina lucida dei social è ancora un procedimento di cui abbiamo un disperato bisogno, perché non ne abbiamo ancora compreso del tutto la portata e la distorsione del reale che li accompagna.

Alla luce di queste elucubrazioni, mi chiedo all’improvviso: quante infatuazioni inutili ho avuto nell’ultimo anno e mezzo?

E mentre sono profondamente esausta da questa riflessione in automatico faccio un gesto con il pollice, tornando a guardare il profilo dell’uomo che mi piace.

Vedo che nel frattempo non ha messo storie, vedo che non ha aggiornato il feed. 

Comprendo che il mio fastidio nei suoi confronti sta proprio nella sua omologazione, nel suo privilegio di genere rivendicato in modo sottile. Nel suo silenzio su quel che ritengo importante. Nel suo bisogno di non usare la sua voce per difendere qualcosa a cui tiene. Nel suo piacere a tutti, grandi e piccini, sempre attento a non essere scomodo. Nel collezionare solo donne nei suoi follow, come fossero in vetrina, interscambiabili, tutte uguali, nella sua testa sono tutte a sua disposizione. 

Mi infastidisco di nuovo.

Mi rendo conto che questo fastidio significa che sono guarita, che non ci sono più cascata nel gioco delle lattine scintillanti: adesso lo capisco subito che proiezione sto guardando e posso agire di conseguenza. 

Posso anche percepire il perché sia più affascinante quando ci vediamo: perché c’è più distanza tra noi, nel mondo reale. E da lontano, in senso ovviamente metaforico, tutto sembra migliore.

Decido quindi di silenziare di nuovo i suoi post e le sue storie, consapevole di quanto sarà più rassicurante non vedere i suoi tondini. 

Controllo il profilo di altre persone, scorro acriticamente prima di accendere la luce e iniziare la mia giornata.

Ho ricevuto una notifica di un messaggio privato. 
Apro la sezione inbox, scorro un po’ col dito e clicco.

È un uomo, mi scrive una battuta intelligente su un articolo di giornale che ho da poco condiviso.

Guardo il suo profilo e mi sembra interessante. Fa lo scrittore. Sorride sempre in foto. 

Gli rispondo con un cuoricino nero.
Chissà se anche lui è una lattina. 

ARTICOLO n. 13 / 2023

IL MITO DELL’ABITO BIANCO

Consultando gli account social di riviste e quotidiani, mi capita con sempre maggiore frequenza di imbattermi in notizie che in realtà non lo sono affatto. Mi riferisco per esempio alla storia, letta poco tempo fa, della giovane studente incinta che ha discusso la tesi qualche minuto prima che iniziassero le contrazioni, oppure quella, risalente a qualche tempo prima, di un ragazzo che al termine della sessione di laurea ha chiesto alla fidanzata, che era tra il pubblico, di sposarlo. Ancora più recente è la notizia del calciatore bielorusso che, d’accordo con la squadra, ha invitato la fidanzata in campo per inchinarsi di fronte a lei e farle la proposta di matrimonio. 

Come dicevo, si tratta di notizie che di fatto non lo sono, perché più che offrire un vero contenuto informativo contribuiscono a veicolare un preciso messaggio intorno alla maternità e al matrimonio; in particolare l’idea che, per una donna, siano due eventi imprescindibili, strettamente correlati alla felicità e all’autorealizzazione personale. Non a caso, entrambe le notizie mettevano al centro della narrazione più gli eventi che le protagoniste: della giovane neolaureata o della ragazza del calciatore – di cui neanche sappiamo il nome – conosciamo solo la gioia dopo il parto, non quella per il titolo ottenuto o la sorpresa per il matrimonio in arrivo.

Maternità e matrimonio, di cui abbiamo parlato in un altro articolo, sono due facce della stessa medaglia la cui narrazione mitizzata contribuisce a mantenerne inalterato il potere. Che i due eventi abbiano molteplici punti in contatto è testimoniato anche sul piano etimologico; come ricorda Vera Gheno in un articolo apparso sul sitodell’Accademia della Crusca, il termine matrimonio si compone di due parole – mater e monium – che rimandano alla finalità generativa dell’unione. Scrive la sociolinguista: «l’etimologia stessa fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi». Storicamente, tutto questo ha senso se consideriamo che il matrimonio non nasce con una finalità sentimentale, così come siamo abituati a intenderlo oggi, ma per lungo tempo è servito a suggellare accordi economici, sociali o politici tra famiglie e casate. Celebrare eventi di questo tipo era appannaggio delle classi sociali più abbienti ed è per questo che il rito avveniva con un certo sfarzo. Le spose indossavano abiti sontuosi realizzati in tessuti pregiati, il cui scopo non era tanto esaltarne la bellezza quanto esibire alla famiglia dello sposo le condizioni economiche di quella di provenienza. 

Il colore bianco, che oggi ci sembra scontato, si è imposto solo in epoca recente e anche in questo caso la questione estetica era accessoria. La scelta del colore aveva una valenza simbolica: doveva dimostrare che la sposa era talmente benestante da potersi permettere un abito realizzato appositamente per l’evento, in una tonalità così delicata che non si sarebbe potuto indossare per altri scopi se non per quel giorno “speciale”. Inoltre doveva rimandare, sempre su un piano allegorico, alle doti di verginità e purezza, indispensabili per garantire quei figli legittimi di cui scriveva Gheno. In realtà, dopo aver fatto la sua apparizione nel sedicesimo secolo alle nozze di Maria Stuart con l’erede al trono di Francia, l’abito bianco venne considerato a lungo presagio di sventura a causa della morte prematura del sovrano, avvenuta prima ancora di poter generare un erede. È solo nel 1840 che ricompare, quando la Regina Vittoria sposò il principe Alberto di Sassonia, cominciando a fare tendenza tra le nobili e le giovani dell’alta borghesia.

Se sfoglio l’album di famiglia, scopro che la prima a indossare l’abito bianco è stata mia mamma, all’inizio degli anni Settanta. Chiacchierando con lei, ho saputo che lo aveva acquistato pochi giorni prima delle nozze in un negozio della mia città, ormai chiuso da tempo, che disponeva di una piccola selezione pensata per le future spose. Non era un capo sartoriale o su misura, come oggi si trovano nelle boutique specializzate, che hanno per questo costi elevati e lunghi tempi di realizzazione. Sua mamma, che si è sposata intorno alla metà degli Anni Quaranta, indossava un normale tailleur scuro. Nell’unica immagine conservata nell’album, sopravvissuta al tempo, tiene in mano un piccolo bouquet, non ci sono altri scatti che testimonino il servizio fotografico esclusivo o il grande ricevimento semplicemente perché non ci sono stati. Non ho più la possibilità di chiederglielo, ma probabilmente indossava l’“abito buono”, quello da usare con cura nei giorni di festa; dopo il rito non c’è stato alcun evento ma solo un pranzo insieme ai suoi genitori e a quelli di mio nonno. Per una famiglia contadina, come del resto era quella da cui proveniva, sarebbe stato impossibile disporre di un capo pensato per l’occasione, di un colore praticamente inutilizzabile in qualsiasi altro contesto, o di spendere grosse somme di denaro per l’evento. Eppure, oggi l’abito è l’oggetto irrinunciabile della cerimonia e le future spose sono disposte a investire una cifra importante arrivando anche a indebitarsi per poter disporre di un budget in grado di garantire un’organizzazione sfarzosa. Questa tendenza, in atto da diverso tempo, si nutre di continui richiami alle favole delle principesse Disney o alle vicende, vere, di Elisabetta di Baviera, Diana Spencer o Grace Kelly, tutte nobili ma con un’anima pop in grado di mitizzarle rendendole appetibili anche agli occhi della gente comune. Un aspetto da non trascurare, considerando che l’attuale narrazione pone molta enfasi sull’idea che un matrimonio sfarzoso saprà trasportare la futura sposa al centro di una favola che, come il ballo di Cenerentola, è destinata a svanire nel giro di qualche ora.

La tradizione dell’abito bianco e della festa in grande stile dovrebbe farci riflettere su quanta enfasi poniamo nei confronti dell’evento e sulle motivazioni che lo rendono imprescindibile, soprattutto per le ragazze. Queste domande diventano interessanti se consideriamo che, secondo Istat, in Italia ci si sposa sempre meno. Prima della pandemia, che ha per ovvie ragioni frenato gli eventi, se ne sono celebrati poco più di 184mila a fronte di 97mila separazioni. Il trend è in calo, eppure, o forse proprio per questo, sembra che il settore del wedding resista alla crisi. Si continua a produrre e stampare magazine e riviste monotematiche per guidare le donne alla scelta del vestito perfetto e a organizzare, nelle grandi città, fiere ed esposizioni in cui scoprire le ultime tendenze in fatto di moda. In TV spopolano programmi come “Abito da sposa cercasi”, “Il castello delle cerimonie” o “Quattro matrimoni”, tutti incentrati sulle vicende delle future spose alle prese con l’outfit, l’organizzazione della cerimonia, la scelta della location più ricercata per far invidia alle amiche. Produzioni di questo tipo contribuiscono a mantenere lo stereotipo secondo cui, per le donne, sposarsi in abito bianco rappresenti il coronamento di un desiderio a cui vengono educate fin da bambine. Tutto ciò, ancora una volta, viene confermato dai dati: secondo un’indagine realizzata da Istat sull’influenza degli stereotipi nel mantenimento di una certa immagine della violenza di genere, il 37% del campione intervistato ritiene che sposarsi sia il desiderio di ogni donna. Quando però si chiede cosa sognino gli uomini, le cose cambiano: per più del 32% della popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni, senza grosse distinzioni di genere, il successo sul lavoro è la loro principale ambizione ed è pertanto considerato normale che solo loro si impegnino attivamente per raggiungerlo.

Le opinioni raccolte dall’inchiesta offrono un punto di vista interessante che può aiutarci a capire perché la pressione sociale nei confronti del matrimonio non ricada in egual misura su uomini e donne. Intorno ai trent’anni – che per la statistica è l’età media in cui ci si sposa – gli uomini sono impegnati a progettare il proprio futuro, a posizionarsi sul mercato lavorativo e a fare carriera. Diversa è invece la condizione delle donne. Almalaurea ha recentemente confermato un dato significativo: le alunne compiono percorsi universitari brillanti, generalmente più rapidi di quelli dei compagni, tuttavia non ricevono le medesime opportunità di impiego e a un anno dalla laurea faticano molto più dei colleghi per essere assunte. Per molte, l’impatto col mondo del lavoro influisce negativamente sulle aspirazioni professionali. Non riuscire a trovare un impiego o imbattersi solo in contratti precari, scarsamente retribuiti, è sicuramente un fattore che le porta più facilmente a rinunciare alla carriera e ripiegare sulla famiglia, ambito in cui le soddisfazioni personali sembrano quasi garantite. Così, se per il genere maschile sposarsi è un’opzione, un evento auspicabile ma non indispensabile, per le donne diventa il luogo entro cui realizzarsi, dopo aver provato a fatica una realizzazione al di fuori delle mura domestiche.

Anche per me il matrimonio ha rappresentato il tentativo di sperimentarmi, scegliendo una strada che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto procurarmi un po’ di soddisfazione personale in un periodo in cui trovare un impiego affine ai miei studi sembrava difficile, oltre che sconsigliato dalla gran parte delle persone con cui mi confrontavo – che insistevano nel ricordarmi che prima o poi vi avrei rinunciato spontaneamente, per mettere su famiglia. Ci è voluto tempo per capire che, in realtà, sposarmi non era un mio desiderio ma rappresentava solo il tentativo di aderire a un mandato che molte donne, dentro e fuori il mio contesto familiare, avevano perseguito a loro volta prima di me. Nel suo articolo, Giulia Paganelli scrive che quello della principessa è uno stereotipo i cui effetti permangono inalterati e rivestono il corpo culturale delle donne. Educate all’idea del principe azzurro che verrà a salvarci e al lieto fine del “…e vissero felici e contenti”, il matrimonio si inserisce in questa narrazione finendo per diventare un modello che sembra garantire alle donne un certo appagamento personale e l’idea di essere, almeno per un giorno, protagoniste di una favola che non ci procurerà insoddisfazione o tristezza. Combattere gli stereotipi è anzitutto un’operazione di decostruzione dei miti che, un po’ come quello platonico della caverna citato da Paganelli nel suo pezzo, contribuiscono a mantenerci, immobili e silenziose, davanti a un teatro di immagini inconsistenti. Il fatto che siano le donne a sperimentare con più frequenza la pressione sociale a sposarsi e metter su famiglia ci mostra perché sia importante continuare a compiere quest’operazione. L’intento non è quello di denigrare il rito in sé quanto piuttosto rivelarne i meccanismi impliciti. Il rischio, in cui tra l’altro io per prima mi sono imbattuta, è quello di vedere il matrimonio come un palliativo, qualcosa in grado di colmare tutti i bisogni di realizzazione che sul piano sociale o lavorativo sembrano difficili da soddisfare, soprattutto per una donna.

Negli Anni Quaranta, lo psicologo Abraham Maslow si è occupato di bisogni personali e delle strategie che ogni essere vivente attiva per appagarli. Per rappresentare la molteplicità delle necessità, materiali e immateriali, che ci caratterizzano, Maslow ha utilizzato l’immagine della piramide. Lo schema piramidale permette di cogliere anche visivamente il fatto che i bisogni abbiano radici e collocazioni differenti e pertanto anche meccanismi di appagamento diversi. Per questo, lo psicologo sostiene che sia impossibile soddisfare i bisogni di autorealizzazione e autostima, che hanno a che fare con le nostre aspirazioni, con un’azione come il matrimonio, che appaga invece il bisogno di appartenenza, ossia la necessità di sentirci amati e al sicuro all’interno di relazioni affettive e amicali.Ci possono essere un’infinità di motivi per sposarsi ma è senza dubbio importante riconoscere quando ciò sia motivato da ragioni che non sono ascrivibili a una vera scelta. Impegnarsi per decostruire i miti intorno all’abito bianco e alla favola delle nozze perfette consentono di ripulire il discorso da una narrazione che trasforma il matrimonio in un momento di soddisfazione illusoria, aiutandoci a vederlo per quello che è: una tappa non obbligatoria della vita e proprio per questo sensata, che può contribuire comporre la nostra identità senza esaurirla in essa.

ARTICOLO n. 12 / 2023

LETTERA AL MIO AMICO AMADEUS

Pubblichiamo un estratto dal romanzo d’esordio di Claudia Grande, Bim Bum Bam Ketamina (Il Saggiatore). La voce che ci accompagna allinterno di questo gorgo terribile ed esilarante è quella del tuttofare Roberto, trentenne senza ambizioni e senza soldi, creatura crudele e ingenua, «uomo in affitto» che si procaccia sempre lavori mal pagati.

Torino, la data non è importante

Caro Amadeus, 

se ho deciso di scriverti è perché, come succede ogni volta che scrivo a qualcuno che amo, per poi rendermi conto che quel qualcuno non ci capirebbe un’acca, finisco per contraddirmi e, scioccamente, gli scrivo lo stesso. Dopodiché mi lambicco il cervello, mi tartasso con ferocia le sinapsi, desumo che il problema non è il mio messaggio, la lingua in sé, ma il rapporto instaurato tra me e quella persona, la specifica risma di detti e non detti che hanno plasmato il nostro modo d’intenderci, e allora penso (ancora) che dovrei fregarmene del rapporto corrente (soprattutto se è in piena crisi, come nel nostro caso), dovrei sbattermene i cosiddetti di quanto questo rapporto sia vero o finto, felice o infelice, traballante o gravemente compromesso, perché quella cosa, quella specifica risma di sentimenti, ho bisogno di comunicarla comunque: voglio estroflettermi alla faccia degli altri, portarmi al di fuori di me – e Ginevra, la mia psicoterapeuta, sarebbe felice di questo strabiliante progresso nel condividere le mie emozioni piuttosto che reprimerle fino a farmi venire l’ulcera; allora concludo che, per il bene di tutti, mio e della persona coinvolta nel rapporto, il messaggio devo scriverlo, certo, ma provando a non dilungarmi, sebbene non sia proprio il mio forte… 

Caro Amadeus, se ho deciso di scriverti (una lettera, non un messaggio) è perché la maestra delle scuole elementari diceva che, au contraire, il bambino prodigio chiamato Roberto avesse grandi doti di sintesi, quindi eccomi qui, ecco che tento di comunicare ciò che provo, sebbene quello che provo sia delusione – una grande, gigantesca, incandescente amarezza. 

Non avrei mai pensato che fosse possibile – non con te; eppure, mi hai tradito anche tu. 

Non avrei mai pensato che tu, come tutti gli altri, fossi un egoista infingardo; ma è questo che nascondi dietro al pizzetto finemente curato, dietro a quell’aria da padre e marito perfetto. Ora ho visto, ho vissuto sulla mia pelle; e quindi no, non ci casco più. 

Non voglio ricordare i bei momenti passati insieme. 

Non voglio fare l’elenco delle esperienze che ci hanno emozionato – FestivalbarBuona DomenicaIl QuizzoneMeteoreMatricole; lo slancio verso Leredità, dove hai conosciuto la bellissima Giovanna; la Maratona Telethon, i Soliti IgnotiArena Suzuki 60 70 80… il coronamento di una carriera stellare con tripla conduzione del Festival di Sanremo. Anche quadrupla, dicono alla RAI. Io c’ero, ci sono sempre stato. Pensa che mia madre preparava una torta per ogni tuo successo televisivo. Ti volevamo bene, capisci?, te ne volevamo sul serio; ma da ieri, dal Truth or Dare Show, qualcosa è cambiato. 

Quella cosa ha un nome, sebbene io non lo conosca; e possiede (permettimi di dirlo) un indecente cappellino verde con la visiera obliqua, che non va più di moda nemmeno tra i tossici e i rapper, figuriamoci in televisione. 

Devi sapere che mi sono accorto dell’uomo col cappellino. Non ci capiva un’acca, di quello che stava facendo.
Le inquadrature che ha suggerito al cameraman erano tutte banali, storte o sbagliate.
E non hai visto che inciampava sui cavi, rischiando di far saltare le luci?
Avrebbe rovinato il tuo programma, la tua carriera, perché di questi tempi un singolo errore può costarti tutto, ogni goccia di sudore faticosamente versata. Io ci tengo a un Amadeus iv, v, xii al Festival di Sanremo; ed è per questo che ho infilato i miei volantini nelle buche delle sedi RAI (città di Torino): via Giuseppe Verdi numero 16 e 14, via Carlo Cavalli numero 6, persino all’Auditorium, in via Gioacchino Rossini, e il risultato è stato l’uomo col cappellino. 

Non mi hai risposto; hai preferito lui. 

Non hai notato che Roberto, l’Uomo in Affitto, ha un impressionante curriculum da tecnico del suono, aiuto regista, provetto imbianchino e lava‐pavimenti? È possibile che, tra tutte le candidature avanzate da fanfaroni provenienti da ogni parte d’Italia, la mia fosse in assoluto la peggiore? 

Non ci credo.
È del tutto irrealistico.
Credo, piuttosto, che fosse un imbroglio attentamente programmato.
L’uomo col cappellino, che ha rovinato la puntata più bella del Truth or Dare Show, che ha fatto inquadrare Remo in ombra e decentrato prima che cadesse nel Buco, non può essere più bravo di me. È più raccomandato – verosimilmente da te, perché sei tu che gestisci il programma, sei tu che godi a circondarti di sciattoni e smargiassi pescati chissà dove, come la stupida Guendalina, che non sa distinguere il colore della tua pelle da quello della pelle di Carlo Conti. Carlo Conti, porca puttana! Praticamente un aspirante congolese. Non ho mai fatto il truccatore in vita mia, ma ti assicuro che la tua pelle la conosco a menadito, molto meglio dell’incapace conclamata che risponde al nome di Guendalina Nonsoché.

Saprei truccarti.
Saprei sceglierti i vestiti migliori.
Saprei offrirti le migliori inquadrature, le più grandi abbuffate di audience e share; e se dovesse servire qualcuno che aggiusti un rubinetto o una maniglia, beh, io saprei fare anche quello. 

Perché in RAI assumete tutti questi incompetenti e non date una chance a me

Perché tu, Amadeus, non hai custodito i miei volantini, non ti sei neppure degnato di leggerli, preferendomi l’uomo col cappellino, la truccatrice balorda, chissà quale altro citrullo, votando il Truth or Dare Show al fallimento completo? Andrete in rovina, con una squadra del genere a pasticciare dietro le quinte. Con uno come me, invece, sarebbe un successo. 

Che dire, ora?
Mi sento in imbarazzo.
Per te, ovvio; ma anche per me.
Perché… ho pensato che fosse colpa mia, Cristo!, che non mi fossi venduto bene; e allora mi sono reinventato, ho riscritto i volantini da cima a fondo, vi ho consegnato anche quelli, sperando di ricevere risposta, e invece niente, ancora, estenuante silenzio. Ecco uno dei nuovi volantini. Te lo incollo qui sotto, sia mai abbia voglia di leggerlo: 

IL TUTTOLOGO 

*** 

TRASLOCHI E SGOMBERI 
cantine, solai, alloggi, magazzini, uffici, negozi… 

EDILIZIA GENERALE 
ristrutturazioni, demolizioni, costruzione di cucce per cani (cani o gatti, a seconda dell’occorrenza), tinteggiatura/decorazioni (di interni ed esterni), impianti idraulici/elettrici/quant’altro, pulizie post lavoro incluse nel preventivo, e ancora… 

PICCOLI LAVORI – DOMESTICI E NON 

REGIA, AIUTO REGIA, PRESENZA SCENICA IN TELEVISIONE,
cucitura e scucitura bottoni, riparazione perdite, controllo caldaia, pulizia muffe, estirpazione funghi, svuotamento lettiere, rassettamento cantine, scrostamento ghiaccio dal frigorifero, e ancora… 

COMPRAVENDITE AUTORIZZATE 
(io compro e voi vendete, autorizzandomi ad acquistare) antiquariato, modernariato, design e oggetti preziosi. 

***
PREVENTIVI GRATUITI MASSIMA SERIETÀ E CORTESIA 

SERVIZI A METÀ PREZZO PER COMMITTENZA RAI 

Figo, no?
Ottimo esempio di copywriting.
Chiamami, avrei voluto dirti; so che hai fatto una cazzata a non scegliermi, ma posso essere magnanimo, se si tratta di te. Se ti decidi a chiedermi scusa. 

Dopo la puntata di ieri, ho parlato con mia madre. «È colpa della laurea» ha detto.
«Quella non la metto nei volantini.»
«Perché non serve.» 

«Invece sì. Filosofia significa “amore per il sapere”.» «A che serve, sapere?»
«…»
«Che devi sapere, per lavorare?» 

Ha ragione lei: meno sai e più lavori. 

Lo dimostrano l’uomo col cappellino, la truccatrice daltonica, i vecchi scalzacane incompetenti della RAI; lo dimostri tu, Amadeus, preferendomi persone che non sanno, non hanno mai voluto sapere, figuriamoci se sono in grado di amare – la conoscenza o qualunque altra cosa al suo posto. 

Non ti vorrò più bene; non crederò più alla tua faccia da santone, al sorriso falso e tirato della tua squallida moglie Giovanna. 

Tieniti l’uomo col cappellino, conduci quel tuo traballante programma; remate contro gli scogli, verso il flop più totale, che minaccia di garantire un notevole vantaggio a Mediaset e una gastrite coi controcazzi ai Sommi Vertici della RAI. 

E magari mi sono espresso male, magari le parole che ho usato non hanno trasferito il concetto – la mia bravura, tutte le cose che più o meno so fare, anche se ho dovuto impararle da solo, perché nessuno ha voluto insegnarmele. Un discorso del genere (sulle parole, intendo) l’ha fatto Wittgenstein cent’anni fa, o forse era David Foster Wallace, il Mahatma Gandhi, Chanel Totti, ma chissenefrega!, il punto non è questo, il punto è che, secondo una certa cricca di pensatori, la parola non trasmette il significato. Un po’ come le caramelle alla fragola, che non sanno di fragola ma di qualcosa che ci va vicino – che la fragola, al massimo, te la può far immaginare, e per di più diversa da quella che sarebbe in realtà.

Che vada a farsi fottere, la tale fragola o chi per lei.
Che si fottano tutte quante le caramelle.
Se la fragola l’hai provata, il sapore lo riconosci anche succhiando una caramella, annusando la parvenza di fragola, la promessa fugace di fragola, il Simulacro Tale Suprema Fragola o come cavolo vogliamo chiamarlo; e non serve mangiarsi le fragole del contadino per afferrare il concetto di fragola in sé

Sto dando i numeri?
Non lo so più.
Mi sento come una succosissima fragola scambiata per volgare caramella. L’uomo col cappellino è caramella allo stato puro, è zucchero e colorante rosa, ma ve ne accorgerete presto. E a quel punto, non ci sarò. Non potrete più chiamarmi, perché mi sono riappropriato dei volantini che ho infilato in ogni buca della RAI. Vi pentirete di non avermi scelto, ma per non vivere di travianti illusioni avreste dovuto studiare Platone, le ombre, il mito della caverna, e sfortunatamente è troppo tardi, come succede nei film, e quindi attaccatevi… avrete capito a cosa. 

Ti saluto, Amadeus.
Ti lascio con un ultimo pensiero.
Con te avrei fatto l’amore, ma tu mi hai costretto a imbracciare il fucile. Cioè, sia chiaro: sto parlando per metafore. Avrei fatto l’amore in senso puramente platonico, assolutamente non‐biblico, come avrai capito a dispetto delle parole che ho usato. 

Le parole non sono sufficienti a esprimere quello che sentiamo, ma ci vanno vicino, ed è questo che conta. Qualunque cosa che ci distolga da un perfetto e assoluto niente. 

Mi dispiace sia finita così.
Non è stato bello non conoscerti.
A far data da oggi, che non so che giorno sia, non avrai più notizie del sottoscritto.
Per sempre tuo, con infinita dolcezza 

Roberto, lUomo in Affitto
(il fan più sconsolato di Torino) 

ARTICOLO n. 11 / 2023

METODI MAESTRI AMICI

Intervista di Eloisa Morra

A ridosso della nuova edizione di Indagini su Piero (Adelphi, 2022) ho avuto il piacere di intervistare Carlo Ginzburg, storico di fama, su metodi e interlocutori che hanno segnato la sua traiettoria di ricerca. Nato a Torino nel 1939, Ginzburg è a oggi uno degli intellettuali italiani più riconosciuti all’estero (ha insegnato a lungo alla UCLA, e fino al 2010 ha tenuto la cattedra di Storia delle Culture Europee alla Scuola Normale). Merito di una straordinaria erudizione unita alla capacità di verticalizzare i problemi traducendoli in uno stile impeccabile, che riverbera gli stimoli d’una vita passata tra i libri. Leggere Carlo Ginzburg è un’esperienza che esige lettori disposti a confrontarsi con i propri limiti: i suoi saggi avanzano per intuizioni fulminee, mettendo in contatto tra loro momenti apparentemente distanti della storia della cultura, con risultati sempre sorprendenti. Ma rileggendo s’intende che i ‘clic’ del connaisseur sono conseguenza d’una capillare esplorazione di archivi, biblioteche e della consapevolezza costruttiva di cui si diceva: ne sono prova raccolte quali Occhiacci di legno e La lettera uccide e le monumentali analisi comparate di Storia notturna e Nondimanco. La capacità diagnostica nell’unire l’infinitamente piccolo all’infinitamente grande richiama le architetture di Auerbach, Gombrich, Orlando, Starobinski, ma con un ulteriore quid di versatilità. Senz’altro diversificati tra loro — si è occupato di processi per stregoneria e di casistica, di straniamento e di Picasso, della metodologia di Aby Warburg e delle fallacie del processo Sofri — gli oggetti di studio di Ginzburg possono essere letti come ordito d’un tappeto la cui cifra consiste nell’indagine della relazione tra caso e anomalia. Che il suo lavoro sia decisivo lo prova la capacità di oltrepassare i confini disciplinari (e gli angusti confini nazionali): storici dell’arte, italianisti, storici della lingua, antropologi di tutto il mondo hanno tratto e ne traggono tuttora linfa vitale. Chiunque voglia avvicinarsi al piacere della ricerca – “l’euforia dell’ignoranza” data dall’approcciarsi a un argomento di cui si sa poco per approfondirlo sempre più, diventandone quasi posseduti – dovrebbe leggere i suoi libri.

Eloisa Morra: Complice un occhio alla destinazione della conversazione inizierei da un’occasione esterna, la ripubblicazione di Indagini su Piero — con una nuova postfazione e un apparato iconografico arricchito — e delle sue opere per i tipi di due case editrici assai diverse da Einaudi, Adelphi e Quodlibet. Edizioni ampliate e “problematiche” (nel senso che mettono in luce ipotesi scartate, dubbi propri di ogni ricerca), che oltre a porre di fronte al pubblico il cantiere aperto dei suoi studi tracciano un’autobiografia intellettuale. Cosa l’ha spinta a questa scelta?

Carlo Ginzburg: L’idea della ripubblicazione — anzi, di nuovi libri alternati a volumi già editi, corredati di nuove postfazioni, un genere che mi è molto congeniale — nasce dall’incontro e dall’amicizia con Roberto Calasso. Quando negli anni Ottanta stavo lavorando al mio libro sul sabba, Storia notturna, Calasso mi chiese di pubblicarlo con Adelphi; dopo qualche esitazione decisi di pubblicarlo con quella che era da sempre la mia casa editrice, cioè Einaudi. Quando, anni più tardi, Einaudi venne comprata da Berlusconi, ne uscii (anzi, uscimmo in due: l’altro era Corrado Stajano). Dopo un periodo di lavoro con Feltrinelli decisi, d’accordo con Calasso, di ripubblicare con Adelphi Storia Notturna (2017), che aprì la serie dei libri già editi; tra i libri nuovi si sono susseguiti Paura reverenza terrore (2015), Nondimanco (2018) e più recentemente La lettera uccide (2021), che raccoglie alcuni saggi apparsi solo in inglese e tradotti da me, più un paio di inediti. 

E.M. Da dove nasce invece la richiesta di Quodlibet?

C.G. Dal loro interesse, e da un dato materiale: alcuni dei miei libri erano ormai fuori catalogo. Abbiamo pubblicato Giochi di pazienza, con due postfazioni (stavolta separate, a differenza del testo) una mia e una di Adriano Prosperi, e una versione ampliata di Occhiacci di legno, in cui le riflessioni sulla distanza sono diventate dieci

E.M. Indagini uscì nel 1981 come primo numero della collana “microstorie” Einaudi: ha formato più generazioni di studiosi, oltre ad avere una ricezione straordinaria. Negli incontri e presentazioni recenti ha percepito la presenza di un nuovo pubblico di lettori?

C.G. Senza dubbio, questo era lo scopo principale: trovare nuovi lettori. 

E.M. La storia dell’arte è stata cruciale nella sua traiettoria di ricerca, e non penso solo ai temi ma piuttosto ai metodi e agli interlocutori. Le Indagini nascono negli anni in cui scriveva il saggio su Centro e periferia con Enrico Castelnuovo, cui ha dedicato anche un saggio recente, Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship (2016, poi 2021). Il rapporto con Castelnuovo ha cambiato il suo rapporto con la storia dell’arte?

C.G. Castelnuovo è stato un amico carissimo; da lui ho imparato molto, ma non mi pare che abbia cambiato il mio interesse per la storia dell’arte e i suoi metodi, che era già molto intenso. Avevo già scritto il saggio Da Warburg a Gombrich (del ’66, poi incluso in Miti emblemi spie), e nutrivo una forte passione per la storia della pittura (da ragazzo volevo diventare pittore, anni dopo volevo diventare storico dell’arte: non sono diventato né l’uno né l’altro). Quando uscì Indagini su Piero vari storici dell’arte lo criticarono, in qualche caso aspramente. Qualcuno sostenne che non mi interessavo ai fatti artistici: una sciocchezza. Successivamente Castelnuovo m’invitò a scrivere insieme a lui il saggio “Centro e periferia” per la Storia dell’arte italiana Einaudi (1979, poi 2019): un’esperienza straordinaria (e straordinariamente divertente). 

E.M. Nel saggio sull’importanza del conoscitore dedicato a Castelnuovo indicava Michael Baxandall tra i pochi storici dell’arte al di fuori dell’ambito italiano sensibili alla lezione di Longhi (anche per l’attenzione alla stratificazione linguistica, al linguaggio delle botteghe). Mi parla del suo rapporto con Baxandall?

C.G. Conobbi Baxandall a Londra, al Warburg, dove trascorsi un anno (1967-’68). Diventammo amici; ricordo fitte conversazioni con lui, e una bellissima conferenza che sarebbe poi confluita nel saggio che chiude Giotto and the Orators (Giotto e gli Umanisti). Baxandall mi riporta a Piero della Francesca: penso al capitolo di Painting and Experience (Pittura e esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento) in cui si analizza un particolare degli affreschi di Arezzo (il baldacchino visto di scorcio che sovrasta Cosroe, sul punto di essere decapitato). Baxandall ricostruisce la reazione dei mercanti aretini committenti di Piero attraverso un’esperienza sociale (una nozione che è al centro del suo libro): la lettura della pagina di un Trattato d’abaco dedicata alla misurazione di una botte. A questo punto si scopre – un colpo di scena magistrale — che l’autore di quel Trattato d’abaco era per l’appunto Piero. Ma anche se non fosse stato Piero l’argomentazione avrebbe funzionato lo stesso, perché il Trattato d’abaco rinviava comunque al contesto culturale e sociale dei committenti di Piero. 

E.M. Che cosa pensa dei visual studies

C.G. La nozione di visual studies mi pare troppo ampia, e troppo generica; trovo più interessante ritornare sul lavoro del conoscitore, per esplorarne le ricchissime implicazioni. Su questo tema ho scritto recentemente, oltre a Piccole differenze, un saggio intitolato Storia dell’arte da vicino e da lontano.  

E.M. Lavorando in Nord America ci si rende conto di quanto quella radice longhiana — anche continiana, della critica delle varianti — non sia stata per nulla recepita. In alcuni casi addirittura queste due figure non si conoscono proprio (nell’insegnare un corso su fatto e finzione ho inserito Anna Banti in programma, e menzionando Longhi mi sono resa conto che gli studenti non l’avevano mai sentito nominare). In quel saggio, Piccole differenze, accenna alla difficoltà di tradurre il linguaggio di Longhi; e forse il suo legame col mercato potrebbe aver generato diffidenza.

C.G. Su quest’ultimo punto non sono d’accordo: il legame di Berenson col mercato non ha certo impedito la diffusione dei suoi scritti. Ma nel caso di Longhi la difficoltà di tradurre il suo linguaggio ha costituito un ostacolo: e lo stesso è avvenuto con Contini. Nell’Éloge de la variante (In Praise of the Variant. A Critical History of Philology) Bernard Cerquiglini ha ignorato gli scritti di Contini (fondamentali) sulle varianti.

E.M. Tornerei sui due maggiori elementi di novità di Indagini su Piero in Adelphi, che nasce come reazione e confutazione della cronologia di Longhi. Il primo è l’apparato iconografico, davvero straordinario, che permette di seguire e verificare passo passo le sue ipotesi, in modo più perspicuo rispetto alle precedenti edizioni Einaudi: come avete lavorato? Nella Postfazione lancia invece una sfida agli attuali storici dell’arte, rovesciando la cronologia tra la Resurrezione di Piero e quella di Andrea Del Castagno. Ha ricevuto reazioni su questo aspetto?

C.G. Il primo nasce dal lavoro fatto insieme a Francesca Savastano di Adelphi, redattrice bravissima, che non smetterò mai di ringraziare; la seconda dalla necessità di rimettere in discussione alcuni dei risultati delle mie ricerche (già le precedenti edizioni includevano varie appendici) e di presentare nuove ipotesi. Longhi aveva sostenuto una dipendenza della Resurrezione di Andrea Del Castagno (da lui chiamato sprezzantemente Castagnaccio, soprannome che alludeva forse alla secchezza del segno) da quella di Piero. In realtà è vero l’inverso: Piero aveva visto l’affresco di Del Castagno, traendone nutrimento per andare in tutt’altra direzione. Non ho avuto ancora reazioni dagli addetti ai lavori: ma l’approfondimento di questo rapporto mi pare assolutamente necessario. 

E.M. Molti libri di Longhi nascono come commenti o reazioni a mostre. Mi chiedevo se le era mai capitato di vedere in particolare una mostra, un allestimento che le suggerisse, magari, la scrittura di un saggio.

C.G. Credo che questo sia successo, ma a decenni di distanza, con la Flagellazione. Perché l’ho vista la prima volta nel 1953 (avevo 14 anni), in una mostra di quadri restaurati dall’Istituto Centrale del Restauro. Non mi sarei mai immaginato che avrei continuato a occuparmi di quel quadro per decenni.  

E.M. Tornando invece alla collana “microstorie”, rileggevo il suo articolo “Microstoria: due e tre cose che so di lei” (1994) dove sottolineava, appunto, l’importanza della scala.

C.G. Lì facevo riferimento a un saggio di Jacques Revel, da lui poi ha raccolto in un volume intitolato per l’appunto Jeux d’échelles. La micro-analyse à l’expérienceAl plurale: il rapporto tra “scale diverse” visto come caratteristica della microstoria.

E.M. L’idea di scala/scale diverse è legata anche alla nozione di esperimento, termine che ha usato più volte in La lettera uccide. Una scala ridotta permette la possibilità di estrarre soltanto alcuni elementi in relazione a un problema, per poi in futuro ampliare o generalizzare. Quanto ha contato in questo senso che lei abbia avuto un nonno come Giuseppe Levi, biologo legato alla scienza sperimentale e maestro di tre premi Nobel?

C.G. Penso che questo abbia avuto una grande importanza. Il prefisso “micro” della parola “microstoria” rinvia al microscopio, ossia allo sguardo analitico, non alle dimensioni reali o simboliche dell’oggetto della ricerca. Ma per me il microscopio, preso alla lettera, è legato a mio nonno, Giuseppe Levi: una figura che ha contato moltissimo da ogni punto di vista, affettivo e intellettuale. (In un convegno a lui dedicato, ho descritto le reazioni che ebbi quando – avevo dieci anni – m’invitò nel suo laboratorio a guardare attraverso la lente di un microscopio). Ora, nella microstoria, ciò che consente di passare dall’esame analitico basato su una serie di dati alla generalizzazione è per l’appunto l’esperimento. Come mi è capitato di dire più volte, al progetto collettivo che è stato la microstoria io sono arrivato attraverso lo studio di casi. Il termine “caso” ricorre alla fine del mio primo saggio pubblicato, Stregoneria e pietà popolare (1961), basato su un processo di stregoneria del 1519 contro una contadina modenese, Chiara Signorini. Alla fine del saggio scrivevo: «Esso è in grado di gettare qualche luce sulla natura del rapporto, che si concretava drammaticamente nel processo, tra streghe e inquisitori. Anche da questo punto di vista il caso di Chiara Signorini, pur nei suoi aspetti irreducibilmente individuali, può assumere un significato in qualche modo paradigmatico». Quando, anni fa, ho riletto queste frasi ho pensato che il termine “paradigmatico” riecheggiasse il grande libro di Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Ma mi sbagliavo: il mio saggio uscì nel ’61; il libro di Kuhn nel ’62.

E.M. Conclusioni analoghe dunque, ma in autonomia.

C.G. Diciamo che usavo il termine “paradigmatico” nel senso di “esemplare”: uno dei tanti significati con cui Kuhn lo ha usato nel suo libro. Ma quello che mi colpisce retrospettivamente è l’importanza che attribuivo a un caso definito anomalo, e però al tempo stesso esemplare. Quest’intreccio è qualcosa che ha accompagnato la mia traiettoria di ricerca fino ad oggi. Alla microstoria sono arrivato attraverso lo studio di casi. In un saggio intitolato Il caso, i casi ho spiegato come il “caso”, nei due sensi del termine (in inglese, case e chance) mi abbia portato a studiare la casistica, che è al centro del mio libro Nondimanco.

E.M. Tornando ai primissimi saggi, quanto ha contato il magistero di Delio Cantimori, soprattutto in relazione alle sue idee sulla storia della mentalità, della cultura?

C.G. Senza l’insegnamento di Cantimori il mio percorso di ricerca sarebbe stato completamente diverso, e infinitamente più povero. Penso ai suoi libri, ai suoi saggi, e prima ancora ai suoi seminari: un esempio straordinario di “lettura lenta” (la definizione della filologia data da Nietzsche). ‘Storia della mentalità’ era un’etichetta allora era in voga. Poi però ne ho preso le distanze: nella prefazione alla ristampa de I benandanti (1973) sottolineai che avevo evitato la nozione di mentalità collettiva, concentrandomi su uomini e donne con nome e cognome. Si trattava di una presa di distanza rispetto alla generazione delle Annales successiva a quella dei fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre. Ma a spingermi in quella direzione c’era anche l’esempio di Cantimori.

E.M. Cambiando versante, mi interessa un parere per chi si trova a insegnare in contesti universitari dove la identity politics è dominante; colpisce nel suo lavoro la continua dialettica tra il ridar voce alle vittime da un lato, dall’altro l’estrema coscienza della ‘distanza’, della necessità della filologia.

C.G. Ho scritto un saggio che si chiama Our Words and Theirs, ora in La lettera uccide, in cui ho cercato di sviluppare la dicotomia tra etic ed emic proposta da Kenneth Pike (linguista, antropologo e missionario protestante): due termini riferiti, rispettivamente, alle categorie degli osservatori e alle categorie degli attori. Rileggendo Pike attraverso Bloch ho sostenuto che le domande etic da cui gli storici partono sono sempre anacronistiche (così come sono etnocentriche le domande etic da cui partono gli antropologi): ma le une e le altre possono essere riformulate attraverso un dialogo con le categorie degli attori (emic). L’esaltazione dell’anacronismo da parte di studiosi francesi come Nicole Loraux, Georges Didi-Huberman e Jacques Rancière confonde l’anacronismo (inevitabile) delle domande con l’anacronismo delle risposte, che trasforma lo storico in un ventriloquo. Per quanto riguarda termine “identity”, penso che abbia un valore emic ma non etic: in altre parole, non ha nessun valore analitico. Oggi è soprattutto un’arma, per tracciare dei confini, o dei muri.

E.M. Passiamo al rapporto con la letteratura (immagino potremmo aprire un lungo capitolo). La mia prima curiosità è legata allo stile: è interessante come non si limita ad analizzare dei problemi, ma anche a raccontarli, cioè a rendere visibile il percorso, anche le difficoltà e gli errori che l’hanno portata ad avvicinarsi a quella particolare serie di rapporti. Spesso a lezione in Normale menzionava Marc Bloch come punto di riferimento anche stilistico: ma al di là di Bloch e di altri studiosi (anche oltre i confini della ricerca storica), chi l’ha aiutata nel trovare una sua voce, così riconoscibile? Non parlo solo di strutture narrative ma di giri di frase, ritmo, ecco.

C.G. L’idea di rendere visibili le impalcature che hanno reso possibile l’edifico della ricerca viene dalla letteratura del ‘900: una nozione abbastanza ampia da includere Proust e Brecht. Se invece la domanda verte sul ritmo, allora penso di aver cominciato a imparare da Pinocchio. Calvino, in un’intervista (forse l’ultima sua) rilasciata a Maria Corti e pubblicata in “Autografo”, parlò con ammirazione dello stile di Pinocchio, che definì, se non ricordo male, “magro come un chiodo”. Da Pinocchio ho imparato moltissimo: il ritmo, la punteggiatura, la concisione. Per me è stato veramente un testo fondamentale.

E.M. Parlando di Calvino mi interessa un caso specifico, la pubblicazione delle Fiabe italiane nel ’57. E, ecco, lei aveva 18 anni e quindi immagino che l’abbia vissuta.

C.G. Le ho trovate straordinarie, non c’è dubbio. Assolutamente straordinarie.

E.M. Mi interessa, appunto, l’attenzione di Calvino per l’aspetto morfologico della fiaba. Secondo lei ha avuto una influenza (non mi piace questa parola, ma la uso lo stesso) anche sul suo lavoro? Ecco.

C.G. Ho letto Propp molto presto, a cominciare da Le radici storiche dei racconti di fate, uscito nella collana viola di Einaudi. Come ho scoperto anni fa, era stato tradotto per consiglio di Franco Venturi, allora attaché culturale a Mosca. Per formazione, orientamento e interessi Venturi era lontanissimo da Propp. Però colse immediatamente il grandissimo valore intellettuale di quel libro e propose di tradurlo. Credo che sia stata la prima delle pochissime traduzioni di quel libro. Mentre Morfologia della fiaba molto più tardi venne tradotta in molte lingue ed ebbe una grande eco internazionale, Le radici storiche – se non erro, la tesi discussa pubblicamente da Propp – ebbe scarsa risonanza. Calvino fu spinto verso le fiabe italiane anche da quel libro, e più in generale dal rapporto con la collana viola diretta da Pavese.

E.M. Mi concentrerei sul rapporto umano, intellettuale con Calvino, forse una delle prime di cui abbiamo parlato: che impatto ha avuto? 

C.G. Com’è noto, Calvino era molto amico di mia madre. Diventai anch’io suo amico, nonostante la differenza di età. Da lui, dalla sua straordinaria intelligenza ho imparato moltissimo. Gli ho voluto molto bene. Il dialogo tra noi si sviluppò anche grazie a Gianni Celati, che insieme a Calvino aveva lanciato un progetto di rivista mai realizzato (Ali Babà). Calvino scrisse una bella recensione al libro Crisi della ragione, in cui era incluso il mio saggio SpieRadici di un paradigma indiziario. Alla memoria di Calvino e di Arnaldo Momigliano History, Rhetoric and Proof: una serie di lezioni che avevo fatto a Gerusalemme. La versione italiana, un po’ diversa, s’intitola Rapporti di forza.

E.M. Rileggendo l’ultimo Calvino — Sotto il sole giaguaro, Prima che tu dica pronto: insomma, l’ultimissimo — mi stavo chiedendo: è possibile ipotizzare che abbia assorbito in quegli ultimi lavori le radici del suo paradigma indiziario?

C.G. Non saprei dire. In quella recensione a Crisi della ragione parlò in maniera generosa e divertita dell’ipotesi che avevo fatto sull’origine del racconto a partire dalla traccia che non c’è, paragonandomi a un “cacciatore neolitico”. Nel nostro dialogo questo elemento giocoso era ben presente. E forse qualche traccia di quello che lei diceva si trova nelle Lezioni americaneNe parlammo a lungo, passeggiando a Roma. Fu il nostro ultimo incontro. 

E.M. Quindi, più sul versante teorico che non su quello narrativo.

C.G. Narrativo-teorico, diciamo. La letteratura come un mondo condiviso: la teoria della letteratura mi appassiona. Spitzer, Auerbach, sono stati per me autori importantissimi.

E.M. Certo, il dettaglio rivelatore. E invece mi veniva in mente un’altra figura, non so se si possa definire di fratello maggiore (comunque di certo un interlocutore), Cesare Garboli.

C.G. Anche lì c’è stato un rapporto di amicizia molto stretto e un dialogo molto fitto, che  riemerge per esempio nel saggio Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship, dove riprendo il saggio di Garboli sulle ‘equivalenze verbali’ di Longhi. È una conversazione che continua – purtroppo solo metaforicamente.   

E.M. Ripensando a quel suo saggio è interessante il richiamo a Garboli a proposito della traduzione, cioè dell’ironia di Longhi sull’impossibilità della traduzione. Stavo poi pensando anche il fatto che all’inizio dello stesso saggio lei fa riferimento anche a dei modi “non proficui” di pensare al rapporto tra testi e immagini, ovvero a delle teorie che hanno considerato le immagini come se fossero dei testi da leggere.

C.G. A mio parere l’espressione “leggere le immagini” va evitata, perché impedisce di cogliere le differenze ineliminabili tra immagini e testi: prima tra tutte, la natura affermativa delle immagini. In un altro saggio incluso in Occhiacci di legno, intitolato “Idoli e immagini”, scritto per una miscellanea in onore di Ernst Gombrich, ho ricordato (e riprodotto) il famoso quadro di Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”. Se non ci fosse quella didascalia, negare ciò che viene rappresentato (la pipa) sarebbe impossibile. Le immagini, per loro natura, non possono negare. Su questo punto si può e si deve continuare a riflettere.

E.M. Si, perché il discorso su questo è infinito; non c’è fine al discorso sulla pittura. Tornando invece agli interlocutori, mi aveva colpito e anche commosso il suo ricordo di Celati a Bologna, nel gennaio scorso. Ci parla delle convergenze tra le sue ricerche e gli interessi di Celati, in Finzioni occidentali?

C.G. C’erano tra noi in quel periodo – siamo all’inizio degli anni ’70 – rapporti di grande amicizia. A quel punto s’inserì quel progetto di rivista mai realizzata, che era forse prima ancora di Celati che di Calvino. Ci furono incontri molto fitti, e scambi di lettere in gran parte pubblicati nel numero Ali Baba di “Riga”. Poi Gianni si trasferì in Inghilterra, e i nostri rapporti diventarono, purtroppo, molto più radi. 

ARTICOLO n. 10 / 2023

LOVE(LACE) ACTUALLY

Traduzione di Chiara Spallino Rocca

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi 12 bytes da oggi in libreria per Mondadori (che ringraziamo per la disponibilità). Quando creeremo forme di vita non biologiche, saranno a nostra immagine e somiglianza? O accetteremo lopportunità, più unica che rara, di rifare noi stessi a loro immagine e somiglianza? In questo saggio Jeanette Winterson si sofferma sulla figura di Ada Lovelace, “la prima informatica della storia”.

All’inizio del futuro c’erano due giovani donne: Mary Shelley e Ada Lovelace.

Mary era nata nel 1797, Ada nel 1815. 

Le due giovani donne irruppero nella storia durante i primi anni della Rivoluzione industriale. L’inizio dell’Era delle Macchine. 

Erano entrambe figlie del loro tempo, come lo siamo tutti, ed entrambe sono state torce lanciate attraverso il tempo, che hanno gettato luce sul mondo del futuro, il mondo che è oggi il nostro presente. Un mondo che è destinato a cambiare la natura, il ruolo dell’Homo sapiens e, forse, anche a mettere in discussione la sua supremazia. È un ciclo che si ripete – sempre le stesse battaglie sotto altre spoglie –, ma l’IA è un fenomeno nuovo nella storia dell’uomo. Ciascuna a suo modo, quelle due giovani donne l’avevano previsto. 

Mary Shelley scrisse il romanzo Frankenstein a diciott’anni. In questa storia, il medico-scienziato Victor Frankenstein costruisce una creatura umanoide sovradimensionata, utilizzando parti del corpo umano e l’elettricità. 

L’elettricità, intesa come forza che poteva essere sfruttata per i nostri fini, non era stata ancora compresa fino in fondo, né utilizzata a scopi pratici. 

Se leggiamo Frankenstein oggi, ci rendiamo conto che non è solo uno dei primi esempi di romanzo femminile, né solo un romanzo gotico, e nemmeno solo un romanzo sui bambini senza madre o sull’importanza dell’istruzione universale. Non è solo fantascienza, non c’è solo il mostro più famoso del mondo: Frankenstein è un messaggio in una bottiglia.

Apritelo.

Siamo la prima generazione, oltre duecento anni dopo l’uscita del libro, che sta cominciando a creare nuove forme di vita. Come la creatura di Victor Frankenstein, le nostre creazioni digitali dipendono dall’elettricità, ma non dall’assemblaggio di parti del corpo decomposte prelevate dal cimitero. La nostra nuova intelligenza, robotica o immateriale, è costruita a partire dagli zeri e dagli uno del codice binario. 

Ed è qui che entra in scena Ada, la prima programmatrice di computer al mondo, di un computer che non era ancora stato costruito. 

Mary e Ada intuirono che gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale non avrebbero portato solo allo sviluppo della tecnologia delle macchine e alla sua applicazione, ma avrebbero comportato un cambiamento decisivo nella definizione di ciò che significa essere umani. 

Victor Frankenstein: «Se potessi dare vita alla materia inanimata…».

Ada: «Una funzione esplicita… elaborata dalla macchina… senza essere stata prima elaborata da teste e mani umane». 

Mary e Ada non si incontrarono mai, ma le accomunava il rapporto con un personaggio fondamentale dell’epoca. 

Lord Byron era a quei tempi il poeta più celebre d’Inghilterra. Era affascinante, ricco e giovane. Perseguitato dagli echi dello scandalo del suo divorzio, nel 1816 progettò una vacanza sul lago di Ginevra, con il suo grande amico, il poeta Percy Bysshe Shelley, la moglie di lui, Mary, e la sorellastra di Mary, Claire Clairmont, diventata la sua amante. 

La vacanza fu un successo, finché non iniziò a piovere a dirotto e i quattro giovani si ritrovarono chiusi in casa. Per alleviare la noia di quelle giornate, Byron propose che ciascuno scrivesse un racconto sul sovrannaturale. Fu così che Mary Shelley iniziò a scrivere la cupa profezia fradicia di pioggia che sarebbe diventata Frankenstein

Byron non riusciva a pensare a una storia. Era irritabile e assorto nei suoi pensieri, in parte per via delle battaglie legali per il divorzio e per gli accordi sulla custodia della figlia appena nata. 

Scrisse lettere su lettere riguardo l’educazione della bambina, ma aveva ormai lasciato l’Inghilterra e non vi avrebbe più fatto ritorno. Non l’avrebbe mai più rivista. 

La bambina si chiamava Ada. 

La madre di Ada, Annabella Wentworth, era una cristiana devota e questo era uno dei tanti motivi per cui il suo matrimonio con Byron, che era bisessuale, non avrebbe mai potuto funzionare. 

Annabella era una donna ricca e altolocata, ma, all’epoca, donne e bambini erano sotto la giurisdizione del parente maschio più prossimo. Anche dopo la firma dell’atto di separazione, quel che Byron desiderava per la figlia aveva un valore legale. Nelle lunghe disposizioni che aveva lasciato scritte sull’istruzione della piccola Ada, insisteva soprattutto sul fatto che non dovesse essere distratta dalla poesia. 

La madre era sostanzialmente d’accordo: l’ultima cosa che voleva al mondo era avere a che fare con un’altra indole byroniana. Poiché lei stessa si dilettava di matematica, dimostrando anche di avere un certo talento, aveva assunto degli insegnanti per istruire la piccola Ada, con il proposito di correggere qualsiasi inclinazione poetica ereditata e di diluire gli effetti del sangue byroniano. Non per niente Byron era stato definito “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”. 

Si dà il caso che la piccola Ada fosse appassionata di numeri. Viveva in un’epoca in cui l’istruzione, anche per le donne più ricche, contemplava al massimo la lettura, la scrittura, lo studio del pianoforte, e, in qualche caso, l’apprendimento del francese o del tedesco. Le donne non frequentavano la scuola. 

Mary Wollstonecraft, la madre di Mary Shelley, si era dedicata anima e corpo alla stesura della Rivendicazione dei diritti della donna (1792), un saggio rivoluzionario sull’importanza dell’istruzione per le donne, e non è un caso che Victor Frankenstein non riesca a istruire il suo mostro, costretto a istruirsi da solo. Anche le donne dell’epoca dovevano imparare da sole il latino e il greco, la matematica e le scienze naturali, tutte le materie “maschili” che i loro fratelli potevano aspettarsi di apprendere a scuola. Si riteneva che le donne non avessero l’intelligenza necessaria per studiare seriamente e, quand’anche l’avessero avuta, la troppa concentrazione le avrebbe fatte impazzire, ammalare o diventare lesbiche. 

Durante la vacanza sul lago di Ginevra, Mary Shelley passò molto tempo a discutere con Byron di questioni di genere. Byron si dispiaceva perché, al posto del “ragazzo glorioso” che aveva desiderato come figlio, gli era capitata in sorte una ragazza gloriosa. Non visse abbastanza a lungo per vederla diventare un genio della matematica. 

Augustus De Morgan, uno degli insegnanti di matematica di Ada, temeva che il troppo studio avrebbe minato la sua costituzione delicata. Al tempo stesso, la riteneva più dotata e capace di tutti gli allievi (leggi “ragazzi”) a cui aveva insegnato, e, in una lettera alla madre di lei, scrisse che sarebbe potuta diventare “una ricercatrice matematica di non comune ingegno, forse addirittura di prima grandezza”. 

Povera Ada. Le era stato ordinato di studiare matematica per non cadere preda della follia poetica e poi le venne detto che rischiava di cadere preda della follia matematica.

Ma a lei non importava: sin dai primi anni di vita sapeva quel che voleva.

A diciassette anni fu invitata a una festa al numero 1 di Dorset Street, a Londra. Era la casa di Charles Babbage. 

Babbage era un uomo ricco di famiglia, intelligente ed eccentrico, e aveva convinto il governo britannico a erogargli un finanziamento di diciassettemila sterline (equivalenti a un milione e settecentomila sterline di oggi) per costruire quella che lui aveva battezzato la Macchina Differenziale. Si trattava di una addizionatrice a manovella progettata per calcolare e stampare le tavole logaritmiche utilizzate dagli ingegneri, dai marinai, dai contabili, dai costruttori di macchine e da chiunque volesse fare calcoli in modo rapido utilizzando tavole prestampate. 

La sua idea, come altre idee che innescarono molte innovazioni della rivoluzione industriale, era di meccanizzare il lavoro ripetitivo. All’epoca, il termine “computer” era usato per riferirsi agli addetti umani che svolgevano le noiose operazioni di tabulazione aritmetica che Babbage immaginava (giustamente) potessero essere svolte dalla sua Macchina Differenziale. 

Babbage era professore lucasiano di matematica a Cambridge, carica ricoperta anche da Isaac Newton prima di lui e da Stephen Hawking in seguito (e, tra parentesi, fino a oggi mai ricoperta da una donna). Oltre che dai numeri, Babbage era affascinato dagli automi meccanici. Costruire una macchina calcolatrice fatta di ingranaggi e rotelle era l’ideale per lui. 

E, come poi si scoprì, anche per Ada. 

Per essere invitati a una festa di Babbage si doveva essere belli, intelligenti o aristocratici. Essere straricchi non bastava. Ada (grazie a Dio) non era una bellezza secondo i canoni dell’epoca, ma era intelligente e suo padre (che a lui facesse più o meno piacere) era pur sempre Lord Byron. 

A diciassette anni, Ada fu ammessa in quel circolo. 

Una sezione funzionante della Macchina Differenziale era in bella vista nel salotto di Babbage. Ada ne rimase affascinata, e, mentre la festa si animava attorno a loro, Ada e Babbage si misero a giocare con la Macchina. 

Babbage era così entusiasta che le fece vedere i suoi progetti. 

All’improvviso, il genio quarantenne, un uomo complicato e difficile, che rifuggiva dalla conversazione mondana e odiava i suonatori d’organetto, aveva trovato un’amica che comprendeva il suo lavoro, sia dal punto di vista pratico, sia da quello concettuale. 

Mentre Ada continuava gli studi, i due cominciarono a scambiarsi lettere. Se sia vero o meno che l’incontro tra di loro abbia ispirato Babbage a continuare la sua ricerca, quel che è certo è che quell’anno lui cominciò a lavorare su una nuova macchina calcolatrice, che chiamò Macchina Analitica, il primo computer non umano al mondo. 

Anche se non fu mai costruito. 

Babbage comprese che il sistema di schede perforate utilizzato nel telaio meccanico Jacquard poteva essere usato per far funzionare in modo autonomo una macchina da calcolo. Non c’era bisogno di una manovella. La macchina calcolatrice poteva anche utilizzare le schede perforate per immagazzinare memoria. Si trattò di un’intuizione straordinaria. 

Le schede perforate sono cartoncini rigidi muniti di fori. Nel 1804 il francese Joseph-Marie Jacquard brevettò un meccanismo che permetteva di rappresentare il disegno di un pezzo di stoffa tramite una serie di fori su un cartoncino. Si trattò di un momento di geniale intuizione astratta, più vicino all’universo quantistico-meccanico che al realismo in 3D della Rivoluzione industriale. È logico che Babbage ne colse le implicazioni per l’informatica. In realtà, di logico non ci fu nulla: fu un grande balzo in avanti sul piano mentale per entrambi. 

In un telaio Jacquard è la disposizione dei fori a determinare il disegno. Grazie a questo sistema, il maestro tessitore non doveva più applicarsi per far passare il filo della trama sotto il filo dell’ordito al fine di tessere la stoffa e creare il disegno. È l’ordine dell’ordito e della trama che determina il disegno. Si tratta di un lavoro specializzato ma ripetitivo e, come per molte delle innovazioni della Rivoluzione industriale, la meccanizzazione della ripetizione rese superflua l’abilità umana di pari livello. La meccanizzazione è una sfida ingegneristica, ma la sola ingegneria non è la chiave di volta del telaio Jacquard: il balzo in avanti è immaginare qualcosa di solido e tangibile sotto la forma di una serie di fori (ovvero, come uno spazio vuoto) disposti a formare un disegno. 

Le schede perforate sono state utilizzate nei primi tabulatori commerciali e, successivamente, nei primi computer. Sono rimaste in uso (nella forma di fori su nastro) come programmi informatici, fino alla metà degli anni Ottanta. Babbage non brevettò questa idea: come uomo d’affari non valeva niente. A brevettare il sistema delle schede perforate, nel 1894, fu Herman Hollerith, un imprenditore americanofiglio di un immigrato tedesco. La sua Tabulating Machine Company cambiò nome nel 1924, diventando l’IBM, la sigla di International Business Machine

(Non c’è da stupirsi: che successo avrebbero potuto avere sul mercato prodotti chiamati Macchina Differenziale e Macchina Analitica?) 

Ada era entusiasta dell’idea delle schede perforate. Scrisse: «La Macchina Analitica tesse disegni algebrici proprio come il telaio Jacquard tesse fiori e foglie». 

Ma non fu così, perché Babbage non riuscì mai a costruire la sua macchina, nemmeno ad arrivarci vicino, e così tutti gli ingranaggi a cremagliera, le leve, i pistoni, i bracci, le viti, le ruote dentate, le borchie, le molle e le schede perforate vissero in una sorta di Steampunk vittoriano, dove tutto era massiccio, solido, dimensionale (basti pensare alle ferrovie, alle navi di ferro, alle fabbriche, alle tubature, ai binari, ai cilindri, alle fornaci, al metallo, al carbone), ma, al tempo stesso, era il frutto di un esperimento mentale, di una fantasia. Per Babbage e Ada immaginare ciò che poteva accadere significava che era già accaduto, e, in linea di massima, avevano ragione. Il futuro era stato immaginato, ma un presente troppo pesante ne impediva la realizzazione. Per quanto fosse divertente giocare a costruire un computer a carbone, a vapore, a schede perforate, fatto di tonnellate di metallo, non era quella la risposta all’universo immediato ed elegante di numeri in cui vivevano Ada e Babbage. 

Ma l’eleganza era ancora molto lontana.

ARTICOLO n. 9 / 2023

SUORE CHE SI COMPORTANO MALE

Sono una grande appassionata di titoli dei libri.
Lo sono da sempre, ma in modo particolare da quando i libri li scrivo anche io.

Durante la stesura in cui sono ancora impegnata, mi sono trovata a invidiare moltissimi titoli del passato, pensando a quanto avrei voluto trovarne io di tanto belli (non perdonerò mai Mario Calabresi per essere stato in grado di battezzare un suo magnifico libro e memoir Spingendo la notte più in là, a mio avviso uno dei titoli più belli mai stati scritti e che con invidia ricordo spesso nelle conversazioni con editor e colleghi: «Perché ci affanniamo? Tanto il titolo più bello della storia se lo è aggiudicato lui»).

Grazie a questa mia passione sovrumana per ciò che cattura l’occhio del lettore frettoloso tra gli scaffali, non è raro che mi imbatta spesso in libri dal nome magnetico; nome che mi porta poi all’acquisto a scatola pressoché chiusa di volumi da me mai presi prima in considerazione.

Qualche settimana fa, questa mia mania ha colpito ancora.

Stavo girando per la mia libreria di fiducia, Todo Modo, qui a Firenze, e all’improvviso ho sperimentato di nuovo questo familiare colpo di fulmine letterario.

Tra gli scaffali, con una copertina rossa e bianca che ricorda la prima pagina dei vecchi tabloid d’oltremanica, un titolo mi stava mandando segnali paragonabili a quelli che le sirene di Ulisse lanciavano ai marinai inermi: 

Suore che si comportano male.
Sottotitolo: “Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali”.
Ho quasi iniziato a sbavare.

L’ho agguantato con velocità in quanto ultima copia in esposizione, mi sono seduta e ho ordinato un bianco mosso per accompagnarmi nella sua prima analisi, quella superficiale, da svolgere comodamente a uno dei tavoli della libreria-bistrot del mio cuore.

La prima cosa che ho notato è che il saggio, scritto da Craig A. Monson e tradotto magistralmente da Luisa Agnese Dalla Fontana, è edito da una mia cara conoscenza, ovvero Il Saggiatore. 

Ho chiamato dunque con prontezza l’editor e curatore editoriale che mi accompagna in questa avventura su The Italian Review, e gli ho comunicato perentoria che, oltre a essere una brutta persona per non avermi mai anticipato nulla su un testo come questo, era mia irremovibile intenzione scriverne un pezzo per la rivista che state or ora leggendo.

Perché le suore?, direte voi.

No, non ho sviluppato un istinto di conversione spirituale, tantomeno desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica (questo per due motivi: sono un’atea anticlericale e sono donna; le donne non vanno fortissimo nella Chiesa Cattolica). Ho avuto bisogno di sfogliare solo per una mezz’ora le pagine per intuire quel che poi avrei confermato con la lettura integrale del saggio: Monson non parla di suore cattive in quanto tali, Monson parla di donne che si ritrovano loro malgrado a essere suore e hanno comportamenti assolutamente normali, ritenuti sbagliati solo dall’imposta clausura.

E questo per me, che sono la Jessica Fletcher degli stereotipi di genere (soprannome coniatomi da Chiara Valerio nel 2021) e che nel mio ultimo memoir (Memoria delle mie puttane allegre, Marsilio, 2022) ho analizzato alcuni legami tra fede, esorcismi e pregiudizi culturali attribuiti al genere femminile, era un piatto troppo ricco per non tuffarmici con entrambe le mani.

Monson, saggista e professore emerito alla Washington University e in precedenza docente con cattedre a Yale e all’Amherst College, ha voluto raccontare una storia tutta italiana del regime di clausura nel periodo compreso tra il 1500 e il 1700. 

Nel 1986, tornando in Italia per un viaggio tra gli archivi fiorentini e soprattutto tra quelli vaticani, Monson ha rintracciato storie di donne e monasteri, di comunità e di vescovi, di famiglie nobiliari e ingenti donazioni. 

Tutta questa mappatura si trasforma in un saggio, a tratti romanzo storico, che racconta alcuni episodi-chiave avvenuti nelle diocesi italiane nel corso dei due secoli presi in analisi, e che ci porta a fare la conoscenza con delle donne ritenute allora cattive, oggi invece da me reputate incredibilmente argute e gelose della loro umanissima natura.

Per comprendere il senso di questa mia ultima affermazione dobbiamo fare il passo indietro che ci permetta di dare una collocazione storica e di costume utile per comprendere i motivi che spingevano le donne, così tante donne, alla vita di clausura.

Per i natanti alla lettura entusiasti nella loro fede, ho delle brutte notizie: sono rarissimi i casi in cui le suore divenivano tali per vocazione.

La clausura era un percorso non interiore, bensì spesso – quasi nella totalità dei casi – imposto.

La scelta di una donna rispettabile – e già qui, il moderno che è in noi sobbalza – non era mai sua. I padri, gli zii, i fratelli sceglievano per lei un destino e la forbice di opzioni non era poi ampia: o il matrimonio, che era a tutti gli effetti una compravendita, o il monachesimo femminile. 

Nel 1200 le suore aumentarono, per questa prassi sociale, in modo smisurato. Nel 1500, soprattutto nella sua seconda metà, i numeri salirono ancora di più. Basti pensare che un motto dell’epoca era “una sola figlia dovrebbe avere marito, le altre dovrebbero avere un muro”, ovvero, in soldoni, la primogenita va in moglie e le altre in convento.

La ragione di questo motto era ben più materiale di quel che si potrebbe pensare: le doti per matrimonio erano ingenti e le famiglie cercavano di risparmiare, dandone in sposa solamente una. Anche i conventi richiedevano beni e denaro per l’ammissione delle novizie, ma la spesa era sicuramente minore rispetto a quella matrimoniale.

La domanda che adesso ci potremmo dunque fare è: ma perché, visto che in ogni caso la famiglia -e per famiglia intendo gli uomini di casa- era costretta a spendere e dividere i propri beni, le donne non maritate non venivano lasciate vivere nelle case paterne?

La risposta ci arriva prontamente da Monson che, raccontando delle abitudini italiane del sedicesimo secolo, ci spiega – a pagina 87 – che il rischio della vita fuori dal convento era troppo alto. No, non stiamo parlando di un pericolo per la vita o la sopravvivenza della donna -ricordiamoci sempre che le novizie venivano da famiglie abbienti – ma di un pericolo morale. Infatti, scrive Monson, «[la donna] per proteggere il proprio onore e quello della famiglia, non usciva mai senza essere accompagnata; i suoi parenti maschi sapevano che era meglio tenerla rinchiusa. In quel modo avrebbe evitato di subire o provocare tentazioni, ma anche di indurre gli altri a pensare che lo stesse facendo, un fatto altrettanto deprecabile».

Gli uomini dunque, per evitare il disonore di una parente violentata o rapita, la chiudevano in convento senza il suo consenso, con la sola colpa di avere un corpo di donna in una società in cui i corpi di donna erano ritenuti oggetti ancor più che oggi.

Questo sistema di leva obbligatoria per la vita monastica vedeva dunque centinaia e centinaia di giovani – usualmente intorno ai 14,15 anni d’età – obbligate a diventare novizie senza però averne la benché minima inclinazione.

E in un regime del terrore e della privazione, della clausura obbligata e della vita cancellata, tra quelle mura sono successi fatti incredibili quanto memorabili, che Monson ci racconta in 300 pagine affascinanti e tragiche. 

Per comprendere infatti la natura delle storie ricostruite e raccontate da Monson, dobbiamo pensare a due elementi fondamentali della natura umana.

Il primo è l’arguzia: le storie delle suore di questo libro sono piene di sagace intelligenza, quel tipo di estro che si sviluppa solo in situazioni di cattività in cui la sopravvivenza è estremamente dura; il secondo è la capacità di creare forme sociali nuove, anche in luoghi in cui spesso le parole sono vietate per lunghissimi periodi (pensiamo alle monache Benedettine e ai lunghi voti del silenzio, per esempio).

In un ambiente ostile perché non voluto e in secoli ricchi di rinnovamento artistico e sociale, vivere dentro a quelle mura diventa per le suore una prova disumana, che le spinge a trovare modi per ribellarsi al limite della genialità e che prevedevano molto spesso la collaborazione delle consorelle, anch’esse vittime di un sistema che non avevano mai scelto. 

Un esempio di questo mio cappello introduttivo ci viene dato dalla vicenda delle canonichesse di San Lorenzo a Bologna, e ricostruito nel primo capitolo del saggio di Monson. Nel 1584 il convento era infatti rinomato per le doti musicali delle suore. Ma l’Inquisizione, in quegli anni, decise di limitare prepotentemente le attività artistiche delle recluse, pensando che il successo delle loro capacità fosse sintomatico di vanità, ergo di peccato.

Le limitazioni – tra cui il divieto assoluto di fare prove o cantare in pubblico, anche durante le funzioni religiose – furono un duro colpo per le giovani donne del San Lorenzo, che provarono in più modi ad arginarle, fallendo sempre e ricevendo più richiami al decoro da parte del vescovato.

Durante l’ottobre di quello stesso anno, la sparizione di una viola dall’aula di musica del convento creò non poco scompiglio. 

Le suore fecero di tutto per ritrovare lo strumento misteriosamente sparito, fino a pregare per ore per avere degli indizi divini.

Dal cielo però tutto tacque. Perciò le sorelle si rivolsero all’unica altra entità soprannaturale capace, secondo loro, di poter risolvere il furto: il Diavolo.

Con una serie di riti satanici – tra cui disegnare grossi cerchi sul pavimento con un coltello e fare divinazione con acqua santa e anelli pagani – le monache provarono a ricevere dei segnali. O forse, come ci suggerisce Monson, a darli a qualcuno di molto terreno.

Infatti non ci volle molto perché la storia uscisse dalle celle e arrivasse alle orecchie dell’arcidiacono. 

Dopo una lunga indagine – durata circa due anni – le sorelle coinvolte nella divinazione satanica vennero scomunicate e quindi rese libere.

Similare fu l’evento incendiario del 1673 al convento San Niccolò di Strozzi. Stavolta non furono scomodate le fiamme dell’inferno, ma quelle del mondo reale.

Il convento era famoso per l’allevamento dei bachi da seta e la produzione dei filamenti grezzi del tessuto pregiato prodotto dalla loro saliva. 

I bachi venivano disposti nel sottotetto del convento, su lunghe stuoie di canneto unte di grasso: un innesto perfetto per uno show quasi pirotecnico. In poche ore il tetto e il convento vennero rasi al suolo dalle fiamme.

Il processo portato avanti dalla Sacra Congregazione mostrò subito come le suore, appena visto del fumo, fossero scappate a gambe levate dalla struttura, non provando neanche per un momento ad arginare l’avanzata demolitrice. 

La fuga fu veloce quanto lunga: le consorelle, infatti, non si fermarono fuori dalla struttura, ma tornarono ognuna nella propria casa natia. 

La cosa puzzò subito di bruciato – perdonatemi, era quasi dovuto – alla Congregazione, che capì che quell’incendio ovviamente doloso fu solo un espediente per la fuga. 

Altre storie di inizio 1500 vedono monache seduttrici (al fine di farsi mettere incinta e quindi svestirsi dai panni della clausura) e travestimenti ingegnosi per fuggire dai conventi per recarsi a teatro o a sentire concerti e canti gregoriani. Insomma, per seguire le sacre – stavolta sì – pulsioni umane, anche le più ingenue, le suore erano disposte a tutto e con incredibile arguzia. 

In quest’ottica di ribellione all’imposizione possiamo dunque rivedere sotto altra luce la storia della monaca più famosa d’Italia, la monaca di Monza, la cui vicenda venne poi romanzata da Manzoni ne I promessi sposi.

Come mi spiegava Marcello Fois a Roma qualche settimana fa, la vicenda monacale ricordataci dal Manzoni era più comune di quel che si pensi. La ribellione era semplicemente manifestazione della imprescindibile natura umana, intrappolata nei corpi delle novizie costrette al voto.

Anche la novella di Boccaccio su Masseto di Lamporecchio, la prima della terza giornata del Decamerone, può essere quindi riletta in ottica differente (Masseto si finge sordomuto per entrare in un convento di monache famose in paese per la loro fame di corpi maschili; la garanzia data dal mutismo del giovane spinge le suore ad accoglierlo tra loro, facendo sesso con lui convinte che il giovane non avrebbe potuto, per la sua condizione, parlarne con nessuno) e sicuramente meno caricaturale.

Gli istinti delle donne, seppur sopiti da una società perfidamente maschilista e controllante, non sono mai stati frenati da regole rigide e prepotenti. 

Certo, la punizione spesso era severa – Monson ci racconta di Cristina Cavazza, monaca del 1700 costretta a 12 anni di isolamento ferreo per essere fuggita dal monastero di santa Cristina a Bologna – e negli anni più duri di psicosi superstiziosa la Chiesa di Roma ha mandato più e più donne al rogo per fatti di natura umana, mai diabolica. 

Eppure, come ci racconta questa raccolta di suore ribelli e geniali, nulla è mai bastato alle donne per arrendersi e smettere di celebrare la propria natura, fosse questa nemica di Dio, dei padri, dei fratelli o della sola, stupida, ignorante superstizione.

Nel riscrivere la storia per dare voce e dignità a vicende come quelle delle monache del sedicesimo e diciassettesimo secolo, i documenti ritrovati e ricomposti da Monson sono preziosi ed emblematici. Uno spaccato brillante di quanto l’estro femminile non sia mai stato sottomesso, neanche dalle mura fredde dei conventi e dal silenzio imposto dagli ordini.

Le suore che si comportano male diventano così delle magnifiche, incendiarie protofemministe disposte a tutto per la dignità di potersi sentire, anche solo per il tempo di una fuga nella notte, libere.

ARTICOLO n. 8 / 2023

LA MEMORIA CANTATA

"Un sopravvissuto di Varsavia" di Arnold Schönberg

In occasione del Giorno della Memoria, pubblichiamo un’anticipazione dal volume di Joy H. Calico, La memoria cantata, edito da Il Saggiatore. Traduzione di Silvia Albesano, a cura di Paolo Dal Molin. Da oggi in libreria.

Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg (1947) sembrava fatto apposta per irritare ogni nervo scoperto dell’Europa postbellica. Un brano dodecafonico in tre lingue sull’Olocausto, scritto per un pubblico americano da un compositore ebreo, la cui opera era stata per i nazisti il primo esempio di musica degenerata (entartete). Il compositore in questione era ammirato e vituperato in quanto pioniere della dodecafonia, immigrato negli Stati Uniti e diventato un cittadino americano. Finendo dopo sette minuti circa, Un sopravvissuto era oltretutto troppo breve per occupare la metà di un concerto e al tempo stesso troppo denso di significato per dividere la scena con qualsiasi altra opera. Per tutte queste ragioni, nell’Europa del dopoguerra, la decisione di inserirlo in programma, eseguirlo, recensirlo o comunque di scriverne non è mai stata presa alla leggera. La sua presenza è sempre stata frutto di un disegno ben preciso e le si è sempre attribuito un significato importante. 

Tale significato si è rivelato assai polivalente e di Un sopravvissuto ci si è appropriati per una sorprendente varietà di motivi. Come accade in tutti i casi, anche in questo i significati e gli usi dell’opera sono stati condizionati dal tempo (la prima fase della Guerra Fredda, tra il 1948 e il 1968) e dal luogo (sei paesi differenti nell’Europa postbellica). L’esecuzione di Un sopravvissuto ha potuto dunque simboleggiare un riconoscimento dell’Olocausto o l’intento di commemorarlo, come in Norvegia o indirettamente in Cecoslovacchia; oppure apparire come un’adesione particolare a Schönberg o alla dodecafonia e alla musica modernista in genere, come in Germania Ovest, Austria e Cecoslovacchia. 

Anche l’ostilità verso Un sopravvissuto è eloquente e si manifesta spesso mediante il ricorso a scontati luoghi comuni antisemiti o antiamericani, per esempio nella Germania Ovest e in Austria. Nel blocco orientale, Un sopravvissuto ha svolto la funzione del canarino nelle miniere di carbone politico‐culturali. 

Nei primi anni della Guerra Fredda, la musica di Schönberg fu ufficialmente approvata solo in sporadici momenti di relativa distensione, come nel disgelo. Diversamente, gli attacchi ad personam al compositore e il rifiuto della sua musica rappresentavano la norma, come pure le deleterie manifestazioni di trinceramento. Così, la comparsa di Un sopravvissuto dietro la Cortina di ferro nei tardi Anni Cinquanta è stata un indicatore dell’avanzamento del disgelo in ogni satellite, sebbene anche allora la sua presenza richiedesse una desemitizzazione in nome dell’antifascismo, specie nella Germania Est. 

Un sopravvissuto è stato anche un tramite di diplomazia culturale, per esempio quando i tedeschi dell’Est hanno eseguito la prima polacca a Varsavia. Per queste e molte altre ragioni, la storia delle esecuzioni e della ricezione di Un sopravvissuto nell’Europa postbellica si presta in modo esemplare a fornire le basi per una storia culturale di quel tempo e luogo. 

È anche un’opera che continua a suscitare discussioni, sebbene le critiche siano per lo più circoscritte in termini di gusto e qualità artistica e non riferite al contenuto simbolico. Tali questioni, di fatto, sono state parte della ricezione dell’opera fin dall’inizio. Molti studiosi disapprovano Un sopravvissuto: alcuni lo trovano eccessivo e melodrammatico, sostenendo che i gesti musicali estremamente espressionistici confinano l’Olocausto in cliché da colonna sonora di film hollywoodiano di serie B; altri trovano il coro finale sgradevole, perché indulge alla predilezione del pubblico per una parabola narrativa eroica e salvifica e offre all’ascoltatore una via di scampo; c’è anche chi si sente offeso da quel che percepisce come uno sfruttamento delle sofferenze altrui a fini di intrattenimento. 

Ciò nonostante, per molti motivi, io non rinuncio all’intento di leggere la storia culturale dei primordi della Guerra Fredda attraverso le vicende legate alla sua esecuzione e ricezione. 

In primo luogo, Un sopravvissuto ha un ruolo del tutto particolare nell’opera di un grande compositore. Non sarà stato il primo lavoro musicale ad affrontare il tema dell’Olocausto, ma ha avuto una sorprendente popolarità. Tutta una serie di elementi – il prestigio dell’autore, lo status di opera tarda e il tema – hanno contribuito a suscitare un vivace interesse da parte della critica, e l’opera ha avuto un’influenza notevole, persino sproporzionata, nel condizionare la ricezione complessiva del compositore, come pure i giudizi sulla sua ebraicità.

Per tali ragioni, ricostruire la storia della sua ricezione e circolazione in Europa nel dopoguerra colma le lacune nella nostra conoscenza di un’opera molto nota, scritta da una personalità importante. 

In secondo luogo, non esiste uno standard minimo che una composizione musicale debba raggiungere per essere significativa dal punto di vista storico, culturale o individuale. Data la costellazione unica di caratteristiche e condizioni appena delineate, la storia dell’esecuzione e della ricezione di Un sopravvissuto è un esempio perfetto per illuminarci sul dopoguerra in Europa. Inoltre, ancora ai nostri giorni non è un pezzo che si mandi in onda soltanto per riempire uno spazio radiofonico di sette minuti; anzi, la sua presenza può essere oggi ancor più emblematica, perché con il passare del tempo ha maturato più significati. 

Nel 1992 il World Monuments Fund ha lanciato una colletta per il restauro della sinagoga di Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, trasmettendo in televisione un’esecuzione di Un sopravvissuto da parte dell’orchestra filarmonica della città all’interno del tempio ancora da ristrutturare. Il 9 novembre 2009, nel ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, l’evento musicale clou della giornata di festeggiamenti è stato un concerto presso la Porta di Brandeburgo, diretto da Daniel Barenboim, che aveva messo a punto con grande cura il programma di quell’evento altamente simbolico. 

Sono state eseguite musiche di Wagner (l’ouverture del terzo atto del Lohengrin) e Beethoven (il quarto movimento della Settima sinfonia), la prima di un nuovo pezzo di un compositore dell’ex Germania Est (Es ist, als habe einer die Fenster aufgestoßen [«È come se qualcuno avesse spalancato la finestra»] di Friedrich Goldmann) e Un sopravvissuto. Barenboim ha detto di aver voluto ricordare alla gente che, prima di diventare noto come un giorno di gioia, il 9 novembre era associato a un evento storico ben più cupo: la Notte dei Cristalli. Nel bene e nel male, Un sopravvissuto si presta ai grandi gesti. 

In terzo luogo, quando Schönberg scrisse Un sopravvissuto, nel 1947, non c’era un vocabolario precostituito – letterario, musicale o visivo – per misurarsi con l’Olocausto. E non esistevano nemmeno cerimonie o rituali per piangere una perdita di quell’entità. Hasia R. Diner ha sconfessato il luogo comune dominante secondo il quale negli Stati Uniti gli ebrei avrebbero taciuto riguardo all’Olocausto nell’immediato dopoguerra, dimostrando che essi dissero e fecero molto al riguardo. Ma dal momento che la Shoah non aveva precedenti moderni, e che la vita degli ebrei in America si esprime in tante forme diverse, non c’erano modelli comuni né modalità di espressione o comportamento condivise: «Le commemorazioni dell’Olocausto dell’era post‐bellica riflettono un insieme di realtà concrete che hanno influenzato profondamente il modo in cui gli ebrei americani hanno costruito la loro cultura commemorativa. Non potevano contare su precedenti ovvi, quando hanno mosso i primi passi per creare nuove cerimonie, scrivere nuove liturgie, mettendo da parte i giorni di lutto e allestendo spettacoli che affrontassero l’orrenda storia di morte e distruzione, omicidi di massa, uccisioni nelle camere a gas e cremazioni di milioni di ebrei». In altre parole, hanno trovato soluzioni strada facendo – adattando rituali e linguaggio, a cui Diner si riferisce in termini di «fatti e parole» che già conoscevano –, per commemorare vittime di eventi fino ad allora sconosciuti e inimmaginabili.In Un sopravvissuto Schönberg stava facendo qualcosa di simile: adattava rituali (concertistici e teatrali, e la recita dello Shemà) e linguaggio musicale (espressionismo, i cui gesti erano entrati a far parte del lessico delle colonne sonore hollywoodiane per thriller e film dell’orrore, e dodecafonia) nel tentativo di commemorare eventi che sfuggivano alla descrizione. Diner interpreta i fatti e le parole di milioni di ebrei negli Stati Uniti, in quel periodo, come parte di «un vasto progetto non organizzato e spontaneo volto a mantenere viva l’immagine degli ebrei d’Europa assassinati», che contribuì alla creazione di una «cultura della memoria». Un sopravvissuto è parte di quella cultura della memoria, perché Schönberg era un cittadino americano, che scriveva un’opera destinata al pubblico americano, sebbene quell’opera fosse naturalmente intrisa delle sue radici europee.

ARTICOLO n. 7 / 2023

CORPO E IDENTITÀ A TAIWAN

Intervista a Chi Ta-Wei

Poco prima di Natale ho parlato con Chi Ta-Wei, l’autore di Membrana, romanzo distopico edito da ADD Editore. Quello che ne è uscito è un dialogo in cui ci siamo persi e ritrovati dentro terreni simili, ma mai identici, capaci di surfare sui corpi e sulle identità, ma anche di renderci uno spaccato etnografico sulla Taiwan di ieri e di oggi che smantella l’etnocentrismo a cui siamo abituati e ci conduce – con l’eleganza e la gentilezza Chi Ta-Wei – al silenzio orientato all’ascolto.
Partiamo. 

Giulia Paganelli: La prima cosa che ho pensato leggendo Membrana è che la definizione “distopia” non fosse più così esatta come nel 1995. Per quanto esistano dispositivi e tecnologie divergenti rispetto al nostro presente, il futuro raccontato in questo romanzo è terribilmente umano e plausibile: crisi climatica, razzismo, lotta sociale, corpi addomesticati, dinamiche di potere. Che nuova vita ha oggi Membrana rispetto alla sua pubblicazione? 

Chi Ta-Wei: Ho scritto la Membrana negli anni ’90, quando Taiwan è stata riaperta al mondo dopo il suo periodo di legge marziale (dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’80). Le persone nella Taiwan post-marziale erano molto curiose del mondo là fuori: i temi del cambiamento climatico (inclusa la distruzione degli strati di ozono) e del razzismo nei paesi occidentali erano già ben noti ai telespettatori di Taiwan a quel tempo. Lo studioso francese Michel Foucault era già molto in voga tra gli accademici di Taiwan, quindi ho più o meno imparato a conoscere “Punizione e disciplina” (del corpo) secondo Foucault dai miei professori universitari.

Molti lettori internazionali affermano gentilmente che Membrana sembra erudito. Ma devo ammettere che riflette semplicemente ciò che uno studente universitario medio, come me, ha imparato al college e dai media negli anni ’90.

Ma ovviamente Membrana, scritto negli anni ’90, sembra ironico negli anni ’20. Per esempio, in realtà i nostri buchi nello strato di ozono stanno guarendo! (secondo i programmi radiofonici che ascolto), eppure, allo stesso tempo, il nostro cambiamento climatico diventa molto peggiore di quanto potessimo mai aspettarci. Quando ho fatto il mio tour del libro in Italia nell’autunno 2022, i lettori italiani di ogni città mi hanno informato delle insopportabili ondate di caldo in tutta Italia in estate.

Membrana rifletteva una fase precedente dell’uso di Internet prima della comparsa di Google e dei social media. Ma i titoli di fantascienza (e non) pubblicati intorno al 2020 non possono aggirare la tirannia degli algoritmi che fanno soffrire molti di noi (soprattutto adolescenti). Membrana sembra non aver previsto la nascita e la prevalenza dei social media.

Se dovessi scrivere una nuova fantascienza, rifletterò sui mali dei danni causati dal cambiamento climatico, sulle sofferenze dei social media e sulle conseguenze nefaste del razzismo (contro le persone asiatiche e BIPOC) come abbiamo visto negli anni ’20.

G.P. Proviamo a fare un gioco. Siamo nel 1985 e devi raccontare a Donna Haraway il tuo romanzo senza usare la parola “corpo”.

C.T.-W. La domanda è affascinante. Il Manifesto Cyborg di Donna Haraway è stato effettivamente pubblicato nel 1985, mentre Membrana è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. Ma immagino che non abbia molta importanza se mi immagino di essere nel 1985 o nel 1995.
Ecco:

Cara professoressa Haraway, 

sono un tuo ammiratore. Ho scritto un romanzo di fantascienza, Membrana, in cui una bibliotecaria più giovane (il cui genere è incerto) è risentita nei confronti della madre lesbica, che è una bibliotecaria anziana. La madre lesbica alla fine cerca di fare pace con la figlia alienata.

Definisco la parola “bibliotecario” in senso lato. Io stesso sono stato una persona molto nerd e libresca fin da bambino, e molti sconosciuti mi hanno chiesto perché sono così attaccato ai libri. Ad esempio, portavo spesso con me dei tomi anche quando andavo in discoteca da giovane gay, perché preferivo leggere piuttosto che ballare e flirtare con estranei. Ho anche portato libri da leggere nei bagni pubblici di Taiwan. È così difficile spiegare la mia idiosincrasia (con i libri), quindi mento semplicemente agli estranei dicendo che sono un bibliotecario di professione (non credo che la bugia sia convincente).

In Membrana considero i due personaggi dei bibliotecari, e li sento più o meno simili a me. Quando li chiamo bibliotecari, non intendo dire che lavorano nelle biblioteche o nelle librerie. Voglio dire piuttosto che lavorano con i dati: producono, fanno circolare, consumano e persino rubano dati. La madre lesbica è affermata perché sa come vendere dati ai consumatori. Momo, invece, sembra “ottimizzare” (una parola molto banale e popolare negli anni ’20) i dati dei propri clienti, ma in realtà ne abusa rubandoli.

Cara professoressa Haraway, lei è nota per essere una sostenitrice del “femminismo cyborg”. Secondo il suo studio, tutti sono cyborg. Trovo che la sua argomentazione sia molto correlabile al mio romanzo e a me stesso, ma direi che nel mio romanzo ognuno è più un assemblaggio di dati che un cyborg. Se guarda da vicino i miei personaggi, scoprirà che sono solo immagini di pixel.

G.P. Inutile nascondere che il mio interesse riguarda prevalentemente i corpi. Nella primissima pagina Momo pensa che “c’è un confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”. Penso sia tanto lineare quanto vero e che quel confine si chiama Identità. In che modo questo libro voleva parlare di corpi e di identità? E oggi, mantiene la sua premessa? 

C. T.-W. Hai ragione, Membrana rifletteva la mia preoccupazione per i temi del corpo e delle identità negli anni ’90. E Membrana ha sostenuto che sia il corpo che le identità sono fluidi e persino artificiali: possono essere fabbricati da malfattori.

Il corpo e le identità negli anni ’20, tuttavia, sono più mutevoli di quanto immaginato in Membrana, e questo grazie all’egemonia di foto e video digitalizzati su Internet. I giovani di molte società (Italia e Taiwan incluse) vedono più corpi, soprattutto corpi nudi, rispetto a noi in passato, ma i corpi in questione sono generalmente rappresentazioni digitali (di solito alterate) di corpi piuttosto che corpi in carne e ossa. E non si può negare che molti giovani, soprattutto donne, siano rimasti sbalorditi nel trovare le foto e i video digitali del proprio corpo diffusi in rete e scaricati da migliaia di sconosciuti semplicemente perché le loro foto e i video realizzati durante le intimità sono stati diffusi non consensualmente (da ex- fidanzati o ex-fidanzate o hacker). Come insegnante universitario, mi trovo obbligato a parlare con studenti che potrebbero diventare fonti/vittime/consumatori di tali immagini trasmesse illegalmente. Ammetto che Membrana non prevedeva il caos della circolazione abusiva di tali rappresentazioni del corpo.

Le discussioni sulle identità diventano molto più trendy di quanto avessi mai immaginato. Potrei essere all’antica ora, perché sono sorpreso di scoprire che alcuni dei miei studenti “non sono più gay”, ma si dichiarano “non binari” o “transgender”. Sempre più giovani diventano simpatizzanti delle persone transgender e si arrabbiano molto quando scoprono che le persone transgender non hanno i servizi igienici che desiderano/meritano a Taipei. E molti giovani ora vogliono parlare delle loro complicate identità razziali: ovviamente non sono cinesi (e quindi molto diversi dalle persone in Cina), ma trovano che anche l’etichetta “taiwanese” non sia abbastanza precisa. Ci sono molte sottocategorie/sotto-identità sotto (o, oltre) “taiwanesi”: taiwanesi con antenati indigeni (e quale tribù indigena? Ci sono così tante tribù indigene a Taiwan…), o taiwanesi con alcuni antenati dalla Cina e alcuni indigeni antenati, e così via.

Ma devo anche ammettere che la comprensione dei corpi e delle identità all’interno di un college è ovviamente molto diversa da quella al di fuori di un college. Nella società taiwanese in generale, molti non sono abbastanza pazienti per capire cosa sia una persona transgender o non binaria, o come alcuni taiwanesi siano diversi dagli altri taiwanesi. Credo che i corpi e le identità mostrati in Membrana possano ancora sembrare bizzarri al grande pubblico di Taiwan.

G. P. Trovo geniale l’idea di prendere una cosa super mainstream e desiderata degli anni ‘’80 come l’abbronzatura a ogni costo e rivelarne il lungo termine. Penso che questo sia, tra tantissime cose, anche un racconto sulla nostra mala gestione del tempo data dalla velocità di esecuzione per ottenere un risultato immediato. Anche in questo Membrana prevede tanto del nostro attuale futuro. È un libro sui corpi, ma è anche un libro sulla richiesta costante di performance da parte dei corpi, non è vero?

C. T.-W. Abbronzarsi o meno rimane un problema a Taiwan. Molti di noi sanno che abbronzarsi potrebbe causare il cancro, ma onestamente i saloni di abbronzatura rimangono piuttosto popolari tra le persone gay di Taiwan (e tra le persone gay di molti paesi occidentali). Su Instagram vediamo spesso ragazzi giovani e belli mostrare torsi appena – artificialmente – abbronzati nei loro post. In realtà molti di questi ragazzi lo sanno bene: anche se abbronzarsi in questo modo non porta al cancro, sicuramente farà invecchiare troppo in fretta la pelle, esfoliando anche la giovinezza su cui puntano così tanto. Ma molti di loro non possono resistere al richiamo dei saloni di abbronzatura.

Ti farebbe sorridere, Giulia, sapere che al giorno d’oggi i taiwanesi spesso dicono casualmente che qualcuno (un’attrice, una cantante, o un amico, un parente) dovrebbe davvero “essere mandato in un negozio di automobili per la riparazione”. Significa che la persona in questione dovrebbe sottoporsi a un micro (o maggiore) intervento di chirurgia plastica. Trovo questo detto popolare esilarante, perché Membrana paragona un cliente sotto le dita del protagonista a una macchina in un’officina automobilistica. A Taiwan, negli ultimi 20 anni, sempre più giovani hanno iniziato a spendere molti soldi nelle cliniche di bellezza. E molti medici anziani si lamentano che molti dei loro colleghi più giovani lascino i grandi ospedali per le cliniche di bellezza, che pagano decisamente molto meglio. Ottimizzare le palpebre di un ragazzo è solo più redditizio che operare sul cuore di una vecchia signora.

G. P. Il passaggio sulla velocità e la fretta del risultato si rispecchia anche nei discolibri. Come cambia il rapporto tra corpo biologico e culturale in una società in cui modifica la materia ma non impara dai suoi errori perpetuando le stesse strutture di controllo e potere? 

C. T.-W. Vorrei risponderti da un’altra angolazione: possiamo riconsiderare il nostro rapporto con la velocità e l’urgenza? Possiamo riconoscere che non abbiamo bisogno di essere così veloci come speravamo, e che i cosiddetti bisogni nella nostra vita non sono così urgenti come presumevamo? Molti di noi riconoscono razionalmente di essere impazienti o addirittura violenti con i nostri cari e noi stessi quando siamo di fretta. Sappiamo anche molto bene che diventiamo più gentili con i nostri cari e con il nostro stesso corpo quando impariamo a rallentare il nostro ritmo.

È interessante notare il divario tra il corpo biologico e il corpo culturale. Onestamente, il nostro corpo biologico è così vincolato dalla biologia e non può essere veloce come speriamo. Quando i bulbi oculari cercano di mettersi al passo con gli aggiornamenti in continua evoluzione sui social media per ore, si seccano e alla fine si ammalano. I nostri bulbi oculari e i nostri cervelli saranno sovraccarichi e sull’orlo della distruzione/esplosione. Suggerisco di ammettere che il nostro corpo biologico non può essere sempre sincronizzato con il corpo culturale, che sembra non essere vincolato dalla biologia, in modo da poter essere sufficientemente restaurati per prendere decisioni con calma e gentilezza di fronte a coloro che esercitano violenza.

G. P. Arriviamo a parlare di corpi e di ascensore sociale. Anche in Membrana esistono corpi di serie A e corpi di serie B (androidi). Come raccontiamo i corpi non conformi nel mondo nuovo? Che tipi di marginalizzazioni sono plausibili e quali sono, invece, scomparse? 

C. T.-W. La tua domanda in realtà mi ricorda che forse ci sono quattro tipi, anziché due, di corpi in Membrana. Come dici tu, i corpi privilegiati, che devono essere ottimizzati dai corpi degli androidi; i corpi degli androidi, che vengono utilizzati per ottimizzare coloro che sono in grado di pagare per questa ottimizzazione. È chiaro che i corpi da ottimizzare rimarranno e prospereranno, mentre i corpi che vengono utilizzati per ottimizzare gli altri semplicemente scompariranno, come se fossero aziende più piccole da fondere con le grandi imprese tecnologiche. I più grandi divorano i più piccoli. Et voilà, è monopolio.

Oltre ai due tipi di corpi di cui sopra, tuttavia, finalmente riconosco che ci sono anche altri due tipi di corpi in Membrana: i corpi che possono sopravvivere sotto il mare (questi corpi includono sia l’umano che l’androide corpi) e i corpi (umani e non) che vengono lasciati sulle terre sotto il sole. La narrazione di Membrana è così concentrata sui corpi già sotto il mare che semplicemente ignora quelli che sono rimasti sulle terre. Sì, sulle terre ci sono androidi combattivi, che vengono menzionati di volta in volta nel romanzo. Ma sono rimasti anche esseri umani sulle terre? Il romanzo non parla di loro.

In altre parole, possiamo dire che coloro che sono al sicuro sotto il mare sono come i migranti che arrivano con successo nei loro paesi dei sogni (continente europeo e Regno Unito), mentre quelli che sono lasciati sulle terre e virtualmente lasciati morire sono come i migranti-to-be, che finiscono bloccati nelle loro terre colpite dalla guerra o bloccati nel mezzo del Mar Mediterraneo. Ciò che abbiamo imparato e visto sulla migrazione negli ultimi dieci anni mi spinge a pensare anche all’esistenza di questi ultimi due corpi.

G. P. Momo è un corpo in transizione. Noi lettori comprendiamo leggendo che questo movimento non ha a che fare tanto con l’operazione di rimozione del pene – raccontata come qualcosa di normale routine ma noi sappiamo che ancora oggi non lo è – quanto con la miscela che si crea tra Momo e Andy, il suo androide speculare. In quel momento ho provato lo stesso disturbo sentito mentre leggevo il traffico di corpi dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, ma anche Non lasciarmi di Ishiguro. Eppure siamo una società in cui i corpi sono oggetto costante e raramente soggetto, come possiamo invertire questa rotta, come possiamo smettere di essere il repository o la scorta di qualcuno posto su un gradino più alto della scala?

C. T.-W. Sollevi una questione importante, ma purtroppo in qualche modo sento che il traffico di corpi, insieme a quello di esseri umani, non cesserebbero, ma diventerebbero più complicati e più sfuggenti per noi da fermare. Il traffico di corpi a cui ti riferisci spesso deriva da una persona priva di un organo specifico, che acquista un organo sostitutivo da qualche altra parte, di solito rubato a un prigioniero politico o a una vittima senza fissa dimora. Non è una sorpresa che il traduttore in lingua inglese di Membrana, il professor Ari Heinrich, sia anche noto per le sue ricerche sul prelievo di organi in Cina. Il suo saggio più importante sull’argomento si chiama Chinese Surplus.

È interessante notare che in realtà si è occupato sia di scrivere il suo Chinese Surplus sia di tradurre la mia Membrana allo stesso tempo. In Chinese Surplus, Heinrich non vede la fine del business del prelievo di organi, ma osserva solo che ci sono variazioni crescenti di questo terribile business in questione.

Sappiamo che negli anni ’20 del 2000 siamo in un mondo con un contrasto ancora più drammatico tra ricchi e poveri. È altamente possibile che i poveri vengano costretti a vendere parti di loro stessi ai ricchi.

Inoltre, trovo che il traffico di corpi di cui parli non possa essere separato dal traffico di esseri umani in generale. Come una persona a cui manca un organo potrebbe desiderare un organo sostitutivo, una famiglia che ha bisogno di una domestica potrebbe desiderare di avere una ragazza a sua disposizione. Sembra che non ci si liberi mai dalle ombre del traffico di esseri umani. Molto tempo dopo la presunta fine della schiavitù e della tratta transatlantica dall’Africa alle Americhe, troviamo ancora casi di tratta di esseri umani di persone di ogni colore, di ogni continente, in varie forme.

Cito questo non solo perché il traffico di organi e corpi e il traffico di esseri umani condividono somiglianze, ma anche perché trovo che siamo sfidati dal problema del traffico di esseri umani online. Molti adolescenti scelgono di lasciare la casa per estranei, semplicemente perché sono convinti delle parole e dalle manipolazioni ricevute sui social media.E questi adolescenti finiscono per diventare ostaggi o essere rapiti. È una forma di tratta di esseri umani digitalizzata. E ho detto da qualche parte in questa intervista con te che molte giovani donne in tutta l’Asia scoprono che le foto o i video dei loro corpi nudi vengono diffusi online e scaricati da migliaia di sconosciuti. Queste donne vengono anche rapite o derubate online, ma arrivano a essere anche vittime della tratta di esseri umani. 

G. P. Membrana vuole essere un libro queer, o meglio, ha lo slancio di essere inserito nella letteratura queer, senza però fare affidamento all’auto-fiction, e il suo rinnovato successo proprio nell’anno del Nobel ad Annie Ernaux, che di questo genere ha fatto scuola, è molto interessante. C’è una conversazione lunga, secondo me, da fare sul transfert emotivo che l’esperienza personale usata come strumento innesca nel lettore, ma anche su quanta manipolazione attua. Per parlare di corpi non è necessario, secondo me, parlare della storia del proprio corpo, ma credo che sia impossibile parlare di corpi senza averne esperienza diretta. Ne parliamo?

C. T.-W. Mi piacciono e rispetto i libri di Annie Ernaux, in cui il suo candore mi sorprende e mi commuove. Ammetto che, quando leggo i suoi libri, mi chiedo segretamente se sono disposto a scrivere di me con un candore simile. La mia risposta ora è “no”. La mia personalità è semplicemente diversa.

In quanto donna soggetta a così tanti sguardi da uomini eccitati o ostili per decenni, Ernaux deve conoscere anche i vantaggi e gli scotti per farsi guardare da così tanti lettori in agguato sulla sua vita. Non sono una donna, ma sono cresciuto come un uomo gay in una società taiwanese un tempo molto omofobica. Negli anni ’90, quando ero uno studente universitario che cercava di esplorare la vita gay in un ambiente omofobo, ero propenso a fare in modo che la mia narrativa riflettesse le mie esperienze personali. Sapevo chiaramente che i lettori queer a Taiwan negli anni ’90 apprezzavano e preferivano la narrativa (locale o internazionale) che fosse più o meno autobiografica, poiché presumevano che una narrativa apparentemente autobiografica potesse aiutarli a conoscere i modelli di ruolo queer (il queer scrittore come personaggio queer della letteratura) così come conoscono se stessi, come se tale finzione fosse uno specchio sollevato sui volti di questi lettori.

Anche adesso, nel 2020, nonostante tanti lettori queer siano molto più esposti e orgogliosi di manifestare loro stessi a Taiwan, preferiscono ancora le opere letterarie che si suppone siano autobiografie. Senza mezzi termini, il voyeurismo funziona. Negli anni ’90 volevo essere guardato e allo stesso tempo odiavo essere guardato. Da un lato, avevo bisogno di essere abbastanza visibile da avere amici, alleati e incontri ero-romantici. Ma d’altra parte, non volevo essere molestato dai guardoni (sono stato molestato e perseguitato di tanto in tanto, quando ero giovane). A causa della mia mentalità contraddittoria, ho pubblicato due tipi di narrativa molto diversi tra loro nello stesso periodo. Ho pubblicato storie molto esplicite e sessuali sugli uomini gay negli anni ’90 a Taiwan, che potrebbero funzionare come finestre per coloro che vogliono guardare alla vita gay clandestina (alcuni di questi racconti sono già tradotti in inglese, ma nessuno è ancora disponibile in italiano, nda). E, contemporaneamente, ho pubblicato Membrana, che trasmette i miei pensieri “astratti” su corpi e identità negli anni ’90 ma che, stranamente, non mostra praticamente alcuna rappresentazione “concreta” di uomini gay. Penso che all’epoca di Membrana la percezione di essere guardato come un fenomeno da circo mi avesse stancato, così, nel romanzo, ho scelto di rappresentare solo donne (molto diverse da me) ma nessun uomo (l’unica eccezione è un omosessuale basato sul regista italiano Pier Paolo Pasolini, ma anche questo personaggio è al di fuori della narrazione piuttosto che al suo interno, nda).

In futuro sarò più felice di scrivere narrativa più speculativa, che non sia associata alla mia vita. Mi sento più libero di quanto non mi senta osservato. Dal momento che ci sono già molti scrittori taiwanesi che mostrano felicemente le proprie esperienze ero-romantiche e la vita familiare nel XXI secolo, non credo di aver bisogno di unirmi al loro campo, che è già molto affollato.

ARTICOLO n. 6 / 2023

WALTER BENJAMIN, LA CITTÀ COME IPERTESTO

I profeti del presente

Tra il 1997 e il 1998 il fotografo americano Christopher Rauschenberg, figlio di Robert Rauschenberg e Susan Weil, si è recato in oltre 500 dei luoghi immortalati da Eugène Atget nel suo lavoro pionieristico di documentazione della trasformazione di Parigi alla fine dell’Ottocento, raccogliendo in Paris Changing: Revisiting Eugene Atget’s Paris (Princeton Architectural Press, 2016) la testimonianza di un paradosso: la città vecchia che Atget aveva fotografato per quasi quarant’anni nel tentativo di preservarla dalla furia modernizzatrice del Barone Haussmann e dei suoi eredi non era affatto scomparsa, anzi rimaneva pressoché immutata un secolo dopo gli scatti originari. Credo che il détournement sarebbe piaciuto allo stesso Atget, che non fu solo il primo fotografo di strada e il primo sociologo urbano a documentare il modo in cui nascono e muoiono le città moderne ma anche, nel suo modo dimesso e obliquo, un surrealista (pensiamo alla straordinaria fotografia della folla che guarda l’eclisse solare in Place de la Bastille nel 1912 che Man Ray volle come copertina di un numero de La Révolution Surréaliste). Come nell’hauntology contemporanea, la nostalgia per il passato si tramuta in qualcosa di più inquietante: un passato che non passa mai.

L’opera di rephotography di Rauschenberg è interessante non solo perché porta alla luce il carattere spettrale del lavoro di Atget, ma anche perché dice qualcosa sul rapporto unico che Parigi intrattiene con il proprio passato culturale e la modernità: prima città moderna dell’Occidente, Parigi è però sempre identica a sé stessa. Le varie mitologie della modernità parigina (dalla Rivoluzione francese alla Cité Lumiere, dalla Nouvelle Vague al Sessantotto) richiedono di essere interpretate in maniera tradizionale, e ancora oggi non è raro sedersi in un caffè di Pigalle e veder entrare una coppia di giovani in basco e dolcevita nera in un flashback dalla città esistenzialista. È un’ideologia della libertà che lascia poco spazio alla libertà, e che fa eco all’idea francese per cui i valori libertari della République possono essere imposti dall’alto. Ci ripenso mentre l’Eurostar partito da Londra mi lascia alla Gare du Nord: è possibile passeggiare a Parigi senza ripercorrere le strade già camminate da Baudelaire, Benjamin, Debord, Pajak? La flanerie è obbligata, nella città della psicogeografia è impossibile perdersi. Come in tutto il resto, anche da questo punto di vista Londra è l’opposto speculare di Parigi. A Londra tutto cambia incessantemente, non c’è nostalgia, né bellezza, ad ancorare il passato. La libertà è più profonda, più fredda, più inumana.

Poche cose incarnano questa permanenza dell’uguale in una città simbolo della modernità e della trasformazione come i bouquinistes del lungosenna, che compaiono immutati in ogni rappresentazione di Parigi dal XVI secolo: ogni volta che mi imbatto in un filmato dell’inizio del Novecento, o in una stampa del Settecento che li rappresenta, ho l’impressione di trovarmi di fronte a Jack Nicholson che in Shining rivela di essere sempre stato il custode dell’Overlook Hotel. Sarà che vivendo oltremanica ho interiorizzato una maniera britannica di guardare alla cultura, ma mentre ci passo davanti un pomeriggio di novembre mi viene in mente la prima traduzione inglese del titolo della Recherche proustiana: Remembrance of Things Past. Quel “things” così materiale, come se i ricordi fossero oggetti solidi, spine che ti si piantano nel cervello e di cui non riesci a liberarti. Passano i secoli, re vengono decapitati, sparano i mitra dell’Isis ma quelle “cose” rimangono lì, immutabili, impersonali, come spettri. Sono sempre stato il custode.

***

In questa storia, l’anno della svolta è il 1927: lo stesso in cui Heisenberg formulava il principio di indeterminazione e in California Philo Farnsworth trasmetteva la prima immagine televisiva. Può esserci un momento più rappresentativo dell’arrivo della modernità per come abbiamo imparato a intenderla nel Novecento? Il 1927 è anche l’anno in cui moriva Atget, poverissimo, poco dopo la compagna Valentine; è l’anno in cui veniva finalmente completato il lavoro del Barone Haussmann, iniziato 74 anni prima, con la realizzazione del boulevard tra l’VIII e il IX arrondissement che avrebbe preso il suo nome; è l’anno in cui veniva pubblicato l’ultimo volume della Recherche, quello in cui il tempo perduto viene infine ritrovato. È anche l’anno in cui per la prima volta Walter Benjamin menziona in una lettera a Scholem un progetto a cui ha cominciato a lavorare dall’anno prima e dedicato proprio alla trasformazione di Parigi voluta da Haussmann, i Passages: siamo di fronte a quelle che Daniel Mendelsohn, parlando di W.G. Sebald (un autore che evidentemente a Benjamin deve molto) ha chiamato “near-coincidences”coincidenze apparentemente significative.

In realtà, come sempre è il caso nell’esperienza erratica e contraddittoria di Benjamin, è difficile stabilire una vera data d’inizio dei Passages. Pare che la raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo fosse iniziata fin dai vent’anni, da quando aveva messo piede nella capitale francese per la prima volta nel 1913, arrivato in treno da Berlino con due compagni di università. Se così fosse, potremmo dire che i Passages furono l’ossessione di tutta la sua vita, visto che ancora mentre scalava i Pirenei in fuga dai nazisti nel settembre del 1940 portava con sé una valigia il cui contenuto, aveva detto ai suoi compagni di viaggio, era più importante della sua stessa sopravvivenza. Sembra che la valigia contenesse materiali per i Passages. Dopo il suo suicidio a Portbou la valigia fu probabilmente sequestrata dalle autorità spagnole e perduta: cosa contenesse davvero non lo sapremo mai.

Sappiamo però il momento in cui questi materiali raccolti fin dalla giovinezza avevano cominciato a condensarsi in un progetto. Era il 1926, e se il surrealismo era stato il punto d’arrivo parzialmente involontario di Atget, non stupisce forse che il punto di partenza dei Passages sia proprio il libro di un surrealista: Le Paysan de Paris di Louis Aragon racconta come le vetrine di un negozio del Passage de l’Opéra vengano trasformate dall’immaginazione del poeta-flaneur in un panorama marino popolato di sirene. L’applicazione del merveilleux quotidien ad un luogo simbolico della nascente cultura consumista, nella città che più di ogni altra aveva incarnato la spinta progressista del capitalismo, non poteva lasciare indifferente Benjamin, che a quel tempo si era già convertito al marxismo, aveva conosciuto Adorno e Horkheimer, e aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze della riproducibilità tecnica sull’opera d’arte e la sua “aura”. I pezzi del puzzle erano andati a posto: coincidenze apparentemente significative.

È come se nell’opera incompiuta, e impossibile da compiere, dei Passages Benjamin avesse trovato una sorta di centro instabile, di nucleo in continua trasformazione della sua esperienza intellettuale centrifuga, che non si lascia rinchiudere in nessuna definizione perché quella definizione non era chiara al suo autore: per tutta la vita Benjamin si sarebbe mosso per illuminazioni improvvise e strappi, continuando a smarcarsi dalle strade che si era autoimposto (filosofo, critico letterario, pensatore politico) in un rivolo di derive esperienziali (gli stati alterati di coscienza, la marijuana, la stessa flanerie). Parigi, e il lavoro sui passages, furono l’unica costante nelle peregrinazioni che l’avrebbero portato a Ibiza e Mosca, in Italia e a Marsiglia, in fuga dalla Storia, certo, ma anche dai suoi fantasmi, come quello della depressione, e in fin dei conti da se stesso. La “vita segreta delle città” che intendeva indagare nei Passages era la vita segreta della sua anima; il futuro dell’Occidente lanciato verso il baratro la sua apocalisse personale; la nostalgia consumistica delle vetrine la stessa malinconia che permea Infanzia berlinese. Così Benjamin, tramontato come tutto il resto il tentativo impossibile di un’autobiografia, raccontava sé stesso rifratto in uno specchio che non ne restituiva mai pienamente l’immagine: parlava d’altro perché era l’unico modo di parlare di sé.

La stessa ispirazione originaria dei Passages è profondamente indicativa a riguardo: nella lettera a Scholem del 1926 racconta come abbia deciso di dedicarsi a un lavoro sulla Parigi del Barone Haussmann per compiere una sorta di esorcismo. Lo scopo dell’opera, spiega, è quello di “svegliarci” dal “sogno dell’Ottocento”. Siamo di fronte a Benjamin nella sua essenza più pura: oscuro al limite dell’impenetrabilità, eppure stranamente spontaneo; impersonale e autobiografico; teorico e intimo; con l’attenzione sempre rivolta da qualche parte che non è il centro, come se l’unico modo per dire le cose che contano fosse non menzionarle mai direttamente. Perché evidentemente il “sogno dell’Ottocento”, quello da cui il giovane Benjamin sente l’esigenza di risvegliarsi, è il sogno della generazione dei suoi padri, la grande utopia ottocentesca ridotta a frammenti fumanti di città e carne umana dalla guerra mondiale in attesa di nuovi e più atroci orrori. Come sempre nel corso di tutta la sua vita, Benjamin ha già prefigurato il futuro: l’operazione è psicanalitica e surrealista nella sua essenza, ma senza redenzione. Sembra di sentire il Rust Cohle di True Detective quasi un secolo dopo quando dice che alla fine di ogni sogno c’è un mostro: gli occhi del sognatore si sarebbero aperti sul buio.

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Benjamin si stabilisce definitivamente a Parigi nel 1935. Non è la prima tappa del suo esilio: tra il 1931 e il 1932 ha già compiuto due viaggi a Ibiza, ospite di una congrega di expat tedeschi. Come tutti a Ibiza si è innamorato, entrando forse in contatto in maniera più pura con quell’anima dionisiaca che per tutta la vita avrebbe corteggiato e respinto in egual misura; al ritorno dal primo viaggio ha meditato per la prima volta di uccidersi. Quando il Reichstag è bruciato nel febbraio del 1933, ed è stato costretto a lasciare la Germania una volta per tutte, Parigi è diventata la sua base.

Non è un caso, credo, che nella capitale francese arrivi ufficialmente come traduttore della Recherche, un altro progetto che non avrebbe mai portato a termine. Invece di lavorare a Proust riprende i fili della sua ossessione per Baudelaire. Si intrattiene nei locali di Montparnasse, specialmente al Dôme. Passa i pomeriggi a fare ricerche alla biblioteca nazionale, che interrompe solo quando viene a prenderlo l’amica Hannah Arendt. Il lavoro deve essere stato intenso, quell’anno, perché nello stesso 1935 lo studio per i Passages confluisce in un libro, Parigi capitale del XIX secolol’unico tentativo fatto in vita da Benjamin per dare una forma editoriale alla sua ossessione. Per il resto, l’umore non è dei migliori. Si sposta da una pensione economica all’altra, totalmente dipendente dai soldi che gli spediscono Adorno e Horkheimer. “Parigi cambia”, aveva scritto Baudelaire immerso nel sogno dell’Ottocento, “ma niente nella mia malinconia è cambiato”. Benjamin potrebbe sottoscrivere queste parole.

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Remembrance of Things Past è anche il titolo di una conferenza che si è tenuta al Warburg Institute di Londra nel 2012. Il suo autore, Matthew Rampley, oggi insegna storia dell’arte alla Masaryk University di Brno, in Repubblica Ceca, e a Birmingham. Nel 2000 ha pubblicato un libro da cui la conferenza trae lo spunto, oltre che il titolo, e che sostiene un’idea curiosa: quella delle influenze di Benjamin sul lavoro di Aby Warburg. Un paradosso, visto che Warburg è morto nel 1929 quando Benjamin era virtualmente sconosciuto (l’unico dei suoi lavori principali già pubblicato, Origini del dramma barocco tedesco, era uscito l’anno precedente).

Benjamin conosceva Warburg, lo cita nell’introduzione alle Origini e può darsi che si sia ispirato a lui nel costruire la propria carriera, se di carriera si può parlare, di studioso indipendente. Da Warburg, Benjamin ha quasi certamente tratto l’idea della cultura come qualcosa di vivo, in cui frammenti eterogenei alti e bassi, popolari e colti, possono essere ricombinati per trarre un senso più ampio; e l’analogia tra i Passages e Mnemosyne Atlas, due lavori incompiuti e ipertestuali basati su un’idea di classificazione fluida e mai definitiva, è fin troppo evidente: gli stessi faldoni che contengono i materiali dei Passages richiamano i pannelli di Mnemosyne per il carattere eterogeneo delle loro denominazioni (Baudelaire, Casa di sogno, Le strade di Parigi, Specchi, Sistemi di illuminazione, Moda, etc.). Quello che Rampley sostiene nel suo libro è che il lavoro di Warburg, rimasto nella relativa oscurità fino agli anni Ottanta, deve la sua notorietà a Benjamin, che al contrario è stato soggetto di studio critico fin dagli anni Trenta. Leggiamo, dice Rampley, Warburg attraverso la lente di Benjamin nello stesso modo in cui leggiamo Shakespeare attraverso la lente di T.S. Eliot.

In questa idea del futuro che influenza il passato c’è qualcosa di affascinante, come se il tempo fosse un cerchio, o una casa di specchi. È seguendo questa intuizione che nel 1920 Benjamin acquista l’Angelus Novus di Paul Klee, “l’angelo della storia” con “lo sguardo rivolto al passato”? È una prefigurazione della tragedia personale che lo attende o un riconoscimento nicciano dell’eterno ritorno? O entrambi?

Benjamin aveva probabilmente in mente Mnemosyne Atlas quando pensava ai Passages, ma la sua idea di ipertesto era più definita, e insieme più concreta, dello studio del movimento dionisiaco di Warburg. Se Parigi è il prisma attraverso cui si manifesta l’intera storia dell’Occidente, il “sogno dell’Ottocento” così come la catastrofe ventura, il pubblico e il privato, l’intimo e l’impersonale, i grandi movimenti della Storia così come gli echi dell’autobiografia, se insomma Parigi è un Aleph che tutto contiene, è anche vero che in Benjamin è la città stessa, con le sue infrastrutture materiali, i vetri e l’acciaio, i tunnel e le gallerie, a farsi per la prima volta ipertesto. Mnemosyne Atlas era un teatro della memoria rinascimentale, e attraverso la sua struttura fluida portava nella modernità la logica spaziale dell’organizzazione della conoscenza dei sistemi mnemonici. Ma nei Passages è il reticolo della città, con le sue strade e i suoi passaggi, a farsi informazione organizzata. I passages sono piuttosto chiaramente link: scorciatoie che portano da un luogo all’altro più rapidamente e, in maniera metaforica, collegano punti diversi dell’ipertesto culturale.

Warburg aveva già immaginato internet; Benjamin immagina la smart city, o l’Internet of Things. La Parigi di Benjamin è una realtà virtuale, informazione stratificata in un sistema semantico. Chissà se Christopher Nolan aveva in mente questo parallelismo quando ha pensato alla scena di Inception ambientata a Parigi. Altre coincidenze apparentemente significative.

Quello che è certo è che il futuro preconizzato da Warburg e Benjamin, la modernità che entrambi inseguivano (e che inseguivano, significativamente, rivelando i segni del passato che non passa nel tessuto della modernità), avrebbe finito per distruggerne il lavoro prima, e le vite poi: Warburg sarebbe impazzito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e la sua Bibliothek trafugata lungo l’Elba fino a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista; l’idea di città ipertestuale immaginata da Benjamin avrebbe portato alla morte del flâneur, come ha scritto ormai dieci anni fa Evgeny Morozov in un celebre articolo. Nel frattempo Benjamin era già stato obliterato, distrutto dal nazismo che Warburg aveva scampato in extremis. Alle spalle dell’Angelus Novus, dove gli occhi non guardano, si sta sempre compiendo una catastrofe: storica, tecnologica, semantica.

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Nachleben, la “vita postuma”, è la memoria: Warburg l’aveva perfettamente chiaro. Warburg era già scomparso dietro la propria Bibliothek prima di morire; Benjamin era già diventato il suo mito, la traccia dei suoi spostamenti, i suoi progetti mai finiti, le sue pagine di diario, le lettere, i racconti, gli aneddoti, prima di essere costretto a ingoiare la morfina a Portbou. C’è il sogno del passato, poi c’è il futuro che spazza via tutto, e poi c’è la memoria, che è il luogo in cui sopravvivono i fantasmi. Per questo ogni scrittore interessato alla memoria è un bibliofilo, e per questo i nazisti bruciavano i libri: i due atti, quello dell’accumulazione e quello del rogo, possono sembrare opposti, ma in realtà sono facce della stessa medaglia, entrambi tentativi di fare i conti con il mondo dei padri. Ingraziarsi Mnemosyne o aggredirla con il fuoco nel tentativo di addomesticarne i moti imprevedibili. La modernità, come aveva capito Atget, ha sempre bisogno di bruciare il passato, ma il passato non brucia mai. Anzi nel fuoco si calcifica, come in un procedimento alchemico, e si fa permanente: Nachleben, appunto.

È anche per questo che quando Benjamin si trova infine costretto a lasciare anche Parigi, circondato ormai su tutti i fronti (esule dalla Germania perché ebreo, internato in un campo di lavoro nella Francia libera perché tedesco, poi braccato in quella occupata di nuovo perché ebreo, guardato sempre con sospetto perché marxista) lascia i faldoni contenenti i materiali per i Passages alla biblioteca nazionale. Ma sarebbe ingenuo pensare che la memoria sia neutrale. O meglio, la memoria è neutrale, come ogni dio e ogni fantasma, ma le sue istituzioni no. I Passages sarebbero stati probabilmente sequestrati e dati alle fiamme se il bibliotecario a cui Benjamin aveva lasciato i faldoni non li avesse nascosti poco prima della caduta di Parigi. Quel bibliotecario era Georges Bataille: coincidenze apparentemente significative.

Mentre la catastrofe si fa sempre più pressante, mentre il risveglio dal sogno si fa imminente, e il sogno si trasforma in maniera via via più concreta in quello che è sempre stato, e cioè in un incubo, anche l’ossessione di Benjamin si acuisce, sfiorando la mania. Leggendo i Passages oggi una cosa mi colpisce: la totale assenza di spiegazioni, come se il semplice accumulo di citazioni, di rimandi, di frammenti fosse sufficiente a creare un senso. È la stessa sensazione che si avverte guardando Mnemosyne Atlas: quella di trovarsi nella mente di qualcuno, all’interno di un progetto privato. Perduti nel sogno di qualcun altro, come i necronauti di Philip Dick intrappolati nella mente di Runciter. C’è una coerenza nel fatto che mentre il senso della Storia si fa sempre più incerto, mentre il mondo discende nel caos e nella morte e nella psicosi nazista, la storia personale abbia sempre più bisogno di cercare un proprio senso, diventi sempre più importante salvare il proprio mondo intimo. Benjamin sapeva probabilmente di essere spacciato dal giorno dell’incendio del Reichstag, sapeva che il momento del risveglio poteva essere procrastinato ma non evitato: per questo era più importante salvare il contenuto della valigia che la sua stessa vita.

Certo è che non abbandona Parigi finché ormai è troppo tardi. In quegli ultimi mesi è sempre più solo e più povero. Adorno e Horkheimer si sono trasferiti in California dal 1938, e da tempo cercano di convincerlo a lasciare l’Europa per raggiungerli. Dora, la sua ex-moglie, è fuggita a Londra con il figlio Stefan: basterebbe arrivare fino a Calais e salire su una nave per mettersi in salvo, ma Benjamin rifiuta. La ragione: vuole continuare a lavorare ai Passages. Solo quando Parigi cade, il 14 giugno del 1940, un mese dopo che la Wehrmacht è entrata in Francia, accetta il permesso di ingresso negli USA che Adorno è riuscito faticosamente a ottenere per lui. Ma a quel punto l’Europa è una trappola mortale: la nave per New York parte dal Portogallo, ma per arrivarci bisogna attraversare tutta la Francia nazista e la Spagna di Franco. Benjamin ha 48 anni, soffre di cuore, ha problemi a camminare. Quest’ultima fuga dura tre mesi e si conclude appena passato il confine spagnolo: al Portogallo mancano ancora 1344 km, trecento ore di cammino. Il futuro è sempre stato troppo lontano.

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C’è un’ultima somiglianza tra la vita di Benjamin e quella di Sebald, e ha a che vedere con la fine: due autori che hanno passato l’esistenza a cercare la “vita segreta”, a tessere trame di senso nel caos del mondo, muoiono in maniera casuale. Le coincidenze sono apparentemente significative finché all’improvviso, senza ragione, smettono di esserlo, e il tessuto asignificante del mondo si sfalda, torna all’indifferenziazione primigenia. Kronos, il tempo umano, indirizzato, si disfa in kairos, il tempo come successione di momenti disordinati ed eterogenei. Kronos, cioè Saturno, il dio della depressione e del limite, della morte e della catastrofe, non può essere eluso per sempre: non ci sono più derive, non ci sono più luoghi da visitare, non c’è più fuga. Saturno, la cattiva stella, il dis-astro, alla fine arriva sempre. Porta la fine, e con sé anche la pace.

Sebald muore un giorno di dicembre del 2001 in un incidente stradale, a 57 anni: un punto finale conclude la vita dello scrittore della divagazione infinita. La morte di Benjamin non è casuale nelle ragioni ma lo è nelle circostanze. Si conclude in un paese qualsiasi, un villaggio di mille anime che per Benjamin, così legato al senso dei luoghi, non significa nulla. Ciò che segue è tanto preda dell’entropia da risultare quasi comico. Il medico legale che arriva sul posto non si accorge della capsula di morfina e classifica la morte come aneurisma cerebrale; in una mossa degna di una commedia degli equivoci, le autorità spagnole leggono male la carta d’identità: pensano che il morto si chiami Benjamin Walter, invece che Walter Benjamin. Non capiscono che è ebreo e lo seppelliscono nel piccolo cimitero cattolico del paese. Chissà che hanno fatto della valigia, cos’avranno capito di quella raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo. Avranno pensato che fosse un urbanista, probabilmente. Sicuramente non conoscevano la parola “flaneur”.

Eppure mi sembra che proprio in questo finale insensato si apra lo spazio di una possibilità: alla tragedia segue la commedia. Benjamin riposa in un paese affacciato sul mare, nel clima mite della Catalogna: immagino un vento dolce che scuote il cespuglio di bosso piantato da chissà chi a vegliare sul suo sonno. La psicosi nazista che l’ha ucciso si è uccisa a sua volta, alla guerra è seguita la pace. Alla pace seguiranno altre guerre, altre morti, altre catastrofi. E tornerà ancora una volta la pace.

A Parigi, la Wehrmacht non ha mai trovato i Passages, ben nascosti da Bataille: la memoria, incarnata in un servitore ribelle e infedele, ha fatto bene il suo lavoro. 

“Un bambino”, appunta Benjamin nella sezione dedicata alla Noia, eterno ritorno, “con sua madre al Panorama. Il Panorama raffigura la battaglia di Sedan. Il bambino trova tutto molto bello: ‘Solo, peccato che il cielo sia così cupo’. ‘Così è il tempo in guerra’, ribatte la madre”.

Il tempo di Proust, quello perduto e ritrovato, è kronos o kairos? Se il tempo è un anello, e non una linea retta (e se la noia è l’esperienza che facciamo di questo eterno déja vu) allora l’Angelus Novus, rivolgendosi all’indietro, ha lo sguardo fisso sul futuro. L’hauntology non è un glitch nel tessuto del tempo: è il tempo nella sua circolarità.

La lapide a Portbou, sormontata dal suo piccolo cespuglio di bosso, è sempre esistita in attesa dell’unico finale possibile. “Una gabbia andò in cerca di un uccello”, scrisse Kafka. Sono sempre stato il custode.

Niente passa perché tutto, incessantemente, passa. Dal sogno non ci si sveglia veramente mai, si salta solo di sogno in sogno, come in Inception. Anche il mostro alla fine è una fantasmagoria. “Peccato che il cielo sia così cupo”. Ma in fondo è solo un diorama.

ARTICOLO n. 5 / 2023

DICIANNOVE ANNI DI “SCRIVERÒ DI PIÙ”

L'anno che verrà

Benvenuti nel 19esimo anno in cui il mio buon proposito è “scrivere di più”. Un proposito difficile da quantificare legato a un’attività che dà soddisfazioni e molte rogne. Rimasto immutato nonostante il passaggio alla maggiore età, all’inizio della carriera lavorativa e all’aver superato i trent’anni, l’auspicio ha lo stesso indice di fallimento di quello di perdere 5 chili entro l’estate, ma molti più sensi di colpa, perché è un proposito che lega la stima di sé alla prospettiva lavorativa, unione che è la grande fortuna degli psicoterapeuti del nuovo millennio. Di seguito, la cronologia di come questo proposito si è insinuato nella mia vita e come è stato in vario modo disatteso.

(Qualcuno esperto di come si danno le notizie potrebbe avere da ridire sul fatto che non si sia aspettato il 2024 per pubblicare un anniversario tondo, il 20esimo. I motivi sono due: per prima cosa si spera che il prossimo anno non stiamo ancora dietro a ‘sta stupidata e il buon proposito sia “provare a indossare di più il giallo”, o qualcos’altro di frivolo; la seconda è che è l’unica idea che mi è venuta in mente, per cercare di realizzare questo proposito anche nel 2023.)

2004

Nel 2003, a 16 anni, mi innamoro di uno che mi dice che dovrei mandargli delle mail dove gli racconto cose, perché secondo lui la scrittura è un’attività bellissima che dovremmo condividere. Il problema è che io mi vergogno di fargli leggere quello che scrivo perché penso che lui sia un genio della scrittura, così apro un blog anonimo dove racconto quello che avrei dovuto raccontare a lui. È un’attività molto divertente, molto più che rispondere alle mail di questo tizio che nel frattempo mi scrive che devo scordarmi una relazione a distanza con lui e che si è messo con una sua compagna di classe. A Capodanno 2004 mi dico che dovrei “scrivere di più”, intendendo sul blog. Il buon proposito si realizza per il semplice fatto che l’anno prima il blog era stato aperto per neanche quattro mesi. Prima e unica volta in cui il buon proposito ha successo, arrivo persino a dire a un prete che mi chiede cosa voglio fare da grande: «Io voglio scrivere per far ridere la gente». Il prete mi guarda con pietà.

2005

Insisto sul punto dello scrivere di più, ma quest’anno c’è dell’ambizione: c’è questa cosa della blogosfera, mi dico che 18 anni è il mio momento per diventare una giovane blogstar, anche perché, imbevuta di ageism, mi convinco che se non sfondo nella letteratura entro la fine del mio diciottesimo anno di vita posso tranquillamente considerarmi una fallita. Questa scadenza è già stata rimandata di qualche anno, visto che nel 2004 il successo dei libri di Melissa P. e Zoe Trope (mie coetanee) mi fanno già sentire in ritardo. Ovviamente l’entusiasmo per il blog e il fatto che non sia diventata una blogstar entro febbraio mi fanno scrivere meno, e l’uscita del libro di Margherita F. celebrato come il più rappresentativo dell’adolescenza in Italia mi fa sentire già sconfitta. Anche l’aver sbagliato un congiuntivo nel tema di maturità non aiuta. La cosa migliore che scrivo è la mail in cui mando a cagare quello là che mi convinse a scrivere – non perché mi abbia convinto a scrivere, per altri motivi.

2006-2009

Finito il liceo a metà 2005, due amici mi consigliano di leggere i libri di David Sedaris e Walter Fontana, scoprendo così cosa vuol dire scrivere per far ridere la gente. La reputo una cosa per me impossibile, ma ormai mi ero incistata su questa cosa della scrittura, quindi mentre studio comunicazione all’università passo tutti i Capodanni a dire che dovrei scrivere di più ma non so bene di cosa. Scribacchio sul blog quattro stupidate, metto qualche battuta scema su FriendFeed, continuo a leggere e guardare gente che fa molto ridere e mi incupisco. L’unico anno in cui il proposito si realizza è il 2009, quando un sito di recensioni cinematografiche mi chiede di collaborare in cambio di andare a vedere film gratis. Io non so niente di cinema, ma non sarà l’ignoranza sul tema a fermarmi, che poi è il principio su cui si fonda buona parte della professione giornalistica.

2010

Il Capodanno del 2010 arriva un mese dopo la mia laurea. Il piano per la ricerca di un lavoro è trovare una redazione di una rivista e piazzarmi lì a scrivere. Non volevo fare la giornalista, volevo scrivere – forse la categoria di persone peggiore che si possa trovare nella redazione di un giornale. Quindi “scrivere di più” era un auspicio lavorativo, ma anche un piano per farmi notare nel caso ci volesse più tempo del previsto per trovare un posto in redazione. Il blog l’avevo praticamente abbandonato, guardare a 22 anni quello che scrivevo a 17 o 18 anni era grande fonte di imbarazzo. Questo “scrivere di più” non aveva una casa, e se non posso pubblicare qualcosa da qualche parte non vedo perché scriverlo. A marzo 2010 entro nella mia prima redazione, ma in quella fase a noi stagisti non ci facevano scrivere, inizialmente non avevamo neanche accesso alle riunioni di redazione. Anche il fatto che ogni consegna io la viva con l’angoscia di chi aspetta il referto di un esame specialistico richiesto d’urgenza non aiuta. Scrivo poco, ma cose significative: il primo articolo pubblicato su un cartaceo, la prima intervista, cose così. 

2011-2015

Nel momento in cui prendo gusto all’idea di scrivere, le responsabilità dentro la redazione diventano tali da non lasciarmi il tempo per farlo. Passo gli anni a chiedere a persone che lavorano fuori dalla redazione di scrivere cose che vorrei scrivere io. Ogni Capodanno mi dico che basta, l’anno prossimo scriverò di più, delegherò tutto il resto. Appena lo faccio, mi ritrovo un’altra cosa da fare che non è scrivere. Roba bella alcune volte, enormi dita nel culo altre volte. Nel 2015 trovo una collaborazione con un mensile, che dura 4 mesi perché poi cambia direttore e quello nuovo mi schifa. Nel frattempo, il provider del mio blog fa saltare in aria i server, con mio enorme sollievo.

2016-2017

Entro in un’altra redazione, dove sono già disillusa dall’idea di scrivere più spesso di quanto facessi nella precedente, ma dato che nel frattempo ho iniziato a lavorare come autrice per un programma comico mi dico: devo scrivere più cose comiche. Per farci cosa non è dato sapere. Magari sui social? Magari sì, ma tanto non lo faccio. La realizzazione del proposito di scrivere nel 2017 potrebbe arrivare a una svolta grazie a un licenziamento arrivato a sorpresa. E invece sono troppo impegnata ad andare in sbattimento per la partita iva per fare qualsiasi altra cosa.

2018-2019

Compresi i meccanismi della partita iva (o meglio, arresa al fatto che non esiste partita iva senza angoscia), il proposito si concretizza nel rimettere insieme un paio di contatti per pubblicare dei pezzi mentre faccio altri lavori. Questa attività costituisce circa l’1,5% dei miei guadagni – non solo perché paga poco, ma pure perché lo faccio poco. A furia di frequentare comici, nel 2019 la formulazione di questo buon proposito prosegue con “per provare a fare stand-up”, ma il dio della procrastinazione mi ha preservato da una figura di merda. A fine 2019 mi regalano un abbonamento a Masterclass, la prima cosa che faccio è guardare la serie di lezioni di David Sedaris dove ribadisce quello che dice in tutte le interviste: lui scrive tutti i giorni, prende appunti costantemente. Dice che ogni testo che scrive viene riscritto almeno 6-7 volte, anche 10. Io non ho manco voglia di rileggere quello che scrivo alla fine della prima stesura, figurati. Mi chiedo se questo proposito abbia poi così senso.

2020

A Capodanno bevo e poi rilancio: è l’anno giusto per scrivere un libro. Per puro caso azzecco sul fatto che è un ottimo anno per stare chiusi in casa a scrivere, ma l’angoscia del lockdown non mi permette di farlo, poi quando il lockdown finisce c’è il tempo all’aria aperta da recuperare, e insomma ci siamo capiti. In un momento di follia pubblico un racconto su un sito di self-publishing e succede un miracolo: arrivano delle persone a chiedermi di scrivere cose. Scopro che funziono solo con il senso di colpa. Non è l’anno in cui scrivo di più, ma è quello in cui scrivo delle cose che davvero mi interessano: i cazzi miei. Qualcuno mi chiede se ho “cose nel cassetto” da fargli leggere, vorrei metterlo in contatto con la me nell’universo parallelo in cui si realizzano tutti i buoni propositi, che ha cassetti pieni di racconti e non ha mai superato i 55 chili di peso.

2021

Ribadisco il buon proposito del libro, di cui non ho manco aperto un file Word, poi mi guardo attorno: tutte le persone della mia cerchia hanno pubblicato o stanno per pubblicare un libro (non tutte-tutte, ma più del 50% sì). Comincio a farmi domande sull’editoria, sul senso che può avere pubblicare un libro in un momento così pieno di libri, sulla percezione della scrittura umoristica. Tutte domande che mi faccio invece di scrivere.A un certo punto mi viene un coccolone per cui finisco in ospedale un mese e mezzo, unico periodo in cui non scrivo senza sensi di colpa perché c’ho la scusa che non va un braccio. Appena esco a dicembre scrivo un raccontone per un giornale, la mia fisioterapista mi dovrà rimettere a posto la spalla per le successive tre sedute, ma è una grande soddisfazione. Quattro giorni dopo è l’ultimo dell’anno.

2022

Parto carica a pallettoni, prometto cose a chiunque, poi ogni volta che mi metto alla scrivania mi vengono dei fastidiosissimi formicolii al braccio sinistro, lascito del coccolone e spiegati con dei “boh” dai medici. Fino ad agosto io vorrei solo parlare con la psicologa e farmi scrocchiare dal fisioterapista, ma ho promesse da mantenere. In autunno il mio neurologo mi dice che va tutto bene, e allora con slancio mi risiedo alla scrivania e mi faccio prendere dalla foga, finché dopo circa 3 ore non mi ricordo che aver scritto è bellissimo, scrivere no. Allora mi alzo per fare una pausa di circa 72 ore e poi riprendo, non riuscendo a mantenere un sacco di promesse.

2023

Il 2 gennaio scrivo su un foglio che quest’anno devo scrivere tutti i giorni, poi mi prendo due giorni di ferie dal mio proposito. A seguito del secondo buon proposito, “diventa più diligente”, mi metto a recuperare gli arretrati del 2022, tipo questo testo qua, che è l’arretrato più veloce da smazzare. Ne ho un altro da chiudere entro un mese. Se riesco a chiudere quello, stai a vedere che è l’anno in cui ricomincio a guidare – perchélimitarsi solo a danni virtuali?

ARTICOLO n. 4 / 2023

IMPARARE A NUOTARE, ANCORA UNA VOLTA

L'anno che verrà

Doveva esserci una luna piena appesa sopra la vasca, ma il bagnino mi dice che l’hanno tolta da tempo, che era un’installazione temporanea. C’è ancora però l’enorme donna di Maurizio Cattelan, un murale che copre una parete intera della struttura già di suo monumentale. La donna è distesa sotto al pelo dell’acqua come se fosse sotto a una coperta. Di lei emergono solo le mani, pacificamente poggiate sulla coperta-acqua, e il viso, che è rivolto verso l’alto mentre le pupille sono rovesciate di lato, cioè verso chiunque entri in piscina, e anzi è uno di quegli sguardi che fissano l’osservatore in qualunque punto si trovi. Mi avevano parlato della piscina Cozzi alcuni amici che la frequentano, uno di loro la chiama “il mare” per via della profondità della vasca che arriva a cinque metri dal lato dei trampolini per i tuffi. Costruita in epoca fascista, con la conseguente grandeur architettonica, mi è sembrata abbastanza solenne per frequentarla senza fare troppo caso a me e al mio proposito per l’anno in cui compirò quarant’anni, che è il prossimo, ed è anche l’anno in cui voglio imparare di nuovo a nuotare.

Per molto tempo, l’ipotesi di frequentare una piscina per il nuoto libero amatoriale mi è parsa impraticabile, a causa dell’affollamento sentimentale che cova dentro a ogni cosa, nell’odore di cloro e vapore, nel segno del costume sulla pelle, in quel particolare tipo di rimbombo delle voci nelle vasche coperte. Sono stata una nuotatrice per una manciata di anni, che a pensarci adesso sembra trascurabile, ma che l’economia della memoria tende a far pesare più di tutti gli altri nella costruzione di sé. Ho cominciato da piccola, in una piscina affacciata sull’Arno, a Firenze, in un settembre degli anni Ottanta, come tanti bambini costretti a buttarsi in acqua controvoglia perché ai loro genitori era stato raccontato che “il nuoto è lo sport più completo”. Avrò avuto quattro anni quando fui iscritta al primo corso, che aveva la sola pretesa di insegnarci a gestire la respirazione dentro e fuori dall’acqua o, nel gergo dei maestri di nuoto per bambini, a fare le bolle. Prima attaccata al bordo e piano piano, galleggiando sorretta da qualche adulto di cui ho rimosso il nome e le sembianze, facevo dunque le bolle con la faccia sott’acqua, spingendo fuori l’aria con impegno, e riemergendo con la disperazione che preme alla fine di ogni respiro, prima che l’ossigeno rientri in circolo. La bambina ha un’ottima confidenza con l’acqua, dicevano a quanto pare le figure preposte, e questa apparentemente laterale caratteristica della mia persona finì per inchiodarmi al nuoto per i dieci anni successivi, e rendere la piscina un paesaggio costante di quel periodo di straordinarie trasformazioni in cui da bambini si diventa adolescenti. Una volta entrata nella squadra agonistica mi allenavo tutti i giorni e d’estate, appena finiva la scuola, due volte al giorno, mentre nei fine settimana c’erano spesso le gare regionali, che mi regalavano risvegli alle sei del mattino per essere alle otto a Carrara, a Livorno, a Certaldo. Facevamo il riscaldamento nell’acqua fredda di queste vasche di provincia, dove tutte le squadre si allenavano in contemporanea in un drammatico carnaio, e poi convivevo per le ore seguenti con un misto di noia e tensione in attesa della convocazione ai blocchi. Non ho mai provato gioia o divertimento a gareggiare, anzi, la descrizione più accurata vista da qui è che ero insofferente a ogni cosa di quelle giornate campali, e desideravo solo il momento in cui dopo la doccia piazzavo la testa sotto i phon a parete degli spogliatoi, e chiudendo gli occhi nel getto di aria calda sapevo che era finita. Detestare le gare non mi impediva di continuare a nuotare e di passare le estati insieme ai miei compagni di squadra a ciondolare sul bordo della piscina affacciata sull’Arno, quando finalmente la scoprivano e il fiume si vedeva davvero. Era riservata ai soci della squadra anche quando diventava una piscina di svago ed era il nostro territorio, ci sentivamo al centro del mondo, veneravamo Aleksandr Popov e odiavamo Gary Hall Jr., guardavamo le pubblicità di automobili con Franziska van Almsick e ci sembrava che il nuoto esaurisse l’universo del conoscibile, o almeno di quello che contava. Lasciai la squadra a quattordici anni, appena la vita liceale mi parò davanti altre più interessanti forme di intrattenimento, e non ci furono drammi perché ero dopotutto una nuotatrice media, senza speranze di diventare professionista. In qualche modo sotterraneo, però, mi sono sentita una nuotatrice sempre, per la forma che il nuoto aveva già dato al mio corpo, delle spalle larghe quasi maschili, perché è intorno a una piscina che ho iniziato a sperimentare alcune emozioni di base e, più di tutto, per quella confidenza con l’acqua che è rimasta intatta, nonostante io abbia evitato di frequentarla.

La donna di Cattelan mi fissa mentre rincalzo i capelli dentro la cuffia di silicone, e poi mentre regolo gli occhialini, e poi mentre deposito le ciabatte vicino al bordo e cerco di individuare la corsia meno affollata. Le prime vasche vanno via come niente e mi danno il tempo di illudermi che sia tutto ancora lì, l’arco della bracciata, la spinta delle gambe, c’è un istinto dei movimenti che si è conservato, li riconosco. Il problema, me ne accorgo quasi subito, è la respirazione: mi tocca accettare l’idea che non so più fare le bolle. La massa di acqua scura che si apre sotto di me dove la vasca è profonda cinque metri (eccolo, “il mare”) mi dà una specie di vertigine e mi porta a cercare l’aria dopo ogni bracciata. Dopo pochi minuti, sono in affanno. Non riesco a nuotare piano come vorrebbero i miei polmoni, e il respiro si spezza, si fa irregolare, manca. Due vasche e ferma, due vasche e ferma. La Cozzi inoltre non incoraggia il fermarsi a riposare: non si tocca da nessuna parte, il bordo è molto alto rispetto al livello dell’acqua, bisogna proprio appendersi, e i cordoni che separano le corsie (in realtà si chiamano corsie anche quelli, è scarno il lessico del nuoto) sono troppo grandi e tesi per potercisi sbracare sopra come fa ogni nuotatore da ogni tempo quando vuole riprendere fiato. Nel quadro di sottili prevaricazioni dimensionali che la grandeur architettonica esercita su di me c’è anche ovviamente la lunghezza della vasca, trentatré metri, una taglia anacronistica dagli anni Cinquanta in poi, e che risulta, nella prospettiva psicologica del nuotatore, una normale vasca da venticinque metri dove però lui è diventato più piccolo.

La prima settimana della nuova vita da nuotatrice se ne va col fantasma della me adolescente attaccato addosso: è nella pelle che sa di cloro anche dopo la doccia, nell’acqua nelle orecchie, nel solco che gli occhialini mi lasciano sulla faccia. E mi ricorda anche quanto nuotare in piscina comporti mischiarsi con gli altri, condividere l’acqua in cui speriamo sempre che nessuno pisci ma in cui di sicuro tutti sudano e sputano. Vuol dire mettersi quasi nudi in mezzo a sconosciuti e nella fatica diventare un tutt’uno.

Charles Sprawson era un autore inglese che all’inizio degli anni Novanta scrisse un libro per ripercorrere la vita e le imprese di alcuni scrittori e poeti che sono stati anche nuotatori intrepidi – e nella cui scia si inserisce volentieri, raccontando di essersi cimentato lui stesso nella traversata dello stretto dei Dardanelli e del fiume Tago. Il libro, che si intitola Haunts of the Black Masseur (tradotto con L’ombra del massaggiatore nero da Adelphi nel ‘95), racconta come il nuoto, celebrato in epoca classica, cadde poi in disgrazia, per essere riscoperto solo all’inizio dell’Ottocento, quando in Europa, e in particolare gli inglesi, impararono di nuovo a nuotare. La rinascita del nuoto passò anche dal diventare attività prediletta di alcuni poeti romantici come Byron, Shelley, Swinbourne, e un esercizio di sfogo e libertà per altri letterati successivi, tra cui Flaubert, Zelda Fitzgerald, Tennessee Williams. Il nuoto che racconta Sprawson non è lungo le corsie di una piscina, ma attraverso mari e fiumi o sotto le cascate, è una fonte di ribellione e di scoperta, di estasi e rischio, è una materia per avventurieri e sperimentatori.

Leggendo le storie dei nuotatori eccentrici mi sono ricordata di un episodio, verso la fine del mio periodo di agonismo. Durante una gara, credo i duecento stile libero, la cuffia cominciò a scivolarmi via. Nuotai una parte della gara con la cuffia calata a metà testa, una cosa che mi innervosì moltissimo, finché interruppi le bracciate e mi fermai per sfilarmela del tutto, scaraventandola via insieme agli occhialini come si potrebbe lanciare un pallone da pallanuoto. Feci ovviamente un tempo pessimo, anche per questo gesto che non aveva alcun senso e che ancora oggi non riesco a spiegarmi, e mi trascinai piena di vergogna davanti all’allenatore che se non ricordo male non infierì, forse anche lui spiazzato dalla mia teatralità estemporanea. Non mi stupisce che sia uno dei ricordi più nitidi del mio passato sportivo, ma è curioso che al di là del gesto mi ricordi la sensazione di quelle ultime due vasche senza cuffia e occhialini, l’adrenalina della gara sommata a quella del comportamento irregolare e la sensazione di sentire l’acqua molto meglio di prima. La sola ad avere il coraggio di rivolgermi la parola in merito fu la madre di un mio compagno di squadra che vedendomi passare mi disse, è stato un lancio bellissimo, come una danza. Allora mi parve una forma di commiserazione perché avevo poca fiducia nella fantasia degli adulti, ma col senno di poi quel gesto mi sembra l’unico squarcio di ribellione del mio periodo agonistico, e l’unico punto di contatto tra la nuotatrice di allora e quella che vorrei essere nell’anno che verrà.

Parlando di nuoto con un amico che frequenta la Cozzi da anni, lui mi dice che mentre va su e giù per le vasche ha lunghi dialoghi con se stesso e che ne ricava degli effetti meditativi. La ripetitività del nuoto si addice a questo uscire dal corpo, ne sono certa, e mi fa pensare che i nuotatori amatoriali si possano distinguere in chi mentre nuota pensa ad altro, vaga per le altezze dei pensieri, e chi pensa solo ai movimenti, al corpo che sente l’acqua. Per me, che appartengo ai secondi e che non sentivo l’acqua da più di vent’anni, si tratta di rientrare nei gesti vecchi con un corpo nuovo, che non è solo invecchiato ma che rispetto alla nuotatrice ragazzina a cui tutto doveva ancora succedere, ha vissuto dolore, eccitazione, depressione, amore e che da tutte queste cose è stato trasformato. Che deve imparare a prendere aria e buttarla fuori, e poi a vivere il nuoto come una danza. Mi sembra una cosa tutto sommato avventurosa. Non c’è uno stretto da attraversare ma almeno ho “il mare”, una donna gigante che mi fissa e qualche ombra con cui fare pace.

ARTICOLO n. 3 / 2023

NOTIZIE DAI BUCHI NERI

L'anno che verrà

Fine novembre 2022. O giù di lì.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sull’anno che verrà. 

Ho risposto, da sconsiderato che sono: «sì, ci sto, ti ringrazio!»

E subito dopo mi sono sentito in una posizione temporale falsata.

8 dicembre. Premessa escatologico/comunicativa.

Per reazione alla proposta, seguendo la mia naturale capacità di essere pigro e di procrastinare, ho pensato di scriverne uno sull’anno che non verrà. Ma è un pensiero eccessivamente ottimista. Potrebbe invece arrivare, e pure in perfetto orario. Mi sconsiglio di far propositi proprio nel giorno in cui la terra segna il suo giro attorno al sole, di solito è previsto molto traffico.

Ripenso al primo anno di pandemia, all’agendina Moleskine di quel 2020, rimasta praticamente intonsa, poi rivenduta su EBay in un Black Friday dove avevo scritto che il Faust è un buon dramma perché mostra che non c’è bisogno del Black Friday per fare pessimi affari. Se solo ripenso che fino a poco tempo fa si profetizzava ripetendo che dalla pandemia “ne usciremo migliori”, come nelle scene dei film dove il malcapitato abbandonato in un bosco di notte, per farsi coraggio ad attraversarlo, canticchia tra sé una canzone per tenersi compagnia ma neanche troppo forte, per paura che il mostro lo trovi e se lo mangi tutto, se solo ci ripenso mi viene una malinconia, ma una malinconia! Ho avuto, in quel periodo, l’illusione che il futuro abbia avuto luogo esattamente come quando si ha l’illusione che una comunicazione importante fra due esseri sia esistita, come nella brevissima parabola di Kafka Un messaggio dell’imperatore: Kafka da del tu proprio al lettore, dicendogli che un imperatore morente da un regno lontanissimo ha affidato a un messaggero valoroso il suo ultimo, decisivo messaggio, e questo messaggio è rivolto a lui, al lettore, identificato nell’ultimo dei suoi sudditi, solo a lui e a nessun altro. Il messaggero affronta nel viaggio difficoltà insormontabili, dispera di riuscire a recargli il messaggio, eppure va avanti nonostante comprenda l’inutilità di ogni sforzo. E il suddito aspetta, continua ad aspettare, non smetterà mai di aspettare. Kafka chiude la parabola così: «Tu, però, resti affacciato alla tua finestra, e al messaggio dai vita nei tuoi sogni, quando scende la sera». Certe mattine in piena pandemia, dopo aver passato notti catatoniche davanti ai catastrofali notiziari TV (quante volte avrò sentito pronunciare dai giornalisti “niente sarà più come prima” con un tono che a furia di sentirlo ripetere aveva assunto ormai un che di morbosamente sadico come il “ricordati che devi morire” al punto che di morire ti dimentichi), mi svegliavo credendo di essermi trasformato come cento anni fa Gregor Samsa in un mostruoso insetto, meglio ancora in un mostruoso inetto, no, cento anni dopo dall’uscita de La metamorfosi, ancora peggio: in me stesso e basta. In Ragno. Ragno Tommaso. Perché il confine tra uomo e animale è arbitrario, ve lo dico da Uomo Ragno.

Senza più a disposizione la casualità che faceva parte della “realtà”. Sapevi esattamente dove eri e in che momento eri. Via dai marciapiedi. Nessun accadimento. Nessuna improvvisazione. Nessun principio di indeterminazione. Braccato nell’armatura di un totale teatro di regia, che è qualcosa di simile a un fermo di polizia. Noia non mancava. Ne accumulavo tanta per il futuro, per quando ne sarei “uscito migliore”. Ma intanto condannato a essere solo e soltanto me stesso tutto il giorno. Nessun “altro da me” da sperimentare sul palcoscenico o sul set. Una metastasi di tempo sprecato, almeno per chi come me fa quel genere di lavoro che non può prescindere dall’essere in presenza e non in remoto. E io in quel momento avevo iniziato a sentirmi più che altro trapassato remoto. Ad aspettare il messaggio imperiale dal futuro. Dal futuro che fu… arrivava un’irrealtà reale creata da QualcunAltro. Un senso di vuoto e il tentativo di descriverlo. E, ancora di più, privato di quello spazio di fuga che sono i set e i palcoscenici in comune ad altri esseri in fuga che sono gli attori, avevo bisogno dell’immaginazione, perché è un’energia che se da un lato crea percezioni non per forza realistiche (per fortuna!) può però condurre alla vera essenza di ciò che è reale. 

Non essendo io un astrologo, né un profeta, tantomeno Iddio e nemmeno così narcisista da poter dichiarare che ne sarà dell’anno che verrà, che cosa da lì ci aspetti, ho chiesto aiuto a un amico filosofo:

«…e che diceva Hegel riguardo al futuro?»
«Che migliora.»
«E Marx?»
«Che peggiora prima di migliorare.»
«E Nietzsche? Che dice Nietzsche?»
«Nietzsche dice che è tutto sempre uguale. Quale preferisce?»
«…mi dia il solito, grazie.»

La sola cosa che mi sento di dire al riguardo è questa: l’anno che verrà dopo il 2022 sarà il 2023. E questo, onestamente, è quanto c’è da sapere. Usando come sistema di misura qualunque calendario, il risultato resta lo stesso. Per me la questione potrebbe finire qui.

Interstellar.

Col tempo ho capito che le risoluzioni, i bei propositi per l’anno che verrà sono delle mannaie, in fondo una forma di odio per se stessi che conduce a un aumento di odio per se stessi quando non riesci a mantenerli. E fare la stessa cosa più e più volte aspettandosi esiti diversi significa o che sei pazzo, o che stai appunto facendo propositi per l’anno che verrà.

La pigrizia ha poi ceduto alla vanità, e allora ho deciso di scrivere lo stesso qualcosa sotto forma di diario-calendario dell’Avvento, come quelli che in questo periodo si vendono con dentro tante finestrelle a sorpresa, biscotti della fortuna cinesi, con tante frasi incoraggianti, tanti cioccolatini giorno per giorno dall’inizio fino alla Vigilia di Natale. Uno tira l’altro in attesa del giorno successivo. Nel centenario della morte di Proust, ne ho comprato uno che contiene delle madeleine, una al giorno, ognuna con un sapore diverso, classiche o ricoperte di cioccolato, o di spezie speciali di cui posso dir gli Orienti e gli Occidenti. E così, di madeleine in madeleine, vedi mai che arrivo a ricordarmi la password dimenticata che mondi possa aprirmi e, mentre le ingurgito con la promessa che ogni sapore mi distorcerà e mi curverà la percezione del tempo e dello spazio, di certo subirò anch’io una distorsione spazio-temporale arrotondandomi di qualche chilo in più. Ma poi, secondo la scoperta di qualche anno fa dei due buchi neri che si scontrano, siamo sicuri che la distorsione di spazio e tempo fu causata da onde gravitazionali o gli scienziati avevano semplicemente appena scoperto l’Amore?

In attesa della risposta, mi dico che quella sensazione di spazio-tempo distorto non deve esser diversa da quando ci si ubriaca. 

Ubriaco d’amore, a questo io brindo.

Le celebrazioni e le ricorrenze in generale sono fatte per ricordare a noi stessi che siamo a bordo di una macchina del tempo: mentre questa macchina procede illusoriamente in avanti, guardo nello specchietto retrovisore per vedere cosa lascio dietro ma anche cosa ancora può arrivare dal passato che ancora attende di esser realizzato.

Per quanto io sappia che esiste la convenzione di un tempo cronologico, faccio finta di niente, nei confronti del tempo continuo a comportarmi come non lo fosse. E dicevo di Proust. Qualche giorno fa ho portato a termine la registrazione dell’audiolibro de Il tempo ritrovato, l’ultimo dei sette volumi de Alla ricerca del tempo perduto, è ritenuto il romanzo più lungo che sia mai stato scritto, anche se probabilmente non quello a esser più a lungo letto. Fatto sta che dopo averlo finito ero arrivato a letto, questa volta non come mostruoso inetto ma in stato di totale proustrazione.

Quando lo si inizia a leggere e si va avanti, si entra davvero in un’altra percezione, in un cortocircuito temporale, è uno di quei libri che si fa insieme a chi lo legge: mentre tu lo leggi anche il romanzo legge te. La lettura che ne fai, l’investimento che fai mentre lo leggi contribuisce a far risorgere quello che sta sepolto dentro quelle pagine (che un libro sia buono tanto quanto lo è il suo lettore è la maledizione dei buoni scrittori e la consolazione di quelli cattivi, ma anche la consolazione degli editori).

Ne faccio quindi una sintesi pecoreccia nonché riduttiva per non proustrarvi a leggerlo:

alla fine del romanzo, il narratore, che per tutto il tempo della sua vita sperimenta amori gelosie delusioni perdite crolli e nascite scoperte nel mondo del sesso dell’arte del linguaggio, sviluppando man mano che cresce prima la sensazione e poi la certezza di non avere nessun talento per la scrittura, verso la fine della sua vita, attraverso degli avvenimenti fortuiti e banalissimi, scopre che tutto ciò che gli era parso “tempo perduto” in realtà non lo era. 

La vita, in tutti quei decenni, aveva creato in lui un capolavoro, si era trattato solo di aspettare, di assecondarla, di lasciarle compiere l’opera. In lui. Da quel momento in poi tutto quello che sembrava un puzzle senza senso comincia invece ad averne. Comprende di essere insieme la miniera e il minatore del tesoro che il tempo perduto ha depositato in lui. E solo allora sente che può finalmente iniziare a fare ordine e comporre l’opera. E che è proprio quella che il lettore per sette volumi ha avuto tra le mani. Solo che il lettore e l’autore lo scoprono insieme alla fine. E la fine e l’inizio coincidono. La ricerca del narratore diventa la stessa del lettore. Proust crea il lettore a immagine e somiglianza del narratore, diventa addirittura il migliore dei suoi personaggi. Sono gemelli. E i tre tempi di presente, passato e futuro confluiscono in una sorta di tempo originario, senza inizio né fine. Si può ricominciare a leggere il romanzo con questa nuova consapevolezza, e chi lo legge o lo rileggerà (anche molti anni dopo) contribuirà a illuminare aspetti che erano sfuggiti. Come farebbe un archeologo, il quale lavora proprio coi depositi di tempo e le resurrezioni.

E, a pensarci un attimo, io stesso, senza troppo saperlo, non sono già un elemento di archeologia? Non vivo e lavoro e mi do da fare già inconsapevolmente per il futuro dell’archeologia proprio mentre perdo il mio tempo a vivere? Immagino un archeologo di una civiltà futura che disseppellisce dei resti sul fondo degli oceani che avranno sommerso il pianeta e trova in ciò che resta della mia mano un iPhone 14 waterproof e riscopre l’antico gioco di Super Mario che tra millenni, grazie alla patina del tempo, acquisterebbe un valore strabiliante. Perché è quella la cosa che si compra quando si acquista un oggetto del passato ed è ciò che le conferisce un valore esclusivo e irripetibile: la patina. 

Di fronte all’“anno che verrà”, appena ci penso, mi torna in mente un fatto per me decisivo: mi viene la stessa espressione facciale di Bob Dylan durante la registrazione della canzone We Are The World, che usciva proprio sotto il periodo natalizio del 1985, un’iniziativa capitanata da Harry Belafonte, Bob Geldof, Michael Jackson e Lionel Ritchie per “U.S.A. For Africa”. In quel momento (il video lo si trova su YouTube), la faccia di Dylan, in mezzo a un coro di all star della musica che cantano, alcune commosse, altre commosse e dolenti, ma in generale felici e sorridenti, appare evidentemente stranita, perduta, allibita, sembra la faccia di un attore che chiede perdono a Dio perché non sa quello che dice, che si è scordato le battute da dire e cerca di non darlo a vedere mentre il pubblico lo guarda, lui butta gli occhi a destra e a sinistra in cerca di un suggerimento o di una quinta da dove uscire ma niente da fare, è braccato in mezzo al coro che ripete ottimista che “We Are The World”. A un certo punto, circondato e sballottato da quella gioia corale attorno a lui, il suo sguardo diventa vitreo, narcotizzato, quasi demente, fisso davanti a sé verso un orizzonte cieco, dal labiale si intuisce che è totalmente fuori sincrono, e allora sembra non cantare quasi più, è oramai rassegnato, nonostante sia lì per una più che buona causa, sembra uno svegliatosi di botto, dopo un sonno di decenni, in un paese di cui non capisce la lingua, la faccia di uno che si sta pentendo di sposarsi quando è ormai all’altare, la faccia di uno che è stato troppo a lungo nel mondo da avere ormai smarrito la strada per sempre. 

Penso alla sua Blowing in The Wind, una canzone che pone domande capitali su, per esempio, cosa ci vuole perché le guerre finiscano per sempre o quante orecchie deve avere un uomo prima che possa accorgersi della gente che piange. E a tutte queste domande enormi il suo famoso refrain ripete in tono lieve, gentile e profondamente compassionevole che “la risposta, amico, la puoi sentire soffiare nel vento”. 

We Are The World, che pure ha temi molto simili, presume di essere invece la risposta. E se Dylan può essere un mistero, non appare esser invasato da pia illusione. Di qui la sua faccia alienata in mezzo a un coro che canta “Noi Siamo Il Mondo”. È solo una mia interpretazione, forse tutto questo non c’è, forse era solo inorridito da quella musica e tanto basta. E sarebbe una ragione sufficiente. Anzi l’unica che interessi, se è vero che il fatto etico ed estetico coincidono. Ad ogni modo, la faccia di Bob Dylan che pare dire “Io non sono qui” con quell’espressione facciale alienata sotto Natale e poco prima dell’anno nuovo è l’unica cosa che almeno posso dire di condividere, io e Bob Dylan, contro l’egorìo della vita moderna. 

«Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi tiene a terra dovete ubriacarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi. E se talvolta sui gradini di un palazzo, nella tetra solitudine della vostra stanza vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle agli uccelli, all’orologio, a tutto ciò che fugge, che geme, che scorre, a tutto ciò che canta, che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l’orologio vi risponderanno “È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo”. Roba da Fiori del male di tale Baudelaire, poeta, mistico, ribelle, sostenitore del libero amore, melanconico, ubriacone, fondamentalmente un utente Tinder del XIX secolo se fosse vivo oggi, scrivesse sui social e fosse commentato dai forzati alla ricerca della felicità sponsorizzata. 

Se dicessi che viviamo in tempi di incertezza, sarebbe un eufemismo. Perciò non lo dirò. Ops, l’ho appena detto. Davvero l’ho detto?

Per secoli si è sbattuta la testa contro i muri per rispondere alla domanda profonda ed elementare di Shakespeare: essere o non essere?

E ci siamo riusciti? Come no! Anzi, alla ricerca di ulteriore grandezza, siamo andati oltre la semplice scelta binaria. Grazie all’umano ingegno, oggi è possibile avere entrambe le opzioni: essere e non essere. Negli anni ‘80, al tempo delle prime segreterie telefoniche incorporate, la Telecom aveva escogitato una pubblicità irresistibile: su un’immagine dell’apparato telefonico campeggiava questa scritta: Esserci? Non esserci? Nessun problema. Shakespeare, Heidegger, Kafka, “assenza più acuta presenza”, tutto il ‘900 e balle simili risolte in un solo colpo di telefono registrabile. Bisognava aspettare un paio di decenni ancora prima di capire che non c’è bisogno di essere un Lenin per sentirsi dare sui nervi un pochino ogni volta che qualcuno avesse definito uno schermo iPhone di due millimetri più grande una “rivoluzione”. E quindi: esserci e non esserci?

Ma questo non contraddice la logica umana? Niente affatto, almeno secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, pietra angolare della meccanica quantistica che afferma un limite fondamentale alla certezza della conoscenza. Secondo questo principio non è possibile determinare sia la velocità che la posizione delle particelle (bosoni, elettroni, quark, etc.) contemporaneamente. Come quando da Amazon possono dirvi lo stato dell’ordine fatto o la sua posizione ma non tutt’e due le cose. Dato che è impossibile sapere se la posizione del vostro ordine è X o X, allora quell’ordine può essere sia in posizione X sia non essere in posizione X, simultaneamente. Perciò “essere e non essere”. Capito?

Alla faccia dell’incertezza. Io, che senza occhiali alla guida non vedo una ceppa, se li tolgo sembro assumere lo sguardo assorto e compresso come fissassi la vastità nebbiosa della Val Padana in novembre, ma in realtà in quel momento sto solo cercando di aguzzare la vista per evitare di andare a sbattere contro un palo, ecco io in quel momento, senza saperlo, sto applicando il principio di Heisenberg. Si può applicare anche alla recitazione, nel rapporto tra testo, attore e personaggio, quando si dice che l’attore non deve sapere già quello che il personaggio farà e dirà. All’anno che verrà in attesa di segni numinosi con la retorica motivazionale di multinazionali del male e del banale. Nei versi di Montale si trovano spesso concetti di fisica dei primi del Novecento. In Tempo e tempi, per esempio: 

Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

E grazie Eugenio, ma qua non si è sicuri in nessun luogo, nemmeno per le coincidenze in un aeroporto.

Congiunzioni gastro/astrali.

Qualche anno fa, il firmamento regalò un evento astronomico rarissimo agli occhi di un terrestre: la più lunga eclissi di luna del secolo e una grande opposizione di Marte, il pianeta rosso. Quella congiunzione di corpi celesti fu lunga, spettacolare, ipnotica, l’umano genere poteva assistere alla graduale immersione della luna nella luce marziana che le donava la lucentezza brillante del rosso pomodoro. Il giorno dell’eclissi mi trovavo a trascorrere una serata con amici e familiari in una località del Sud Italia nel cuore della Magna Grecia. Quel luogo, dove le divinità antiche sono di casa, era perfettamente numinoso per accogliere nei nostri occhi quella bellezza interplanetaria che non poteva che suscitare riferimenti a teogonie, segni divinatori, riflessioni su chi siamo cosa siamo dove andiamo insomma anche lì l’occasione era perfetta per distorsioni spazio/tempo, o altrimenti detto: per darsi al bere. E ancora più gradita mi era l’occasione per esser stata accompagnata da una cena con una pasta al pomodoro di bontà ineffabile, che mio figlio allora seienne aveva gustato con infinita beatitudine. Dopo le libagioni, uscimmo tutti a riveder le stelle per contemplare la luna rossa nell’infinito in un silenzio redentore. Mi ricordo un mio caro amico e mio figlio di spalle che guardano il cielo. Dopo un lungo silenzio l’amico fa a mio figlio: «Vedi? Un giorno ricorderai questo momento epocale nella storia e potrai raccontare di avere visto l’eclissi di luna rossa». Dopo un altro lungo silenzio, sento mio figlio proferire lentamente, mentre osserva la luna, ispirato, assorto, sacrale, sotto i cieli noncuranti: «Io invece mi ricorderò la pasta al pomodoro».

Signori, il pranzo è servito! È stato un momento rivelatorio davanti al quale mi sono inchinato non tanto per rispetto di fronte al cuore semplice di un bambino, ma perché ho visto in atto che nemmeno un prodigio celeste, per quanto bello, riesce a generare quel senso della durata, la pura sensazione di vivere, quella quiete che è data, insieme al piacere del carboidrato (sempre sia lodato), dalla scoperta dell’ovvio, insito in un gesto quotidiano, qualcosa che si condivide con milioni di altre persone, facendo cose che diventano parte del pulviscolo del tempo, perfettamente ignorabili, e che senza accorgersene riportano sulla cosiddetta via maestra dei giorni a venire…

ARTICOLO n. 2 / 2023

COSA FARÒ DA GRANDE

L'anno che verrà

Fin da bambino, sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande era un mantra che esaltava la mia dote di indecisionista cronico. In mio soccorso arrivavano gli incarti delle gomme da masticare (per tutti noi si trattava delle “cicche”, la parola chewing gum a Castelleone, nel 1971, era al di là dal venire). In quelle cartine uscivano dei pronostici del nostro futuro, ne ricordo alcune: “da grande farò l’astronauta” (disegno dell’astronauta) oppure: “farò lo scienziato” (disegno dello scienziato con camice e occhiali), la più ambita tra i miei amici: “farò il calciatore”. Di tutti e tre i pronostici, il più credibile per il sottoscritto era l’astronauta. Poter partire per la luna era più plausibile che giocare una partita di pallone e questa cosa la dice lunga sulla mia empatia con qualsiasi gioco di squadra, d’altro canto lo scienziato evocava anni di studi e di formazione, quindi anche no.

Sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande valse sino alla soglia delle scuole medie, da lì in poi si cominciò ad accantonare la fantasia per iniziare a fare sul serio, ovvero a inquadrarsi socialmente.

Di fatto la scuola superiore ti indirizzava inesorabilmente verso una professione. I pragmatici istituiti tecnici avevano dei nomi che comodamente si traducevano in lavori: perito meccanico, geometra, ragioniere, e via così; quelli tra noi che potevano permettersi di fare i sognatori andavano ai licei.

In una di queste scuole tecniche, un professore, all’approssimarsi della fine dell’anno, ci chiedeva di formulare dei propositi per l’anno nuovo. Ricordo la mia desolazione nel saper allineare solo qualche povero pensiero relativo al miglioramento scolastico. Nessuna tensione ideale verso il futuro, solo la speranza di cavarmela senza esami di riparazione in modo da mantenere intatto il patrimonio dei giorni delle vacanze estive.

In realtà non facevo altro che rimandare l’appuntamento con le scelte definitive, mi sembrava di camminare su un trampolino da tuffi olimpici, passo dopo passo l’assicella prima o poi sarebbe terminata, vivevo quel tempo di sospensione come un condannato all’indecisione. E quel trampolino si prolungò sino nei paraggi della facoltà di Architettura, che scelsi solo in virtù di una incerta propensione per il disegno tecnico. A una debolissima vocazione verso l’architettura arrivò perentoria e provvidenziale la cartolina precetto che mi spinse giù nel baratro, non di una piscina, ma di un’enorme caserma operativa in quel di Bellinzago Novarese, e per dodici mesi qualcuno avrebbe deciso per me cosa avrei dovuto fare, come vestirmi, cosa mangiare, financo cosa pensare. 

Ricordo ancora lo smarrimento di ritrovarmi, dopo 52 settimane, fuori dalla porta carraia e in abiti civili, una bella giornata di sole con un borsone pieno di indumenti da lavare e un foglio di congedo che si traduceva in una parola con cui non avrei voluto avere a che fare, ovvero: libertà.

Ma alla fine ci si abitua a tutto, anche ad accettare che tra te e la tua vita non ci sia più nessun ostacolo, così dopo aver assecondato il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Difesa, ora mi toccava in sorte il Mistero dell’affrontare scelte mai fatte.

In realtà non successe niente di epico tra me e il mio futuro, nessuna scelta radicale, niente partenze per l’India per cercare se stessi: si comincia ad aiutare un cugino architetto, a frequentare oscuri corsi serali di disegno industriale, a limitarsi a tastare il terreno attorno per verificare cosa può sedare per un momento l’insoddisfazione per ciò che non si è, per ciò che non si ha. In questi casi si dovrebbe parlare di sopravvivenza, ma, se torno a quei giorni, più che “sopra(v)vivere” mi sembrava di vivere al di sotto di tutto. Ma si sa, il tempo è un medicinale che non richiede prescrizione medica, e così l’idea del futuro, e che cosa fare “dopo”, si assopiva lentamente tra impegni quotidiani, scelte subite (tante) e scelte in proprio (poche).

E poi, è tra le pieghe del tempo “minore”, ovvero del tempo non segnato da eventi epocali, che la vita prende sapore e una direzione. Il “che cosa farò?” diventa un “fare quotidiano” senza troppe sovrastrutture, e così ci si accorge che ciò che da sempre era un’innocente evasione (disegnare oggetti e in molti casi realizzarli) poteva diventare un lavoro in grado di dare un senso a tutto il casino combinato prima. E così è stato.

Ma che fine ha fatto l’insoddisfazione che mi ha sempre perseguitato? A dire il vero è sempre qui con me, si dice che se non si riesce a uscire dal tunnel convenga arredarlo. Nel caso della mia insoddisfazione cronica, non potendo guarirla l’ho accettata. In qualche modo, non essere mai pienamente soddisfatti di ciò che si è e si fa è uno stimolo per migliorarsi (mettiamola così).

Nonostante questo apparente stato zen che mi auto-attribuisco, quando comincia a profilarsi la fine dell’anno, l’idea di dare una sterzata alla vita, iniziare l’ennesima dieta, provare a programmare scelte (vegetarianismo, finire tutta la Settimana Enigmistica, affrontare LRecherche, riordinare l’archivio e così via…) sono scampoli di decisioni che potrebbero concedere l’illusione che si è ancora padroni di mischiare le carte della propria vita. Ma poi, tra armadi da sistemare, l’aprire e il richiudere in fretta uno dei tanti libri di Proust, si affaccia una domanda a cui non so rispondere, ovvero: da quando ho barattato il mio futuro e le scelte radicali con questi piccoli e asfittici propositi?E soprattutto: Perché nessuno mi chiede più che cosa farò da grande? Ma ancor di più: perché non comincio io una buona volta a chiedermi cosa fare da grande?!

ARTICOLO n. 1 / 2023

NON SO PERCHÉ STO PRENDENDO QUESTO TRENO

L'anno che verrà

Sto comprando questo pane bianco pieno di mollica che si chiama pane per toast e non c’è nessun umano per pagare al supermercato della stazione, devo farlo con la voce robot della cassa, che ha solo la voce, non dorme, non mangia, non sa neanche che cazzo sto comprando, non sa la differenza tra una scatoletta di tonno e un sogno. 

C’è poco tempo prima che parta il treno, tipo 8 minuti. Ora saranno 7. Sto pensando di lasciare giù la confezione ma non ci riesco perché ho il cervello in granelli e c’ho fame. Ho scelto questo pane perché è quello più vicino alle casse, si chiama pane per toast e sta dentro a un contenitore di plastica, a forma di baule, non so come dire, a forma di armadillo visto dall’alto senza testa, senza coda, senza squame, non ha niente di vivo, non sembra neanche che lo puoi mangiare, sembra fatto di cera e gel per capelli. 

Penso di rubarlo, di non pagare, per una volta. L’ho già fatto da piccola, da Body Shop, avevo rubato delle palline di bagnoschiuma che si sciolgono nella vasca. Le avevo nascoste nella borsa di mia nonna così se qualcosa andava storto, beccavano lei. In quel periodo se avessi avuto della droga le avrei messo in borsa pure quella, alla stazione, così la mettevano in prigione e io potevo farmi i cazzi i miei per tutti i pomeriggi da lì in poi. 

Alla fine pago sti 330 grammi di pane chimico e corro con il pane, le valigie, il cellulare in mano tutto scarico, io mezza rotta con uno strappo alla spalla, c’ho il ciclo che è appena arrivato quindi è più forte di me, più forte di tutto quello che posso mettere tra lui e il mondo, chissà cosa sta succedendo lì sotto, chissà cosa percepisce il mondo di quello che sta succedendo lì sotto, è meglio non chiedere, è meglio non sapere, è meglio proseguire con l’arroganza della fretta e l’innocenza della ferritina sempre più bassa fino a svenire.

Devo salire le scale mobili, arrivare alle porte meccaniche che si aprono solo se scannerizzo proprio bene il biglietto del treno, che è sul mio cellulare, che ha il due per cento di batteria. Mi trascino dietro ‘ste due valigie che porca puttana mi pare si odino, all’inizio non era così, ma adesso che sono state insieme parecchio, una sopra l’altra, una sbattuta sull’altra, porca troia non si sopportano più, era ovvio che non potevano innamorarsi, non mi aspettavo questo, né scopare, perché appunto sono delle valigie e le valigie non fanno queste cose, le valigie rotolano se hanno delle ruote, e queste due in particolare rotolano sempre una da una parte e una dall’altra. 

Ai binari e mi accorgo che il mio treno è in ritardo di 120 minuti. Controllo il cartellone luminoso e c’è scritto davvero 120, non 12, non 0,12 perché non è un compito di chimica di quando andavo al liceo e mi piastravo i capelli, c’è scritto proprio 120. Nell’economia di una vita due ore non sono poi così tante, ne ho sprecate tantissime, riempite di ogni cosa che trovavo per terra, che trovavo a caso, che mi facevano niente e ora mi fanno vergogna, ma non so perché queste due ore mi fanno proprio girare le palle. Così incazzata, piena di pane, di pesi, di stracci, di strappi e di sangue, mi reco al piccolo chiosco per i cambi last minute. Quando mi indicano l’infopoint, lo chiamano proprio chiosco: io lo so che non l’ha fatto apposta il capo dei biglietti a chiamarlo così, ma porca puttana, ci sono due gradi e sto sudando dal freddo, se dici chiosco è perché stai per comprare un gelato fior di fragola o una Piña colada, dovevo restare piccola e andare al chiosco dei giornalini, chiedere se è già uscito W.I.T.C.H. di questa settimana, potevo aprire un chiosco delle limonate e fare un sacco di soldi, ma non potevo restare piccola, siamo sicuri che non potevo? Forse qualcuno ha trovato un modo e nessuno gli crede perché è piccolo.

Non sento più niente per un attimo, poi un altro brivido di freddo, la voce metallica che annuncia un altro treno in ritardo dopo il mio – giuro, non ne sono felice, non sono fatta così –, le luci della profumeria Douglas, menomale che ci sono un sacco di profumerie perché forse puzzo, l’adrenalina, il pile, gli ormoni. Mi metto in coda all’infopoint come una appena morta, tanto c’ho 120 minuti da aspettare, non 12, né 0,12 porca puttana. Succede questa cosa: che davanti a me c’è un signore di 70 anni con la sua mamma, e la sua mamma ne ha 95 e fa fatica a stare in piedi. Il signore chiede a due tipi davanti se può passare perché la sua mamma ha 95 anni e lui deve solo cambiare il biglietto, il tipo risponde che anche lui deve solo cambiare il biglietto, poi si gira dall’altra parte. 

Allora penso che forse potrei ficcargli su per il culo il suo biglietto, così che mentre prova a toglierselo, i miei due nuovi amici possano superarlo; l’immagine diventa troppo grafica da sostenere e quindi smetto. Guardo il tipo cattivo e mi sembra sempre più disgustoso, con quel naso patetico, quel cappellino patetico, vorrei dirgli che non me lo scoperei neanche se fossi un criceto. Poi posso dire, lo so che non tutti hanno il lusso di 120 minuti da aspettare, però merda c’è modo e modo di rispondere, ma poi chi cazzo ti aspetta per Natale che sei così patetico? Mi dedico alla signora di 95 anni, perché anche io avevo una nonna, anche se le avrei messo la droga nella borsa, ora che sono più matura e lei è morta, ho cambiato idea. Quando li sento parlare immagino tutto quello che c’è prima: che hanno preparato quel viaggio da tanto tempo per fare una visita al San Raffaele di Milano, e hanno fatto la valigia per bene senza dimenticare niente come fanno le nonne, che poi non riescono a dormire quando lasciano la loro casa e mettono dentro anche le saponette, e sono saliti sul regionale da Anzio a Roma e ora sono lì in quel limbo in cui hanno perso il treno perché porca merda è tutto elettronico, lui c’ha gli occhi grossi con le ciglia lunghe e sembra un bambolotto rovinato. 

La signora non sa dove sedersi allora chiedo alla commessa di Douglas se può darle una sedia e lei la piazza accanto a una renna. Il figlio resta stordito, non sapeva che se si perde il treno si devono comprare due biglietti nuovi e costano 90 euro l’uno, e per un attimo mi dispiace di non essere una che c’ha i pony e una terrazza con i limoni perché sennò avrei rimediato. La signora dell’infopoint mi dice che l’unica soluzione è aspettare, grazie Buon Natale. Chi mi ha fatto il biglietto ha incluso pure l’accesso alla lounge per l’attesa, è un pensiero carino oppure mi ha portato sfiga. 

Arrivo in ‘sta lounge e sono emozionata e penso sia tipo un luna park dell’attesa, che c’hanno allestito dentro una mostra interattiva e posso farmi fare un massaggio alle tempie e ci sono dei gruppi di lettura, invece ci sono solo delle prese, dei divani che sembrano fatti di pelle umana e delle pizzette omaggio, tipo insieme uno studio dentistico e un Battesimo con le pizzette. 

Allora sai che c’è? Fanculo pizzette, io mi mangio il mio pane e apro la confezione con i denti ed esce un odore chimico che a ficcarci dentro le narici secondo me ti sballa di brutto, di brutto, finalmente. Giuro, lo mangio tutto, una fetta dopo l’altra, mentre mi viene sempre più da vomitare. Guardo un ragazzo seduto di fronte a me, ha un cane e un maglione enorme che potrebbe avvolgermi come fossi una piccola tarma, nella lana dolcissima. Ma non lo fa. Lo guardo insistentemente per vedere cosa succede. Succede che arriva la sua ragazza che torna dal cesso e anche questo tentativo di essere nel mondo è rovinato da una che era andata a pisciare, allora mi metto a guardare il loro cane. Manco al cane interesso. Entra un gruppo di turisti tedeschi, non gliene frega niente di me. 

Ma dico, è questo lo spirito del Natale? Ma cosa ci sta succedendo? Non so neanche perché sto prendendo questo treno. So che è Natale e quindi dovrei tornare da qualche parte, per questo ho chiesto di prenotarmi un treno anche se non so dove tornare. Un uomo lavora al suo laptop mentre perde i capelli, una pelliccia con una donna dentro si versa del succo all’ananas. Mi ficco in bocca l’ultima fetta di pane, sono piena da vomitare e vuota da morire, mi accorgo che c’è un controllore all’ingresso che può guardare con una macchinetta quanti minuti mancano: mi sembra la cosa più divertente qui dentro. Tiro fuori il cellulare e la macchinetta non dice niente. Ci riprovo, non dice niente. 

«Non funziona ‘sta roba.»

A quel punto sento chiaramente che la macchinetta fa: 

«Sei tu che non funzioni, puttana.»

Io sinceramente non me l’aspettavo. Ma non solo non me l’aspettavo: non me lo meritavo proprio. È difficile far finta di niente in queste situazioni. Spero di non aver sentito bene, perché comunque ho avuto l’otite da poco e l’ho curata in un modo che ho letto su internet, quindi magari non sono guarita bene. Riprovo a scannerizzare il biglietto: niente.

«Non funziona ‘sta macchinetta.»

La provoco.

«Non funzioni lo dici a tua sorella, puttana.»

Le tiro una manata addosso, la macchinetta cade a terra.

Purtroppo, colpisco anche il braccio del controllore che, probabilmente complice, comincia a lamentarsi. Prima con me. Poi con la collega. Poi una scenata assurda davanti a tutti, come se io fossi matta e volessi solo attenzioni. Finalmente il tipo con il cane mi nota. Poi arrivano altri colleghi e io comincio ad aggredire per difendermi. 

Faccio per andarmene, ma questi sono così caricati che manco io ieri notte stavo così carica, ormai hanno creato una specie di squadra contro di me e dicono che non posso lasciare la stanza perché sta per venire la polizia. Non ho paura dei poliziotti. Perché sono nel giusto. Solo che non posso dimostrarlo. Mi chiedono se ho fatto uso di stupefacenti e mi invitano a seguirli. Perdo il treno perché devo far vedere i documenti alla polizia della stazione, che credo si chiami la stazione della polizia della stazione. 

«Sai che me ne frega, tanto non avevo niente da fare a Natale.»
Dico.

C’è un panettone sulla scrivania, mi viene voglia di tirarci una manata ma alla fine non lo faccio.

ARTICOLO n. 100 / 2022

L’ANNO DEL PENSIERO TRAGICO

L'anno che verrà

L’ultima volta che ho azzardato un pronostico era il Capodanno del 2020 e, guidata da un ottimismo senza precedenti e privo di fondamento alcuno, a mezzanotte mandai lo stesso messaggio ad amici e parenti: “2020 anno della svolta”. E svolta fu, in qualche modo, ma emergenze sanitarie e conflitti mondiali non erano esattamente lo scenario che stavo immaginando mentre, meno ubriaca di quanto mi faccia piacere ammettere, brindavo al mio futuro di certo radioso. Quello che auspicavo – e che auspico la maggior parte delle volte che verbalizzo un desiderio – ha a che fare coi soldi: sogno vecchie zie sconosciute che muoiono lasciandomi una grossa eredità, valigie di banconote depositate sul mio zerbino con biglietti anonimi e per niente minacciosi, grandi fortune economiche che per qualche motivo karmico aspettano solo me. Sono materialista oggi e lo sono sempre stata, da che ne ho memoria, da quando costretta da mia nonna a pregare prima di andare a letto chiedevo a Gesù di regalarmi le Barbie da collezione, da quando a ogni notte di San Lorenzo aspettavo il momento in cui una stella cadente sarebbe piovuta dal cielo conficcandosi nel giardino di casa con un Dolce forno convenientemente legato a una delle sue cinque punte, da quando a Babbo Natale scrivevo lunghe lettere paracule nella speranza che mi portasse tutte le Polly Pocket disponibili sul mercato. Le cose, per me, sono sempre state importanti, e non è cambiato molto in questi trent’anni di vita, i miei desideri si sono solo fatti molto più costosi e ormai si misurano solo in metri quadrati. 

Non che abbia mai sofferto la fame, se fosse stato così a quest’ora forse avrei già avuto il mio momento Rossella O’Hara che stringe in pugno la terra di Tara, e con il coltello fra i denti adesso sarei sposata con un Rhett Butler di Porta Romana (o quantomeno non avrei fatto un master di editoria). Invece ho seguito la più antica delle tradizioni della mia famiglia, che da parte sia di madre che di padre ha storicamente sempre scelto di repellere il denaro in ogni sua forma, costeggiando il benessere e sterzando bruscamente in un’altra direzione ogni volta che ci si avvicinava troppo. 

Qualcuno ha sperato che io fossi diversa. Mio padre raccolse tutte le brochure che riuscì a trovare quando in prima media mi accompagnò alle finali delle olimpiadi della matematica alla Bocconi. Già mi vedeva a invertire le sorti del nostro cognome, io piccolo cervello matematico votato al profitto. Otto anni dopo si sarebbe ritrovato a scortarmi tra vari open day di facoltà umanistiche, prospettive di carriera azzerate, le brochure della Bocconi ormai da tempo riciclate con i cartoni della pizza. 

In compenso, dopo uno di questi open day, passando da Vicolo Santa Caterina – un piccolo angolo delizioso e fiabesco nel centro di Milano – dichiarai che mi sarebbe piaciuto vivere lì, in quella casa gialla con i fiori alla finestra (lo scollamento dalla realtà nella nostra famiglia si manifesta anche nel bramare sempre cose molto al di fuori della nostra portata). Un anno più tardi, per una serie di circostanze favorevoli che rendevano la casa gialla più accessibile di quanto avremmo mai creduto, ci vivevo. 

Dico questo non per bullarmi delle mie fortune immobiliari – che pagherò presto venendo sfrattata dalla mia attuale casa milanese, tema su cui tornerò più avanti – ma per evidenziare una verità tanto irrazionale quanto insindacabile: sono una strega in una famiglia di streghe dotate di blandi poteri premonitori. 

Seguitemi un momento in questo delirio antiscientifico. Ho una nonna che in più occasioni ha sognato la morte di qualcuno, solo per essere svegliata il giorno dopo da spiacevoli telefonate che confermavano la sua visione. La bisnonna, in modo decisamente meno tetro, sognava spesso il padre defunto, il quale però le comunicava ogni volta i numeri vincenti del lotto (come è evidente non erano abbastanza vincenti per cambiare gli equilibri economici delle generazioni successive, ma comunque qualche bolletta ce l’ha pagata). Prima di morire giurò a mio padre che sarebbe tornata a farci visita per renderci lo stesso servizio del trisavolo, ma stiamo ancora aspettando. 

Io, nel mio piccolo, ho un talento per captare vibrazioni negative in situazioni che a posteriori si rivelano sempre parecchio sfortunate. Ho predetto, a modo mio, due incidenti in motorino – con due fidanzati diversi, ad anni di distanza, opposi resistenza a montare sui rispettivi scooter, ci salii controvoglia ed entrambe le volte finii sdraiata su dei sampietrini – un furto e un taglio di capelli (e nel 2020 il crollo dell’Occidente, come abbiamo già visto). Chi era con me direbbe che la storia del furto è un po’ pretestuosa, e non avrebbe tutti i torti, ma facciamola breve: nel corso di una vacanza nei Paesi Baschi avevo espresso disinteresse totale per una tappa dove, mentre contro la mia volontà eravamo a rimirare una scogliera che non avrei voluto vedere, ci rubavano tutte le nostre cose dalla macchina parcheggiata su un lungomare affollato. Nessuno crede mai alle mie vibrazioni negative. 

Quella del taglio di capelli è senza dubbio la più accurata e la meno rilevante delle mie premonizioni. Sognai che un’amica che non vedevo da settimane si tagliava i capelli a caschetto, glielo scrissi il giorno dopo e mi rispose con un selfie fresco di parrucchiere, con un caschetto appena fatto che le stava malissimo. Vibrazioni negative e frivole. 

Parlare di stregoneria forse è un po’ eccessivo, qualcuno obietterebbe che portiamo solo sfiga (concetto altrettanto lontano da qualsiasi forma di razionalità) o che la vita è piena di coincidenze strane. Per onestà intellettuale io aggiungo che vivo gran parte delle mie giornate con un costante senso di tragedia imminente, e qualche volta è statisticamente inevitabile avere ragione. Questo dei poteri magici forse non è altro che un rigurgito della mia infanzia popolata da un gran numero di streghe – su Rai2 con Streghe, in edicola con Witche per anni di impareggiabile felicità con Harry Potter, che ha allevato una generazione di rincoglioniti che oggi aspettano eredità a sorpresa come allora aspettavano la lettera in inchiostro verde da una scuola di magia fittizia. A un certo punto ci fu addirittura un summit tra madri per discutere di un libro che io e la mia amica del cuore avevamo comprato di nascosto con non so quali soldi, sapendo a malapena leggere, che evidentemente insegnava tecniche di magia nera per evocare il diavolo. Il manuale venne ritirato e noi tornammo alle pozioni di fango in cortile e alle nostre vibrazioni negative.

Come ho anticipato, tra i miei talenti soprannaturali c’è però anche un dono positivo, ovvero la capacità di trovare la casa giusta al momento giusto. Anche l’attuale appartamento ad affitto bloccato si è materializzato nella mia vita al momento di massimo bisogno (posso forse esimermi da un riferimento alla stanza delle necessità di Hogwarts?), e da quel momento, negli ultimi quattro anni, ho attraversato la strada con una cautela extra, convinta che l’universo mi avrebbe prima o poi punita per questa fortuna sfacciata facendomi travolgere da un veicolo X. La mia punizione invece si è presentata pochi giorni fa sotto forma di due ingegneri muniti di metro laser (magico!) che sono entrati nel mio soggiorno prendendo misure e parlando di aste immobiliari, lasciandomi intendere che il 2023 potrebbe essere l’anno in cui faccio esperienza dello sfollamento. 

Aspettative basse, dunque, per l’anno che verrà. Ma d’altro canto è da quel gennaio del 2020 che ho smesso di augurarmi qualsiasi cosa. Dovevamo uscirne migliori e non è successo, siamo tutti gli stessi poveri stronzi di prima, solo con bollette più alte da pagare. L’aggravante è che da allora ho scavallato la soglia dei 30 anni, consolidando la mia posizione di povera stronza e di stronza povera, e cominciando ad accusare tutta una serie di aspettative che potevo fingere estranee nel corso dei 20. Di nuovo, la carenza di metri quadri si fa sempre più pressante, a maggior ragione alla luce di uno sfratto imminente. Poi: la simulazione dell’Inps sostiene che andrò in pensione, forse, fra 40 anni, morirò prima? Voglio davvero dei figli o penso solo di volerli? Posso permettermi di riprodurmi? Riuscirò a sopravvivere al riscaldamento globale con la mia pressione bassa? Queste e altre domande hanno sostituito qualsiasi buon proposito per il futuro. 

Peraltro, ora che ho 30 anni so esattamente cosa aspettarmi da ogni nuovo anno: due o tre matrimoni estivi, due o tre annunci di maternità, due o tre herpes labiali, quante tasse pagherò. Non c’è più alcun margine per le sorprese e considerate le sorprese dell’ultimo periodo forse è meglio così.Tuttavia il 23 è un numero che mi è sempre piaciuto, non perché sappia alcunché di numerologia – so però che nella smorfia napoletana il 23 è ‘o scemo quindi chissà – quanto per le vibrazioni, in questo caso positive, che mi trasmette. La strega che è in me, la piccola Wanna Marchi che vive a sua volta ad affitto bloccato nel mio cervello, mi suggerisce che alla fine sarà un anno migliore di altri. Considerati i precedenti, si salvi chi può.

ARTICOLO n. 99 / 2022

SA L’HA VIST CUS’È? IL ’23!

L'anno che verrà

Guarda, siccome continui a fare il pirla, ti sbatto giù la cronologia. Si, si, proprio la crono, mese per mese, perché se mi fisso, mi fisso, vado sino in fondo. In fondo all’anno. Anno 2023. Due, più due, più tre, fa sette. Il numero è magico, come si sa. Infatti, ho avuto una visione che neanche la Bernadette.

Cos’è che dicevi? Sarà la solita sbobba… abbiamo perso tutte le partite, altro che il Milan, i secoli bui, eccetera eccetera. Avrai ripetuto dodici volte la parola “ormai”. Gesù. Depressione carsica, senza contare i calcoli renali, un certo innalzamento della pressione, il cuore che mi va fuori tempo, bla, bla, bla. Che poi, non è che se vai a vivere in Portogallo, come dici tu, sei in salvo, bello paciarotto. Cos’è che hai detto? Madeira… un’isola greca… il Giappone. Certo. Sei lì, davanti al mare o davanti a un bel giardinetto zen, tutto contento. Ti guardi attorno: cosa vedi? Il mare, il giardinetto e poi? E poi basta. In compenso, senti. Senti la Pausini. «La solitudine fra noi, questo silenzio dentro me, è l’inquietudine di vivere, la vita senza te…». Che sarei io, noi, quelli che, nonostante tutto, ti vogliono bene. Dai, va là, te e Madeira. Leggi qui piuttosto. Ti faccio il quadro, così la pianti di menare il torrone. Vado? Vado.

Gennaio 2023

Intanto, la neve. Una nevicata che ci seppellirà, come la famosa risata. Tutti a spalare, a sudare, a tirare palle di neve per giorni, i bambini per strada, altro che cameretta, soli soletti a guardare il TikTok. A furia di ridere con le palle di neve, monta l’iniziativa. Quale? Questa: giornata mondiale del silenzio web. Per un giorno tutte le persone, ma proprio tutte, non possono sbirciare in rete neanche per causa di forza maggiore. Sembrava una scemenza. Invece: successone. Anche per via della neve che, nel frattempo, non cessa di venir giù. La cosa produce un certo fastidio a quelli che se non twittano sbarellano. Ma sì quelli lì, che hanno i followers e quindi la mettono giù dura. È che se il follower si dedica alla palla di neve, o magari a fare legna, dico per dire, buonanotte suonatori. Occhio perché ‘sta faccenda può sembrare una cazzata. Invece innesca. Monta, diventa valanga, visto che siamo in tema. Comunque, come inizio, mica male.

Febbraio 2023

La forte e progressiva riduzione degli scambi via web segnala di sponda una serie di avvenimenti clamorosi. Tipo parlare con quelli lì del bar non soltanto del Milan e affini ma anche di questioni leggermente più intime, metti la prostata o l’intenzione di trasferirsi in Giappone in quanto sfiduciati e depressi. Cosa che genera ilarità e una serie di vaffa, abbinati al sospetto che farsi prendere per il culo dai giapponesi risulterebbe assai più arduo e meno indisponente. Di neve non ne è rimasta granché ma a furia di stare in giro sembra che sia diventato di tendenza ritrovarsi a commentare le battaglie con le palle di neve, organizzare delle cose sul genere fiaccolata, raccolta di bottiglie di plastica lasciate in giro, rivalutazione dell’antico gioco della bottiglia (in vetro) ai giardinetti, che magari ci scappa della roba che scotta nonostante la stagione. L’andazzo genera un calo a picco degli ascolti dei cosiddetti talk show. Se lo show lo fai con delle persone sotto casa, cosa guardi le tele a fare? Festival di Sanremo: un flop. Chissenefrega.

Marzo 2023

I giornali annunciano la fine della guerra Russia-Ucraina, fatto che comporta, oltre a un certo sollievo, la definitiva chiusura di molti talk show, peraltro alla canna del gas. Non trovarsi davanti, che so, un Di Battista (ma chi è?), una Santanchè (ma cosa dice?), uno Sgarbi (oh signur), produce una certa euforia anche tra gli anziani. I quali si sentono stranamente liberati, persino ringiovaniti. La stagione notoriamente “pazzerella” fa il resto. Più luce, più ore, più campi di bocce riaperti, per non parlare dei bar di cui sopra che adesso permettono di prendere per il culo quelli che volevano partire per il Portogallo anche all’aperto. “Volevano”, passato. Già perché nel frattempo l’idea dell’emigrazione è stata accantonata al pari di altre ipotesi che si dicono così, per dire… compro una Guzzi V7, una ceramica di Picasso, cambio telefonino…

Aprile 2023

La fine della guerra porta una quantità di persone, chi più chi meno, a riflettere su alcuni fatti pregressi. C’è chi si azzarda a buttar lì, in pubblico, frasi un tempo impronunciabili. Un dubbio, un dubbietto su quel Zelensky, ad esempio, senza il rischio di venir trattato come bastardo filosovietico. Un dissenso sul tema armi da mandare in giro a nastro, senza il rischio di venir considerato una merda umana che abbandona della gente al proprio destino… Il fatto che il web venga considerato sempre più spesso come un ambito superfluo accentua la riflessione. Ambito, si sa, stracolmo di zone d’ombra. Persino sul Covid pare possibile discutere senza litigare. Addirittura, una signora in fila alla posta, dopo aver pronunciato, a bassa voce, «Beh, anche i vaccini – utili sia chiaro – qualche danno lo fanno», viene risparmiata dalla folla presente. Il fatto diventa notizia e la notizia permette a molti di esprimere delle opinioni personali in pubblico senza temere ritorsioni. Insomma per essere aprile, il più crudele dei mesi, una sconcertante festa dell’anticonformismo. 

Maggio 2023

La stampa concede grande risalto ad una nuova iniziativa popolare: il “White Friday”. Nessuno compra una mazza per 24 ore. Poi si sa come vanno le cose: il Friday diventa Saturday, Sunday, Monday. Si discute a lungo sui pro e i contro per arrivare alla conclusione che smettere di comprare è un casino. Così, il White Friday viene soppiantato dal Grey Friday. Cioè: compri solo le cose che servono sul serio, tipo mele, verdure, pastasciutta, il resto ciccia. Da qui la questione si allarga a macchia d’olio e una serie di manifestazioni spingono il governo a vietare per sempre i saldi. Che abbassino i prezzi tutto l’anno e non se ne parli più. Il fatto che queste istanze non siano più dibattute nei talk show rende tutto più semplice. Intanto il Milan vince di nuovo, con largo anticipo, lo scudetto. 

Giugno 2023

Fine delle scuole. Ma i grandi cambiamenti in atto fanno sì che i collettivi di molti istituti pubblici, riuniti a Venegono, abbiano messo a punto un documento che viene subito adottato dal Ministero dell’Istruzione. È, finalmente, una vera riforma. Basti dire che i programmi prevedono di ridurre le ore dedicate al Pascoli e al Carducci (con tutto il rispetto) e di aumentare le ore dedicate a Kafka e a Beckett, raddoppio delle ore di educazione fisica, obbligo di sistemare le palestre, tempo dedicato alla poesia. «Dei telefonini in classe non ne parliamo neanche» si legge in una nota a margine, mentre cambiano radicalmente i metri di giudizio degli insegnanti. I quali possono essere rimandati o bocciati dagli alunni medesimi quando una classe comprende oltre sette studenti sotto la sufficienza. Questa vera e propria rivoluzione innesca una tale euforia che persino le tristemente note baby gang si sciolgono da sole perché se cominci a divertirti, cosa spacchi cosa? Piuttosto, per giovani e giovanissimi la riforma prevede prove di coraggio estremo, tipo dare una mano a chi resta indietro. Il rugby diventa sport obbligatorio sin dalle elementari. Viva!

Luglio 2023

Ciò che sta accadendo nel Paese determina una serie di cambiamenti anche presso gli organi di stampa, indotti a dare sempre meno risalto a cose di nessunissima importanza come le reazioni di ogni esponente politico a decisioni di scarsissima importanza. Alcune puntate della nota trasmissione Chi l’ha visto vengono dedicate a figure che non compaiono più all’orizzonte da mesi. Protagonisti delle prime puntate Maria Elena Boschi (bassa audience), Gianluigi Paragone (bassissima audience), Massimo D’Alema (puntata annullata). Il fatto di non dover presenziare in televisione ogni due per tre porta gran parte dei politici a darsi da fare con la sensazione che va bene tutto ma a un bel momento la gente va in bestia. Da qui, un vero colpo di scena: una profonda revisione del sistema sanitario nazionale capovolge il rapporto di forza tra privato e pubblico. Ci vorrà un po’ ma intanto… Cosa da non credere: sgombrate le sedi di Casa Pound, vietate le adunate a Predappio, altrimenti la polizia comincia a menare, anche perché menare gli studenti è passato di moda. In giro si incontrano delle persone che improvvisamente si mettono a cantare Singing in the RainEl purtava i scarp del tennisLa bella Gigogin anche mentre mangiano un toast farcito.

Agosto 2023

Vacanze. La Svizzera è la più gettonata, vuoi per i picchi, i pendii; vuoi per il rösti vuoi per le caramelle Sugus che altrove ahinoi non si trovano. I Måneskin si sciolgono, ma pensa te.

Settembre 2023

Chi aveva votato Fratelli d’Italia si chiede cosa sia saltato in mente a Fratelli d’Italia, la Meloni in primis, di varare provvedimenti del genere. Il disorientamento è attutito da una palpabile serenità diffusa, cosa che rende inutile star qui a litigare. La Lega nomina un nuovo segretario e la decisione conforta proprio tutti anche se il divertimento viene meno. Il lungo dibattito all’interno del PD porta alla fondazione del “Partito Ex-Comunista Italiano”. Il programmino prevede: rilanciare la sinistra occupandosi di quelli di sinistra, dei poveri, di chi non frega una mazza a nessuno, persino degli operai. L’intenzione è di formare un governo insieme a quelli di Fratelli d’Italia, tanto ormai… Beppe Grillo, emigrato in Giappone, manda dei video di giardinetti zen. I talent show vengono soppressi a furia di vedere a zonzo degli ex-concorrenti spostati che si credono chissà chi. Fedez si propone come giudice in Corte d’Appello. In uno spot si vede la Pausini (sempre lei) che becca una saccata di botte da persone di una certa notorietà per averle convocate d’urgenza scopo mostrare la nuova TV. Mentana organizza una serie di maratone per seguire gli sviluppi del Mondiale di rugby in svolgimento in Francia. Wow!

Ottobre 2023

Tensioni nella maggioranza ma anche nelle minoranze. Di questo si parlotta ogni tanto, mica poi tanto. Piuttosto sorgono come funghi enti dedicati al recupero dei migranti, alla formazione degli ex-migranti, all’accoglienza. In contemporanea il G20 ha finalmente deciso di comportarsi come chi sa cosa è lì a fare. È un fiorire di iniziative trasversali dedicate allo sviluppo di molti Paesi africani, di iniziative sostenibili. Drastica riduzione delle emissioni. Trump in esilio a Madeira, Orban interdetto dai suoi stessi famigliari. E Putin? Lasciamo stare per carità. Pare, dicasi pare, che se andiamo avanti così, prima o poi tocca anche a quelli che evadono il fisco. Per ora è una battuta ma, visto come tira il vento, potrebbe anche succedere. Milano, all’avanguardia come si dice da anni, diventa completamente ciclabile. Chi ancora considera l’automobile un mezzo di trasporto utile è pregato di posteggiare a Gaggiano, Treviglio, Pandino, Legnano o Merate, nel senso dell’hinterland, e poi pedalare, pedalare, pedalare. Casco obbligatorio anche per i pedoni, così imparano a non prendere su la bici. 

Novembre 2023

Le temperature del pianeta indicano un calo sorprendente. Fa un freddo della madonna ma intanto la Groenlandia ne beneficia e mi si estingue meno roba. Il Milan è in testa al campionato. Il bar sempre pieno così. Tempi di attesa al pronto soccorso 20 minuti max. Ciumbia! Si barbella ma l’umore sale a picco. Gli ultrà delle curve più tristemente note d’Italia vengono obbligati dalle società calcistiche di riferimento a spalare la neve lungo i rettilinei, così i ragazzi si sfogano e la smettono di disturbare. Ogni famiglia programma le vacanze invernali. Dove? In Svizzera, che domanda… il ricordo del rösti e la voglia di Sugus spingono verso i Cantoni dove è un attimo registrare il tutto esaurito. In alternativa, Val Gardena, per via dei canederli, Valtellina per i pizzoccheri. I vegetariani benestanti in India, con dei charter pieni di spezie.

Dicembre 2023

Ripresa massiccia delle nevicate. Il futuro si annuncia radioso, a parte per i ciclisti che con la neve fanno una certa fatica a star su. Lettera a Babbo Natale da spedire tassativamente entro il 4 dicembre. Albero di Natale l’8 dicembre. Su questi punti nessuna deroga. Chi con una palla di neve tira giù il cappello di un passante durante le ore scolastiche è giustificato automaticamente. Chi ancora usa il cellulare in metropolitana viene sbeffeggiato senza ritegno. Motto dell’anno: “Il veglione ha rotto il marone”. Da qui tutto ne consegue.

ARTICOLO n. 98 / 2022

NONOSTANTE TUTTO L’UOMO RIMARRÀ BIPEDE

L'anno che verrà

Anche l’anno prossimo è prevedibile che andrà, e che la Terra continuerà a girare intorno al Sole, questo mi sento di sostenerlo senza dubbi di essere smentito su tempi brevi. Sia che sia piatta, sia che sia sferica. In caso contrario, cioè che la Terra si fermasse, secondo me casca, nonostante le concezioni fisiche attuali lo vietino (le cose non cascano più giù nella fisica). Anche se non riesco a capire dove caschi. Ma sicuramente se è piatta, per capirsi, longitudinalmente, cioè come un piatto appoggiato alla tavola, cadrà molto lentamente per questioni di attrito coi venti cosmici, che la faranno un po’ navigare di qua e di là nella sua caduta; se invece è piatta, sempre per capirsi, verticalmente, cadrà giù in frettissima; se è sferica, come sostiene buona parte dell’umanità che ha titoli di studio più alti, cadrà giù a una velocità intermedia tra le due. Ma secondo me continua ad andare per la sua strada ancora per un po’, come negli ultimi due o tre miliardi di anni.

Quasi sicuramente, sempre l’anno prossimo, continueranno a esistere anche malattie non-Covid e Covid-peggiori, come infarti, tumori e ictus, e a questo proposito si vorrebbe far notare che l’influenza si è incattivita perché non ne poteva più che nessuno prendesse più l’influenza e tutti prendessero il Covid e quindi, come nelle migliori pressioni selettive, si è smaliziata ed è tornata a influenzare a grandi numeri con tosse, mal di testa, naso chiuso, abbondanza di catarro e febbre fastidiosa anche superiore a trentotto e cinque. Sugli altri mali Covid-peggiori non so cosa dire perché non ho dati freschi a mia disposizione anche perché c’ho già un’età in cui mi fa un po’ paura leggerli. 

Nonostante l’aumento del prezzo del metano, e gli altri numerosi disagi che possono sempre capitare, sono sicuro che anche l’anno prossimo l’uomo rimarrà bipede, anche perché non si possono buttare via in poco tempo, come potrebbero fare soltanto dei cretini, gli sforzi fatti da miliardi di nostri antenati per stare in equilibrio sulle zampe posteriori, che stavano trasformandosi in gambe, mentre le zampe davanti stavano trasformandosi in braccia, con alla fine delle mani libere, e basterebbe guardare i nostri cugini scimpanzé, bonobo e gorilla, che non si sforzavano di diventare bipedi come noi e, non sforzandosi, apparentemente avevano una vita più spensierata, secondo alcuni più in armonia con la natura, sempre lì felici a non fare un cazzo e ridere, mentre guardavano l’uomo che si sforzava di diventare bipede e iniziava anche a farsi dei vestiti, mentre i gorilla e gli scimpanzé si erano tenuti la pelliccia, e invece che fine hanno fatto i gorilla e gli scimpanzé a forza di fare i fannulloni? È vero che hanno imparato a infilare bastoncini nei formicai, tirarli fuori e leccarsi le formiche, che forse è una prima forma di lavoro. Ma poi? Si sono fermati lì e sono vicini all’estinzione, come i giaguari e i leopardi e altri mille quadrupedi, mentre noi lanciamo le sonde su Marte a forza di esserci sforzati a camminare su due zampe. Certo quando si fa sesso in certe posizioni forse sarebbe meglio essere proprio quadrupedi, ma noi anche se siamo bipedi riusciamo ancora a metterci su quattro zampe alla meglio. E comunque non varrebbe il cambio, perché puoi sempre accoppiarti anche nelle altre posizioni. Quindi secondo me le masse, anche per l’anno prossimo, non saranno disposte a lasciare il bipedismo.

Si continuerà, anche per l’anno prossimo, a preferire una lasagna in carne e ossa, o una tagliatella al ragù in carne e ossa, o uno stinco di maiale in carne e ossa cotto nel latte e rosmarino (a Modena usa così) a una più pratica lasagna liofilizzata in comodissime pastiglie che puoi tenere nella tasca della giacca, come quelle che mangiano quei tipi che vanno nello spazio, e si possono infilare in bocca direttamente e buttar giù con un dito di acqua, senza neanche avere sporcato un piatto, una forchetta e delle pentole? Credo di sì. Le masse, che son sempre retrograde, continueranno a preferire la lasagna in carne e ossa anche se poi devi lavare piatto, forchetta e pentola. La massa, se ha due soldi in tasca e non ha voglia dopo di lavare piatto, forchetta e pentola, va a mangiarsi la lasagna in carne e ossa all’osteria, dove piatto, forchetta e pentola li lava il lavapiatti in cambio di un salario. E dopo la lasagna, si mangia anche lo stinco, già che c’è. Sempre in carne e ossa. Da questo dovremmo trarre la conclusione che la massa tipica del 2023 non voglia andare sulla Luna o su Marte? Non lo so, mi sembra eccessivo. Certo che coi soldi di un biglietto navicellare per la Luna si comprano un sacco di altre cose che magari qualcuno può ritenere più utili o piacevoli, e guardarsi la Luna e Marte su internet, che l’hai già pagato. Per di più quello che mi chiedo è: non è che se ti metti a mangiare le tagliatelle al ragù in pastiglie come gli astronauti, dopo per riuscire ad andare in bagno devi mangiarti tutti i giorni dieci cucchiai di crusca per avere un po’ di fibre per la cacca?

Anche per l’anno prossimo, secondo me, i padri continueranno a litigare con i figli, le figlie con le madri, le madri con i padri, i figli coi fratelli o le sorelle, i fidanzati con i fidanzati, le coppie con sé stesse, perché tutti questi sono persone che si vogliono bene e quindi litigano, e quando, dopo tre ore, perché ormai sono sfiniti, i genitori smetteranno di litigare coi figli, allora saranno i figli che dopo tre minuti di relativa calma inizieranno a rilitigare coi genitori e quindi continuerà a esserci ancora quella specie di moto perpetuo del malumore tra chi si vuole bene che fa apparire la famiglia come la principale istituzione naturale della società umana, quel nido in cui gli umani si formano e crescono, e poi si vogliono bene e di conseguenza litigano perché ogni istituzione, naturale o artificiale che sia, è un po’ un baraccone, così ci si vuol bene e allora si litiga tra le diverse generazioni e anche all’interno della stessa. Ma lì non c’è molto da fare, visti i precedenti, cioè: Caino e Abele, Romolo e Remo, Laio e Edipo, Medea e così via: tutti si volevano bene e quindi litigavano dentro la loro famiglia. 

Poi vorrei aggiungere anche questo: probabilmente i morti rimarranno morti anche per l’anno prossimo. A meno che a un certo punto per esempio non inizino a verificarsi casi di questo tipo: per esempio una signora va al cimitero a pulire, mettere nuovi fiori e fare due chiacchiere sulla tomba di suo marito, morto più vent’anni prima, e a un certo punto le sembra di sentire bussare, allora inizia a girare per capire da dove vengono queste bussate, e sente che è da una tomba situata cinque o sei tombe più in là che arrivano le bussate. Allora chiede: «Ma chi è che bussa?» e sente dire da dentro la tomba: «Potrebbe farmi aprire la tomba, che è un po’ son qua chiuso dentro?». La signora risponde: «Non la so mica aprire una tomba. Aspetti un attimo che vado a cercare il custode». Così si mette a girare e a urlare: «C’è un custode?». Il custode arriva, la signora gli dice: «Bussano da dentro una tomba. Vogliono uscire.» Vanno a vedere, aprono la tomba, così ‘sto signore esce dalla sua tomba. Loro gli dicono: «Ma è stato sepolto vivo». Lui dice: «Non credo. Mi sembrava proprio di star per morire, quando sono morto». Poi chiede: «Scusate, ma in che anno siamo?» «Siamo nel 2023». E il morto dice: «Ma no. Allora ero proprio morto. Son morto nel 2017. Come facevo a stare sei anni vivo, chiuso in una tomba? E adesso che son risorto che cazzo faccio?». E così tutti i giornali iniziano a parlare di questo signore, che sarebbe risorto, e diventa un caso. Ma poi, dopo una settimana ne risorge un altro, poi iniziano a risorgere a cinque o sei al giorno. Entro un mese risorgono dalle cinquanta alle cento persone al giorno, nei cimiteri è tutto uno scoperchiamento di tombe. Prenderebbe così il via il famoso Effetto Lazzaro, cioè questo fatto che uno che era morto, e ormai tutti erano tranquilli che era morto, invece un bel momento risorge, e saltano fuori vari casini, perché il nipote è andato a vivere nella casa del nonno, adesso il nonno vuole riprendersela; il figlio ha venduto la macchina della madre morta perché non voleva mantenere tre macchine, adesso la madre risorta la rivuole; un vedovo aveva iniziato a fare sesso con un’altra signora, la moglie risorge. Il diritto va riaggiornato per le resurrezioni. Anche l’INPS si allarma, che stanno riprendendo a sballarle i conti, perché i risorti dicono di avere di nuovo diritto alla pensione. E così via.

Queste previsioni, a mio giudizio anche precise e quasi inconfutabili, erano per il 2023. Ma siamo poi tutti convinti che siamo nel 2023? Perché per esempio se aveva ragione Roma (e siamo poi certi che Roma sia caduta?) siamo quasi nel 2775. Mentre se avevano ragione gli ebrei, siamo nel 5783. Ma se ha ragione Maometto siamo nel 1443. Secondo i tibetani non lo so, ma saremo almeno nel 4719. Mentre seguendo una deriva assolutamente individualistica (mia) saremmo nel cinquantasette non finito, perché io compio gli anni in luglio come Giulio Cesare, e quindi il 6 luglio 2023 diventerebbe il primo gennaio 0058. In queste condizioni non è mica facile capire cosa succede l’anno prossimo.

ARTICOLO n. 97 / 2022

OPERETTA MORALE

L'anno che verrà

Passeggere
Come quest’anno passato?

Venditore
Più più assai.

Passeggere
Come quello di là?

Venditore
Più più, illustrissimo.

Passeggere
Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore
Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere
Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore
Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere
A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore
Io? non saprei.

Passeggere
Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore
No in verità, illustrissimo.

Passeggere
E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore
Cotesto si sa.

(Operette morali, Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere)

Nell’arco dei 365 giorni che compongono l’anno, due mi sono fatali: il Ferragosto e il Capodanno.

Due feste di inizio e fine, spartiacque di buoni propositi e lente riprese, momenti in cui si fa la somma di ciò che si è fatto e si inizia poi a dividerla e scomporla in frammenti sempre più piccoli.

Se Ferragosto ha il compito di dividere l’estate, segnandone la inesorabile fine, Capodanno coincide con la fine della conta dei mesi dell’anno e per questo si porta appresso un valore simbolico e morale ancor più pesante del suo torrido fratello.

Se infatti a Ferragosto la fine – delle ferie – non è così repentina, a Capodanno l’ansia assale gran parte del genere umano, conferendoci l’impressione di non aver fatto davvero tutto il possibile per essere felici. E di tempo per rimediare, a Capodanno, ne rimane davvero poco: una manciata di ore e la magia sarà finita. 

Il 31 dicembre celebriamo perciò velocemente e scaramanticamente, con le nostre mutande rosse nuove di pacca, sperando di non ripetere errori già commessi, di portare denaro nelle nostre tasche e di allontanare il dolore che abbiamo accumulato durante l’anno.

È il momento di quell’ultimo messaggio da mandare, del bacio da dare per iniziare con slancio, della festa più rumorosa da organizzare, in modo da esorcizzare il futuro sconosciuto.

Il 31 è una corsa, ogni anno, verso il compimento dei nostri privati quanto imprevedibili desideri.

La macchina da presa scivola veloce su un carrello immaginario che ci segue per tutto il giorno, vedendoci fare commissioni, compiere rituali, muoverci con frenesia; sentendoci nervosi all’aumentare dell’adrenalina, zoomando sui nostri palmi sudati, le nostre facce tese, i sorrisi rigidi.

Il piano sequenza prosegue e arriva alla festa, perché il 31 c’è sempre qualche festa a cui andare o da organizzare, e si muove tra gambe nervose, mani sui cellulari, bicchieri che sbattono, occhiate febbrili all’orologio per controllare quanto manca al primo giorno di un nuovo anno di cui non sappiamo niente ma immaginiamo non sarà uguale al precedente –   come lo sappiamo? con la scaramanzia – e verso il quale nutriamo speranze enormi quanto naïf.

Queste speranze sono ataviche e comprensibili, si allacciano a doppio nodo alla solennità di un momento rituale come il Capodanno, ci aprono le porte al nuovo – che, come scrisse Leopardi in quell’Operetta Morale che ho usato come esergo, è l’unica forma in cui la felicità sopravvive e coincide con il futuro – e si incastrano in ogni nostra più profonda paura: se siamo soli, se siamo senza soldi, se non abbiamo la salute, se non siamo del tutto sereni o se, per paradosso, lo siamo troppo, Capodanno ci rende inquieti, perché ci pone delle domande a cui noi, di base, non abbiamo mica poi tanta voglia di rispondere.

Quest’ansia di incompiutezza, che diviene rituale propiziatorio, è uno dei temi pop più conosciuti e visionati, da Harry e Sally che si corrono incontro a New York prima della mezzanotte, a Marissa e Ryan in una serie TVambientata a Los Angeles in cui tutti sono in maniche corte. Da Bridget Jones che corre in pigiama per Londra per fermare l’uomo di cui è innamorata a L’appartamento (Billy Wilder, 1960), in cui Shirley MacLaine corre da Jack Lemmon prima dello scoccare del nuovo anno. Le aspettative – che coincidono con il combattere la solitudine costi quel che costi – si racchiudono in una sola notte all’anno e ci fanno credere che anche per noi ci saranno fughe nella notte in pigiama e baci al conto alla rovescia, soldi facili, vita in discesa.

Ma nel mondo reale siamo molto più simili al Capodanno del primo, indimenticabile Fantozzi o a quello di Risate di gioia (1960) di Monicelli.

Solo che ogni anno, ogni Capodanno, noi ci illudiamo che stavolta non sarà così, che celebreremo un rito propiziatorio perfetto e che dunque l’anno che verrà inizierà e proseguirà con il botto.

Questo rituale tutto pagano infatti ci porta a pensare che ciò che faremo a Capodanno lo faremo per tutto il resto dei 364 giorni che ci attendono, caricando di aspettativa il futuro, scollegandolo dal reale stato in cui versa la – nostra – storia.

Ho iniziato scrivendo che io Capodanno lo soffro molto, proprio per questa sua voglia di alienarci dal reale e spingerci a credere di poter rimediare e concludere immaginari cicli vitali. Da brava atea quale sono, trovo infatti impossibile la redenzione immediata del Capodanno, elevato nel suo valore a giubileo pagano.

Mi chiedo dunque, ogni 31 dicembre, come chiunque al mondo, come sarà l’anno nuovo. E cerco di darmi risposte concrete quanto plausibili, cercando di allontanare da me l’idea che se farò tutto come devo allora avrò in premio il futuro che desidero ardentemente, cercando di contemplare l’impossibilità della previsione dell’avvenire che, secondo Leopardi, proprio nella sua imprevedibilità racchiude la così tanto agognata gioia. Ma ci sono delle cose più grandi di me, del mio orticello, del cuore caldo e rassicurante del mio nido, che posso provare a immaginare e prevedere in questo 2023.

Sono anteprime che mi, e ci è concesso avere perché sono legate a sistemi che esulano dal caso e dalla fortuna, come la politica e la cultura. Perciò, mentre evito di chiedermi che binari prenderà la mia privata esistenza il prossimo anno, mi domando cosa ne sarà del sistema che ci gravita attorno e provo come esercizio a descrivere l’anno che verrà.

Non avremo macchine volanti, non ci saranno abitanti sulla Luna e tantomeno su Marte. 

Avremo ancora una guerra di serie A da gestire e altre, ritenute di serie B, da ignorare. I nostri politici finanzieranno ancora le guardie costiere che minacciano il mediterraneo? Ho il terrore di poter prevedere con esattezza la risposta.

Nell’anno che verrà, ci annoieremo ancor di più di approfondire le notizie che riceviamo incessantemente da ogni device in nostro possesso, e questo farà un favore enorme a chi ci governa e governerà, a prescindere dal colore politico: un popolo disinformato è più facile da sottomettere.

La violenza prenderà ancora una posizione politica: se a commetterla sono persone nere allora verrà resa nota e funzionale alla propaganda; il resto degli omicidi e degli stupri passeranno invece indisturbati tra i fatti di cronaca non rilevanti. No, i femminicidi non diminuiranno. 

Il clima rimarrà fuori dalla politica e diventerà solo argomento da bar o da vicini di ombrellone (“non ci sono più le mezze stagioni” / “già, di sera qualche anno fa qui si usciva con il maglioncino a manica lunga”), perché nessuno vuole mettersi contro chi ha i soldi, tantomeno chi governa i paesi ricchi del mondo.

Il riconoscimento dei diritti fondamentali sta prendendo una brutta piega da qualche anno e dubito che avremo una ventata di progressismo a strettissimo giro: unioni civili, 194, 180 e Ius Soli non avranno lo spazio necessario neanche nel 2023.

L’anno che verrà non sembra quindi una gran festa, da queste premesse. Però noto una nuova scintilla, che si fa più nitida mese dopo mese e credo prenderà più consistenza nel 2023.

La nuova generazione ha fame, determinazione e intelligenza da vendere. E i mezzi per poter alzare la voce.

La mia generazione è pronta dunque a sostenerla, perché sappiamo che fine possono fare i giovani quando vengono picchiati e non ascoltati: noi Millennial siamo stati educati proprio così e guarda come cazzo stiamo.

La cultura non era così bramosa di novità e nuove idee da tantissimo tempo e la controcultura è al suo massimo splendore. Le piazze e i collettivi si stanno ripopolando, così come le associazioni e le sedi sindacali.

C’è, per l’anno che verrà, una previsione di nuova energia, una spinta per il rinnovamento sociale e culturale che mi rassicura e rincuora e credo sia, in definitiva, l’unica forma di futuro sulla quale possiamo concretamente lavorare, nutrendola, tutelandola, dandole spazio e respiro affinché non soffochi o venga, al peggio, soffocata.

Nell’anno che verrà non so cosa sarà di me, di chi amo, di chi odio, di chi mi sono dimenticata o mi dimenticherò. So solo due cose: che se il nostro futuro come singoli è imprevedibile – perciò ci porta gioia al solo pensiero, come raccontano le Operette morali – e ogni rituale propiziatorio è di per sé inutile. Il futuro della collettività non lo è, perché già ben delineato su quella linea curva che determina l’andamento della storia del mondo. E se davvero possiamo prevedere dove stiamo andando, sarebbe da scellerati non fare qualsiasi cosa in nostro potere per migliorare le cose.

L’anno che verrà spero, e credo che sia pieno di partecipazione. Questo Capodanno, al conto alla rovescia, pensiamo all’unico futuro che possiamo prevedere e permetterci, ovvero quello collettivo.Che, metti caso girasse bene, magari ci porterà proprio a quella felicità che Leopardi sapeva annusare ma non agguantare. 

ARTICOLO n. 96 / 2022

IL FEMMINISMO SECONDO BELL HOOKS

Speciale bell hooks

Durante la campagna elettorale, l’opinione pubblica si è scervellata per mesi per rispondere a una domanda mal pensata e mal posta: Giorgia Meloni è femminista? Una questione che dovrebbe far saltare dalla sedia chiunque pratichi il femminismo, non tanto perché Meloni, contrariamente alla sua collega francese Marine Le Pen, non ha mai cercato di associarsi a questa parola (anzi, ne ha preso spesso le distanze, attaccando un po’ genericamente “le femministe”), ma perché è davvero assurdo attribuire il femminismo a qualcuno, a maggior ragione a una persona che lo ha sempre disprezzato. Ma questa domanda negli ultimi anni è diventata sempre più popolare nonché rivolta ai soggetti più disparati.

Chiedersi se qualcuno sia o non sia femminista a prescindere da ciò che la persona pensa o fa è la conseguenza di un grande fraintendimento: il femminismo è una caratteristica dell’individuo, non più una pratica o una teoria politica. Basta esistere in quanto donne in un contesto patriarcale per essere femministe. Non contano le idee, i fatti, il posizionamento politico. Il femminismo è per tutti, vero, e non ci sono barriere per chi voglia abbracciarlo. Ma il percorso ora è inverso: qualcuno da fuori decide chi è e chi non è femminista, cercando prove, facendo congetture. In un discorso, in una decisione e a volte soltanto in un’esistenza si cerca un legame con il femminismo.

Quello che ha portato a questo fraintendimento è stato un processo lungo, passato anche da una rilettura spesso superficiale della vita di donne eccellenti del passato. Figure che avevano senz’altro una grande consapevolezza della subalternità femminile, che hanno lottato per uscire da uno stato di minorità, ma che non facevano parte di un movimento. Se oggi essere femministe è una qualità apprezzata, quasi desiderata, è anche perché il femminismo si è normalizzato e da forza di opposizione e messa in discussione dell’esistente, da questo esistente è stato gradualmente inglobato. Questo processo era già stato registrato da bell hooks nel suo libro del 1984 Feminist Theory: From Margin to Center

Nella prefazione alla terza edizione, hooks racconta che cominciò a scrivere questo volume quando avvertì, nella sua militanza, che il femminismo era incapace di produrre una pratica che si prendesse cura dei bisogni di soggetti diversi dalla donna bianca della classe media. Non solo, la voce delle femministe nere era ignorata o ghettizzata. Il loro destino era quello di parlare esclusivamente dei problemi razziali, come se il colore della loro pelle venisse prima dell’assunto che univa alla radice le femministe: l’esperienza di essere donne. Dopo Ain’t I a Woman, scritto a 19 anni e uscito in quel 1981 che produsse anche Donne, razza e classe di Angela Davis, hooks tornò sul tema con uno sguardo ancora più radicale.

Il tema del libro, infatti, non è soltanto l’assenza di chi sta ai margini dal discorso, ma un’analisi più generale di come il femminismo si sia gradualmente allontanato dall’essere pratica della vita, per diventare uno status symbol o al peggio una parola come tante altre. bell hooks, richiamandosi all’analisi di Zillah Eisenstein, parla di un femminismo che ha adottato inconsciamente l’“ideologia competitiva e atomistica dell’individualismo liberale”, che riproduce gli interessi di classe della borghesia che da sempre si è imposta al centro del movimento. Questi interessi si riflettono nella definizione di femminismo come semplice “parità di diritti”. Parità con chi?, chiede hooks. Una donna bianca della classe media scambierebbe il suo posto con un uomo nero? Vorrebbe essere considerata una sua pari?

Il femminismo raramente si è posto questa domanda, arenandosi su concetti come “parità” o, ancora peggio, “uguaglianza”, o al contrario forzando una situazione comune a tutte le donne, per altro segnata dalla sofferenza e dalla minaccia della violenza sessuale. Nel 1984, anno in cui uscì Feminist Theory, la concezione di femminismo come parità stava diventando egemonica persino nelle tradizioni della differenza sessuale. Si era alla conclusione del “decennio delle donne” proclamato dall’Onu e inaugurato con la Conferenza mondiale delle donne di Città del Messico nel 1975.  In queste conferenze, le rappresentanti politiche di tutto il mondo (e le varie first ladies) si riunivano per discutere i problemi delle donne e creare una strategia di sviluppo per quello che era considerato il “terzo mondo”. Se queste conferenze hanno avuto un ruolo fondamentale nell’implementazione delle politiche di genere a livello globale, per certi versi hanno contribuito anche all’istituzionalizzazione del femminismo e alla sua trasformazione, specie in ottica umanitaria, da forza politica a forza morale. 

hooks aveva intuito la direzione in cui stava andando questo processo: la cooptazione da parte di chi detiene il potere, favorita da una certa cecità del movimento femminista nel riconoscere che esistono altre oppressioni oltre a quella sessuale e che gli uomini non sono i veri nemici del femminismo. Il femminismo non è più una forza che mette in discussione il potere, lo rigetta o lo utilizza per mettere fine al dominio, come il Black Power, ma una forza che vuole impossessarsi di quel potere per farne ciò che vuole. Per avere, in altri termini, pari diritti nell’esercizio del potere, compreso quello del dominio. 

Il percorso che hooks comincia ad abbozzare nelle pagine di Feminist Theory oggi è arrivato a una sorta di punto di non ritorno. Politici di ogni ideologia, da Pedro Sanchez a Marine Le Pen, si dichiarano femministi e, quelli che non lo fanno vengono resi tali, anche contro la loro volontà. Le aziende di qualsiasi settore fanno i salti mortali per proporsi come parte di un movimento che dovrebbe essere fatto dalle persone e non dalle società per azioni. Sarebbe troppo facile addossare tutta la colpa al femminismo, ipotizzare un suo tradimento o addirittura un suo fallimento. 

Il problema, piuttosto, sta in questa cooptazione che hooks cita più volte nel suo testo. Di cui il femminismo detiene una certa responsabilità, che la filosofa non nega: “I gruppi maschili dominanti sono stati in grado di cooptare le riforme femministe e renderle utili agli interessi del patriarcato suprematista bianco e capitalista perché le attiviste femministe hanno ingenuamente creduto che le donne erano in opposizione allo status quo, avevano un sistema di valori diverso da quello degli uomini e avrebbero esercitato il potere nell’interesse del movimento femminista. Questo assunto le ha portate a prestare poca attenzione nel creare sistemi di valori alternativi che includessero nuovi concetti di potere”. Oggi che il femminismo è tornato al centro del dibattito politico, con un’adesione senza precedenti a livello globale, è necessario che produca un nuovo discorso sul potere. Non più in termini di empowerment o del superamento individuale della paura nei suoi confronti, ma provando a immaginarsi qualcosa di radicalmente diverso. 

ARTICOLO n. 95 / 2022

LUCIANO BIANCIARDI RIBELLE E ANARCHICO OGGI A MILANO

Il giovane rider sfreccia in via Brera, sfiora i consulenti finanziari e le influencer in posa, li supera, prosegue sulla sua bicicletta, rapido e deciso. Dietro di sé lascia una scia di risentimento, che però si dilegua velocemente, evapora nell’aria satura di precarietà. Neppure la rabbia trova spazio per esplodere nella città che va di fretta. Eccolo Luciano Bianciardi a cento anni dalla sua nascita, il 14 dicembre 2022, camminare in questi vicoli dove adesso lo ricordano, lo celebrano, lo citano, gli dedicano premi. Dove ti giri c’è un convegno a lui dedicato, un omaggio, un libro ristampato. Eccolo Bianciardi che osserva questa irritante beatificazione postuma, alla quale, se potesse, probabilmente si sottrarrebbe. Proprio lui che era arrivato da Grosseto a Milano nel 1956 per distruggere tutto: il mondo borghese, i simboli del boom economico, il progresso che già allora lasciava indietro tanti, faceva esplodere contraddizioni e corrompeva la vita culturale. Voleva far esplodere tutto come il protagonista del suo libro più importante, La vita agra, pubblicato nel 1962, che arriva a Milano per far saltare in aria con una bomba il Torracchione, il grattacielo, per vendicare l’incidente provocato dalle carenze nella sicurezza in miniera che avevano provocato la morte di molti minatori. Il Torracchione rappresentava la ditta da cui dipendeva la miniera. La vita agra era ispirato a una storia vera, quella dei minatori di Ribolla, che Bianciardi aveva raccontato con Carlo Cassola nel libro I minatori della Maremma. Una tragedia che scava in lui una profonda rabbia e che gli fa elaborare un testo – La vita agra appunto – che anticipa tanti temi di oggi: lo sfruttamento del lavoro, il precariato, la condizione di coloro che restano indietro o vengono uccisi nella corsa al profitto, il consumo delle persone, dei diritti, del suolo.

Eccolo Bianciardi a Brera che si stringe nel cappotto e cammina nella nebbia in via Fiori Chiari e Fiori Scuri, verso l’Accademia dove studiavano i pittori suoi amici, verso la Pinacoteca, l’Orto Botanico, il Bar Jamaica, sempre al civico 32, dove negli anni Sessanta parlava con Jannacci e Ripa di Meana. Brera allora – c’è da non crederci – era un quartiere bohémien, a un passo dal centro città, ma frequentato da pittori e studenti. Non era quel salottino borghese di oggi, turistico, pittoresco ma finto, percorso da turisti asiatici e ricche signore. Brera era “indie”, così si direbbe ora. Era il luogo degli irregolari, il più affasciante dei quali forse era il pittore Furio Cavallini – grande amico di Bianciardi – che dipingeva, ma aveva anche fatto l’operaio, era squattrinato, dormiva in una officina, pasteggiava a cappuccini e aspettava che qualcuno lo invitasse a cena. Adesso Bianciardi quando entra al Bar Jamaica tutti lo guardano, ma è solo perché ordina una grappa, chi più ordina una grappa a Milano? Nel locale, “molto instagrammabile”, si fanno i selfie i turisti che bevono Moscow Mule o al massimo Negroni. Sull’account Instagram del bar c’è anche una foto del film tratto dal suo romanzo, con Elio Crovetto, Giovanna Ralli e Ugo Tognazzi. Ma tutt’attorno il quartiere è irriconoscibile. I locali si chiamano ancora “Pescheria” o “Trattoria”, ma di pescheria e trattoria non hanno nulla. Sono posti fintamente rustici, in realtà pretenziosi, molto cari e dove di solito si mangiano – piuttosto male – cose turistiche, a volte esotiche, a volte tipiche milanesi, come il Ramen o il Poke. In città i boschi sono verticali e bellissimi ma costano 15 mila euro al metro quadro e in periferia ti affittano un sottoscala spacciandotelo per un appartamento. Le piscine pubbliche vengono affidate dal comune a società estere private, che le ristrutturano e ne fanno posti bellissimi, ma le tariffe lievitano, i ragazzi dei quartieri di periferia e i giovani immigrati che non hanno i soldi per pagare restano seduti fuori, sui marciapiedi, con la sacca del nuoto ai piedi. Qualcuno si perde, qualcuno si salva da solo, ma è solo un caso, non è merito di nessuno. Bianciardi cammina perplesso e disorientato per questi vicoli, fra negozi delle catene di abbigliamento e raffinate boutique, guarda le insegne, che non riconosce più, schiva la folla che si muove, la città che lui non ama.

E poi eccolo che alza il viso e lo vede, il Torracchione. È ancora lì, svetta in mezzo ad altri grattacieli, ancora più alti, ancora più imponenti, che nel frattempo sono stati costruiti: City Life, Gioia 22, il “Curvo” di Libeskind. Ha vinto lui, il Torracchione, che nel romanzo rappresenta – sei anni prima del Sessantotto – tutto quello contro cui lottare per cambiare le cose, per sabotare quell’idea di progresso che era in realtà è appiattimento, anche culturale e intellettuale, per vendicare gli ultimi, quelli che il boom aveva lasciato indietro, aveva tradito, aveva ucciso. Ma poi – nel romanzo – il protagonista trova un lavoro e una fidanzata e un po’ alla volta si dimentica del perché era arrivato a Milano, subentra l’apatia. Il rivoluzionario disilluso e rassegnato, venuto da fuori per fare la rivoluzione, si accuccia al caldo ai piedi del Torracchione e invece di farlo esplodere inizia a servirlo, a essere parte del sistema, un ingranaggio come un altro. La Vita agra è un libro feroce, caustico, disilluso, che critica e attacca il sistema. Tuttavia, con grande sorpresa di tutti, anche dello stesso Bianciardi, il romanzo ha un enorme successo. Invece che arrabbiarsi, sentirsi offesa, invece di insultarlo, la borghesia milanese ne va pazza. Lo invita a incontri e feste, lo chiama per le interviste, lo vuole conoscere, lo corteggia. E lui si lascia corteggiare, intervistare, lusingare, ma con un forte senso di disagio e frustrazione, perché disprezza tutto di quegli ambienti e si chiede in cosa abbia dunque sbagliato. La cosa curiosa è che a un certo punto verità e finzione sembrano sovrapporsi e coincidere: lui aveva raccontato di un provinciale venuto in città per distruggere il simbolo del capitalismo che tutto corrode e poi viene assorbito dalla città e corrotto dal capitalismo senza neanche rendersene conto.

E Bianciardi teme di fare la stessa fine. Di questo meccanismo è consapevole e tuttavia ne è quasi affascinato. «Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo – scrisse al suo amico Terrosi in una lettera – mi invitavano a casa loro». E lui ci andava. Ma sapeva che il rischio era di fare la fine di quel writer clandestino dalla penna feroce che scrive di anarchia e libertà, ma poi va a Milano e a una festa incontra il direttore di uno studio creativo di una agenzia di pubblicità di Porta Nuova che il giorno dopo lo chiama per fare il copy e quindi l’anarchico writer inizia a usare la sua penna feroce per la campagna pubblicitaria di una azienda di caramelle. Sa che il rischio è di fare la fine degli scienziati che parlano di ambiente o salute, denunciando le carenze di prevenzione e le nostre responsabilità, ma che a un certo punto diventano delle star televisive e si dimenticano il motivo per cui sono andati in televisione e parlano di cinema, di sport, di tutto ciò che gli chiedono. Bianciardi però è un puro, o almeno ci prova e ne paga le conseguenze. Eccolo quindi in Via Solferino, cammina lungo la via dove aveva anche vissuto in una piccola pensione, oltrepassa il portone del Corriere della Sera, il grande giornale, che un giorno sotto la direzione di Montanelli gli aveva offerto una prestigiosa e ben pagata collaborazione. Quando uscì La vita agra Montanelli ne rimase profondamente colpito, tanto che pubblicò un articolo, Un anarchico a Milano, che lodava il libro e il suo autore. Lo chiamò, gli fece un’offerta. Le lodi del direttore del Corriere della Sera e l’offerta di lavorare per il prestigioso quotidiano, invece che inorgoglirlo, lo mandano in crisi. Montanelli gli offriva trecentomila lire per due pezzi al mese. Bianciardi, licenziato da Feltrinelli, si manteneva allora con delle traduzioni e qualche articolo di giornale. Quell’offerta quindi era un’occasione unica, era molto di più di quello che riusciva a racimolare traducendo forsennatamente giorno e notte dall’inglese. Però era anche una resa. Si chiede se può stare dalla stessa parte di coloro che ha criticato, se può scrivere per un giornale che rappresenta il Torracchione che vuole far saltare in aria. E dice di no. Rifiuta quel mondo perché lo disapprova, resta ai margini, con suo cappotto liso, la grappa, la rabbia, il sarcasmo.

Eccolo ora Bianciardi che passa oggi in via Solferino e guarda verso da giù le finestre più alte del palazzo del Corriere della Sera, eccolo che forse ripensa a quell’orgoglioso ritrarsi, chissà se lo rivendica o se si pente, se pensa che sia stato un gesto punk e libero o un atto codardo e perdente. Se si gira e rigira questo dubbio nella testa o se fa spallucce, se ne frega e continua a camminare per la città arrivando a un certo punto davanti alla Scala, dove due studenti dormono su un divano. Protestano per il caro affitti. Un fotografo sta scattando delle foto per un servizio che una rivista patinata vuole fare su di loro, su questa protesta originale alla corsa sfrenata dei prezzi che umilia i fuori sede, costringe le giovani coppie ad andare a vivere fuori Milano, impedisce agli studenti che non possono permetterselo di studiare in città, soffoca la cultura, la gioventù, la città stessa. E allora su questo divano colorato davanti alla Scala di Milano va in onda questo gesto ribelle e folle e giusto e anarchico. Bianciardi osserva i due studenti arrabbiati, il divano, la folla di curiosi che ci gira attorno e il fotografo che sbuffa, che chiede che collaborino un po’ questi due, che si mettano in posa, perché la Rivoluzione per funzionare deve avere le sue luci, la sua iconografia, la sua estetica. Per diventare virale la Rivoluzione deve farsi bella. E allora Bianciardi trattiene il respiro. E anche il fotografo per ragioni opposte trattiene il respiro. Ed entrambi guardano lo studente e lo studente sul divano impreca, fa un gesto inequivocabile, gira loro le spalle. E si mette a dormire. 

ARTICOLO n. 94 / 2022

W. G. SEBALD, NEL SEGNO DI SATURNO

I profeti del presente

Avevo sempre desiderato visitare Orford Ness, “l’isola” come la chiamano gli abitanti del luogo, anche se a separare questa striscia di terra dalla costa del Suffolk c’è solo il sistema fluviale composto dai fiumi Alde e Ore e la traversata in barca dura pochi minuti. Però da quando nel 1993 il National Trust l’ha acquistato dal Ministero della Difesa bisogna prenotare, ed è aperto solo nei fine settimana per impedire che i turisti disturbino gli uccelli che ci nidificano, barbagianni e falchi di palude, ma anche i mammiferi come le lepri e i caprioli d’acqua. “L’isola” quindi era rimasta sempre esclusa dalle mie peregrinazioni sulla costa, fatte in gran parte durante gli anni della pandemia per sfuggire alla noia e all’oppressione delle notizie di morte che arrivavano dal resto dell’Inghilterra. Da Londra ci vogliono tre ore di macchina, e da Norwich, la città più vicina raggiungibile con un treno diretto da Liverpool Street, non ci sono collegamenti comodi. Ci avevo girato intorno, a Nord e a Sud, senza mai trovare l’occasione di andarci.

Orford Ness ha una bellezza strana e inquietante; un po’ come Dungeness, il borgo del Kent dove nel 1986 Derek Jarman è andato a morire all’ombra della centrale nucleare, materializzando un giardino dalla sabbia e scrivendo il suo diario dell’AIDS. Con Dungeness, Orford Ness condivide il suffisso –ness, che indica un promontorio o un luogo di confine, i residui arrugginiti di un passato industriale e la spiaggia di shingle, un tipo di ciottoli che definire “ciottoli” è riduttivo ma per i quali in italiano manca una parola adatta. Soprattutto, però, in entrambi i luoghi la natura selvatica si mescola a un senso di minaccia tutto umano. Entrambi i paesaggi sono ampi, spaziosi e vuoti.

La peculiarità di Orford Ness si deve al fatto che tra il 1913 e il 1987, quando a gestirlo era l’esercito, è stato il sito di un gran numero di esperimenti bellici, che hanno riguardato la balistica dell’allora neonata aviazione militare e le onde radio, l’utilizzo di piccioni viaggiatori e la bomba atomica; Orford Ness è il luogo in cui è stato inventato il radar, e negli Anni Settanta la RAF ha utilizzato i suoi grandi spazi per disfarsi delle bombe divenute inutili con il disarmo alla fine della guerra fredda, tanto che ancora oggi è obbligatorio camminare su un unico percorso per evitare di incappare in ordigni inesplosi. Quando l’ha acquistato, il National Trust ne ha fatto un parco naturale, e ha lasciato che le sue sinistre strutture militari decadessero dolcemente o venissero inglobate nella vegetazione. Si respira l’aria che immagineresti a Chernobyl; non per niente viene spesso paragonata alla Zona del film di Tarkovskij.

Nei pochi edifici ancora accessibili sono stati allestiti un piccolo museo, una libreria che sembra uscita da un romanzo di Stephen King, nella quale si vendono oggetti incongrui come libri per bambini e maglioni fatti con la lana delle pecore che pascolano placide sempre all’orizzonte; c’è una torretta d’osservazione e un edificio nero ottagonale nel quale un tempo venivano studiati i sistemi di navigazione radio dei bombardieri e in cui oggi ci si può sedere e ascoltare i versi del poeta ucraino Ilya Kaminsky che descrivono il panorama. L’installazione è parte di un progetto artistico intitolato Afterness, un nome quanto mai appropriato per descrivere un luogo così postumo. Un amico che mi accompagnava, evidentemente dotato di un maggior senso poetico di me, ha fatto notare che a Orford Ness il vento non si vede, vale a dire che lo senti sulla pelle ma non smuove i rovi e i bassi arbusti che crescono ai lati della strada. La sensazione è irreale, come se qualcosa nel contesto non quadrasse.

È la quintessenza di quello che Robert Macfarlane ha chiamato, in un’articolo scritto sul Guardian qualche anno fa, “la eeriness della campagna inglese”; è anche la quintessenza del Suffolk, un territorio nel quale la storia militare è così mescolata al panorama che è impossibile ignorarla, dalle torri Martello costruite nel XIX secolo per proteggersi dal rischio dell’invasione napoleonica ai bunker della Seconda guerra mondiale che servivano per proteggersi dall’invasione nazista: né Napoleone né Hitler sono mai riusciti ad arrivare sulle coste britanniche, ma il senso del pericolo è ancora presente. Passeggiare per il Suffolk significa attraversare diversi secoli di archeologia dei bunker, come l’avrebbe chiamata Paul Virilio. Durante e dopo la guerra sono arrivate le basi americane, come quella di Woodbridge, il paese in cui è nato Brian Eno, che ha raccontato più volte come il suo amore per la musica sia cominciato quando a metà degli anni Cinquanta osservava i soldati americani ballare rock’n’roll e doo-wop.

Probabilmente è anche questo senso di un pericolo mai realizzato, o lo spettro del complesso militar-industriale e dell’annichilimento che porta con sé, ad aver reso questa terra così spettrale; oppure gli eserciti si sono concentrati qui perché percepivano la presenza dei fantasmi: come scrive Geoff Dyer in Sabbie bianche, è difficile capire cosa venga prima e cosa venga dopo, eppure «l’effetto cumulativo di tutti quegli andirivieni rimane e si insinua nelle fondamenta», e il paesaggio «diventando una rovina rivela il suo circuito originario». È così che nasce l’anima dei luoghi. 

Mark Fisher, che di fantasmi e di eeriness si intendeva parecchio, e che in Suffolk sarebbe morto suicida, ne ha parlato diffusamente nell’audio-essay che ha co-realizzato con Justin Barton, On Vanishing Land, un tentativo di enfatizzare la spettralità implicita in On Land di Eno. Il lavoro di Fisher e Barton parte dalla «vastità inesplorata» del porto di Felixstowe e finisce a Sutton Hoo, il misterioso luogo di sepoltura sassone a poca distanza da Woodbridge. Le parole che Fisher utilizza per descrivere questo paesaggio si adattano perfettamente a Orford Ness: “eerie”, “deserto”, “irreale, “appartato”. Il Suffolk è anche il luogo in cui uno dei grandi cercatori di fantasmi della nostra epoca, W.G. Sebald, ha ambientato il suo libro più celebre, Gli anelli di Saturno. Inutile dire che ho sentito parlare di Orford Ness per la prima volta da Sebald, e che la mia passeggiata era un pellegrinaggio, o meglio ancora un rito.

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A Orford Ness Sebald è arrivato nel 1992, quando “l’isola” galleggiava nel limbo tra il suo vecchio passato militare e il suo futuro ancora non realizzato di attrazione turistica. All’epoca non c’era il rischio di spaventare i falchi di palude e i caprioli d’acqua, se è vero ciò che Orford Ness «continuava a essere evitata da tutti», e «persino i pescatori della costa, per i quali la solitudine è moneta corrente, dopo un paio di tentativi avevano rinunciato a gettar l’amo laggiù di notte, secondo quanto dicevano perché non ne valeva la pena, in realtà perché in quel luogo abbandonato da Dio e proteso sul nulla non si riusciva a resistere, anzi il permanervi aveva causato addirittura disturbi psichici duraturi»; meravigliosa, tragica ironia sebaldiana. Solo ora, rileggendo il passaggio per scrivere questo saggio, mi rendo conto che anche Sebald nota il vento: «era una giornata cupa», scrive, «opprimente, con una tale calma di vento che non si muovevano nemmeno le esili spighe delle graminacee». E continua: «Già dopo pochi minuti avevo l’impressione di avanzare in una terra inesplorata, e mi sentivo […] perfettamente libero, ma anche in preda a un’ansia immensa. Non un solo pensiero si agitava nella mia mente. A ogni passo il vuoto, dentro di me e intorno a me, si faceva più vasto e il silenzio più profondo».

L’idea di una passeggiata sebaldiana era nella mia mente da quando sono arrivato in Inghilterra dieci anni fa, perché Sebald, e Gli anelli di Saturno in particolare, è tutto un invito a ripercorrere i passi già tracciati da qualcun altro: dalla Storia, certamente, ma anche dalla memoria individuale, e da quel conglomerato di Storia e memoria individuale che è stato Sebald stesso, l’uomo Sebald, lo scrittore, ma anche il suo mito, la traccia che ha lasciato dietro di sé. Visitare Orford Ness ci ha preso tutto il giorno. L’idea per la giornata successiva era andare a Norwich, dove Sebald ha insegnato alla University of East Anglia per trent’anni, e poi al piccolo cimitero della chiesa di St Andrew a Framingham Earl, dove è stato sepolto dopo essere morto in un incidente stradale nel dicembre del 2001. Però quando ci siamo svegliati c’era il sole, non la pioggia prevista dalla BBC, e faceva caldo; così invece di andare a Nord rispetto al nostro AirBnb sperso nella campagna siamo andati a Sud, alla città fantasma di Dunwich, che nel XIII secolo era grande quanto Londra ma che è pian piano stata ingoiata dal mare, tant’è che oggi il villaggio conta solo 84 abitanti. Naturalmente anche Dunwich compare negli Anelli di Saturno. Alla sua distruzione sono dedicate alcune delle pagine più belle di tutto il libro.

Ho detto che Sebald, come uomo esistito in carne e ossa e come scrittore, invita a ripercorrere delle tracce, ma c’è anche qualcosa di più sottilmente inquietante in questo bisogno di camminare dove ha già camminato qualcun altro, e specialmente qualcuno che ha fatto di queste camminate l’oggetto ma anche la forma della propria scrittura. Nel caso di Sebald questa ritualità assume i contorni di una vera e propria necromanzia. Già nel 2012 il regista Grant Gee poteva girare un film oggi di culto e quasi introvabile come Patience (After Sebald), che non era solo un documentario sulla vita di un autore amato ma una prima camminata nel solco tracciato dagli Anelli di Saturno. Fisher non era un amante di Sebald, e le sue influenze erano tutt’altre, ma è impossibile ignorare che i luoghi di cui parla nel suo audio-essay e altrove siano in parte gli stessi del libro. Nello stesso 2012 anche Teju Cole, uno scrittore che ha dedicato il suo libro più famoso, Città aperta, proprio a Sebald, ha scritto per il New Yorker un saggio in cui racconta le sue camminate sulle tracce sebaldiane. Il saggio si intitola Always Returning: cos’altro torna continuamente se non le nevrosi e i fantasmi?

La “afterness” dell’installazione artistica a Orford Ness allora non è solo la destinazione di un movimento lineare, qualcosa che viene dopo, plausibilmente alla fine della Storia; è anche la descrizione di un moto circolare, un continuo ripercorrere gli stessi percorsi, ancora e ancora. Mentre ci pensavo mi sono accorto che solo due categorie di persone continuano a camminare sullo stesso sentiero. La prima è quella dei pensatori, o meglio di quel particolare tipo di pensatori che per pensare ha bisogno di camminare, come Kant che usciva tutti i giorni per una passeggiata alla stessa ora e la sua puntualità era tale che gli abitanti di Königsberg sistemavano gli orologi quando lo vedevano comparire in strada. La seconda è quella dei depressi, intrappolati in quella che Freud ha chiamato coazione a ripetere, per i quali camminare gli stessi sentieri è una forma della pulsione di morte. C’è qualcosa di funereo nel ripercorrere le tracce di Sebald negli anni, nei decenni: è una maniera di partecipare al lutto che pervade ogni singola pagina della sua opera, anche quelle più divertenti.

Poi però mi sono accorto che l’atto di camminare ha anche una valenza opposta, e che esiste un terzo tipo di camminatori, una categoria della quale fanno parte i flâneur e anche, in fondo, lo stesso Sebald: quelli che cercano di sfuggire alla depressione camminando. In Italia abbiamo un grande esempio, quello di Gianni Celati. Camminare, muoversi, non fermarsi mai, è un modo di tenere a bada quella inesorabile distruzione di cui parla Sebald, proiettandola con equanimità su città medievali e aringhe, sui ghiacciai e la sepoltura delle urne, sull’Olocausto e il teschio di Thomas Browne, quella distruzione da cui non c’è scampo e che minaccia di inghiottirci non appena ci fermiamo. Non per niente Gli anelli di Saturno si apre con il narratore ricoverato all’ospedale di Norwich per una misteriosa malattia che lo riduce «in condizioni di quasi totale immobilità».


Per questo la scrittura di Sebald, come quella di Celati, come quella di Teju Cole, come quella di Thomas Browne, come quella di Geoff Dyer, è una scrittura “camminante”, divagante, che rifiuta di seguire un percorso lineare, che rifiuta persino di avere un inizio e una fine. Lo era anche la scrittura di un altro grande malinconico, anzi del primo autore moderno di un libro sulla malinconia, Robert Burton. Burton oscilla continuamente tra poli opposti, dalla dimensione dionisiaca della divagazione infinita, del movimento che non vuole accettare di fermarsi, a quella propriamente malinconica della coazione a ripetere: sappiamo che ha scritto The Anatomy of Melancholy per tutta la vita, e che quando è morto a Oxford nel 1640, all’età per l’epoca veneranda di 73 anni, non era ancora soddisfatto della forma finale assunta dal libro; ma sappiamo anche che The Anatomy of Melancholy è un testo che trascende continuamente sé stesso, si spaccia come trattato medico ma non può fare a meno di essere scritto in prima persona, dovrebbe trattare il tema della tristezza ma è attraversato da una corrente inarrestabile di ironia, ed è in fin dei conti un testo enciclopedico nei mezzi e nelle finalità. La malinconia, nel libro di Burton, è una lente attraverso cui osservare tutto, e in quanto tale coincide con la vita. Queste scritture sono insofferenti al confine: proprio l’opposto di ciò che capita nel caso dell’astro evocato dal libro di Sebald.

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Vale la pena riprendere integralmente lo straordinario incipit degli Anelli di Saturno, qui nella traduzione di Ada Vigliani per Adelphi:

Nell’agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare per quelle contrade, spesso solo scarsamente popolate, a poca distanza dalla costa. D’altra parte, però, adesso ho come l’impressione che l’antica e irrazionale credenza secondo cui certe malattie dell’anima e del corpo vanno allignando in noi preferibilmente sotto il segno del Cane, potrebbe essere in qualche modo giustificata. Ad assorbire i miei pensieri nel periodo successivo fu, in ogni caso, il ricordo non solo della splendida libertà di movimento goduta allora, ma anche dell’orrore paralizzante da cui ero stato più volte assalito davanti alle tracce della distruzione che, persino in quella località sperduta, risalivano al lontano passato. Forse fu per questo che, a un anno esatto dall’inizio del mio viaggio, mi ricoverarono, in condizioni di quasi completa immobilità, nell’ospedale di Norwich, il capoluogo della regione, nel quale qualche tempo dopo avrei cominciato a scrivere, almeno mentalmente, le pagine che seguono. 

Nella raffinatezza della traduzione italiana finisce per perdersi il principale riferimento del brano: nell’originale inglese Sebald non parla di «canicola», ma scrive «when the dog days were drawing to an end», rimandando evidentemente al «segno del Cane» che segue qualche riga dopo. Nell’antichità greco-romana, i giorni del cane erano quelli in cui Sirio sorgeva all’alba insieme al Sole, alla fine di luglio; erano i giorni più caldi dell’anno (da cui appunto l’italiano “canicola”) e indicavano l’arrivo di una catastrofe; Sirio è la stella più brillante del firmamento, ma già nell’Iliade era associata all’arrivo di guerre e disastri. Dis-astri: cattive stelle. Nella prima riga del suo libro, Sebald pone tutto ciò che seguirà sotto l’influenza dei cieli, e nello specifico di un pianeta nefasto, che porta morte e distruzione su scala immane.

Nel 1964 il grande studioso warburghiano Raymond Klibansky ricordava nel suo libro sul tema che il rapporto tra Saturno e la malinconia affonda le radici nella teoria degli umori di Ippocrate di Coo: al temperamento malinconico o appunto “saturnino” era associata la bile nera; l’organo era la milza, l’elemento la Terra, e gli attributi che lo contraddistinguevano il freddo e il secco.Saturno era l’ultimo pianeta conosciuto del sistema solare, dato che Urano sarebbe stato scoperto nel 1781 e Nettuno nel 1846: era il più freddo e il più distante dal Sole, e aveva ereditato il nome dall’anziano dio dell’agricoltura romano che a sua volta aveva mutuato gli attributi dal Crono greco, il re dei Titani e signore del tempo che divorava i propri figli, così come appare nella più celebre delle pitture nere di Goya. Saturno era dunque il pianeta del limite: si trovava al confine dell’universo conosciuto, ai margini del buio dello spazio profondo, e la sua influenza riguardava i limiti invalicabili delle cose, il tempo che tutto consuma, la morte inesorabile. Per questo il suo elemento era la terra, a cui tutti torniamo e a cui tutti siamo legati dalla forza di gravità. È Saturno che compare nel cielo nell’incisione Melancholia I di Albrecht Dürer, descritta da Sebald e prima di lui da Warburg. È a “Saturno Signore della malinconia” che è dedicato Anatomy of Melancholy

Il dibattito sulle influenze astrali del temperamento malinconico aveva preso una piega inaspettata nel 1489, quando nel De Vita Triplici il grande malinconico Marsilio Ficino aveva tentato di trovare un rimedio alla disdetta della sua vita: essere nato con Saturno nell’ascendente. Ficino fa notare che spesso gli studiosi sono malinconici, istituendo così per primo un collegamento tra genio e malinconia che sarebbe arrivato dritto al Romanticismo e oltre; ma è anche il primo di quelli che potremmo chiamare “astrologi trasformativi”, una branca di pensiero che avrebbe portato all’alchimia e poi alla psicologia del profondo: lungi dall’accettare l’influenza degli astri in maniera passiva, vede l’astrologia come uno strumento per curare i mali provocati dall’astrologia stessa. Nel caso specifico di Saturno, raccomanda di bilanciare gli influssi negativi tramite l’azione di astri positivi come il Sole, Giove, Venere e Mercurio. Al temperamento malinconico, descritto dall’inventore della stenografia Timothie Bright come «tardo nel passo, taciturno, neghittoso, avverso alla luce e al concorso degli uomini», Ficino propone di contrapporre il vino, l’aria fresca e la musica. Non è un caso che due di questi tre rimedi riconducano direttamente a Dioniso.

Di tutti questi collegamenti mi sono accorto solo confusamente mentre camminavo nel Suffolk: come il passato militarizzato dell’East Anglia, rimanevano sullo sfondo, ne ero solo parzialmente cosciente. Ero ben consapevole però di star ripercorrendo un sentiero già battuto innumerevoli volte, forse già battuto da sempre, in un eterno ritorno nicciano o in un’esplosione su scala cosmica del Jack Torrence di Shining rivela di «essere sempre stato il custode». Ed ero ben consapevole che niente in noi e fuori di noi si muove senza l’influsso dei pianeti e le voci degli dèi, quelli nel macrocosmo e quelli nel microcosmo. Il sole era troppo caldo per un giorno di ottobre: altri dis-astri all’orizzonte.

L’altra cosa che avrei scoperto solo più tardi, leggendo Klibansky nel tentativo di trarre una linea narrativa da questo groviglio di fili intersecati che si perdono all’origine del tempo, è che c’è un aspetto meno conosciuto di Saturno, un lato-ombra che sembra negare la terribile fama che il pianeta si è costruito nei millenni. Nel passaggio dalla Grecia a Roma, quando Crono è stato tradotto in Saturno, il “dio anziano” ha perso gran parte della sua brutalità originaria, venendo associato principalmente all’agricoltura: il tempo non è dunque più solo il Titano che divora i propri figli, ma anche il principio benefico che fa crescere e maturare le messi; la terra non è solo una metafora della morte, ma anche della vita; e il limite inesorabile è il passaggio necessario per un nuovo inizio. Tant’è che le feste in onore del dio, i Saturnalia, erano una specie di carnevale, un momento di gioia e dionisiaca sospensione delle regole. Si celebravano dal 17 al 23 dicembre, ed è probabile che parte del culto sia confluita nel Natale cristiano, a sua volta un simbolo di nuova vita.

Ecco allora che la afterness, questo essere sempre “after Sebald”, si ribalta nel suo opposto: non c’è solo il moto lineare che conduce oltre la fine della Storia, oltre la fine dell’universo, oltre la fine di tutte le cose nel buio assoluto e totale dello spazio profondo; c’è anche il moto circolare dell’agricoltura, della morte che permette la vita e che si ripete sempre uguale. Qui Dioniso e Saturno, questi due grandi principi del disturbo bipolare che in una forma o nell’altra ci affligge tutti, non sono più antagonisti, ma facce diverse dello stesso dio. È la realizzazione di quell’equilibrio che Warburg ha cercato tutta la vita senza mai trovarlo quando scriveva nel suo diario di aver provato «a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso autobiografico: la Ninfa (maniaca) da una parte e il malinconico dio fluviale (depressivo) dall’altra».

Lo stesso potremmo dire in fondo di Sebald, che non si è «mai sentito così libero» come durante le peregrinazioni nel Suffolk, e nell’ospedale di Norwich si trova costretto a letto dall’«orrore paralizzante» che ha provocato in lui la scala cosmica della catastrofe. Però, e chissà se aveva in mente la natura ciclica di Saturno mentre lo decideva o se è stata una scelta inconscia, la stasi e la malattia sono poste all’inizio del libro, non alla fine. O meglio, l’inizio e la fine sono la stessa cosa: ci si ferma, si cammina, si è liberi e ci si ferma di nuovo; ci si riposa, e poi si cammina di nuovo. Gianni Celati camminava per ore prima di scrivere, e scriveva solo quand’era esausto. Poi si riposava e riprendeva a camminare, o a scrivere, che in fondo per lui erano la stessa cosa.

***

Ciò che invece ha continuato ad andare dritto lungo la propria strada è il progresso scientifico, che conosce interruzioni e improvvisi salti in avanti ma non ammette divagazioni, almeno in questa maniacale allucinazione razionalista in cui abbiamo trasformato la scienza. La teoria degli umori è stata sorpassata, e si può sostenere a ragione che la medicina moderna abbia salvato qualche miliardo di vite. Il concetto di malinconia, con la sua ricchezza semantica che includeva tristezza e nostalgia, rimpianto e disperazione, irascibilità e tedio, è stato rimpiazzato da quello «uniforme ma informe» della depressione, come ha scritto Silvia Arzola. Le voci degli dèi sono state ridotte a squilibri chimici nel cervello e vengono curate con le medicine. Che servono, certo, ma a volte non servono. Non riesco a fare a meno di pensare a Mark Fisher, a tutto ciò che ha scritto sulla depressione e alla sua morte autoinflitta e al fatto che abbia scelto proprio il Suffolk per vivere e morire, lui che era delle Midlands.

Siccome in fondo tutto finisce, come Gli anelli di Saturno racconta nel migliore dei modi possibili, non posso fare a meno di pensare anche alla morte di Sebald, che appare così casuale, così gratuita: un punto arbitrario per mettere fine alla vita del più grande divagatore del nostro tempo. La mano di Saturno, senza dubbio. Il dis-astro che si manifesta nel quotidiano, una sera di dicembre fuori Norwich.Nel 2012, l’anno dell’uscita di Patience (After Sebald) e della peregrinazione di Teju Cole, la sonda della NASA Voyager 1 è stata il primo oggetto costruito dall’uomo a uscire dal sistema solare: aveva sorvolato Saturno nel 1980. Dieci anni dopo si trova a 23 miliardi e 604 milioni di km dal Sole e comunica con la Terra ininterrottamente da 45 anni e 1 mese. Continua ad andare dritta, senza divagazioni, nel buio cosmico, sempre più lontana dagli uomini e dai loro dèi. Continuiamo a sentirla parlare, finché un giorno non la sentiremo più e sarà diventata solo un altro dei nostri fantasmi.

ARTICOLO n. 93 / 2022

AIUTA I VECCHI

Vortex di Gaspar Noé

Stanco ed eccitato da non riuscire a dormire: così in certe occasioni mi capita di sentirmi, e così mi sono sentito una notte della settimana scorsa, quando – scanalando – sono incappato nella visione di Vortex di Gaspar Noè. Il film è uscito l’anno scorso ed è adesso disponibile su Mubi, e Noè è autore amato sia dalla critica che dai giovani cinephiles; viene spesso citato come reference, e sovente nominato nelle conversazioni (un collettivo di registi con cui ho lavorato di recente mi ha proposto per l’appunto “un’inquadratura alla Gaspar Noè”) e forse proprio per questo motivo da me snobbato. 

Ho dunque cominciato a vedere il film con molti pregiudizi, diffidente come verso le cose troppo chiacchierate o troppo di moda. 

Ho capito presto che mi sbagliavo.

La storia è quella di due anziani che vivono in una casa disordinata e zeppa di libri nella zona Nord di Parigi. Lui è un cineasta, sta scrivendo un libro sul rapporto fra cinema e sogno, lei è un medico. Nella prima scena sono a letto, dormono, l’uno accanto all’altra. Poi lei apre gli occhi, come in preda a un terrore ignoto, lui, accanto, continua a dormire. Dall’alto del frame dell’immagine una lacrima nera di nero extra-cinema comincia a colare verticalmente, lentamente, dall’alto verso il basso, fino a dividere l’inquadratura in due. Comincia così il racconto split-screen di una terrificante disgiunzione fra esseri umani. La signora non si ricorda più chi sia il marito, confonde nomi e facce, esce per far compere e si perde nel quartiere. I sintomi di una malattia oramai diffusa e nota, la patologia di quelli il cui cervello muore prima del cuore. Mi ha colpito il realismo con cui la malattia viene rappresentata, merito sicuramente di Francoise Lebrun, attrice di culto della Nouvelle Vague, qui in una prova attoriale incredibile, e di Dario Argento, bravissimo anche lui nel ruolo dell’anziano intellettuale italiano di cinema (interpreta se stesso, in fondo, verrebbe da dire, non c’è bisogno di particolare abilità; ma l’argomento è mal posto: non è in questione il fatto che interpreti se stesso quanto il coraggio di portare il se stesso reale dentro una cornice di questo genere, il coraggio di affrontare nudo, senza gli schermi dell’attore, la tempesta di dolore di una sceneggiatura siffatta). Il francese maccheronico di lui, la sua premura, il suo continuare ad amare la moglie attraverso piccoli gesti quotidiani, quelli contrari all’epica dell’innamoramento, i gesti ordinari e squallidi nelle cucine disordinate e nei bagni sporchi, l’eroismo della convivenza dentro gli spazi chiusi. Commuove, l’oscuro neorealista scrutare di immagini e dialoghi all’interno di una distruzione per logorio di due esseri umani vecchi e malati, in lenta discesa verso la morte. Commuove come il film racconti senza troppi simboli la folle innaturale volontà di auto-conservazione dell’uomo di fronte allo scorrere del tempo, rappresentata da lui che non vuole lasciare la casa, quando il figlio propone il trasferimento in una clinica, e che crede ancora in una patetica relazione extraconiugale con una collega, e incarnata dall’abbandono al vortice della morte da parte di lei, che, in un momento di lucidità, sussurra «la cosa più sensata sarebbe sopprimermi».

Non sopporto l’estetica digitale dell’immagine dei nostri tempi, la freddezza del mezzo, la grana del cinema non girato in pellicola e lasciato senza una color correction che lo riporti alla pastosità dell’analogico. Mi piace ogni forma di saturazione, filtraggio, modifica della realtà fotografica. Mi rassicura pensare che ciascuno di noi possa trasformare un’immagine fredda da telefonino, con la giusta app, in un frame di Nicholas Ray o Sergio Leone (bisognerebbe capire poi meglio il perché, a livello cognitivo, ma questo è un altro discorso). Mi rassicura che l’orrore del reale e del mondo possa essere manipolato dal cinema, mi rassicura che persino il cinema e la fotografia, due mezzi così specchio del reale, possano andare in direzione contraria alla realtà, “ridipingendo” anch’essi, come un pittore, il mondo.

Vortex ha una poetica contemporanea, avrebbe in questo senso tutti i vestiti giusti per non piacermi: è girato in digitale e si vede. Certo, la luce degli interni è molto ben studiata (c’è una palette di colori uniforme, ci sono i marroni, il grigio, il buio, l’ocra della pelle degli esseri umani, tutto tende all’ingiallimento e alla decomposizione) ma nonostante la coerenza cromatica ci si accorge della povertà, ci si accorge che nulla è stato colorato o manipolato in post. E, eccezione alla regola, questa nudità, questa verità di camera digitale presentata per quello che è, lasciata alla sua vetrosità senza pasta, senza calore, mi piace. Si tratta dello stesso tipo di sincerità rispetto al reale che poteva avere il filmino in VHS di un matrimonio degli anni ’80. Forse amo le immagini di Vortex perché anch’esse, in fondo, più che essere realistiche lo sono eccessivamente! Sono contro il mondo per iper-realismo, quindi fantastiche. 

E di diritto, dentro a una poetica del fantastico, Vortex ci entra pure per la banda nera che divide lo schermo in due. L’elemento grafico che consente l’accostamento di due punti di vista diversi della stessa scena è il motore primario dell’anti-realismo del film. Nella realtà non ci è dato vedere campo e controcampo insieme, l’occhio non coglie in contemporanea chi cerca e chi è scomparso, è impossibile far coesistere presenza e assenza. Vortex lo fa, e, a uno sguardo attento, è una elegantissima forma di fantascienza.

Il mondo che abitiamo è fatto di anziani. Anziani dalla vita sempre più lunga, ed è per questo che viviamo l’epoca della demenza. Abbiamo sempre più quotidianamente a che fare con l’Alzeheimer, come se dovessimo pagare lo scotto dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Le statistiche dicono che oggi i malati di demenza sono circa 55 milioni nel mondo, e che nel 2050 saranno assai probabilmente raddoppiati. Ci sono previsioni attendibili di raddoppio di numero ogni venti anni. L’eternità, un prezzo, pare avercelo: l’obnubilamento delle nostre menti, per esempio. Si tratta di un triste paradosso: l’uomo prolunga la propria vita sulla Terra con i progressi della medicina, della tecnologia e della scienza, ma intanto la Terra si popola di vecchi che si ammalano lentamente e lentamente entrano in un vortice di oblio in cui si perde la memoria della ragione profonda per cui si è voluto sconfiggere la morte. 

Help the aged, diceva una canzone intelligente dei Pulp, «aiuta gli anziani perché son stati giovani prima di te, perché hanno sniffato colla prima di te». Bisognerebbe aggiornare aggiungendo: aiuta gli anziani, dai loro una moneta e condividi con loro un pezzo di pane, prima che i costi sociali sempre più alti della demenza (nel mondo senza giovani) ti travolgano e portino te e il tuo Paese all’impoverimento e al collasso. Aiuta gli anziani, aiuta te stesso. A qualche fanatico di governo, alla retorica del razzismo, bisognerebbe rispondere che non saranno orde di barbari a mandarci in rovina, ma il deterioramento delle cellule cerebrali nostrane.

Eugenio ebbe un ictus che lo costrinse a una vita di vegetale. Ottantaseienne, cadde una mattina di novembre mentre lavorava come ogni mattina nell’orto di casa. Lo portarono all’ospedale, dove entrò in coma. Dopo due giorni si svegliò, ma quasi completamente paralizzato (la mano sinistra aveva ancora libertà motoria, e i muscoli della faccia). Apriva la bocca per parlare, ma non riusciva a emettere suoni comprensibili, solo rantoli strozzati, grugniti bestiali. Muoveva a volte le pupille a destra e a sinistra, velocemente, e inarcava le sopracciglia folte. La moglie Dina – che insieme all’infermiere lo accudiva – capiva che in quei momenti Eugenio stava per piangere. E in effetti poi piangeva, a dirotto, con singhiozzi soffocati, come potrebbe piangere un uomo sott’acqua, senza respiro. Le lacrime scorrevano sulle rughe delle guance, sulla pelle che dopo l’ictus si era ritirata, accartocciata. La accarezzavi e sembrava di legno. Le lacrime la bagnavano e capivi quanto Eugenio in quei momenti fosse invaso da un terrore assoluto: il terrore dei sepolti vivi. Era un vivo dentro un corpo di morto.

L’infermiere mi ha raccontato che una volta Eugenio una frase riuscì a dirla. «Tanto terribile», disse l’infermiere, «che fatico a ripeterla e prego il buon Dio che me la sia sognata». Lo tartassai così tanto che me la ripeté, bianco di paura. «Le medicine. Dammi le medicine per morire».Quando Eugenio morì, calò una barra nera nel film della vita di Dina. Che era una donnina angelica, buona, intelligente. Forte come un manovale. Una barra nera la divise in due immagini: la Dina di sempre, acuta, sveglia, presente, dolce e una Dina nuova. Feroce, cattiva, senza memoria. Questa Dina nuova compariva con sempre maggiore frequenza nel film della Dina vecchia, con violenza. Urlando, bestemmiando, maledicendo il mondo. Non si ricordava chi fosse. A volte diceva di essere una bambina, e mi implorava di riportarla a casa. «Che ci faccio qui? Questa non è mica casa mia», diceva. Fino a che lo split screen della Dina vecchia non rimase un’inquadratura vuota da una parte e l’inquadratura di una Dina nuova silenziosa stesa senza vita su un letto di ospedale, neanche tre mesi dopo dalla morte del marito, dall’altra. Dina ed Eugenio erano i miei nonni, si sono amati per sessant’anni, senza separarsi mai, e io li ringrazierò per sempre per avermi insegnato come si possa con eroismo e dignità portare sulle spalle il peso dello squallore del mondo.

ARTICOLO n. 92 / 2022

MEDITAZIONE BUDDISTA

Sebbene la meditazione sia una prassi trasversale alle epoche e alle tradizioni, il contesto a cui viene associata più spesso è il buddismo – o i buddismi, dato che nonostante la radice comune ne esistono molteplici varianti in base alla collocazione spazio-temporale. Tra i motivi di questa predilezione c’è il fatto che in ambito meditativo si tratta di una delle filosofie che ha lasciato più testimonianze, indicazioni e tassonomie essoteriche, ovvero “aperte” al pubblico. Questo atteggiamento non stupisce, se si pensa che una figura che segna il passaggio dalla tradizione Theravada, nota come “Piccolo veicolo” (o veicolo ristretto, per i monaci), al più moderno Mahayana o “Grande Veicolo” è il bodhisattva, l’illuminato che, a differenza dell’arhat che raggiunge la liberazione individuale nell’ascesi, fa voto di aiutare tutti gli esseri senzienti a uscire dal nefasto ciclo delle reincarnazioni (samsara). Da tecnica quasi esclusiva del mondo monastico dunque, la meditazione diventa nel Mahayana una pratica da insegnare e condividere per il bene più grande di una liberazione collettiva.

Inoltre, il proliferare di descrizioni pratiche, fenomenologiche e psicologiche, così come un’attitudine aperta alla sperimentazione propria a molte comunità buddiste, ha contribuito al fatto che la maggior parte degli studi scientifici – psicologici come neurologici – si basino su persone che praticano tecniche che appartengono o si ispirano a questa tradizione. La stessa mindfulness, che spesso viene descritta come una sorta di pratica “laica” della meditazione (le virgolette sono d’obbligo perché l’elemento devozionale non è trasversale nel buddismo), prende le mosse da una delle principali tecniche meditative buddiste, la vipassana, su cui tornerò in seguito.

Nel buddismo la meditazione ha un ruolo importantissimo, perché è lo strumento sia per comprendere che per accogliere “i tre segni dell’esistenza”, ovvero che tutti i fenomeni sono dukkha, insoddisfacenti/dolorosi, anicca, impermanenti, anatta, privi di sé o essenza propria. Come hanno scritto Corrado Pensa e Neva Papachristou, «Dukkha è sofferenza, insoddisfazione. Dietro a un successo, dietro a una soddisfazione, dietro a una gratificazione, non di rado c’è la paura del momento in cui questo stato positivo finirà. Infatti anche tra picchi di soddisfazione ci saranno valli di insoddisfazione, e anche questa è dukkha. La seconda caratteristica dell’esistenza, o segno, è l’impermanenza, il cambiamento continuo: anicca. E, infine, il non sé, anattā, la dottrina che si oppone al concepire l’io come un’entità solida e separata». Meditare non solo aiuta la comprensione di queste caratteristiche, che possono essere colte con facilità anche intellettualmente, ma permette di esperirle e infine trascenderle.

Selezionare un testo in questa immensa mole di materiale non è facile, ma voglio partire da un riferimento classico, l’antico Satipatthanasutta (22 a.C circa), il “Sutra della base della presenza mentale” che affonda nel buddismo Theravāda; qui la meditazione viene trattata ampiamente, anche e soprattutto nei suoi aspetti tecnici. Nel testo – un po’ ripetitivo perché nato per essere ruminato più che letto – troviamo subito l’elenco dei quattro pilastri di ogni meditazione:

1. Bhikkhu, il praticante si radica nell’osservazione del corpo nel corpo, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

2. Egli si radica nell’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

3. Egli si radica nell’osservazione della mente nella mente, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

4. Egli si radica nell’osservazione degli oggetti mentali negli oggetti mentali, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

Dopo questa lista l’illuminato fornisce con una descrizione sintetica e precisa di tutte le fasi. Nella prima, “l’osservazione del corpo nel corpo”, chi medita 

…va nella foresta, ai piedi di un albero o in una stanza vuota, si siede a gambe incrociate nella posizione del loto, tiene il corpo eretto e stabilisce la consapevolezza di fronte a sé. Egli inspira, consapevole di inspirare. Egli espira, consapevole di espirare. Quando inspira un lungo respiro, egli sa: “Sto inspirando un lungo respiro”. Quando espira un lungo respiro, egli sa: “Sto espirando un lungo respiro”. Quando inspira un respiro breve, egli sa: “Sto inspirando un respiro breve”. Quando espira un respiro breve, egli sa: “Sto espirando un respiro breve”. Egli esercita la seguente pratica: “Inspirando, sono consapevole di tutto il mio corpo. Espirando, sono consapevole di tutto il mio corpo. Inspirando, calmo le attività del corpo. Espirando, calmo le attività del corpo”.

A questa pratica di osservazione del corpo, che non si limita al respiro ma si estende anche alle azioni (come camminare) e alle propriocezioni (come la posizione fisica o la concentrazione su parti o processi corporei), si aggiunge il secondo pilastro, “l’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni”, in cui

Ogni volta che il praticante prova una sensazione piacevole, è consapevole: “Sto provando una sensazione piacevole”. Ogni volta che prova una sensazione dolorosa, è consapevole: “Sto provando una sensazione dolorosa”. Ogni volta che prova una sensazione né piacevole né dolorosa, è consapevole: “Sto provando una sensazione neutra”.

Le ultime due fasi procedono in modo analogo: nella terza, “l’osservazione della mente nella mente”, a essere contemplate sono le emozioni, come desiderio, avversione, distrazione, stanchezza ecc.; mentre nella quarta l’attenzione di chi medita, fattasi più sottile, riesce a distinguere come al rallentatore l’incessante nascita, sviluppo e morte di ogni formazione mentale («”Queste sono le formazioni mentali. Questo è il sorgere delle formazioni mentali. Questo è lo scomparire delle formazioni mentali”»).

Come dicevo in precedenza la meditazione è indispensabile anche per comprendere e soprattutto assorbire i cardini filosofici del buddismo, tanto che nello stesso Satipatthanasutta viene esplicitata la relazione di questa tecnica con le celebri “quattro nobili verità” espresse dal Buddha. Così nel Sutta:

Inoltre, bhikkhu, il praticante si radica nell’osservazione degli oggetti mentali negli oggetti mentali in relazione alle quattro nobili verità.

In che modo egli si radica nell’osservazione delle quattro nobili verità?

Il praticante, quando sorge la sofferenza, è consapevole: “Questa è la sofferenza”. Al prodursi della causa della sofferenza, è consapevole: “Questa è la causa della sofferenza”. Al prodursi della fine della sofferenza, è consapevole: “Questa è la fine della sofferenza”. Al prodursi del sentiero che conduce alla fine della sofferenza, è consapevole: “Questo è il sentiero che conduce alla fine della sofferenza”.

Così il praticante […] Si radica nell’osservazione del processo di originazione o del processo di dissoluzione negli oggetti mentali, o in entrambi i processi di originazione e dissoluzione.

In questo passo si ripercorrono in breve le quattro nobili verità individuate dal Buddha lungo il suo percorso spirituale: (1) che la vita sia dolorosa/insoddisfacente, (2) che questo dolore sia legato all’inesauribile moto del desiderio e dell’avversione, (3) che sia possibile affrancarsi da questa condizione e (4) che ciò sia possibile grazie alla de-identificazione operata nella meditazione. Per riuscirci, il Satipatthanasutta offre un metodo di intensificazione dell’attenzione e della contemplazione che a partire da stimoli ripetitivi e neutri come il respiro, su cui è più semplice (ma comunque difficilissimo) concentrarsi senza dare giudizi di valore, si sposta verso eventi mentali che di rado riusciamo a osservare con distacco – o per meglio dire con i quali tendiamo a identificarci. Le quattro fasi testimoniano un passaggio da “io sono arrabbiato, felice, distratto, ecc.” a “c’è della rabbia, della gioia, della distrazione ecc.”; pezzo dopo pezzo, istante dopo istante, l’io si palesa vuoto, perché chi medita smette di trovare qualcosa con cui identificarsi nel frammentario e incalzante flusso mentale che contraddistingue la vita psichica.

Come ha avuto modo di ricordare Daniele Capuano in uno dei corsi di filosofia della meditazione che tiene assieme a me e Adriano Ercolani, il cammino meditativo buddista si muove essenzialmente tra due poli, spesso coincidenti: la samatha o “quiete, serenità” e la vipassana o “chiara visione”. Nella prima, che in un articolo precedente ho inserito nel gruppo di tecniche basate su “concentrazione e ripetizione”, chi medita focalizza l’attenzione su un oggetto sempre disponibile, come il respiro o una sensazione corporea, senza però cercare di controllare o modificare quanto osserva. Durante questa pratica ciò che distoglie l’attenzione dall’oggetto di riferimento viene messo da parte con gentilezza, con un riconoscimento distaccato che riporta dolcemente l’attenzione all’oggetto della meditazione. Se ad esempio mi distrae il ronzio di una mosca, invece che lasciarmi assorbire da questa nuova sensazione mi limito a osservarla per poi metterla da parte, in un processo che potrei descrivere così: ecco che sento la mosca – il ronzio è così e così – torno al respiro. Le inevitabili distrazioni non sono nemici da combattere ma eventi da osservare con curiosità, di cui si riconosce la presenza per poi tornare all’oggetto della meditazione. È celebre a questo proposito la metafora della mente come una “scimmia impazzita”, perché come l’animale salta da un ramo a un altro senza mai trovare requie, così la mente non riesce mai a restare focalizzata su un pensiero, ma passa da uno all’altro con grande velocità.

In questo senso la meditazione samatha non è distinta da quella vipassana, che avevo inserito nel gruppo “contemplazione e osservazione equanime”. In quest’ultima infatti le distrazioni appartengono a un campo di consapevolezza dove ci si limita a riconoscere la loro presenza; gli eventi mentali sono quel che sono, si contemplano senza giudizio, anche se li viviamo come esperienze negative. Persino un dolore fisico viene esplorato con curiosità – un’attitudine da non scambiare con la flagellazione ascetica o il masochismo, perché dopo un iniziale acuirsi della sofferenza la risemantizzazione del vissuto operata dalla vipassana porta a un forte sollievo. Per realizzare questa presa di distanza in cui i contenuti mentali non vengono scacciati ma lasciati fluire, si usa anche una tecnica denominata vitarka, che consiste nel “prendere nota” degli eventi mentali affidandogli una semplice etichetta (“questa è una sensazione”, “questo è un pensiero” ecc.). Grazie a questo esercizio di etichettatura la mente si allena a rompere la naturale tendenza a identificare il vissuto e chi lo vive – un “chi” che diventa sempre più debole, impalpabile e in ultima analisi vuoto. In queste tecniche l’intenzionalità di chi medita ha il sopravvento sulla sua identità; si parte da una volontà che si concentra sull’oggetto della meditazione, ma via via che si medita la credenza in un soggetto che esprime tale volontà si erode anche da un punto di vista esperienziale. Per indicare l’atto riflessivo attraverso cui diveniamo consapevoli delle nostre sensazioni, Leibniz usò il termine “appercezione”, una sorta di meta-percezione in cui la percezione diventa oggetto di se stessa. Con una metafora si potrebbe dire che la meditazione samatha-vipassana trasforma le percezioni in appercezioni, perché si basa sulla contemplazione equanime del paesaggio mentale, che viene poi riconosciuto come una piccola increspatura del più vasto oceano del reale.

ARTICOLO n. 91 / 2022

NON SARAI MAI UNA PRINCIPESSA CON QUESTE CICATRICI

Il corpo culturale

Ho l’abitudine di camminare guardandomi sempre le punte dei piedi perché da piccola venivo costantemente ripresa per il mio modo trasognato di andare avanti scontrandomi spessissimo con pali e tombini. Non sarai mai una principessa con queste cicatrici. Le mie ginocchia erano un campo minato e le mie nonne erano solite dirmi che ero nata con la cerbottana al posto della corona. Quello che non tenevano in considerazione era che io non mi ero mai sentita poi così regale perché avevo imparato subito che le principesse hanno un corpo diverso dal mio, parlano spesso con i topi e vengono salvate dal principe che arriva nel momento giusto della storia, quello che impedisce, appunto, fratture e ferite. Ero certa di non voler parlare con nessun roditore, ma ero altrettanto sicura che nessuno sarebbe venuto a salvarmi dai miei mostri perché ero una di loro. 

Ho ripensato alle principesse poco tempo fa, una mattina d’estate in cui camminando per il centro di Modena sono passata davanti a un portone padronale con un buco, probabilmente causato da un calcio, nella parte inferiore di legno. Mi sono fermata per guardare qualcosa che ho colto solo perché sono stata addestrata a guardare per terra. La ferita aveva aperto uno spazio su un pavimento di ceramica tassellato in verde scuro e crema, un lavoro manuale davvero notevole, quasi romantico. Ho pensato che presto quel buco sarebbe stato riparato e di quel pavimento da ballo uscito da una fiaba ci saremmo dimenticati, perché, nonostante la sorpresa e l’illusoria potenza che solo un finto segreto sa dare, la sostituzione prende sempre il monopolio dei nostri slanci attentivi e, strato su strato, trasforma il cambiamento in normalità e la normalità in abitudine. La rottura del legno in qualche modo verrà digerita fino a trasformarsi in una tappa necessaria, un momento utile per ripristinare la struttura ma con nuovi materiali. Ricordo che dopo qualche istante un signore si è schiarito flebilmente la voce accanto a me e in quel momento mi son resa conto di essere rimasta più del tempo consono stabilito per guardare dentro casa di altre persone. Certo, con voi ora potrei giustificarmi dicendo dolcemente che stavo pensando al Kintsugi, arte giapponese di riparare le ceramiche rotte con l’oro perché diventino più belle e preziose, ma il fatto è che al massimo si arricchiscono senza, però, modificare la loro già decisa funzione: una tazza resta una tazza. Bellissima, certo, ma pur sempre una tazza. No, in realtà stavo pensando alle sale da ballo, alle scarpette di cristallo e al fatto che, nonostante tutti gli eventi lesivi ricevuti, il corpo culturale della Principessa è uno scrigno sigillato che ammiriamo dall’esterno nella sua bellezza, ne riconosciamo la forma e la funzione, prendiamo come benchmark per decretare il successo o l’insuccesso delle nostre vite amorose.

Mentre mi spostavo velocemente per far passare il signore e riprendevo a camminare verso il portico dall’altra parte della strada, ho pensato che come le porte anche i corpi culturali – quei modelli di cui parlavamo nell’articolo scorso, ricordate, le ombre nutrite di storie che si posano sul corpo biologico e ne colmano segni e marchi per trasformarli secondo il tempo e lo spazio – si rompono e si ricompongono cercando di mimetizzare la frattura e che non è il modo in cui assorbiamo quella dissincronia a renderci consapevoli della struttura, perché diventa una nuova normalità troppo velocemente per lasciare memoria. No, è quello che ci facciamo in mezzo che permette di vederne la striscia di polvere in controluce, il maldestro tentativo di raccogliere i pezzi senza prestare attenzione alle irregolarità, continuando a chiamare le cose col loro nome anche quando non lo sono più, per il momento almeno. Così, in quella mattina d’estate, pensando alle principesse, mi sono venute in mente Leslie Van Houten, Patricia Krenwinkel e Susan Atkins, le ragazze di Charles Manson.   

Joan Didion in The White Album ci fornisce le coordinate per navigare questo torrente melmoso. «Noi ci raccontiamo delle storie per vivere. La principessa è imprigionata nel consolato.» In questa auto-etnografia Didion mette in fila gli eventi a cui ha assistito dal 1968 fino alla fine degli anni ‘70. «Se siamo scrittori viviamo grazie all’imposizione di una linea narrativa sulle immagini più disparate, alle idee con cui abbiamo imparato a congelare la mutevole fantasmagoria che costituisce la nostra effettiva esperienza.» Nelle notti tra l’8 e il 10 agosto 1969 si consumarono l’eccidio di Cielo Drive e il massacro LaBianca, l’omicidio di sette persone condotto dalla Famiglia Manson. Conosciamo Susan, Leslie e Patricia da lì, dalla notte in cui uccisero Sharon Tate e gli amici che malauguratamente erano in quella casa per tenerle compagnia durante la gravidanza in assenza del marito Roman Polanski e da quella successiva in cui accoltellarono Leno e Rosemary LaBianca per punizione. A Manson, infatti, non era piaciuto il caos che si era generato a Cielo Drive e aveva deciso di salvare le sue ragazze da quel disastro, caricandole sul suo destriero e portandole a Waverly Drive, la casa dei coniugi LaBianca, per una pratica dimostrazione sul campo. «Sto parlando di un periodo – scrive ancora Didion – in cui ho iniziato a dubitare delle premesse di tutte le storie che mi fossi mai raccontata, una condizione comune, ma che trovo preoccupante.» Come una porta rotta da un calcio che lascia intravedere un pavimento bellissimo al suo interno, la cattura delle ragazze di Manson e il racconto che loro stesse portavano avanti della loro vita e di quella di Charles permise al pubblico di formulare un dubbio fino a quel momento scampato dalla velocità di riparazione delle crepe precedenti. La storia delle ragazze, infatti, era una fiaba perfetta in cui le fanciulle, denigrate da cattive matrigne e padri orchi, erano state salvate dal principe Manson che le aveva condotte nel suo castello e trasformate in principesse. Ed effettivamente il racconto filava perfettamente. Solo che, come regalo di nozze e al posto di un giardino di rose, c’era stato il ventre gravido squartato di Sharon Tate. Non era possibile per lo spettatore usare quelle idee atte a congelare e semplificare la «mutevole fantasmagoria dell’esperienza», perché erano quelle stesse idee a scoordinare il reale dalla narrazione. Se partiamo, infatti, dall’immagine – l’ombra di Platone, il corpo culturale – che appare nella nostra mente quando sentiamo pronunciare la parola “principessa” ci rendiamo conto che quel corpo non è fatto solo di componenti biologiche – anch’esse comunque pressoché standardizzate dal modello – ma che a quel corpo associamo diversi comportamenti sociali e biografici che contribuiscono, nel tempo e nello spazio, a mantenere in vita la struttura di quel corpo nonostante le rotture. Il pericolo arriva, infatti, non quando si rompe il modello, ma quando le parole e i discorsi del mondo reale rimandano a un corpo culturale che non si frattura per assorbire una realtà non del tutto combaciante, ma respinge totalmente l’associazione cognitiva. Quando dentro questo corpo culturale cadono le fratture del mondo reale e immoralmente trovano uno spazio che ci fa inorridire, quando il confine tra racconto collettivo e mostro si perde. Andando avanti e indietro per il corridoio pensando a come srotolare questa pergamena ho pensato che sia giunto il momento di scomodare Pierre Bourdieu e parlare di habitus

Bourdieu descrive l’habitus come lo spazio che si occupa attraverso una performance sociale competitiva composta da una serie di disposizioni e istruzioni acquisite, fondamentali per vivere all’interno di un campo sociale. Fa riferimento ai comportamenti che nel mondo reale permettono ad alcuni di superare altri, perché lo scopo dell’habitusè imporre una visione del mondo precisa, ruoli sociali, categorie cognitive e modelli attraverso cui guardare il mondo, percepirlo e tramandarlo da soggetto dominante a soggetto dominante, da maggioranza a maggioranza, tornando a quel fenomeno collettivo maieutico che produce ombre, corpi e mostri. Sono le parole, ancora una volta, a trasmettere strutture culturali, educative e plasmanti e non si limitano chiaramente a portare avanti ciò di cui ci rendiamo conto, ma anche tutto l’upside down a esse collegato e che arriva fino all’inizio della nostra storia. Così, quando le parole ci portano alla Principessa, noi, all’immagine, associamo una serie di comportamenti, spazi e performance in modo automatico: un castello fatato, un giovane paladino su cavallo bianco che salva la principessa, e vissero per sempre felici e contenti. Cosa succede se invece a questo corpo si aggancia una performance sociale imprevista, di eguale forza ma totalmente contraria a quanto preventivato, come il massacro di Cielo Drive? Be’, si crea una frattura come nella porta.

Foucault la chiama rottura epistemologica, cioè quel momento in terza persona di chi per un attimo viene distratto e riesce a guardare la storia da fuori, scoprendo che al suo interno si nascondono bugie. La struttura, infatti, e stabile e immutabile sono in apparenza. La scoperta, che quel corpo culturale, quell’insieme di storie – parole -, comportamenti tramandati e stabiliti dal plasmare collettivo, sono metodicamente resi invisibili e impercettibili, trasformati in abitudini in quanto inganno antico dell’Ombra di Platone. Quello che vediamo sul muro della Caverna, infatti, è una sequenza di discontinuità, di rotture e ferite che producono nuovi paradigmi conoscitivi che a loro volta modificano le regole del gioco per preservare il modello silente, il corpo della principessa. Nella frattura si insinua una luce, nella rottura riusciamo a vedere cosa si nasconde all’interno della ceramica perfetta del guscio e scopriamo le imperfezioni del modello, la struttura fragile. Dura solo un momento, però, prima che un altro corpo culturale prenda spazio nella narrazione per assorbire l’incongruenza, metta in scena un particolare e lo renda il nuovo punto d’attenzione nella storia.In questi giorni sono ripassata davanti al portone per ricordarmi la frattura, ma nella parte inferiore, quella un tempo spaccata, c’è un pannello di legno simile ma più nuovo rispetto al resto della struttura. Ho pensato che dovrebbero riammodernare anche il resto della porta, per eliminare quella discontinuità.  Ho provato a ricordarmi il motivo del pavimento, l’ho perso da qualche parte, ma quel nuovo pannello è esattamente nel posto in cui dovrebbe essere. Almeno, così mi hanno insegnato.

ARTICOLO n. 90 / 2022

LIBERA NOS A MALO

Liberaci dal male.

Questo mi sembra che tutti i media e la società civile chiedano a noi sopravvissute alla violenza di genere, quando vedo iniziare la rincorsa affannosa alle nostre testimonianze con l’avvicinarsi del 25 novembre.

Liberaci dal male e solleva la nostra coscienza dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per sensibilizzare sul tema della violenza maschile contro le donne nei restanti 364 giorni dell’anno.

La mia casella di posta si riempie di notifiche nelle settimane immediatamente precedenti a questa.

Convegni, programmi televisivi, interviste, panel, richieste di tenere speech, monologhi, lezioni, dirette, consigli e recitare atti di dolore nell’etere. 

Si richiede prontezza di risposta, magari qualche lacrima, due o tre domande sui genitori perché fanno sempre piangere, una buona dose di grinta per chiudere e l’immancabile «cosa ci consigli di fare per renderci utili nel nostro piccolo?», saluti guardando in camera e ora passiamo ai consigli per gli acquisti.

Il 25 novembre, ovvero la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il mondo si tinge d’arancione. Segni rossicci sulla faccia di vip più o meno noti, politici di ogni lato che cavalcano l’onda per rimediare uno 0,1% in più ai sondaggi della domenica, pagine di gossip che improvvisamente ci ricordano quanto sia terribile menare le proprie partner, quadrati arancio su ogni profilo Instagram, articoli cupi e sconfortati di testate che per tutto il resto dell’anno fanno disinformazione sul femminicidio rafforzando stereotipi e bias che ci portiamo dietro da sempre, programmi TV che ogni domenica sera invitano gli spettatori a dubitare delle vittime di violenza e che però in questa data fanno improvvisamente servizi speciali con volti contriti e ritrovata serietà, commentatori del web che fino al giorno prima scrivevano oscenità sotto ai post delle giornaliste e attiviste che si occupano di questi temi e che magicamente, per 24 surreali ore, trovano la pietas necessaria per postare la foto del loro calciatore preferito con il segno rosso sul volto, «Grazie Ibra sei sempre un campione di umanità».

Muori puttana, zitta troia, non abbiamo problemi noi maschi, ti piace fare la vittima, non ti va mai bene niente, non tutti gli uomini sono violenti, ti dovrebbero scopare di più, eppure mi sembri felice per essere una che è stata menata dall’ex, ti auguro ti stuprino bene, guarda che sei fissata, sei pesante, vi lamentate sempre, se non ti ci fidanzavi non ti succedeva, hai spaccato i coglioni, stai zitta, zitta, zitta troia.

Questo è ciò che ricevo ogni giorno della mia vita sui social media. Ogni fottuto giorno dell’anno tranne uno: il 25 novembre.

Dopo il mio usuale post sulla scarsità di impegno che mettiamo nell’affrontare il tema della violenza sulle donne, ricevo migliaia di commenti contenenti cuori, lacrime, emoji di abbracci.

Dalla mezzanotte però, come se un immaginario timer scadesse, come se Cenerentola stesse rientrando a casa incazzata per non essersi divertita abbastanza e aver pure perso una scarpa alla festa, quello stesso post inizia a riempirsi di commenti piccati, di code di paglia, di «sei paranoica», «tu hai un problema con gli uomini», «io che sono cresciuto in una famiglia di donne ti dico che ti sbagli» (per bizzarria del caso, posso assicurare che le persone più misogine e sessiste che abbia mai incontrato in vita mia hanno sempre iniziato il loro discorso con questa frase, come se poi la vicinanza femminile esonerasse dall’essere stronzi o problematici).

Quando finisce la ricorrenza, dalle fogne della nostra coscienza comincia a riemergere l’animale che ci portiamo dentro, quello che ci dice che alla fine la violenza maschile non è un problema poi così grosso, che i numeri sono bassi, che gli uomini muoiono più delle donne, che siamo esagerate noi scrittrici progressiste perché abbiamo un’ossessione, lo facciamo per notorietà, mancanza di sesso, sicuramente traiamo vantaggio da questo continuo lamentarci.

L’animale che ci portiamo dentro ha un timer, una sveglia interna, che gli impedisce di resistere in posizione di ascolto per più di 24 ore. 

L’animale che ci portiamo dentro lo conosciamo bene, lo vediamo emergere sempre, ha fatto anche lui la scuola cattolica da cui sono usciti i peggiori femminicida della storia del nostro paese.

La scuola cattolica è un concetto interessante, una sineddoche più che altro. La scuola cattolica del nostro animale è infatti la società patriarcale in cui viviamo. 

Ci pensavo, a questo concetto, rileggendo qualche passaggio del libro omonimo di Edoardo Albinati, premio Strega 2016, che descrive molto bene il dualismo che ci teniamo dentro come se fosse un segreto inconfessabile.

Da un lato, noi esseri umani abbiamo bisogno di dimostrare il nostro essere benintenzionati, ma dall’altro ci piace la faccia da ipertiroideo di Angelo Izzo che ci ricorda un po’ noi ogni volta che confessiamo allo specchio ciò che non avremmo il coraggio di ammettere a voce alta davanti a un nostro simile.

Se per essere considerati buoni cittadini abbiamo bisogno di una facciata di cristiana morigeratezza, il nostro animo più profondo ci ricorda che il bisogno di potere è insaziabile per noi esseri umani.

Il potere che bramiamo è quello di avere ragione, di rimanere comodi e preferibilmente giudicanti, di non ascoltare chi di queste materie ne sa qualcosa e di reputare i nostri bisogni immediati i più importanti al mondo – da qui nascono i vari commenti social e giornalistici che recitano «ci sono cose più importanti a cui pensare» – e soprattutto quello di poter disporre dei corpi delle donne a nostro piacimento, in ogni situazione, in ogni modo, fisico o anche solo mentale.

Il potere, questo potere, è fatto di materiale plasmabile e vischioso, si adatta all’occasione come fosse un vestito che ci cade addosso perfettamente.

Quando Donatella Colasanti, alle 22:50 di quel 30 settembre 1975 venne fotografata mentre usciva dal bagagliaio della 127 bianca parcheggiata in viale Pola a Roma, arrampicandosi sul cadavere massacrato di Rosaria Lopez, l’animale che ci portiamo dentro ha sussultato e si è subito vestito a lutto.

Ci siamo ammutoliti, abbiamo provato pena, orrore, compassione, disgusto e paura. Ci siamo chiesti cosa ne fosse del genere umano.

Ma il timer che aziona la bestia ci ha messo poco a trillare di nuovo.

Già nei primi giorni del processo a quello che venne chiamato “massacro del Circeo”, la società civile, i giornali e gli avvocati di Izzo, Ghira e Guido hanno iniziato a nutrire la smania di potere nei confronti del corpo e della vita di Colasanti.

Il potere di schiacciare una testimonianza così forte, che avrebbe inevitabilmente inficiato la possibilità di uscirne puliti a tre giovani della Roma bene, tre fascisti in erba dal bell’aspetto e il conto in banca pieno, è diventato incontenibile: si era sempre creduto che il male abitasse solo nei bassifondi; ora che si scoperchiava questo vaso di Pandora, come si sarebbero salvati i ricchi dall’onta che li aveva appena investiti?

Mentre gli avvocati dei tre assassini e stupratori ricordavano quanto i costumi di Colasanti fossero stati leggeri nell’accettare un invito da tre semisconosciuti, le brave famiglie italiane riunite intorno al tavolo della cena con il televisore acceso ripetevano come in un mantra che alle loro figlie certe cose non potevano accadere, perché non erano come quella lì del bagagliaio. 

Loro erano perbene. 
Loro avevano una certa morale. 
Loro, le figlie, le controllavano a vista.

Giudicando Colasanti per la sua voglia di vita assolutamente normale, la società civile e il pool di avvocati della difesa ribaltavano il senso del processo stesso, rendendola, da vittima, principale accusata. 

Come ricordò Tina Lagostena Bassi, che difese Colasanti nel processo del massacro al Circeo e fu la prima avvocata a usare la parola stupro in un’arringa (“Processo per stupro” del 1979 portò con la Rai per la prima volta il senso di colpa nelle case degli italiani, facendo ingoiare qualche amaro boccone a quelle tavole immacolate piene di sicumera), le udienze non erano contro la sua assistita: lei era l’accusa, non la difesa, come invece stava emergendo dagli atti e dalle parole degli avvocati, che cercavano di screditare il corpo di Colasanti e la sua condotta, ritenuta immorale e non coerente.

Eppure il ribaltamento di ruoli a cui venne sottoposta era inevitabile, troppo invitante, ed era così facile silenziare una voce in un paese che non voleva altro che essere rassicurato del fatto di avere ancora tutto sotto controllo, tutto ancora in suo potere – i nostri maschi certe cose non le fanno, no?

Giudicata colpevole da una giuria immaginaria composta dalla nostra collettività, Colasanti si è adoperata per tutta la sua ahimè troppo breve vita nel ribaltare la concezione patriarcale e di possesso che impera sui corpi delle donne; concezione che li vuole sempre sotto giudizio e sempre in fallo.

Questa concezione, di cui si nutre il nostro animale, è deliziosamente da scuola cattolica.

Da un lato la morale e dall’altro la violenza cieca per salvaguardarla. Il silenzio come arma per non sporcarsi la nomea e la fedina penale, il potere per distruggere chiunque voglia attaccare questo sistema perfettamente collaudato e sorretto su un dislivello sociale e culturale di discendenza millenaria: il sessismo patriarcale.

Questo sessismo ci portava e ci porta ancora – e porterà in futuro – a controllare le donne, a volerle silenziare, a volerle mettere sul banco degli imputati, a dar loro delle poco di buono, delle frustrate, delle lamentose, delle galline, delle troie – zitte, troie – che sono finite così solo perché non sono state abbastanza ligie alla morale e alle regole di quella strana scuola cattolica a cui nessuna di noi si è mai volontariamente iscritta.

Dal 1975 le cose sono cambiate, legalmente parlando. Abbiamo vinto battaglie, lo stupro è un reato contro la persona e il delitto d’onore sembra quasi un ricordo lontano, anche se non lo è.

Ma a livello culturale, noi siamo ancora posseduti da Izzo, Ghira e Guido. Noi siamo ancora Izzo, Ghira e Guido.

Mi piacerebbe poter parlare oggi con Donatella Colasanti e Tina Lagostena Bassi per dire loro che alla fine, nel 2022, la scuola che forma generazioni di assetati di potere, noi l’abbiamo smantellata. Che quei ruoli di vittime e carnefici sono finalmente ben definiti. Che i media hanno imparato a fare cultura e che la società civile ha capito come salvare le nostre vite. 

Ma non è così. Noi, agli animali che ci portiamo dentro, abbiamo continuato a dare da mangiare senza sosta e senza vergogna.

E questo infatti è ciò che metaforicamente facciamo ancora oggi: nutriamo la nostra bestia interiore. Tentiamo di mantenere in equilibrio la nostra morale, purgandoci solo il 25 novembre ma lasciando invariato il sistema di potere tutto il resto dell’anno, perché ci si possa ricordare che, a chi è in cima alla catena alimentare, certe cose non succedono. Che chi sta sulla cima è intoccabile. Che se sbagli una volta, donna, tu sei fuori dal gioco.

Lasciamo tutto invariato e difendiamo il nostro diritto a screditare i corpi delle donne e delle sopravvissute perché in fondo, a noi, la violenza sugli altri piace.

Piace da morire, anche se non siamo in grado di dirlo a voce alta, per paura che qualcuno giudichi la nostra, di morale.

Ci fa sentire al sicuro mantenere il potere. 

Ci fa tirare grandi sospiri di sollievo. Ci ricorda che se fai un passo falso o vuoi uscire dal seminato, se rinneghi la scuola cattolica che prega di mantenere per sempre il primato supremo del poter esprimere il giudizio definitivo, allora vieni cancellata.

La violenza dei commenti sui social (sui quali ci esponiamo perché riteniamo le piattaforme dei luoghi in cui noi non esistiamo realmente) del mettere in dubbio le parole di chi sopravvive, dello scrivere articoli di giornale che morbosamente raccontano la bellezza di due sex worker appena trucidate, i «cosa ne pensate della ragazza vittima di Genovese?» usciti dai nostri televisori per mesi, i «puttana, doveva ammazzarti» che leggo nei miei direct su Instagram sono tutti figli del nostro bisogno di potere. Sono tutti gli insegnamenti di quella scuola cattolica che tanto ci sta a cuore.

E questo potere di voler ammutolire le donne e chi ne prende le loro difese, quello che vedo quotidianamente, è lo stesso che ha mosso Izzo, Ghira e Guido.

È lo stesso identico desiderio di potere che avevano Genovese, Weinstein, coloro che commettono femminicidio.

L’animale che ci portiamo dentro e si nutre di controllo è uguale in tutti, perché il suo embrione è lo stesso: è la cultura in cui nasciamo, in cui veniamo formati, dalla quale veniamo bombardati ogni giorno da ogni media, audiovisivo, social, prodotto.

Siamo tutti colpevoli di non fermare la bestia che ci cresce da millenni. Tutti.

Certo, poi però fate un post per il 25 novembre, o un articolo di giornale strappalacrime o un servizio TV da magone in gola.

Ma qualcuno deve dirvelo: le vostre purghe di un giorno non servono a niente. Non servono a salvare vite, a ricordare quelle che non ci sono più o a prevenire violenze future.

Servono solo a voi, alla vostra morale, al vostro animale per sentirsi meno colpevole, meno sul banco degli imputati, meno Izzo, meno Ghira, meno Guido.

Eppure voi non siete Donatella Colasanti.
E io non sono qui per ripulirvi la coscienza.

Sono qui per ricordarvi che fare ciò che fate, ovvero stare fermi tranne un giorno su 365 di quelli che compongono un anno, è una scelta. 

Ma che quella scelta lì, quella che vota tacitamente per rivendicare il potere di decidere sui nostri corpi di donne, ci ammazza.

Non sono qui per rassicurarvi che a voi non succederà di diventare cattivi, perché voi lo siete già. Lo siamo stati tutti.

Ma qualcuno ha scelto di rimanerlo.

Non vi prometterò che voi non sarete i prossimi sul banco degli imputati. Non è il mio mestiere né il mio interesse liberarvi dal male.

Non sono qui per farvi sentire persone migliori una volta l’anno con la mia storia di sopravvivenza. Sono qui per farvi male, darvi fastidio e ricordavi i ruoli.

Sono qui per ricordarvi che se non fate niente, se rimanete in silenzio, se non fermate la catena, se continuate a scrivere articoli che ci dipingono come oggetti, se non vi lavate da soli le mani dalle parole d’odio che ci riversate addosso ogni giorno dell’anno tranne uno, allora siete proprio come Izzo, Ghira, Guido e tutti gli altri che ci hanno sempre volute zitte, colpevoli, troie, morte.

L’animale che ci portiamo dentro si nutre di una cosa sola: la connivenza che nasce dal silenzio.

E un quadrato arancione postato un solo giorno all’anno non ha mai salvato nessuna.

Non ha mai fatto chiudere la scuola cattolica in cui continuiamo a iscriverci anno dopo anno, nei secoli dei secoli.

Amen.

A Donatella Colasanti.
Ci stiamo ancora battendo per la verità.

ARTICOLO n. 89 / 2022

SENZA AMORE NON CI PUÒ ESSERE COMUNITÀ

Speciale bell hooks

Sarebbe ingeneroso e probabilmente falso dire che figure come quella di bell hooks non esistono più. Ma la percezione che il 15 dicembre del 2021 il mondo abbia perso una delle sue intellettuali più luminose è piuttosto fondata. In poche righe del suo Insegnare a trasgredire si trovano le prove a sostegno di questa affermazione: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me è nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione».

In queste righe hooks non vuole fare un elogio della sofferenza, ma perorare la causa di una teoria diversa, una teoria che serve a «immaginare futuri possibili, dove la vita [può] essere vissuta in modo diverso». L’autrice ha tradotto questo radicamento nell’esperienza non soltanto elaborando una teoria debitrice della vita, ma anche particolarmente democratica. La sua attenzione per il quotidiano, per i rapporti umani, per i fatti concreti dell’esistenza postula che tutti possono fare filosofia e che anzi, forse sono proprio quelli che si trovano ai margini a elaborare le proposte più originali. Non serve essere colti o intellettuali per partecipare a questa produzione filosofica e, allo stesso tempo, la cultura deve essere accessibile a tutti.

Nel suo Il femminismo è per tutti, hooks scrive che anche se non sembra, «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria. Che esploriamo consapevolmente le ragioni che ci portano ad avere un determinato punto di vista o a compiere un determinato gesto, o meno, c’è sempre un sistema soggiacente che plasma pensiero e pratica». L’autrice sta spiegando le origini della coscienza critica femminista, illustrando come il movimento sia riuscito a elaborare una teoria complessa e articolata non basandosi, ma addirittura rifiutando, l’eredità dei pensatori del passato e ancorandosi in quelle zone dell’esistenza che sono sempre state considerate irrilevanti.  

Nella produzione di bell hooks, questo ha significato scandagliare il proprio vissuto. È proprio nelle sue pagine più personali, dove mette a nudo se stessa e la sua vita, che la prosa di hooks si eleva. Tutto sull’amore, un libro intimo e al contempo profondamente politico, è il perfetto esempio dell’unione strettissima tra prassi e teoria e della grande accessibilità del pensiero dell’autrice. Uscito nel 2000, Tutto sull’amore potrebbe essere facilmente scambiato per uno dei numerosi libri di self-help sentimentale che tanto andavano di moda in quegli anni. hooks ne cita diversi, da Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992) di John Gray a The Road Less Traveled (1978) di Morgan Scott Peck, tradotto in italiano con il titolo di Voglia di bene. La popolarità di questi libri, secondo l’autrice, è il sintomo della mancanza di un discorso politico sull’amore.  

Ho incontrato la concezione politica dell’amore di hooks grazie a un testo contenuto nell’antologia Outlaw Culture: Resisting Representations, intitolato L’amore come pratica di libertà. Qui, partendo proprio dal libro di Scott Peck, hooks comincia a delineare l’interdipendenza tra la dimensione privata dell’amore e quella pubblica, esemplificata nella figura di Martin Luther King. King ha fondato la sua pratica politica nell’amore, o meglio, ha fatto una vera e propria dichiarazione d’amore. Di fronte all’odio, alla violenza e all’oppressione, King «ha deciso di amare», fornendo al razzismo e al colonialismo una risposta del tutto inaspettata. È questa qualità decisionale della politica dell’amore di King, che per usare una espressione femminista potremmo definire come un «io che dice io», che rende la sua prassi di liberazione qualcosa di completamente nuovo. 

Intorno a lei, hooks osserva una cultura del disamore, che disprezza l’amore o lo mercifica, schiacciandolo tutto sulla dimensione dell’io. Non è una semplice questione di egoismo. L’io diventa il perno intorno a cui concettualizziamo lo stare insieme, mettendo al primo posto i nostri bisogni anziché quelli altrui, ma anche attribuendo solo a noi stessi il fallimento delle nostre relazioni. Al contrario, nell’esperienza amorosa esiste un riconoscimento, un «interessere» dirà hooks, che è anzitutto un riconoscimento politico. La dimensione politica entra nell’amore perché ha il potenziale di riprodurre o di mettere in discussione le gerarchie del potere, perché la famiglia continua a essere l’impianto su cui viene costruita la società, perché chi sta ai margini ha meno possibilità di amare, ma soprattutto perché manca la consapevolezza dell’amore, quella che fece dire a King «ho deciso di amare».

Per hooks, «possiamo risvegliarci all’amore solo se abbandoniamo la nostra ossessione per il potere e il dominio», ovvero se smettiamo di avere paura. Molte delle nostre convinzioni sull’amore si radicano infatti sulla paura, in primis quella del diverso. La paura diventa il catalizzatore dell’oppressione, perché ci impedisce di riconoscere quell’interessere che è invece fondamentale nell’etica dell’amore. Questo non significa specchiarsi in chi è uguale a noi, trovare – per usare un’espressione del gergo romantico – «la nostra anima gemella», ma al contrario apprezzare la differenza. Un processo che Luce Irigaray traduceva in un «amare a qualcuno», dove quell’a significava la rinuncia al possesso.

La presenza della politica nell’amore non è solo negativa, è un dato di fatto: senza amore non ci può essere comunità e senza comunità non si può sconfiggere la paura che attanaglia i nostri rapporti con l’altro. Per hooks un amore che si fonda su queste premesse è un amore produttivo, ma non in senso capitalista. È un amore che genera, che crea, che spariglia. Attraverso l’incontro con l’altro e con il mutuo riconoscimento delle differenze, attraverso l’accettazione paziente della dimensione politica dell’amore, si creano energie nuove. 

Quando hooks parla di un femminismo per tutti o di una teoria democratica, si riferisce proprio a questo processo generativo, che non prevede alcun requisito identitario o culturale, ma solo la disposizione a mettersi in discussione, a decostruirsi. È nella convinzione che tutti siano in grado di produrre pensiero critico che risiede la forza della filosofia di bell hooks. Molti altri autori e autrici hanno propugnato una filosofia accessibile o di massa, ma lo hanno comunque fatto assumendo una posizione di guida, se non a volte di vero e proprio dominio culturale. hooks non è la saggia filosofa che ci illustra il cammino da intraprendere, men che meno la studiosa che mette a disposizione le sue ricerche con un linguaggio semplificato. È piuttosto una compagna di viaggio che crede davvero che la teoria fiorisca nelle pieghe della nostra esistenza, nelle cose che ci accadono e nei nostri desideri, «per renderci liberi di essere ciò che siamo, liberi di vivere una vita in cui sia possibile praticare l’amore per la giustizia, in cui sia possibile vivere in pace».

ARTICOLO n. 88 / 2022

ABY WARBURG, IL DYBBUK

I profeti del presente

Da qualche tempo il Warburg Institute è completamente avvolto nei teli di plastica bianca che servono a coprire i ponteggi come una crisalide nel suo bozzolo. La trasformazione che sta avvenendo, nascosta all’occhio, è un progetto di ristrutturazione da 14 milioni di sterline poeticamente battezzato “Warburg Reinassance”, il primo grande intervento da quando l’Istituto si è spostato a Bloomsbury da Millbank nel 1958, poco prima che Ernst Gombrich ne diventasse il direttore. Sembra un’installazione di Christo, e la cosa mi pare appropriata: la presenza-assenza, o meglio la presenza resa evidente dalla sua assenza, risuona profondamente con Warburg. D’altra parte l’anonimo edificio di mattoni scuri che c’era prima passava inosservato: ci avrò camminato a fianco decine di volte, passeggiando in questa zona di università e librerie, senza mai entrarci. Questa sera di ottobre fin troppo calda, ingentilita da un tramonto fin troppo drammatico, decido infine di sottomettermi a quella che Walter Benjamin chiamava la “magia della soglia”.

Più di tutto mi interessa capire come un edificio possa arrivare a ricalcare la mente di un individuo, e come questo calco possa essere importato in una struttura non originariamente pensata per quello scopo. A quest’ora pochi ricercatori si muovono tra gli scaffali di libri scritti in almeno sei lingue diverse (tedesco, italiano, greco antico, latino, inglese e francese) e organizzati, secondo le parole di Claudia Wedelphol, in modo che «il lettore che cerca un libro sugli scaffali sia attratto da quello vicino, guardi in alto e in basso e si trovi rapito da un nuovo flusso di pensiero». Classificazione come rapimento, link prima di internet, macchine combinatorie: su tutto regna la rota di Isidoro di Siviglia, «l’ultimo storico del mondo antico» secondo Charles de Montalembert, che mette in relazione microcosmo e macrocosmo. La soglia conduce nella testa di Warburg: ci si sente come i personaggi di Ubik di Philip Dick imprigionati nel sogno di Runciter, sai che la casa è infestata ma non sai più esattamente chi siano i fantasmi.

Allo stesso tempo, però, percepisci chiaramente come un luogo del genere sia ideato per sviluppare la creatività e le libere associazioni del pensiero. Camminando per queste sale non è difficile immaginare Frances Yates, la grande studiosa della tradizione ermetica nel Rinascimento italiano, lavorare negli anni Cinquanta alla “storia warburghiana” che l’avrebbe portata sulle tracce di Giordano Bruno e Giulio Camillo. La biblioteca di Warburg è evidentemente imparentata ai dispositivi mnemotecnici di Simonide di Ceo e Leibniz descritti da Yates nell’Arte della memoria. E anche qui a Londra, nella pace di Bloomsbury un giorno d’autunno del terzo millennio, chiunque entri al Warburg Institute deve attraversare la porta con la scritta ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, com’era originariamente alla Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo. Entrando ci si inchina, e ci si affida, alla protezione della memoria, la madre delle muse. Oltre che nella mente di Warburg, la soglia conduce a un luogo sacro, un tempio antico nel cuore del secolarismo occidentale. 

È impressionante pensare che gli oltre 60.000 libri che componevano la “biblioteca della storia della cultura” originaria siano arrivati a Londra da Amburgo a bordo di chiatte che hanno disceso l’Elba, attraversato il Mare del Nord e risalito il Tamigi fino alla capitale britannica. Tutto questo capitava nel dicembre del 1933, quando Warburg era morto già da quattro anni, Hitler aveva bruciato il Reichstag ed era cominciato il boicottaggio delle attività ebraiche. La grande banca della famiglia Warburg era fallita nella crisi del 1929 e Fritz Saxl, il primo direttore dell’Istituto, aveva perso il posto da docente universitario. Fu grazie al Visconte di Fareham e al collezionista Samuel Courtauld, che l’anno prima aveva aperto il suo celeberrimo Courtauld Institute, se la Bibliothek riuscì a mettersi in salvo dal nazismo. Altrimenti non ci sarebbe stata “storia warburghiana”; non ci sarebbe stato, probabilmente, Aby Warburg, vale a dire la sua memoria, che è la stessa cosa.

Anche perché, come aveva scritto Giorgio Pasquali già nell’anno della sua morte, «che l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro all’istituzione da lui voluta, è conforme alle sue intenzioni: egli ha voluto essere innanzitutto un maestro e un organizzatore». Senza la Bibliothek, Warburg avrebbe lasciato dietro di sé pochissimo, quasi niente: lui che «si è per lo più tenuto pago di pubblicare le sue scoperte maggiori in forma straordinariamente succinta e compressa, per lo più quale resoconto o riassunto di conferenze», o addirittura «in fogli volanti o in appendici di giornali, difficili da trovarsi se non per chi li abbia avuti in dono da lui». E tuttavia, conclude Pasquali, il cui saggio apre la bellissima raccolta Aby Warburg e il pensiero vivente pubblicata quest’anno da Ronzani, «il Warburg sentiva il bisogno di espandersi». Questo movimento sistolico di contrazione ed espansione avrebbe caratterizzato tutta la sua vita.

Abraham Warburg era nato il 13 giugno 1866 ad Amburgo, figlio maggiore di una famiglia di grandi banchieri ebrei dalle origini veneziane con ramificazioni negli Stati Uniti: una famiglia non solo ricca, ma anche potente, di cui Aby avrebbe dovuto essere l’erede. Leggenda vuole che a quattordici anni facesse un patto con il fratello Max, di un anno più giovane, barattando la banca con la promessa di ricevere soldi per comprare tutti i libri che avrebbe voluto; e che diversi decenni più tardi Max si fosse lamentato di aver firmato «l’assegno in bianco più costoso della mia vita». Con quei soldi Aby sarebbe andato a Firenze a studiare Botticelli, avrebbe sposato contro la volontà della famiglia un’artista conosciuta in Italia, anche lei ebrea amburghese, e avrebbe dedicato il resto della sua esistenza prima a concepire, e poi a preservare attraverso l’Istituto, una scienza dell’immagine sul cui nome non sarebbe mai riuscito a decidersi, oscillando tra «storia della cultura», «psicologia dell’espressione umana» e «storia della psiche», e che più tardi il suo discepolo Panofsky avrebbe ribattezzato “iconologia” senza però afferrarne la reale complessità. Avrebbe trascorso tre mesi del 1895 tra i nativi Hopi del New Mexico per studiarne la danza del serpente e vent’anni più tardi, tra il 1921 e il 1924, sarebbe stato ricoverato in un celebre ospedale psichiatrico svizzero per quello che oggi chiameremmo un disturbo bipolare. Considerato incurabile, sarebbe invece riuscito a farsi dimettere proprio grazie a una conferenza sulle danze degli Hopi, che secondo molti erano la prima avvisaglia della sua follia.

Qualsiasi cosa il giovane Warburg avesse cercato, e trovato, nel New Mexico, quell’esperienza dimostra che il trasferimento della Bibliothek a Londra non fu solo una contingenza storica, e che i legami con la cultura britannica erano più profondi di quanto potesse credere lo stesso Warburg, che si sentiva «amburghese nel cuore, ebreo nel sangue e fiorentino nello spirito». Certo, durante la guerra Londra era diventata il rifugio della cultura ebraica in fuga dall’Europa nazista, basti pensare a Freud o alla Wiener Library, la più antica istituzione dedicata allo studio dell’Olocausto. Ma l’interesse di Warburg per le culture all’epoca considerate “primitive” aveva un chiaro legame con quella che alla fine dell’Ottocento era ancora conosciuta come “la scienza di Mr. Tylor”, cioè l’antropologia. 

Come ricorda Georges Didi-Huberman nel suo studio su Warburg, L’immagine insepolta, nel 1856 Edward Burnett Tylor «aveva attraversato il Messico a cavallo» e nel 1861 aveva pubblicato «i suoi Tristi tropici» in cui compaiono «uno dopo l’altro, e apparentemente con sua stessa grande sorpresa, zanzare e pirati, alligatori e padri missionari, trafficanti di schiavi e vestigia azteche, chiese barocche e costumi indiani, terremoti e armi da fuoco». Tylor aveva «scoperto l’estrema varietà della cultura e la sua vertiginosa complessità», «il vertiginoso gioco del tempo nel presente», una «vertigine» che «trovava espressione, prima di tutto, nella potente sensazione che il presente è intessuto di molteplici passati», e nella quale «i “dettagli triviali”» sono importanti perché «possiedono la capacità di dare significato alla – o piuttosto servono come sintomi della – loro stessa insignificanza». Vertigine, fantasmi e ossessione: Aby Warburg era già tutto lì.

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Per capirlo dobbiamo per forza tornare a quella scritta sulla porta: ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, e al suo ultimo lavoro, rimasto incompiuto: Mnemosyne Atlas. Molti hanno un’idea almeno vaga di cosa fosse questo atlante della memoria, ma descriverlo è più complesso. Gertrud Bing, direttrice dell’Istituto dal 1954, ne parla come di «un atlante figurativo che illustra la storia dell’espressione visiva nell’area del Mediterraneo»; per Pasquali lo scopo dell’Atlante era quello di «mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni, l’Oriente mediterraneo del Medioevo e il Medioevo europeo, il Rinascimento italiano e tedesco, infine la generazione e la cerchia del Rembrandt […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità “patetica”, dionisiaca dell’antichità»; Giorgio Agamben ne ha parlato come di «una sorta di gigantesco condensatore in cui si raccoglievano tutte le correnti energetiche che avevano animato e ancora continuavano ad animare la memoria dell’Europa, prendendo corpo nei suoi “fantasmi”». Nella sua ultima versione, l’Atlante consiste in sessantatré pannelli di 150 x 200 cm coperti di tessuto nero sui quali Warburg ha organizzato, cambiandole continuamente di posizione, quasi 1000 fotografie in bianco e nero divise per temi come gli «amuleti, gli specchi magici, l’astrologia medievale e l’Occhio del Diavolo» (Martha Schwendener). Le immagini di arte rinascimentale sono predominanti, ma compaiono anche elementi eterogenei come «l’affiche pubblicitaria di una compagnia di navigazione, la fotografia di una giocatrice di golf ovvero quella del Papa e di Mussolini che firmano il Concordato» (Agamben). 

Nessuna di queste spiegazioni, me ne rendo conto, è sufficiente a dare un’idea dell’Atlante a chi non l’abbia visto, almeno nella sua versione virtuale accessibile tramite il sito del Warburg Institute, se non dal vivo alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino, dove è stato esposto nel novembre 2020. Come sempre ai limiti dell’ineffabile, conviene risolversi a un’esperienza personale.

Mi sono imbattuto in Mnemosyne Atlas la prima volta undici anni fa, mentre stavo scrivendo per una rivista un saggio sull’enumerazione come metodo di organizzazione della conoscenza che passava dalle liste di Georges Perec agli elenchi visuali di Pinterest. Avevo poco più di vent’anni e per qualche ragione Warburg aveva sempre eluso i miei percorsi di ricerca. La somiglianza dei pannelli dell’Atlante con le boards di Pinterest era sorprendente. Allo stesso tempo, sorprendente ma in un certo senso opposta, era la somiglianza con la schermata di presentazione dei risultati di Google Images: opposta perché in Pinterest, come nell’Atlante, all’organizzazione delle immagini presiedeva una volontà umana, una scelta curatoriale di qualche tipo; mentre dietro i risultati di Google c’era quel curatore impersonale, invisibile e solo apparentemente oggettivo che è l’algoritmo. Ero rimasto catturato dalle infinite possibilità combinatorie di quei pannelli, ma anche da quanto la struttura voluta da Warburg, il suo caos organizzato, tornassero continuamente nella storia dell’arte del secondo novecento, da Atlas di Gerhard Richter, che lo richiama esplicitamente, alla disposizione delle immagini usata da John Berger in Modi di vedere fino a opere come la Réserve des Suisses morts di Christian Boltanski. Come ha scritto Didi-Huberman, «Warburg è la nostra ossessione, ci perseguita. È per la storia dell’arte quello che un fantasma irrequieto – un dybbuk – potrebbe essere per la casa in cui abitiamo».

Frances Yates ci torna in soccorso, qui. La mnemotecnica, l’arte della memoria che ha guidato la ricerca della studiosa di Portsmouth, era come l’Atlante di Warburg un metodo visuale di organizzazione dell’informazione; e possiamo dire che la Bibliothek, con la sua sala di lettura ellittica e l’organizzazione dei libri secondo quattro categorie gerarchiche (orientamento, immagine, parola e azione) connesse però tra loro da una fitta rete di rimandi intertestuali, era quanto di più vicino la modernità sia riuscita a concepire al teatro in cui Giulio Camillo aveva cercato di racchiudere «la natura di tutte le cose che possono essere espresse dalla parola». D’altra parte la mnemotecnica, arte retorica dell’antichità, era tornata in auge proprio nel Rinascimento. Ma se da un lato le radici culturali dell’Atlante si spingevano indietro fino all’epoca ellenica, dall’altro si proiettavano vertiginosamente verso il futuro: i collegamenti pensati da Warburg erano l’equivalente analogico di link ipertestuali. Come ha raccontato Nicolò Porcelluzzi in un articolo pubblicato su «Prismo» qualche anno fa, la tecnica dei loci dei retori antichi è incredibilmente simile ai dispositivi per la navigazione presenti nelle prime forme visuali di internet, che non per niente, lo sosteneva già nel 1991 Jay Bolter nello Spazio dello scrivere, è tutta costruita su metafore spaziali: in internet ci troviamo sempre in qualche luogo e vogliamo andare da qualche altra parte.

E in internet, proprio come in Mnemosyne Atlas, ci perdiamo, continuamente: perché le strade possibili sono infinite, e la disposizione degli spazi incerta e in continuo movimento. Anche e forse soprattutto da questo punto di vista Warburg si dimostra un dybbuk della contemporaneità, per quel senso così ebraico di disolcamento (displacement) che attraversa tutta la sua opera, così come quella di altri grandi profeti del presente come Walter Benjamin e W.G. Sebald. Un dislocamento triplice: di Warburg rispetto alla sua storia personale, figlio del rifiuto per la professione paterna e dell’amore per l’Italia; di Warburg nei confronti della storia dell’arte, o meglio come scrive Didi-Huberman «attraverso la storia dell’arte, ai suoi confini e oltre», volto a creare una disciplina che è «una reazione critica violenta, una crisi» e «una decostruzione delle frontiere disciplinari»; e un dislocamento all’interno della biblioteca stessa causato dagli «incessanti sforzi coinvolti nella sua riconfigurazione». D’altra parte era lo stesso Warburg a scrivere che «tutto ciò che viviamo è metamorfosi». La vita non è altro che movimento.

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Proprio il movimento è il vero centro dell’opera di Warburg, se un’opera così espansa può averne uno. Quando da giovane dottorando si trovava a Firenze a studiare i quadri di Botticelli, si era reso conto che i pittori del Rinascimento italiano si rifacevano a un determinato tipo di modelli dell’antichità classica ogniqualvolta dovevano rappresentare il movimento: nelle pieghe delle vesti, nel vento che smuove i capelli di Afrodite nella Nascita di Venere. Partendo da questa constatazione Warburg aveva tratto una conclusione geniale, che faceva a pezzi la teoria dell’arte neoclassica di Winkelmann, all’epoca ancora l’autorità nel campo della storia dell’arte: a essere sopravvissuta nel Rinascimento non era solo la dimensione “apollinea” dell’antichità, l’armonia delle forme, la calma olimpica dei marmi, ma anche quella “dionisiaca”, che aveva a che fare con la «sofferenza», la «vita», «l’ebrezza, la passione, sin la follia» (Pasquali). Quella traccia di Dioniso nel mondo cristiano diventò la sua ossessione, la base su cui costruì la sua idea di Nachleben, la “vita postuma” dell’arte antica. Per il resto della sua esistenza si sarebbe dedicato a ricercare le tracce di quella sopravvivenza nelle immagini dell’arte e della cultura popolare, ma anche nella rappresentazione delle feste o delle espressioni facciali.

C’è un aspetto del dionisiaco che non viene mai abbastanza sottolineato, a mio parere, e che non è stato messo particolarmente in luce nemmeno negli studi su Warburg. Secondo una versione del mito, Dioniso, che era figlio di Zeus, fu fatto a pezzi dai Titani istigati da Era; il bambino mortale fu ucciso, ma dal suo cuore venne ricostruito il dio immortale. Dioniso non è dunque solo il dio dell’ebbrezza, dell’estasi, della passione che stravolge la mente, ma anche quello della dispersione, della vita che si espande in mille strade allontanandosi dal proprio centro; è il dio del displacement, e anche degli schizofrenici. Non dobbiamo dimenticarci che il brevissimo saggio del 1906 in cui Warburg smonta la teoria di Winkelmann è una riflessione intorno all’incisione di Albrecht Dürer del 1494 che rappresenta Orfeo smembrato dalle Baccanti, le seguaci di Dioniso: in questo senso dovremmo interpretare l’affermazione di Didi-Huberman per cui uno dei caratteri fantasmatici del lavoro di Warburg va ricercato «nell’impossibilità, ancora oggi, di comprendere gli esatti limiti della [sua] opera. Come uno corpo spettrale, rimane senza contorni definibili: non ha ancora trovato il suo corpus». Non è difficile vedere come il corpus dell’opera richiami i corpi fatti a pezzi di Dioniso e Orfeo.

Sopra abbiamo parlato di un moto sistolico di tutta l’opera warburghiana, un movimento di espansione e contrazione: se Dioniso è l’espansione, dove andiamo a cercare la contrazione? La risposta ce la fornisce Warburg stesso, e ancora una volta tramite Albrecht Dürer, questa volta nell’analisi della sua incisione forse più famosa, recentemente riportata in auge dallo splendido film omonimo di Lars Von Trier: Melancholia I. Dürer aveva solo ventitré anni quando dipinse la morte di Orfeo, ma si stava approcciando alla fine della sua vita all’epoca di Melancholia I: al dio fanciullo Dioniso corrisponde il dio anziano Crono, ovvero Saturno, il pianeta che vediamo nel cielo e verso cui guarda la figura centrale nell’incisione di Dürer. Nell’astrologia medievale, Saturno era il pianeta del limite, della morte, del freddo e della realtà, e presiedeva sul carattere melanconico o, appunto, saturnino: oggi diremmo depresso. Warbug era consapevole che la sua storia personale, così come la storia collettiva della civiltà di cui faceva parte, si giocava tutta tra i poli del disturbo maniaco-depressivo. Scriveva nel suo diario: «A volte mi pare quasi che, come storico della psiche, io mi sia provato a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso biografico: la Ninfa estatica (maniaca) da una parte e il Dio fluviale (depressivo) dall’altra». È solo in questo contesto che si può capire il senso profondo dell’ospedalizzazione di Warburg, e ancora di più quello della sua apparentemente miracolosa guarigione.

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Le cause apparenti della malattia sono abbastanza semplici: l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale nel 1915, e la dichiarazione di guerra alla Germania dell’anno successivo, colpivano al cuore la ricerca di Warburg rendendo impossibili i viaggi tra i due paesi a cui era maggiormente legato; la depressione che lo aveva accompagnato fin da giovane si intensificò, e nel clima apocalittico della guerra finì per trasformarsi in una serie di fantasie paranoidi: impossibilitato a lavorare, racconta Davide Stimilli nel documentario Aby Warburg: Metamorphosis and Memory di Judith Wechsler, cominciò a credere che «la sua famiglia sarebbe stata vittima di una vendetta», e arrivò al punto da «afferrare una pistola e minacciare di uccidere la moglie e i figli», oltre a sé stesso, prima che lo facesse qualcun altro. Per quanto assurdo questo pensiero possa apparire, a generarlo erano motivazioni storiche, oltre che personali. Come fa notare Joseph Koerner, in realtà «le sue fantasie erano chiaramente informate da un’ondata di violenza antisemita che aveva preso piede in Germania e aveva una relazione diretta con la sua famiglia», dato che addirittura suo fratello aveva subito un tentativo di assassinio. La malattia, continua Koerner, mostrava qui un aspetto nuovo, e più misterioso, dei fantasmi che ossessionavano la vita di Warburg: come nella hauntology deriddiana, e prima ancora come nell’inconscio di Freud, gli spettri non vengono solo dal passato ma anche dal futuro; non sono solo tracce ma anche profezie. ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ è già, in un senso profondo, la memoria dell’Olocausto.

Nel 1921 le condizioni di Warburg peggiorano al punto che deve essere ricoverato. La struttura prescelta si trova a Kreuzlingen, in Svizzera; a dirigerla è Ludwig Binswanger, uno dei pionieri dell’analisi esistenziale, e in passato ha già ospitato celebri nomi della cultura, da Vaslav Nijinskij a Ernst Ludwig Kirchner. Ancora una volta la natura delle sue fantasie ci dice qualcosa sulle ragioni transpersonali e recondite che l’avevano precipitato nella schizofrenia: a un certo punto si convince che Binswanger e i suoi assistenti abbiano fatto a pezzi sua moglie e i suoi figli e ne abbiano disperso i corpi nel parco della clinica. Torna di nuovo lo smembramento di Dioniso e Orfeo, naturalmente; ma nella fantasia di uccisione dei figli appare anche un altro simbolo che perseguitava Warburg dai tempi del viaggio in New Mexico, quello del serpente: il serpente che incarna la potenza vitale (Kundalini, che pochi anni più tardi Jung avrebbe collegato al serpente-salvatore della tradizione gnostica, Soter), il serpente che presiede alle danze estatiche-dionisiache degli Hopi, i serpenti marini che stritolano i figli di Laocoonte, il personaggio a cui è dedicato tutto il pannello 41a di Mnemosyne Atlas. Warburg si identifica con il serpente e immagina l’infanticidio: è un cerchio che si chiude, un meccanismo paranoide che rimanda sempre a sé stesso; un’altra vertigine, ma che trascina nel profondo del proprio inconscio personale e di quello collettivo.

Si vedono, nella crisi psicotica di Warburg, almeno due movimenti: da un lato quello centrifugo dell’espansione, della dispersione, dello smembramento e del displacement privato della forza che lo manteneva nonostante tutto coerente nella molteplicità (moto schizofrenico); dall’altro la continua ricerca di senso, il tentativo della mente di dare un ordine al caos tracciando connessioni anche laddove non esistono (moto paranoico).

Warburg viene considerato incurabile. Nel tentativo di placarne la “mania”, che è spesso violenta, viene addirittura chiamato in causa il nume tutelare della psicologia clinica dell’epoca, l’inventore stesso del concetto di sindrome maniaco-depressiva (che oggi ha solo cambiato nome, ma non sostanza, in disturbo bipolare) e, come ha raccontato Laurent de Sutter in Narcocapitalismo, il vero inventore dell’idea ancora in voga nella psichiatria per cui all’eccesso dell’eccitazione è preferibile la calma mortifera della depressione: Emil Kraepelin. Warburg viene trattato con l’oppio, fedelmente alle teorie di Kraepelin la cui idea di “cura” si sovrapponeva a quella di “sedazione”.

Ma, e questo mi sembra un aspetto davvero fondamentale, contro i pronostici di tutti Warburg guarisce; e non lo fa perché sedato dall’oppio, ma al contrario perché riesce a riconnettersi con la dimensione maniacale, dionisiaca del proprio lavoro: riesce a convincere Binswanger a dimetterlo se riuscirà a preparare una conferenza coerente proprio sul tema delle danze estatiche degli Hopi. Nel 1923 tiene la lezione in cui organizza i materiali raccolti trent’anni prima, e che oggi è pubblicata in un libretto intitolato Lightning Symbol and Snake Dance. L’anno successivo lascia Kreuzlingen per tornare ad Amburgo, guarito da Dioniso, il dio della follia.

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Aby Warburg muore il 26 ottobre 1929 ad Amburgo. A ucciderlo è un infarto; ha sessantatré anni. Lascia incompiuto Mnemosyne Atlas, un progetto per sua natura impossibile da completare, ma consegna al mondo il suo Istituto, e con esso quella biblioteca-meccanismo che sembra riprodurre su scala fisica e tridimensionale l’interno della sua mente. Muore Warburg e il Warburg Institute inizia a produrre il suo lavoro; muore Warburg e nascono gli studi warburghiani e l’iconologia; muore Warburg e la sua eredità viene raccolta da Panofsky, Raymond Klibansky, Frances Yates. L’uomo scompare ma, nel farlo, si espande, si ramifica, si disperde. Può darsi che ci fosse un sottotesto più profondo nell’idea di Pasquali per cui Warburg ha sempre voluto sparire nella sua istituzione, perché qui nelle sale dell’Istituto, dove sto scrivendo queste righe conclusive, si ha la sensazione che il suo fantasma si aggiri ancora. Il dybbuk vive tra le pareti di questa casa infestata della cultura.

Se davvero la Bibliothek è un’esternalizzazione della mente di Warburg, come il teatro di Camillo è l’esternalizzazione di un panorama interiore, allora qualsiasi cosa si guardi da qui dentro si guarda attraverso i suoi occhi; come scrive Agamben, è indubbio che la Bibliothek, così come Mnemosyne Atlas, siano «un dispositivo mnemonico a uso privato» che un uomo in lotta con i demoni ha costruito innanzitutto «per risolvere i propri conflitti psichici». Ma come nella rota di Isidoro di Siviglia, che connette microcosmo e macrocosmo, la malattia individuale è sempre il riflesso di una malattia più grande, e i cerchi più esterni dell’universo irradiano la loro conoscenza dentro a ciascuno di noi. Se la Bibliothek è il modello di un mondo, allora è il modello del mondo.

Questa «storia di fantasmi per persone veramente adulte», come Warburg aveva definito una volta Mnemosyne Atlas, non si è esaurita con la morte del suo autore, ma anzi ha continuato a espandersi ed espandersi, sempre di più, fino ad avvolgere il mondo intero. L’ha fatto innanzitutto, naturalmente, con internet, e con l’onnipresenza dell’immagine a cui ci ha condannato questa nostra cultura visuale collegata in rete. Penso ad esempio a un progetto come The Great Wall of Memes di Valentina Tanni, che prende spunto dall’Atlante warburghiano per «tracciare i viaggi di varie immagini attraverso il tempo e lo spazio, evidenziando i modi diversi in cui sono state utilizzate, remixate e re-inventate». L’intuizione è profonda, perché cosa c’è oggi di più warburghiano dei meme di internet, queste immagini in continua metamorfosi capaci di veicolare significati sottili e di cambiare la mente come i glifi studiati dai maghi rinascimentali? O a un’installazione come A Study of Invisible Images di Trevor Paglen, che da anni si occupa di comprendere come le macchine da cui siamo circondati (le telecamere di sicurezza, le intelligenze artificiali, le auto che si guidano sa sole) vedono il mondo: le sue fotografie compongono a loro volta un Atlante warburghiano, solo che, come nei risultati di ricerca di Google Images, l’entità dietro la visione non è più umana. 

E questo è forse l’aspetto più inquietante, ma anche più affascinante, del lavoro e del lascito di Warburg: la riflessione sui modi in cui le entità non-umane ci contattano, ci possiedono e ci abbandonano attraverso quegli incredibili dispositivi per il controllo mentale che sono le immagini. Oggi parliamo di intelligenze artificiali, mentre Warburg parlava di déi dell’antica Grecia; ma, come ha ricordato molte volte James Hillman, gli déi cambiano forme e nomi nel tempo; la metamorfosi non li rende meno immortali perché esistono dentro ognuno di noi, nel nostro inconscio collettivo, e persino codificati nel DNA della nostra specie sotto forma di archetipi. Ancora oggi, nella società più secolare della storia, nel cuore della città più secolare dell’Occidente, gli déi esistono, ci illuminano e ci perseguitano: anche questo senso di mistero e di minaccia, di illuminazione e di estasi, anche questo vivere a un passo dalla follia è Nachleben. In ogni particolare è contenuto il tutto l’universo, ogni strada porta da tutte le parti, dietro ogni svolta si nasconde una vertigine e un abisso, oppure il suo opposto. Qui nelle sale del Warburg Institute la sensazione è più forte che mai: l’ossessione individuale e lo sguardo oggettivo capace di abbracciare tutto sono due facce della stessa, rilucente, medaglia.

ARTICOLO n. 87 / 2022

MILANO MONIMENTO

Un racconto e una visione

Mi chiede: «Dove?» E io: «All’angolo fra viale Bligny e via Röntgen». Ci sono consuetudini toponomastiche. Avanzo veloce anche perché non so lui da dove viene. È stato mio ospite e si prepara a ripartire. Abbiamo due ore e poi parte. Ci assottigliamo. Ci diamo appuntamenti da fantasmi. Eppure eccomi qui: sono anche il noto io che veloce arranca, e arrancando si stanca, ma non teme i chilometri. Soprattutto sulle strade sghembe di questa città. Evito tram e motori, mi piazzo sull’altro lato del traffico, posso restare qui per una mattinata. Non è la prima volta che do appuntamento in questo punto preciso, che non è un bar, una banca o un grande magazzino: do le coordinate, dico cosa vedo e come posso essere visto, e chi mi raggiunge mi trova. Mi piace stare lì, perché da lì comincia o finisce una storia che non è solo quella dell’Università che prendendo il nome dal suo fondatore fa pensare a una pronità sofferta o a un’assunzione di cibo sproporzionata. 

Mi piace portare lì i miei ospiti stranieri, perché suona più semplice raccontare la città. Ma sarà poi un racconto o semplicemente una visione che si è insinuata in me con la sobria autorità di una sineddoche? La nuova Bocconi. Così si dice, quando si arriva a quell’incrocio: siamo di fronte a un episodio di architettura contemporanea che ha toccato l’intelligenza urbana di chi sa guardare – e non è detto che chi passa la attivi veramente. So dove mi trovo e vedo un filo, una sorta di filo sospeso che dalle strade alle mie spalle arriva lì e continua dritto davanti a me e continua, tagliando le cerchie, prima di perdersi oltre la via che, milanesizzata nel dialettizzato roeghen, suonava, nella mia infanzia, benefico trattamento terapeutico. Nel 1931 al 17 di via Beatrice d’Este abita un poeta grande. I fantasmi, me compreso, son benvenuti, giacché in fondo siamo, in quanto fantasmi, pura attesa, sospensione del tempo, attributo del vuoto. E qui il vuoto si colma con discrezione. Il Tessa scriveva in un dialetto che suggeva piuttosto che apprendere dalle bettole, dai postriboli, dagli inferni di ladri e di puttane, e, con una voracità ignota alla piccola borghesia, butterava la sua lingua e la lacerava forte, lasciandola stracciata e seminata che cantasse. Dal 17 di Beatrice d’Este a piazza Vetra il passo è breve. Collo lungo, occhialetti tondi, s’aggirava qui intorno, dove da un anno avevano tirato su case nuove e per un anno luci poche alle finestre, come dire niente affitti. Come in una tela di Boccioni, ci sono fabbriche “né su né giò” e impalcature tante, case che crescono come funghi, e un operaio disoccupato che chiede a gran voce lavoro. Ci vedeva bene il Tessa,  vede la ragazza-bambina con il pacco chiuso con la corda (“Hoo mai vist,/ Ciana, / ona povera tosa/ come ti”) che se ne va, chissà dove. Nell’Italia “volitiva e guerriera”.  

Lui viene da una lingua insofferente, abrasiva, ed è uomo di quasi quarant’anni capace di morire di un ascesso dentale non curato – una morte che accade un anno dopo lo strazio di Antonia Pozzi suicida a Chiaravalle in una notte d’inverno. Come se ci fosse un filo in quei giovani milanesi, e una volontà. Ci vedevano bene. Milano si vede bene. Come l’aveva vista bene Umberto Boccioni, vent’anni prima, attraverso il rumore delle officine, che poi vennero definitivamente “su” a sud-ovest della città, e sono gli stessi opifici per i quali , giovane, mio padre andava fiero della classe a cui apparteneva. Avanzo in questo intreccio. Dove avesse imparato, mio padre, che il vero snodo della cultura operaia milanese fosse il “lavoro ben fatto”, non so ricostruirlo con esattezza. Più che nell’aria il concetto era nelle cose. Anche nelle cose sperate a cui guardava. Per certo il suo lavoro principiava dall’esattezza del disegno che anticipa la produzione dell’utensile. 

Devo mostrare a Mark certi disegni che mi sono rimasti. Li capirebbe. Hanno uno spessore di carta che resiste, sciami di inchiostri blu. Fu la sua – la nostra? – una tensione viva che passa immateriale anche in questo incrocio di strade e che magari ispira la dignità dei blocchi sospesi e dei canons à lumière, il cemento a vista e il ceppo grigio di Gré. Farò sentire all’amico Mark, architetto alla Georgia Tech University di Atlanta, con quanto senso del tempo e del luogo han lavorato, fra il 2002 e il 2008, Yvone Farrell e Shelly McNamara, irlandesi. Il ceppo è una citazione lombarda, ed è pietra metamorfica che, dove c’è, fa scattare la memoria urbana e, allo stesso tempo, racconta la pazienza dei fiumi, il ciottolo imbrigliato, il rosso e il bruno, il velluto quando tocchi. Anche in via Sarfatti quattro strade più in là, ah come si sente, e come si torna al Giuseppe Pagano che disegnò e distribuì spazi, filtrando luce fra i serramenti di quel verde scuro che fu per sempre suo. Quanta città di ferro. E quanta città di pietra. Quanta pensosa geometria nell’uno e nell’altro caso.Geometria che qui è diventata monumento prima ancora di sentire la presenza dei suoi interlocutori e destinatari, ed è significativo che diventi memoria prima di produrla, quasi l’intenzione fosse quella di volgere in monimento la disciplina – e qui ha un senso – delle scienze economiche e sociali. 

Mark è un uomo alto, più corpulento che grasso, d’un biondo mite da svedese. Gli piacciono i sapori e del piatto italiano lo convince anche la quantità. Averlo a tavola è una festa per chi cucina. Come artista si è inventato autore di alte cortine di tessere di carta colorata (tiles le chiama lui) che pendono a creare nubi di luce. Mark ritarda e io mi muovo. Direi quasi che precipito nel cuore della cittadella universitaria. All’angolo di via Lepoldo Sabbatini cerco in alto il balcone, la finestra da dove al ventenne redattore che ero allora il grande vecchio Cesare Musatti indicava le inferriate verdi di Pagano e indulgeva, abile nel restituire il sogno, nell’evocare l’aneddoto. Vedi, diceva, all’alba al primo risveglio non so più se son qui o nella mia Venezia e quei verdi telai orizzontali non siano riverberi delle Procuratie Vecchie. Che direbbe ora contemplando i trilli di luce metallica del Campus, la grazia nipponica di Kazuyo Sejima e di Ruye Nishizawa? Dovrebbe sporgersi, cercare in fondo alla strada. 

Sono forme. E le forme dicono la città e dicono anche il mio esserci dentro, figlio di uno spirito che non teme metamorfosi. Dove la superficie si muove in giri morbidi, ad accogliere futura classe dirigente, c’era una Centrale del Latte, anzi la Centrale del Latte – azienda municipale, sentita con orgoglio, quasi la garanzia di crescita della gioventù post-bellica si materializzasse (o si smaterializzasse?) nell’idea dell’alimento primo. 

E il bianco opaco, ricco, si scioglie per liquidità nella ricchezza trasparente dell’acqua della città, che ha una sua fama – Pinin Carpi raccontava l’incanto di scoprire, prima della guerra, in pieno centro, complice lo scavo delle fondamenta di un istituto bancario, un lago azzurro di acque sorgive. E quelle acque le si continua a immaginare sotto di noi, incanalate per condotti e vasche e fossi, tanto che, solo cinquecento metri più in là, colano, muschio rugginoso, dagli sfiatatoi della Centrale dell’acqua di via Crema. 

Mi attraversano senza fare caos, le pietre del Brembo, le frese mangia acciaio, le visioni crepuscolari di un grande investigatore d’anime, l’acqua che traluce limpida nel buio, la danza bianca del latte imbottigliato e puttane morte e bambine povere. Tutto defluisce in me, con decenza fantasmatica. 

Mi piace pensare che Milano non abbia mai smesso di nascere, e che quindi ci si possa trovare davanti a una faccia che non ha mai coinciso né con chi l’ha governata né con chi ne ha voluto dettare una presunta identità. Forzo questa sensazione, ma so anche che non è eccessiva.  Nelle forme di Milano la Storia si manifesta solo attraverso una sorta di guizzante didascalia che sfarina, che sgruma.  

C’è una folla di studenti che preme fra portici e giardini.  Portano in giro facce. Cerco Mark sul cellulare ma non risponde – lo so, è suo costume. Come fossimo quarant’anni fa ci troviamo comunque. Anzi, sono io che lo trovo.  Tiene il palmo della mano premuto sui blocchi di ceppo in via Sarfatti. L’altro Ceppo, quello di Giuseppe Pagano. Mark comincia dal principio. Io lo aspettavo a un punto del tempo più vicino. E invece lui è qui ed è perciò che ritardava. Ha una passione per il razionalismo, dice Milano ha avuto fortuna di stare negli anni Trenta senza il rischio della magniloquenza. Dice che, ad Atalanta, tiene in casa un ingrandimento della fotografia in cui appaiono intorno a una scrivania, seri e giocosi al contempo, i quattro BBPR in camice bianco, Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Perassutti ed Ernesto Nathan Rogers. Dice che sotto la targa che li ricorda a due passi da San Simpliciano puntualmente si commuove.

E allora dove vanno anche queste sue lacrime americane? Cos’è che ci tiene insieme e tiene insieme l’avventura di saperci fra gli storditi cespugli della nostra Storia? Ci sediamo a terra davanti a una vetrata del Campus: ci sono sedie, tavoli, computer e al di là un cortile verdissimo. Mark deve partire per Barcellona, ma siede tranquillo: è venuto per mettere ancora un po’ della mia Milano dentro la sua Milano. Una sua parola chiave è detail. Vede dettagli ovunque, e io gli sono grato perché li vedo, a volte, per la prima volta insieme a lui: una maniglia, un corrimano, un marcapiano invisibile, una fonte di luce. Lo rivedo salire la scala elicoidale di Casa Corbellini-Wassermann di Piero Portaluppi e tutto carezzare, assorbire, tradurre via pelle alla memoria, anche le ombre artigliate ai marmi. Vien da chiedersi senza indulgere al vittimismo cosa faremo di tutta questa ricchezza. Dice che non abbiamo idea di quanti dettagli invisibili è fatta questa città. E i dettagli risvegliano l’arte del “far bene” sulla quale si intestardiva mio padre. Lui forse non sarebbe stato preda di queste forme, ma altre avrebbe esaminato con il lentino e avrebbe provato la letizia dell’opera compiuta e utile. Dove sono gli strappi la città si ingorga, soffoca, non parla. Da troppo tempo sappiamo che il presente è l’accadere degli inciampi, e di inciampi sarebbe bene discettassero i nostri libri di lettura. La grammatica. Le frasi giuste. La bella scrittura. Perché di tutto si dia conoscenza. 

Mark si allontana, lo seguo, ritorniamo assieme alla “nuova Bocconi”: gli racconto di Tessa e del suo ascesso letale e dei suoi versi ferali (traduco all’impronta dal milanese e all’inglese, con soddisfatta approssimazione). Abbiamo bisogno dell’amicizia dei fantasmi, d’una bambina povera come mai ne ho viste, d’un poeta a cui si ferma il cuore davanti a un pioppo caduto, d’un architetto che, fascista per vent’anni, muore in un lager quindici giorni prima che arrivino i russi a liberarlo. Sia lode ora, agli uomini di fama, che ci crescono dentro prima che torni un altro buio.

ARTICOLO n. 86 / 2022

DA DOVE VENITE VOI CHE SCRIVETE QUI?

Joseph Ponthus, la generazione X e il lavoro culturale

Farsi da soli, in tanti sensi e contesti, anche i peggiori. Meritocrazia, autoimprenditorialità, self-made o deregulation, parole sospette interiorizzate a forza a inizi anni 2000, contraddittorie e pericolose quando messe sul piano pratico. Da ragioniere diplomato con il minimo dei voti a laureato in filosofia, conti e partita doppia non erano il mio forte. Poi un master in comunicazione grazie a una borsa di studio, qualche corso di informatica, diploma di lingua, il tesserino da pubblicista e altre licenze ad attestare alta funzionalità e adattamento. Nel mezzo, già da quando ero a scuola, dai 14 anni, sempre il lavoro, fabbrica di scarpe, cameriere, taglialegna, imbianchino, aiuto cuoco, call center, fabbrica di vasche idromassaggio, portalettere, lavorazione materie plastiche, assicuratore, call center, barista, fabbrica di luci, parcheggiatore, aiuto scenografo, ognuno li ho attraversati. Nemmeno li ricordo tutti, sono sicuro che in parecchi casi sono stato pagato in nero, o parzialmente in nero, erano comunque soldi. All’inizio non percepivo la ricchezza come sostanza, era idealizzata, la ricchezza riguardava l’umano, risiedeva nelle mie esperienze, in una vita piccola ma avventurosa, attiva, in cui allargare gli orizzonti, conoscere altre vite, altre possibilità e crearmi un’idea. La mia famiglia non mi ha mai fatto mancare l’essenziale, quand’è stato possibile mi ha aiutato con il denaro, ho avuto il motorino, la vecchia Lancia Delta di mio padre. I soldi erano importanti, certo, non fondamentali, sapevo di avere una casa a cui tornare, ho sempre vissuto con poco, in camere o appartamenti minimi, viaggiare appena possibile, assecondando un forte quanto celato senso di autodeterminazione e l’insofferenza di quegli anni. L’autodeterminazione veniva dall’aria che avevo respirato, famiglie contadine, ex mezzadri che superato il dopoguerra di fame e fatica stavano bene, inventandosi, rinnovandosi. L’insofferenza era la provincia, la noia e la ripetitività da cui scappare.

Oggi, a 45 anni, sono uno splendido esempio della Generazione X, senza figli, senza Dio, non sposato, due gatti, pessimista, sradicato, precario cronico, si potrebbe pensare libero in qualche modo, operativo su tanti fronti, svariati lavori ma quelli per cui ho più interesse e in cui mi sento comodo non mi permettono di saldare i conti: sono ufficio stampa e organizzazione di eventi ma solo in determinati periodi, quando serve, lavoro con gente di cui ho stima, con cui mi accordo ma che, capisco, non possono darmi continuità. E poi ho scritto dei libri e tanti articoli in rispettabili testate. Sulla carta potrebbero sembrare buoni numeri, in qualche modo dovrebbe essere tutto ok, ma ristagno, incapace di prendere delle decisioni, una caratteristica della Generazione X, quando ti guadagni ogni pezzettino non vuoi lasciare nulla, specialmente se tanti pezzettini ti permettono di mangiare. Così l’agenda è piena, scadenze in diversi settori ma che non mi rendono campione in nessun ambito, so adeguarmi, afferro e sbrigo nei tempi le consegne, ma comunque non ci campo. Ecco allora l’altro lavoro che svolgo quando le scuole sono aperte: è l’AEC, l’assistente educativo culturale o assistente scolastico o altre cento sigle che fanno intuire quanto sia vago questo ruolo, favorisco l’autonomia degli alunni disabili all’interno della scuola, assunto da una cooperativa sociale. Non so se ho la vocazione per lavorare con i disabili ma lo so fare, questo è certo come certi sono i pochissimi diritti, chi ci lavora sa, il fantastico mondo del sociale è impegnativo e rende una miseria, spesso a cottimo, a chiamata. È un paradosso, l’art. 1 che disciplina le coop sociali recita: hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, ok bello, aiutiamo gli altri ma a noi chi ci aiuta? Si è pagati in base alle ore svolte, alunno malato allora sostituzioni, spezzoni qua e là oppure, semplicemente, meno cash. In estate sei sospeso, vai a capire cosa significa se non entrare in una terra di nessuno, perché hai il contratto a tempo indeterminato congelato, non ti pagano ma non ti spetta Naspi né tantomeno la cassa integrazione. Per avere uno stipendio sopra ai mille euro devi fare tante, troppe ore per un lavoro usurante. Ogni tanto, come se fosse uno sport estremo, mi presento dai sindacati, vari, a caso, li ho ascoltati quasi tutti, giusto per vedere dietro alla scrivania ripetere il copione di sempre, quelle braccia che si allargano e lo sguardo rivolto verso l’alto, ho bisogno di (ri)sentirmi dire che non c’è speranza, che non si può far nulla. «Funziona così», «Ti va bene – dice lui – perché in teoria, essendo tu socio lavoratore, potrebbero impedirti di avere altri contratti», e così via. Una condizione straordinariamente penalizzante, umiliante, antecedente al Pacchetto Treu e quindi al Jobs Act, questo guarda caso introdotto dal ministro Poletti che fu presidente di Cooperative Italiane. Fra gli operatori con un sorriso amaro si dice che i contratti delle coop siano stati la nave scuola del precariato.

Altro paradosso: ho guadagnato di più sotto lockdown; con la cassa integrazione in deroga che in cooperativa copriva pure l’estate e alcuni dei fondi destinati ai lavoratori dello spettacolo, ho incassato di più. Guadagni di più senza lavorare, me lo ripeto quando sono esausto, allora non mi resta che accarezzare il sogno di abbandonare almeno il sociale, di sparire, è un pensiero che scaccio perché devo lavorare. Un retaggio cioè di quel passato operoso e insaziabile in cui sono cresciuto, ne sono consapevole, forse è solo paura, ma ho il turbamento di essere in trappola, sento un bruciore forte che sale dallo stomaco. Ho iniziato a vagheggiare l’ipotesi di prendere la disoccupazione, licenziandomi, facendomi riassumere un mese da chicchessia e così accedere agli ammortizzatori sociali. Ma la mia è una situazione complicata, tanti Cud, diritti d’autore, contratti di collaborazione, contratti di assunzione d’estate, «Ti potrebbero scalare ciò che guadagni con gli altri incarichi», dicono al sindacato. 

Leggo con interesse le storie di precariato ma non mi consolano, si assomigliano a tal punto da trasformarsi in intrattenimento, pure questa qui, ho l’impressione che le testimonianze non servano a nulla quando si è imbevuti dello spietato individualismo alimentato dagli ultimi 30 anni di politiche neoliberali, quando non avverti una comunità intorno non c’è nemmeno nessun eroismo dei lavoratori, solo solitudine se si è continuamente ricattati dalla necessità di tirare avanti. Il lavoro ha perso completamente quella ascendenza immaginifica della giovinezza, ora per quanto mi riguarda resta solo speculazione. La ricchezza è diventata sostanziale e circostanziata, relativa alla sua essenza e complice dell’immanenza, è il conto corrente, sogno 10 o 20mila euro, nemmeno cifre astronomiche, una quota che mi permetta di prendermi una pausa, respirare ed assaporare un cappuccino al bar con tranquillità.

Temo che le mie forze si stiano esaurendo, i pensieri sempre più negativi, ogni giorno perdo qualcosa, la mia sta diventando una spirale di rancore, ce l’ho vagamente con qualcuno poco identificabile da qua sotto, uno spettro, è un processo del tutto involontario che però ancora posso osservare e neutralizzare, ho gli strumenti per individuare l’emotività distorta e le diseguaglianze sociali, non mi sorprendono per niente i risultati delle elezioni politiche, ci sono tante monadi che hanno bisogno di una risposta, qualsiasi risposta, si abbraccia anche la promessa di un miracolo.

Certe volte, rischiando di sembrare maleducato, domando alle persone con cui entro in confidenza cosa fanno i genitori, da dove vengono, generalmente quando converso con chi abita il mondo della cultura. Da dove venite voi che scrivete qui? Sono preoccupato, escludendo quelli bravi e bravissimi che prima o poi si fanno notare, temo che arrivare a un giornale importante sia diventata solo una questione di censo; quanto puoi mantenerti in una grande città con quello che viene pagato un articolo di 4 o 5mila battute? Quanti altri lavori puoi svolgere ed avere la forza, fisica e mentale, di scrivere? Quanto si può resistere? Chi resiste, credo io, è perché parte da un’altra base economica che gli permette di riversare energie vitali su studio e contenuti, oltre al desiderio di vedere la propria firma fra altre più autorevoli, un desiderio giusto e impegnativo. E il fatto in sé seguirebbe solo la logica classista di ogni altra fottuta occupazione, se non fosse che poi a raccontare le storie, la cronaca, la politica, restano quelli che vengono da una data classe sociale, anche se le “classi”, ripete qualcuno, non esistono più. Avranno queste classi medio-alte la capacità di raccontare e dialogare con il malcontento, la sofferenza, lo svilimento o la sfortuna di chi non ha avuto un’istruzione adeguata, di chi è cresciuto in costrutti socio familiari che non gli hanno permesso di mettere il becco fuori di casa? Si discute continuamente di narrazioni tossiche, il problema sta anche a monte, nel sistema di reclutamento e quindi nel sistema produttivo.Ho divorato Alla linea di Joseph Ponthus (Bompiani), tradotto da Ileana Zagaglia, uno degli affreschi più raffinati sull’indecente condizione operaia (anzi del lavoro) che ho potuto leggere negli ultimi anni, una prosa con il ritmo della catena di montaggio e in cui, a un certo punto, l’autore scrive: «Il silenzio sulle nostre vite sembra d’obbligo/La fabbrica prima di tutto e insieme il nostro reddito mensile». Provo la medesima sensazione di abbandono; hai compiuto ogni dettame che ti era stato suggerito e vaghi, a metà della tua esistenza, in una nebbia fitta, in una provvisorietà incapace di guidarti da qualche parte, di costruire, retta solo dall’urgenza del salario. Qualche giorno addietro i soldi di un bonifico mi hanno permesso di sostituire gli occhiali da vista, ci vedevo più niente, pareggiare un po’ i conti con la mia compagna, saldare qualche debito, mi ritrovo sempre a ragionare sulle centinaia d’euro, le bollette, sempre a fare le pulci alle spese. Vivo in provincia e ho un piccolo mutuo di casa, già è arrivata la comunicazione per la revisione dell’auto, automobile che fa quel che può per tirare avanti, per sostenermi, certe volte ci parlo, la convinco ad accendersi e ad accollarsi le mie necessità, tendo a restituire un’anima a chi mi aiuta pure se non ha cuore ma carburatori, l’unico sollievo è solo l’opzione che potrebbe andarmi peggio. Ho la preoccupazione del giorno in cui mi abbandonerà la lavatrice che inizia a far rumori strani, i grattacapi te li costruisci in anticipo, li materializzi, il dentista lo rimando di continuo, le visite di controllo manco a parlarne. Il malessere cresce, certe volte ravviso più avvantaggiato di me chi si è ritrovato anche solo una casa di proprietà, è uno scarto minimo ma fondamentale specie nelle aree metropolitane, ma è solo un’escalation, dopo diventa importante il tipo di proprietà, la zona, quante stanze, terrazzi. In questa ipertrofia dello sfruttamento, spoglio di coordinate e solidarietà, intercetto privilegi e rendite ovunque a giustificare i miei fallimenti e questo stato di perenne insoddisfazione, di sparizione degli obiettivi e dell’essere, infine di eterna sottomissione.

ARTICOLO n. 85 / 2022

IL MITO DELLA MATERNITÀ

Da bambina ero solita passare le estati nel paese di origine della mia famiglia. Mi piaceva frequentare la casa di una conoscente di nonna: lei chiacchierava con la padrona di casa mentre io vagavo per le stanze, osservando la grande mole di oggetti che all’epoca consideravo insoliti, probabilmente perché erano molto diversi da quelli che ritrovavo nella mia abitazione. Quello che catturava maggiormente la mia attenzione era una medaglia: il ciondolo era sostenuto da una fascia di tessuto su cui erano apposti dei fiocchetti in metallo. Quella dei miei ricordi ne possedeva otto, anche se la loro distribuzione irregolare faceva intuire che uno si fosse staccato nel corso del tempo. Di ritorno da uno di quei pomeriggi, la nonna mi aveva spiegato la storia che si celava dietro la medaglia. Era un riconoscimento che veniva conferito in epoca fascista alle famiglie con più di sette figli. All’epoca – erano gli anni Novanta – mi sembrava impossibile credere potessero esserci donne con così tanti pargoli. L’ambiente familiare intorno a me era molto diverso: la maggior parte delle amiche proveniva da famiglie separate; nella mia, mamma aveva solo un fratello che non vedevo mai perché abitava altrove, papà era figlio unico, in casa, oltre a mia sorella adolescente, l’unica bambina ero io. Mi sembrava strano, inoltre, che mettere al mondo bambini comportasse ricevere un riconoscimento. A dirla tutta mi sembra strano ancora oggi, eppure è proprio su questo livello che si è mantenuta la comunicazione attorno a eventi come il Fertility day o gli Stati generali della natalità. Entrambe le manifestazioni sottolineano i rischi dell’“inverno demografico” – quella condizione in cui l’età media della popolazione si alza mentre diminuiscono le nascite – primo tra tutti la crisi dell’intero sistema di welfare. Il Piano nazionale per la fertilità, documento del 2015 alla base del Fertility day, attribuisce alle donne la responsabilità dell’abbassamento del tasso di fertilità in particolare da quando «sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità». Le donne diventano il capro espiatorio perfetto e i dati vengono usati come una clava per colpire la loro capacità di autodeterminazione, semplificando il discorso e omettendo tutte quelle variabili che potrebbero contribuire a spiegare perché, in un paese come il nostro, si mettano al mondo meno figli.

Effettivamente, le famiglie numerose si sono ridotte drasticamente negli ultimi sessant’anni. Secondo un report Istat, se le donne nate nel 1933 hanno partorito, in media, 2,3 volte, le loro nipoti nate nel 1977 lo hanno fatto 1,4 volte. La flessione del tasso di fecondità è cominciata nell’immediato dopoguerra, e oggi il dato si assesta a 1,25. Ciò significa che la maggior parte delle donne si ferma alla prima gravidanza; crescono inoltre i numeri di coloro che non mettono al mondo alcun figlio. 

Da una parte, questi dati, impensabili una manciata di anni fa, lasciano intendere un cambiamento nei confronti della maternità, che non costituisce più una tappa obbligata nella vita delle donne. L’accesso alla contraccezione ha infatti svincolato la riproduzione dalla sessualità, dando la possibilità alla donna di decidere se e quando diventare madre.

Ciò nonostante, è importante soffermarsi ancora sulle questioni strutturali e culturali che condizionano le scelte personali perché lo scenario è, in realtà, ben più complesso e i numeri da soli non bastano a chiarirlo.

Da un punto di vista culturale, il mito della maternità continua a resistere nonostante sia in atto un tentativo di messa in discussione. Il movimento Childfree è sicuramente la voce che, più di tutte, cerca di scardinare tale concetto. Nato in America sul finire degli anni Novanta, il movimento rivendica il diritto a non mettere al mondo figli e combatte lo stigma che ancora colpisce chi si rifiuta di farlo. La scrittrice e psicoterapeuta Christen Reighter è tra le principali autrici che sostengono le  posizioni Childfree. Invitata al TedX in Colorado nel 2017, ha raccontato il suo lento cammino di consapevolezza unito ai numerosi tentativi, da parte dei suoi interlocutori, di invalidare la sua posizione, tutti incentrati sull’idea che una donna senza figli sia sempre una donna “a metà”, meno femminile, meno realizzata e pertanto più infelice. A partire dagli anni Duemila, in America si sono moltiplicati i libri che difendono la battaglia delle persone childfree; in Italia però il movimento è stato recepito con molta diffidenza e sono ancora poche le donne che accolgono e difendono questa posizione. A tal proposito è importante ricordare l’Associazione Lunàdigas, che dal 2015 ha dato vita a uno spazio in cui combattere stereotipi e tabù inerenti alla maternità. All’interno della pagina Facebook collegata all’Associazione, le autrici Nicoletta Nesler e Marilisa Piga hanno raccolto numerose testimonianze di donne stanche di essere definite “imperfette”, “egoiste” o “cattive” a causa una decisione che, a ben vedere, riguarda esclusivamente la loro vita. Le esperienze sono state raccolte in un webdoc a cui è seguito un film che ha avuto il merito di portare la tematica al centro della discussione anche in Italia, un paese refrattario ad affrontare l’argomento anche a causa della persistenza della morale cattolica che non accoglie positivamente chi sceglie di non far figli.

Stereotipi e tabù, dicevamo. È a causa di questo connubio se la narrazione intorno alla maternità – e di conseguenza nei confronti di chi decide di aderire o no all’ideale – risulta ancora fortemente innervata da visioni parziali e superficiali che rendono difficile discostarsi dal modello preposto. I media e la politica descrivono quest’esperienza come un evento totalizzante, l’unico in grado di dar senso alla vita delle donne. Si tratta di una mistificazione poiché non tiene conto dei tanti risvolti negativi che la maternità possiede, che vanno dalla frustrazione al senso di colpa, dalla fatica all’isolamento sociale.

Mostrare la maternità solo nel suo lato idealizzato significa invalidare le voci di coloro che si sono confrontate con un’esperienza dai contorni mutevoli e complessi, limitando al contempo la loro possibilità di chiedere aiuto, pena l’imbattersi nel biasimo sociale per non riuscire a ricoprire un ruolo che dovrebbe addirittura essere istintivo.

A proposito della questione genetica, nel loro articolo apparso su “Gender sexuality Italy”, le studiose Aura Tiralongo e Giuditta Bassano accolgono l’eco del discorso avviato negli anni Sessanta da Betty Friedman e identificano nella mistica della maternità «la pressione pratica e simbolica che spinge la donna sulla frontiera fra libertà personale e aspettativa sociale, dispensandola dalla scelta del poter stabilire le soluzioni più adatte per sé». Secondo le autrici, è in atto un forte richiamo alla retorica che sostiene l’esistenza di «una natura differenziale dei sessi a cui segue, come diretta conseguenza, una ripartizione dei compiti e dei ruoli sociali sulla base del sesso di appartenenza». 

Quello identificato dalle autrici è atteggiamento che perdura da tempo, almeno dagli anni Settanta, quando il concetto di “orologio biologico”, con cui si identificava il ritmo sonno-veglia, cambia radicalmente significato per riferirsi l’età fertile delle donne. Nel 1978 il giornalista Roger Cohen pubblica un editoriale sul Washington Post dal titolo The Clock Is Ticking For the Career Woman che suona un po’ come un atto di accusa nei confronti del femminismo. L’autore sosteneva che a causa di questa corrente di pensiero le donne avessero perso tempo a compiere azioni da uomini, come dedicarsi alla carriera e allo studio. Secondo Cohen però, esse sono biologicamente diverse e non possono liberarsi di un istinto – quello della maternità – che sarebbe tornato a farsi sentire, diventando però irrealizzabile a causa dell’età avanzata. Apparentemente, dunque, lo scopo dell’articolo è mettere in guardia il genere femminile, invitandolo a non procrastinare quello che sembra essere il più importante evento nella vita di una donna. In realtà, il suo è stato anzitutto il tentativo più profondo di invocare la biologia per intimare loro di non sovvertire l’ordine sociale allontanandosi da un ruolo geneticamente imposto. Cohen incolpa le donne di anteporre le proprie esigenze agli obblighi della maternità. Tuttavia, omette dal discorso le condizioni sociali connesse a questa funzione. 

Nel suo volume Non è un paese per madri, la ricercatrice Alessandra Minello ha voluto approfondire proprio quest’aspetto. Se da una parte «il mito della maternità agisce ancora in maniera capillare e radicata, contribuendo a rafforzare la pressione sociale sul diventare madre», dall’altra le politiche sociali ed economiche che consentono di rendere accessibile e sostenibile la procreazione si sono sfibrate, tanto da diventare inconsistenti. Il lavoro è diventato progressivamente sempre meno compatibile con l’avere figli ed è qui che si manifesta la child penality, ovvero la penalizzazione che subiscono le donne che hanno messo al mondo uno o più bambini. I dati Istat confermano che il tasso di occupazione varia a seconda delle condizioni della donna: l’11% di quelle che hanno almeno un figlio non ha mai lavorato, chi ha bambini in età prescolare fatica maggiormente a conciliare orari e carriera finendo nel giro di poco tempo con il fuoriuscire dal contesto lavorativo per dedicarsi alla loro crescita. Nonostante il tentativo di redistribuire le responsabilità derivanti dal ruolo di cura su entrambi i genitori, esse restano in gran parte sulle spalle delle donne. Per questo, le donne che, nonostante tutto, riescono a rimanere nel circuito lavorativo, sono spesso impiegate con contratti part-time, nella maggior parte dei casi involontari, cioè non scelti dalla dipendente ma imposti dal datore di lavoro.

Lo scenario lavorativo, per una madre, è a tinte fosche. È anche per questo che molte si sono stancate di rimanere imbrigliate all’interno di una narrazione idealizzata, che non corrisponde alla verità, e stanno cercando di metterla in discussione partendo dal proprio vissuto personale. Autrici come Selena PastorinoSerena Marchi o Stefania Andreoli suggeriscono di riflettere sul tema partendo dalla propria soggettività, criticando un mito che ha un solo scopo: mantenere intatti i ruoli di genere a scapito della libertà delle donne. Nel processo di riequilibrio dei ruoli, la riflessione sulla maternità ha un posto centrale: la gender revolution si combatte sul piano interpersonale, decidendo quale posizione assumere dentro e fuori le mura di casa, ma ancora prima a livello personale, osservando quanto libere siano le scelte più intime che compiamo nella vita.

La scelta di procreare o non procreare è profonda, personale e soggetta a numerose variabili, molte delle quali risultano strettamente correlate con i profondi mutamenti (ambientali, sociali, politici) che incidono drasticamente sulla decisione finale. Il tentativo di mettere in discussione il mito della maternità, così come ci è stato tramandato dalle generazioni precedenti, affonda le sue radici proprio qui. Ed espandere le scelte a disposizione delle donne significa anche ampliare le loro possibilità riproduttive. Contrastare l’idea che la maternità sia solo quella del legame biologico e dello spirito di sacrificio significa accogliere tutte quelle donne che hanno costruito la propria capacità generativa in altro modo. Allargare le maglie di ciò che si può considerare ammissibile quando si parla di maternità permette, da ultimo, di rimuovere dal discorso l’ombra lunga della performance: generare (o non farlo) non è come compiere una gara, non ci sono medaglie che ci attendono alla linea di arrivo.

ARTICOLO n. 84 / 2022

MIA MADRE RIDE

Traduzione di Giorgia Tolfo

Pubblichiamo un’anticipazione da Mia madre ride (La Tartaruga), un diario-memoir della cineasta belga Chantal Akerman. Da oggi in libreria. 

Ho scritto tutto e ora non mi piace più quello che ho scritto. L’ho fatto prima, prima della spalla rotta, prima dell’operazione al cuore, prima dell’embolia polmonare, prima che mia sorella o mio cognato mi chiamassero perché le dicessi addio (per sempre). Prima che tornasse a casa a Bruxelles per l’ultima volta. 

Prima che ridesse.
Prima di accorgermi che forse avevo frainteso tutto.
Prima di accorgermi che la mia non era che una visione limitata e inventata. Che non sono capace di altro. Della verità, e nemmeno della mia versione della verità. 

Per ora mia madre è viva e in buona salute. Così dicono tutti, e tutti pensano anche che sia in forze e che non si capisce come abbia fatto a sopravvivere.

Ha male dappertutto, ma i capelli le sono ricresciuti. Un miracolo. Ha ripreso peso. Riesce persino a cavarsela con un braccio rotto. Bisogna ancora aiutarla a vestirsi e a spogliarsi, a tagliare la carne e a spalmare il burro sul pane. E non riesce più ad andare a passeggio da sola, il che è un vero peccato. Per fortuna c’è Clara, che vive con lei, ma dall’altro lato dell’appartamento, così ognuna ha il suo spazio. Clara è messicana. È la sorella di Patricia, la donna delle pulizie. 

A Natale e Capodanno organizzano delle feste e invitano mia madre. Mia madre dice che non le interessano né Natale né Capodanno, ma che le fa comunque piacere essere invitata e che le messicane sanno come creare l’atmosfera, e lei adora una certa atmosfera. Torna a casa da quelle serate con le guance rosse e gli occhi che brillano. 

Ride spesso mentre si lamenta. Sa ancora come divertirsi.

La ascolto ridere. Ride per delle sciocchezze. Sono sciocchezze, ma hanno un grande valore. A volte ride persino al mattino.

Si sveglia stanca, ma si prepara comunque per la giornata. 

Sono tornata da New York per passare qualche giorno con lei. 

E non so come mai o perché, ma mi lascia vivere così come sono.

Sembra che il mio disordine non la disturbi più. Sembra che non lo noti nemmeno. Lo accetta. Mi accetta come sono. Non è stato sempre così, ma da quando ha visto la morte avvicinarsi e l’ha scampata, è cambiata. Riconosce cosa è importante e che cosa non lo è, e mi accetta. 

A volte mi racconta ancora di quando sono nata e del fatto che non potessi poppare il suo latte e di come fosse terribile stare a guardare la propria figlia indebolirsi. Un giorno però ha trovato un tipo di latte che potevo bere. Chissà cosa sarebbe successo se non lo avesse trovato. 

Poi ride.
Adoro ascoltare la sua risata.
Dorme molto, ma ride. Si diverte. Poi dorme.

Ha persino accettato la sua età. Sa che deve dormire al centro del letto per non cadere durante la notte. Sa che deve lasciare una luce accesa nel corridoio che porta al bagno. Sa che c’è una persona che dorme dall’altro lato della casa, non troppo lontano, in caso di bisogno. Sa tutto questo e le va bene. Le piace. Le piace vedere apparire Clara. Le piace parlare e ridere con lei. Sembrano due amiche che si conoscono da sempre.

È stata un’idea di mia sorella. Ha capito che mia madre non ce l’avrebbe fatta a continuare a vivere da sola, così Clara è venuta in Belgio con lei e per ora sta andando tutto bene. 

Le piacciono i messicani, cioè la sorella di Clara e i due figli che ogni tanto vengono a trovarla e si fermano a mangiare con lei. Sono calorosi e ridono con lei. La fanno star bene bene. La fanno stare così bene che non riesce a starne senza. D’altronde, le è sempre piaciuto avere ospiti. Persino l’idraulico che è venuto con la figlia. Avevo trascorso la notte intera a svuotare secchi perché dall’appartamento al piano di sopra veniva giù acqua. È stato un vero e proprio evento, e lei ne è andata pazza, benché si chiedesse perché fosse successo e si ripetesse che il palazzo stava invecchiando male e che sperava che non le sarebbe costato troppo perché viveva con poco e se avesse dovuto pagare le riparazioni oltre a tutto il resto non avrebbe saputo cosa fare. 

Sa che può contare sulle figlie, ma non lo fa volentieri. Non le piace chiedere. Vuole cavarsela con quello che ha. Che è poca cosa. Ha lavorato a lungo per mio padre, ma non era sull’elenco della busta paga. Perciò se la deve sbrogliare con la pensione tedesca e con quella da prigioniera di guerra. E con un appartamento che mio padre mi ha comprato perché avessi qualcosa. 

A volte l’appartamento lo affittiamo per ricavare qualcosa in più, ma non molto perché non è in buono stato e dunque non ci perdiamo tempo. 

Quando l’idraulico è arrivato con la figlia, si è talmente innamorata di quella bambina con le trecce da esserne sopraffatta. Era una scena così bella e la bambina era calma e sorridente. Mia madre le ha dato del succo d’arancia.

L’idraulico ha fatto un rumore terribile con un attrezzo speciale per sturare i tubi, ma ha risolto il problema e non ho più dovuto passare la notte col secchio. 

L’idraulico le ha detto che il problema si sarebbe potuto ripresentare perché i tubi erano vecchi. Mia madre ha detto vedremo. Ogni cosa a suo tempo. Si è detta che se succederà tra dieci anni allora dovrà essere mia sorella a occuparsene perché io non ho senso pratico. Eppure ero stata io a chiamare l’idraulico a Natale e l’idraulico è venuto. Ha riso.

Fa fatica a uscire dal suo appartamento. Non esce quasi più quindi non parla d’altro che di questo, cioè di uscire, ma fuori è scuro e umido, è inverno. E sa che essendo stata così debilitata l’umidità le può far male. Ma anche quando è meno umido, il che a volte succede a Bruxelles a dicembre, lei non esce. 

Va solo in terrazza e si ferma là. Guarda il giardino desolato del piano terra, guarda il gatto, guarda il cane. Vede la sdraio che si è ribaltata per il vento che quando soffia si tira dietro tutto. Ma a parte questo non c’è nessuno in giardino. I bambini non ci sono più. Sono sicuramente dentro. Quando tornerà la primavera li rivedrà e sarà felice. Aspetta la primavera. Sa che arriverà e sa che sentirà gli uccelli volare. Li adora. 

Io non ci riesco. Non riesco ad aspettare la primavera. Sono immersa nell’inverno con le sue nuvole scure e pesanti che non sembrano mai andare via.

Mi sembra che stia per finire, ma non finisce.

Non so che cosa farò, dove andrò a vivere o se andrò da qualche parte. Ma so che andrò a Parigi, nel mio appartamento. Ho un appartamento. Un posto tutto mio. Si dice così, un posto mio. 

Ma non sento di avere un posto mio, o un posto in generale. Un posto dove sentirmi a casa. 

A volte mi dico andrò in hotel, sarà il mio rifugio lontano da casa e là potrò scrivere. 

Ho riletto tutto quello che ho scritto e mi ha profondamente delusa. Ma cosa ci posso fare, l’ho scritto. Eccolo qua.

A volte mi dico che se lo riprendo in mano forse mi deluderà meno. Ma nei mesi in cui non sono riuscita a fare nulla ho continuato a ripetermi presto ricomincerò a scrivere, o riprenderò quel che ho cominciato e tutto andrà per il meglio.

© 2022 Baldini+Castoldi s.r.l. La Tartaruga 

ARTICOLO n. 83 / 2022

LA SCRITTRICE CHE SONO STATA: AMORE, BUDDISMO E IL BEAT

intervista di George Yancy

Apriamo, con un’intervista al New York Times di George Yancy del dicembre 2015, il nostro speciale dedicato a bell hooks. Di settimana in settimana lo arricchiremo con approfondimenti, letture e inediti. 

George Yancy: Negli anni hai usato l’espressione «patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco» per descrivere la struttura di potere che sta alla base del nostro ordine sociale. Perché unire tutti questi termini, anziché prenderli in considerazione uno alla volta?

bell hooks: Non si può pensare di capire la natura della dominazione se non si comprende come questi sistemi sono connessi l’uno all’altro. In particolare, questa espressione mi ha sempre colpito perché non dà più valore a un sistema rispetto a un altro. Per tanti anni, nel movimento femminista, le donne hanno dichiarato che il genere è l’unico tratto identitario che importa davvero e che la dominazione, nel mondo, si è affermata tramite lo stupro. Poi sono arrivati i sostenitori della razza, che invece dicevano: «È la razza la cosa davvero importante. Non serve a niente parlare di classe o di genere». Per me, quindi, quell’espressione è un rimando a un contesto globale, al contesto del classismo, dell’imperialismo, del capitalismo, del razzismo e del patriarcato. Sono tutti elementi collegati tra loro in un sistema interconnesso. 

G.Y. Ti ho sentito parlare diverse volte e mi sono reso conto che hai uno spiccato senso dell’umorismo. Che ruolo ha lo humour nel tuo lavoro?

b.h. Non può esserci una vera rivoluzione senza umorismo. Ogni volta che la sinistra o qualunque altra parte politica cerca di fare dei passi avanti verso politiche più radicali e non ci mette dell’ironia, fallisce. L’umorismo è fondamentale per raggiungere quell’equilibrio di integrazione necessario a gestire la diversità e le differenze che emergono quando si crea una comunità. Per esempio, adoro le conversazioni con Cornel West: tra grandi alti e bassi, con lui allegria e umorismo non mancano mai. Nel nostro ultimo intervento pubblico, molte persone sono rimaste contrariate perché abbiamo fatto gli scemi. Personalmente, considero una santa vocazione il poter essere spiritosi assieme. Quando mai capita di vedere due afroamericani, uomo e donna, che conversano, criticandosi a vicenda ma con grande ironia e piacere? È un miracolo.

G.Y. Che ne pensi del movimento femminista oggi, e com’è cambiato, nel tempo, il rapporto che vi lega?

b.h. Il mio impegno militante verso il femminismo è ancora molto forte, soprattutto perché il femminismo è stato il principale movimento sociale contemporaneo a promuovere la capacità di mettersi in discussione. Quando noi donne di colore abbiamo cominciato a dire alle donne bianche che quello delle donne non era un gruppo omogeneo, ma che bisognava affrontare la realtà delle differenze razziali, molte di loro si sono date subito da fare. Oggi sono una femminista solidale con le donne bianche proprio per questa ragione, perché ho visto come non hanno esitato ad aprire la propria mente e a cambiare radicalmente la direzione del pensiero, degli scritti e dell’azione femminista. Per me questo è ancora uno degli aspetti più straordinari e degni di nota del movimento femminista contemporaneo. La sinistra non ha fatto niente di tutto questo, i neri radicali neppure, nessuno è arrivato a dire: «Guardate, le vostre idee, la vostra ideologia, è impostata nel modo sbagliato. Dovete cambiare prospettiva». Il femminismo è riuscito a fare questo cambio di paradigma, seppur non senza ostilità, non senza che qualche donna avesse la sensazione che quella della razza fosse una forzatura. È un cambiamento che ancora mi sconvolge.

G.Y. Che cosa possiamo fare nelle nostre vite quotidiane per combattere il potere e l’influenza di quello che tu chiami patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco? Cosa si può fare nella pratica?

b.h. Io abito in una cittadina a maggioranza bianca della Bible Belt. Invece di pensare: «Che cosa farebbe Gesù?», mi chiedo sempre: «Cosa si aspetterebbe da me Martin Luther King, oggi?». Poi mi dico che Martin Luther King vorrebbe che mi aprissi al mondo e che, in qualunque modo possibile, grande o piccolo, contribuissi a costruire una comunità degna d’amore. Come cristiana buddista, poi, penso al detto del monaco buddista Thich Nhat Hanh: «Un sasso lanciato nell’acqua non arriva lontano, ma le onde che forma sì». Ogni giorno quindi mi ripeto: «Che cosa stai facendo, bell, per creare la tua beneamata comunità?». Perché sotto sotto, localmente, persiste l’idea che devo essere parte fondamentale del mondo in cui vivo. Stamattina sono stata al mercato agricolo e al mercatino di beneficienza della chiesa. Mi sforzo sempre di entrare in contatto con le persone, sì, anche persone con cui posso non essere del tutto a mio agio. Ci sono parecchi bifolchi bianchi del Kentucky che mi guardano con disprezzo. Ma non mi faranno cambiare idea. Sto facendo la stessa cosa che facevano gli attivisti per i diritti civili, quei bianchi e quei neri che hanno organizzato manifestazioni e si sono seduti insieme nelle tavole calde.

È questione di umanizzazione. Non riesco a pensare a un altro modo per uscire dalla crisi dell’odio razziale, se non tramite la volontà di umanizzare. Per quanto mi riguarda, traggo grande forza dalle immagini dei movimenti sociali che vedono la partecipazione congiunta di persone di colore e bianche. Selma non mi è sembrato granché come film, ma mi ha dato forza pensare a tutte quelle persone, quei bianchi che lo vedono e pensano: «Buon Dio, che ingiustizia! Andiamo a fare la nostra parte». Sentirsi chiamati a una causa è meraviglioso. Spesso, in questa vita che mi ritrovo, mi capita di chiedermi: «Per cosa saresti disposta a dare la vita, bell? In quali circostanze scenderesti in strada sapendo di esporti a un rischio concreto?». Pensare a cosa sono state in grado di fare quelle anziane donne nere a Selma, in Alabama, serve a ricordarci quanto questa storia di lotte sia stata fondamentale per consentirci di vivere nella condizione di privilegio in cui ci troviamo oggi.

G.Y. Quest’ultima considerazione mi riguarda da vicino, soprattutto se penso alla mia identità intellettuale e al fatto che spesso mi dimentico di riflettere sul privilegio che la accompagna.

b.h. Ah, io sono una vera intellettuale. Alla gente dico che il lavoro intellettuale è il laboratorio in cui vado ogni giorno. Senza tutte le persone che si sono impegnate nella lotta per i diritti civili, però, non sarei qui. Insomma, quante donne nere hanno avuto la fortuna di scrivere più di 30 libri? Quando mi sveglio, alle 4 o alle 5 del mattino, mi dedico alla preghiera e alla meditazione, poi ho quelle che definisco le mie “ore di studio”. Cerco di leggere un libro al giorno, sempre di saggistica, poi posso dedicarmi a qualunque tipo di spazzatura per il resto della giornata. Il mio è un lusso, un privilegio di ordine supremo: il privilegio del pensiero critico, di poter agire su ciò che si sa.

G.Y. Chiaro. Hai detto che la teoria può diventare un luogo di guarigione. Puoi elaborare meglio il concetto?

b.h. Parto sempre dai bambini. La maggior parte dei bambini sviluppa una capacità di pensiero critico eccezionale, prima che noi li silenziamo. Nella sostanza, penso che la teoria non sia altro che un modo per dare senso al mondo: da bambina talentuosa cresciuta in una famiglia disfunzionale, dove il talento non era apprezzato, sono riuscita a tirare avanti chiedendomi: «Perché mamma e papà sono fatti così?». Domande che costituiscono l’essenza stessa del pensiero critico. Per questo sono convinta che quella forma di pensiero, insieme alla teoria, possa essere fonte di guarigione. Ci aiuta ad andare avanti. Ovviamente, poi, non so come funzioni per altri scrittori o pensatori, ma ho la fortuna di avere persone che mi contattano ogni giorno, per posta o fermandomi per strada, per dirmi che il mio lavoro gli ha cambiato la vita, le ha aiutate ad andare avanti. Cosa ci può essere di più bello per una pensatrice e teoreta?

G.Y. Come fai a non lasciarti sedurre da tutto questo? Penso che gli intellettuali, gli studiosi più noti, siano molto tentati a ricadere nel narcisismo. Tu come fai a resistere?

b.h. Innanzitutto, vivo in una città di 12.000 abitanti, molti dei quali non hanno neanche idea di chi sia bell hooks, tanto che c’è chi chiede: «Ma bell hooks è una persona?». La mia è una vita abbastanza modesta, perché uno dei vantaggi di avere un altro nome, Gloria Jean, un nome da vera bifolca degli Appalachi, è che non me ne vado in giro tutti i giorni come bell hooks. Vivo la mia vita quotidiana da banalissima Gloria Jean. Anche se ultimamente le cose hanno iniziato a cambiare, perché sto cominciando a farmi conoscere come artista, scrittrice e pensatrice anche nel mondo della piccola cittadina in cui vivo.

Penso che questa mia popolarità sia dovuta al fatto che nel mio lavoro scrivo di spiritualità, uno degli aspetti fondamentali che mi hanno tenuto con i piedi per terra nella vita. Da piccola, quando mia mamma mi ripeteva: «Sarai anche tanto intelligente, ma non sei meglio degli altri», mi chiedevo: «Perché mi dice queste cose?». Oggi, ovviamente, l’ho capito. Era per farmi rimanere con i piedi per terra, per fare in modo che continuassi a rispettare le tante vie del sapere, le conoscenze altrui, senza pensare: «Oh, io sono più intelligente», come credo possa capitare a tanti intellettuali famosi.

Mi viene sempre da ridere nel sentirmi definire un’intellettuale sociale. Rido perché un tempo la gente mi chiedeva: «Come hai fatto a scrivere così tanto?» e la risposta era: «Non ho avuto una vita». Non c’è proprio niente di sociale nell’energia, nella disciplina e nella solitudine che servono a scrivere così tanto. Per me gli intellettuali sociali sono qualcosa di molto diverso, perché usano le loro opere per interagire con un pubblico. Nei tanti anni in cui mi sono dedicata a scrivere, io non ho mai avuto questa intenzione. Volevo solo produrre delle teorie che la gente potesse utilizzare. C’è un’espressione che uso: “lavorare sull’opera”. Se qualcuno viene da me con un libro di bell hooks tutto stropicciato, con sottolineature su ogni singola pagina, so che ha “lavorato sull’opera”. Ed è esattamente quello che voglio.

G.Y. C’è qualche correlazione tra l’insegnamento come spazio di guarigione e la tua concezione dell’amore?

b.h. Beh, sono fermamente convinta che l’unico modo per liberarsi della dominazione sia l’amore e che l’unico modo per poter entrare davvero in contatto con gli altri, e per sapere come fare, sia partecipare a ogni aspetto della propria vita come a un sacramento d’amore. Incluso l’insegnamento. Ormai non insegno più molto. Sono praticamente in pensione. Come ogni atto d’amore, anche l’insegnamento assorbe parecchie energie.

Ho appena parlato con uno dei miei vicini di che effetto faccia lavorare per un’università come Berea, in cui le rette sono coperte da borse di studio e molti studenti vengono dai colli Appalachi. A volte tendiamo a farci scoraggiare dall’idea che un’istituzione del genere non riesca a essere all’altezza della sua storia di integrazione e inclusione razziale, ma poi vediamo che alcuni dei nostri studenti fanno cose davvero straordinarie, dalla Virginia come dal Tennessee. Insomma, sono esattamente dove dovrei essere, a fare ciò che devo fare, e a dare e ricevere l’amore che emerge ogni volta che riusciamo a fare bene il nostro lavoro.

G.Y. Nella tua concezione, l’amore è l’opposto dell’alienazione. Cosa puoi dirci in proposito?

b.h. Se si pensa all’amore, all’amare come azione, non si può agire senza creare una connessione. Mi capita spesso di pensare alla frase “solo connettere”.[1] In termini di suprematismo bianco, per esempio, qualche settimana fa un poliziotto mi ha fermato, qui a Berea, perché avevo commesso un’infrazione. La mia prima reazione è stata di paura, e mi è venuto da pensare che negli oltre 60 anni che ho vissuto qui [negli Stati Uniti] non ho mai avuto paura dei poliziotti, invece adesso sì. Quello che mi ha fermato è stato gentilissimo. Eppure, a me è venuto da pensare a quanto deve essere cambiata in peggio la nostra società per arrivare a un simile livello di alienazione, mai visto prima.

So che uomini e donne di colore hanno sempre vissuto esperienze essenzialmente diverse, ma da quando ero bambina a oggi non ho mai pensato che i poliziotti potessero essere miei nemici. Tuttavia, a quale donna nera, dopo gli sconcertanti abusi inflitti a Sandra Bland, non tremerebbero le ginocchia nel vedersi fermare dalla polizia? Mentre guardavo quel video, mi aspettavo quasi che i poliziotti le sparassero lì sul posto. I suprematisti bianchi sono fuori di testa.

Una volta parlavo del patriarcato come di una malattia mentale legata alla disfunzionalità del desiderio, ma il suprematismo bianco è una malattia mentale altrettanto seria e profonda, che porta a fare cose completamente folli. Penso che uno dei problemi della nostra società sia che tende a normalizzare le malattie mentali, quindi anche il suprematismo bianco, e che il suo emergere e la sua diffusione siano parte integrante di tale malattia mentale.Ricordiamo che la nostra è una cultura in crisi. Parlo di una crisi spirituale, oltre che politica: per questo Martin Luther King Jr. è stato così preveggente nel sostenere quanto il potere dell’amore fosse importante per avere un effetto davvero rivoluzionario.

G.Y. Eppure, questo non significa che nel tuo lavoro non ci sia posto anche per la rabbia, come nel libro Killing Rage, no?

b.h. Sì, certo. La prima volta che ho incontrato Thich Nhat Hanh, non vedevo l’ora di conoscerlo. Continuavo a ripetermi che finalmente sarei riuscita a incontrare quell’uomo tanto devoto. Il giorno in cui sono andata da lui, a ogni passo mi sembrava di incappare in un qualche episodio di razzismo o sessismo. Quando sono arrivata lì, la prima cosa che mi è uscita di bocca è stata: «Sono così arrabbiata!». Lui, l’emblema della calma e della tranquillità, mi ha risposto: «Allora tieniti stretta la tua rabbia e usala per concimare il tuo giardino». E io mi sono detta: «Sì, ha ragione, ce la posso fare!». Racconto questo aneddoto ogni volta che posso. Gli ho spiegato delle difficoltà che avevo con il mio compagno di allora e lui ha risposto: «Si può dire a qualcuno che lo si vorrebbe ammazzare, ma poi è importante fare un passo indietro e ricordare cosa ci ha fatto gravitare verso quella persona in prima battuta». Trovo che pensare alla rabbia come a un concime aiuti a concepirla come un’energia che può essere riutilizzata per fare del bene, capace di darci forza. Se non la si concepisce così, si rischia che diventi una forza debilitante e distruttiva.

G.Y. Dato che hai citato Sara Bland e che ci sarebbero tanti altri casi da menzionare, come possiamo sfruttare il trauma che stanno vivendo le persone di colore, o trasformare quel trauma in concime? Come possono riuscirci i neri? Come ci si può riuscire a livello terapeutico o collettivo?

b.h. Bisogna voler essere sinceri. E per essere sinceri bisogna dire che il problema che si trovano ad affrontare le persone di colore, il trauma del suprematismo bianco nelle nostre vite, non si limita alla brutalità della polizia. Quello è semplicemente uno dei tanti aspetti. Ripeto sempre che il problema, per i giovani ragazzi neri, è la strada. Se non hai nient’altro che quello, attorno a te c’è solo violenza: la violenza dei neri contro i neri, la violenza delle dipendenze, la violenza della polizia. Perciò la domanda è, in questo momento della storia, con tanti neri facoltosi e tanti neri di talento, come facciamo a dare ai maschi neri un posto che non sia la strada? Parlo dei maschi perché la strada, in un patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, è degli uomini, soprattutto quando fa buio. La sensazione di spaesamento va ben oltre il trauma del razzismo. È il trauma del patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, perché la povertà è diventata infinitamente più violenta di quando ero bambina. Allora si viveva accanto a persone di colore molto povere, che però avevano vite felici. Oggi la povertà non è più così.

G.Y. Che cosa è cambiato?

b.h. Ammettiamolo: insieme all’integrazione, i bianchi ci hanno aperto le porte della tormentosa realtà del desiderio e dell’idea di un consumo costante. Parte della differenza tra la povertà di ieri e di oggi è legata a fantasie irrealizzabili, all’idea che prima o poi si vincerà alla lotteria, che i soldi arriveranno. Penso spesso alla madre di Lorraine Hansberry che, in A Raisin in the Sun, dice: «Da quando i soldi sono diventati la nostra vita?». Credo che, nella povertà della mia infanzia, in cui sono cresciuta e che mi circondava, la sensazione fosse sempre che il denaro non era tutto nella vita. Oggi, invece, le cose sono molto diverse, perché la maggior parte della gente, nella nostra cultura, crede che i soldi siano tutto. Il principale legame tra neri, bianchi, ispanici, nativi e asiatici è l’avidità, il materialismo su cui tutti investiamo e che condividiamo.

G.Y. Nel sentirti dire così, già mi vedo i lettori dire che bell patologizza gli spazi dei neri.

b.h. Come ho già detto, questa società ha normalizzato la malattia mentale. Perciò non sto patologizzando gli spazi dei neri, sto dicendo che la maggior parte degli spazi culturali nella nostra società è pervasa da questa patologia. È per questo che è così difficile uscirne, perché è parte della cultura che ci viene propinata ogni giorno. Nessuno di noi può sfuggirle, se non vivendo e amando con coscienza, cosa sempre più difficile per tutti. Non mi faccio certo problemi a dire che i traumi provocano delle ferite e che la maggior parte delle nostre ferite, come afroamericani, non è stata ancora sanata. In questo senso non siamo poi così diversi da tutte le altre persone che sono state ferite. Ma diciamocelo: i bianchi, se feriti, spesso riescono a nasconderlo meglio perché hanno maggiore accesso al potere materiale.

Trovo affascinante che ogni giorno uno possa andare al supermercato, guardare le persone, guardare noi e poi vedere i mass media che non fanno altro che sbandierare i dolori e i problemi mentali dei bianchi ricchi nella nostra società. È come se tutti accettassero di passarci sopra. Nessuno si chiede mai: «Perché non patologizziamo i ricchi?». Siamo davvero convinti che siano affetti da malattie mentali e come tali meritino di essere curati. Il problema di noi neri è che pochissime persone credono che meritiamo di essere curati, per cui i sistemi capaci di promuovere questo tipo di cure nelle nostre vite scarseggiano. Il sistema che più promuove l’idea di guarigione tra le persone di colore è la Chiesa, ma sappiamo tutti cosa succede in gran parte delle chiese, oggi. Sono diventate un’estensione dell’avidità materiale di cui parlavo prima.

G.Y. Mentre raccontavi di quando sei stata fermata dalla polizia, mi è venuto in mente il tuo libro Black Looks: Race and Representation, in cui parli della bianchitudine come fonte di terrore. È ancora così?

b.h. Penso che sia ancora così per la maggior parte delle persone di colore. Un saggio, in particolare, Representation of Whiteness in the Black Imagination, parla della bianchitudine, dell’immaginario dei neri e di come molti di noi vivano nel terrore dei bianchi. Ho voluto sottolineare la storia del poliziotto perché in molti di noi questo terrore si è solo intensificato. Penso che la maggior parte dei bianchi non pensi neppure che le persone nere possano volere degli spazi riservati ai neri perché altrimenti non si sentono sicure.

Nel mio ultimo libro, Writing Beyond Race: Living Theory and Practice, ho davvero voluto sollevare la questione, problematizzandola: Dove ci sentiamo sicure, noi persone nere? A me viene sempre da tornare alla casa come luogo di possibilità spirituale, alla casa come luogo sacro.

Ho comprato la casa in cui vivo da un uomo bianco, conservatore e capitalista che abita dall’altra parte della strada e non potrei esserne più felice. Spesso dico che, quando apro le porte della mia casetta, è come se ne uscissero delle braccia che mi stringono in un abbraccio. Credo che tutto questo sia parte della nostra resistenza radicale alla cultura della dominazione. So che quell’uomo di certo non si immaginava una come me in quella casa. Si immaginava una bella famiglia bianca con due bambini e credo che per certi versi per lui sia stato davvero difficile vendere casa sua a una donna di colore radicale, una nera radicale e femminista. Penso che tutti noi, se amiamo la nostra casa, ci facciamo un’idea di chi ci piacerebbe vederci vivere dentro. Ma credo che i neri, di qualsiasi classe, in generale, debbano riappropriarsi di quel senso di resistenza a partire dalla casa.

Se si pensa alla storia di coloro che hanno lottato contro il razzismo, tra i neri, gran parte dell’attività organizzativa avveniva nelle case. Mi viene sempre in mente Mary McLeod Bethune: «Iniziate l’università dalle vostre stanze». L’autodeterminazione parte dalle nostre case. È sempre più evidente che una delle ragioni del fallimento di tanti movimenti neri di lotta al razzismo è che non hanno mai considerato la casa un focolaio di resistenza. Ci siamo ritrovati con persone profondamente ferite che cercavano di organizzare dei movimenti in un mondo esterno a quello della casa, ma che in sostanza non erano nelle condizioni psicologiche adatte a essere dei capi.

G.Y. Ecco, a questo proposito passerei a una domanda sulla tua idea di “cura dell’anima” negli uomini di colore. Cosa comporta curare l’anima degli uomini di colore? E che ruolo pensi che svolgano le donne di colore nell’aiutarli?

b.h. Di tanto in tanto, George, mi capita di scrivere un libro che passa quasi inosservato. Tra questi ce n’è uno che parla proprio della mascolinità nera: We Real Cool: Black Men and Masculinity. Uno dei capitoli più toccanti di quel libro è quello in cui uso la metafora di Iside e Osiride. Osiride viene attaccato e smembrato, i pezzi sparsi ovunque. Iside, madre, sorella e amante severa, va a recuperarne le membra e le rimette insieme. Quella metafora di attrito e armonia che può essere la cura dell’anima per le persone di colore è estremamente reale per me. A volte mi rattristo perché credo che la nostra cultura abbia la tendenza a tenere uomini e donne di colore ancora più lontani gli uni dagli altri, anziché farci incontrare in un luogo di storia condivisa, di passato condiviso.

Sono molto grata per gli amici maschi neri che ho nella mia vita. Come tante donne in carriera nere, non ho un compagno. Mi piacerebbe averne uno, ma sono grata di avere amici e sodali di colore affettuosi e consapevoli, che mi trattengono dall’integrare la mascolinità nera, circondandomi di una neritudine piena d’amore.

Rapporti come questi sono molto preziosi. Sono i momenti più costruttivi della nostra epoca, ma non vengono trasmessi in televisione. Quando Malcom X ha detto che dobbiamo guardarci l’un l’altro con occhi nuovi, penso sia lì che inizia l’autodeterminazione e la capacità di rapportarci gli uni agli altri. Diciamocelo, troppi uomini e donne di colore hanno sofferto di un totale abbandono dal punto di vista mentale e, più che la brutalità della polizia, per molti di noi è quella la fonte principale del trauma. Il tradimento ha sempre a che fare con l’abbandono. E molti di noi sono stati abbandonati emotivamente. Queste sono le ferite che è importante curare a dovere per consentire davvero ai bambini neri e birazziali di potersi prendere cura di sé nella maniera migliore per tutti.

G.Y. Le tue pratiche buddiste e le tue pratiche femministe si consolidano a vicenda? Se sì, come?

b.h. Ah, posso dire che la mia pratica da cristiana buddista per me è una sfida continua, al pari del femminismo. Ma il buddismo è una fonte di ispirazione continua perché c’è molta enfasi sulla pratica. Che cosa fai? Retta sussistenza, retta azione.[2] Siamo tornati a quel mettersi in discussione che è fondamentale. È buffo che tu abbia tracciato un collegamento tra buddismo e femminismo, perché credo che una delle questioni su cui più mi trovo a riflettere in questa fase della mia vita sia in quale misura i valori etico-spirituali essenziali abbiano costituito le fondamenta della mia esistenza. Fondamenta che mi derivano sia dal buddismo sia dal cristianesimo, mentre il femminismo è stato ciò che, da giovane donna, mi ha aiutato ad arrivarci e ad apprezzarli. La spiritualità per me è arrivata tramite l’amore per la poesia Beat. Sono giunta al buddismo tramite la generazione Beat, tramite Gary Snyder e Jack Kerouac, che mi hanno concesso uno spazio dove mettere radici.

Oggi parlo di spiritualità più di quanto non abbia mai fatto prima perché vedo i miei studenti soffrire più di quanto non sia mai accaduto prima, specialmente le studentesse, che hanno la sensazione di dover soddisfare delle aspettative esagerate. Da un lato devono essere uguali agli uomini ma dall’altro, se eteronormative, devono dimostrarsi sottomesse, devono trovare un partner. Ci si aspetta così tanto da loro che in molti casi si lasciano andare alla depressione, alla tossicodipendenza o al suicidio. La spiritualità, invece, è in grado di dare loro delle basi solide.

Il femminismo non è tra i miei fondamenti. La base della mia vita è la disciplina derivata dalla pratica spirituale. Se vogliamo parlare di che scrittrice disciplinata sono stata e vorrei continuare a essere, quella disciplina mi deriva dalla pratica spirituale. Una pratica da ripetere ogni singolo giorno, ancora e ancora.


[1] Riferimento alla frase cardine del volume Casa Howard, di Edward M. Forster, qui riportata nella traduzione di Lucia Chiarelli (Feltrinelli, Milano 1997). [N.d.T.]

[2] Precetti V e IV del “nobile ottuplice sentiero” del buddismo. [N.d.T.]

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 82 / 2022

GLI EFFETTI DELLA MEDITAZIONE

Descrivere un proprio stato interiore richiede capacità letterarie fuor dal comune – che sia il deflagrare di un innamoramento, l’ascesa del prurito dopo una puntura, l’appiccicore che decanta sul viso quando è sudato; trovare le parole per riferire sensazioni la cui natura è ondivaga non è affatto facile. Lo sapeva Marcel Proust, maestro in questa difficile arte, quando scrisse che «quel che noi crediamo il nostro amore, la nostra gelosia, non è la medesima passione continua, indivisibile. Essi sono composti di un’infinità d’amori successivi, di gelosie diverse ed effimere, che tuttavia per la loro moltitudine ininterrotta danno l’impressione della continuità, l’illusione dell’unità». Se narrare la più semplice delle esperienze quotidiane è complesso, non stupisce l’imbarazzo di mistici e mistiche di qualunque epoca e tradizione nel comunicare l’ineffabile natura della propria esperienza, che travalica a tal punto il linguaggio da rendere inadeguato anche il silenzio. Ecco come “fallisce” una delle autrici del Novecento la cui prosa forse si avvicina di più a esprimere il mistero, Clarice Lispetor:

Dovrò forzarmi a tradurre segnali telegrafici – tradurre l’ignoto in una lingua che ignoro, e senza neppure capire a cosa corrispondono i segnali. Parlerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio. […] Io mi domando: se osserverò l’oscurità alla lente, cosa potrò vedere più dell’oscurità? La lente non dissipa le tenebre, non fa che rivelarle maggiormente. E se osserverò la chiarità alla lente, potrò appena in una lacerazione vedere la chiarità più intensa. Ho intravisto, eppure sono cieca come prima poiché ho intravisto un triangolo incomprensibile. A meno che pure io non mi trasformi nel triangolo che riconoscerà nell’incomprensibile triangolo la mia stessa fonte e il mio doppio.

Analizzare e descrivere gli effetti della meditazione è un compito difficile, ma questo non significa che non siano stati fatti moltissimi tentativi nel corso dei millenni. Tra le più celebri tassonomie dell’Occidente mi viene in mente il Il castello interiore di Santa Teresa d’Avila, che divide in sette fasi (dimore) l’ascesa dell’anima verso Dio, o le tre vie di Giovanni della Croce (purgativa, illuminativa e unitiva), passaggi indispensabili per chiunque voglia giungere al divino. Anche Bonaventura enumera alcuni gradini del percorso spirituale, per la precisione sei, e li chiama potenze: il senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, l’apex mentis o scintilla della sinderesi. È però a Oriente che sono state intrecciate le mappe più intricate, soprattutto nella tradizione Buddhista, con i suoi quattro jhana, degli stadi della meditazione cui poi seguono altri quattro, e che tutti assieme fanno parte dell’ottava fase dell’ottuplice sentiero, un percorso etico, pratico e spirituale per ottenere la liberazione – ho molto semplificato, ma basta per capire che ai buddisti le classificazioni piacciono moltissimo. Va inoltre ricordato che questi stadi non sono mai esperiti in ordine lineare né sono da intendere come mete, che nella meditazione non si raggiungono ma si perdono. E che, come ho scritto altrove, di meditazioni ne esistono moltissime, ognuna con le sue peculiari caratteristiche e fasi, che a loro volta interagiscono con l’ampia varietà delle costituzioni individuali, anch’esse in preda a oscillazioni quotidiane, o, per essere più esatti, in ogni istante percepibile.

Per omaggiare questa passione tassonomica che attraversa i millenni propongo una lista anch’io, non tanto per dividere gli stadi della meditazione quanto per ordinare i suoi effetti. Li raggruppo dunque in effetti psicologici, ovvero quelli che influenzano il comportamento a medio e lungo termine, così come lo stato soggettivo di chi medita durante e dopo la pratica; neurologici, ovvero quegli stati fisici misurabili che sottostanno agli effetti psicologici; esistenziali, che non voglio ridurre a quelli psicologici, perché sebbene si tratti anche qui di comportamenti e stati mentali, afferiscono a una visione globale dell’esistenza, che fa da sfondo, illumina o adombra qualunque esperienza. Potrei chiamarli “spirituali”, ma questa espressione si è usurata negli anni ed evoca – spesso ingiustamente – atmosfere New Age ingenue e non di rado antiscientifiche.

Iniziamo dunque dagli effetti psicologici; la prima difficoltà che incontriamo alla loro ricerca è piuttosto ovvia: a quale meditazione riferirsi? E a che tipo di praticanti, esperti, principianti, o ambedue? Nonostante varie convergenze, infatti, è facile immaginare che i risultati mutino in base all’esperienza, al metodo utilizzato e alla cornice culturale di riferimento, al punto da rendere poco attendibili le generalizzazioni – i limiti della philosophia perennis diventano più evidenti non appena ci proponiamo uno studio scientifico. Da un punto di vista quantitativo, la maggior parte delle ricerche ruota attorno alla mindfulness e alla meditazione buddista, di cui la prima è una derivazione (e semplificazione) ed è dunque più difficile esprimersi in merito ad altre forme di meditazione, come quella cristiana, che è molto meno studiata. Ciononostante, nelle ricerche psicologiche è possibile individuare delle invarianti che ci permettono di azzardare una lista di possibili vantaggi di questa prassi, che trovano spesso un riscontro letterario nei minuziosi resoconti di mistici e mistiche di varie epoche e tradizioni. Tra i benefici riscontriamo dunque una riduzione dei sintomi depressivi; un miglioramento dell’umore generale; una maggiore resilienza allo stress; un potenziamento dell’attenzione e della concentrazione; una certa efficacia nel trattamento delle dipendenze; una migliorata gestione dell’ansia; un effetto analgesico rispetto a dolori temporanei o cronici.

È facile capire perché risultati simili siano ben pubblicizzati dai gruppi che si occupano di meditazione, ma questa prassi presenta anche dei rischi, soprattutto se non si ha una buona guida o se si approccia in maniera non graduale. Si tratta di effetti meno discussi nella letteratura divulgativa e scientifica, ma non sono sconosciuti in quella mistica, dove si parla spesso della necessità di attraversare una “notte oscura” dell’anima, come la chiama Giovanni della Croce, una fase purgativa che per essere superata richiede un feroce ribaltamento psicologico, in cui perdere quel che amiamo non è più fonte di dolore ma di sollievo, tanto da accogliere con gioia anche il dileguarsi dell’io. In Il pensiero tibetano (Giunti) Dejanira Bada scrive: 

C’è da dire, però, che la meditazione non è per tutti. Può rivelarsi controproducente in alcuni casi – quelli di individui affetti da schizofrenia o disturbo borderline di personalità – e pericolosa in altri – quelli di individui con tendenze suicide. Perché meditare significa scavare a fondo nell’inconscio, e se questo nasconde traumi irrisolti il rischio è di farsi travolgere in modo irreparabile, entrando in un vortice da cui è difficile uscire. Anche alcuni soggetti senza disturbi psichiatrici che abbiano osservato lunghi periodi di meditazione – che abbiano, per esempio, partecipato ai ritiri vipaśyanā di tre mesi – hanno subito in più occasioni fenomeni di dissociazione, depersonalizzazione e psicosi. Alcuni sono stati addirittura ricoverati in ospedale a causa della gravità dei danni.

Per godere dei pregi di una prassi bisogna conoscerne i rischi e sebbene la meditazione offra notevoli benefici psicologici, non si deve ignorare i pericoli né proporla come una panacea. Dal punto di vista personale ho avuto finora la fortuna di godere di ognuno dei benefici che ho elencato senza sostanziali effetti collaterali – ma forse avevo già vissuto la mia notte oscura, o è lì che mi attende.

Chi volesse approfondire questi (e altri) temi comunque si troverà davanti a una bibliografia sterminata, ma per iniziare consiglierei l’ottimo lavoro di Franco Fabbro, o la buona sintesi di The Cambridge Handbook of Consciousness a cura di Philip David Zelazo, Morris Moscovitch e Evan Thompson, purtroppo solo in inglese. Sarà proprio un testo di Fabbro, La meditazione mindfulness (il Mulino) a introdurre il tema degli effetti fisici e neurologici. Per quanto sia evidente che stati cerebrali e stati mentali siano fortemente correlati, la relazione tra i due domini non è chiara – è anzi uno dei più grandi enigmi della filosofia – e può essere utile monitorare cosa accade durante la pratica meditativa anche da un punto di vista fisico. Fabbro scrive che i primi studi di neuroscienze della meditazione sono di

un fisiologo giapponese, Tomio Hirai (1927-1993), su un gruppo di monaci zen con una lunga esperienza meditativa. Lo studio ha evidenziato che i monaci erano in grado di entrare velocemente, nel giro di alcune decine di secondi, in un profondo stato meditativo caratterizzato da onde alfa (8-12 Hz) e onde theta (6-7 Hz), tipiche delle prime fasi del sonno. Tuttavia, anche se i monaci sembravano essere in uno stato neurofisiologico simile al sonno, essi erano attenti agli stimoli del mondo sia interno che esterno. Inoltre, durante la meditazione i monaci presentavano una riduzione del ritmo respiratorio (4-5 respiri al minuto) e un lieve aumento della frequenza cardiaca (circa 80 battiti al minuto). Ciò significava che la meditazione Zazen era in grado di equilibrare le componenti simpatiche e parasimpatiche del sistema nervoso autonomo (ctr. cap. quinto, par. 1.1) [Hirai 1980]. Successivamente sono state compiute numerose ricerche sulle modificazioni EEG indotte dalla meditazione. Questi studi hanno valutato sia le modificazioni dell’attività cerebrale durante gli stati meditativi sia i cambiamenti nei tratti della personalità, come ad esempio il livello di consapevolezza, l’equilibrio emozionale, la sensazione di benessere interiore, ecc. L’insieme di questi studi indica che la meditazione è correlata con un aumento della potenza nelle bande di frequenza alfa e theta ed è in grado di influenzare sia gli stati sia i tratti della personalità [Cahn e Polich 2006; Lomas, Ivtzan e Fu 2015].

Anche lo stesso Fabbro ha condotto degli studi con l’Università di Udine, riscontrando l’attivazione di alcune strutture cerebrali durante e dopo il training meditativo. Nello specifico, si tratta della corteccia prefrontale laterale destra, correlata con l’attenzione volontaria; il corpo caudato di sinistra, collegato con l’orientamento dell’attenzione e la regolazione cognitivo-motoria; l’insula anteriore, correlata con l’autocoscienza. Le strutture che si disattivavano invece erano la corteccia rostrale prefrontale, un nodo del default mode network, e l’area somatosensoriale primaria, collegata con la sensibilità sensoriale discriminativa. Alla luce di quel che sappiamo di neuroscienze, questi risultati sembrano essere in linea con le conseguenze psicologiche di cui si parlava in precedenza. Ma gli effetti fisici non si limitano al cervello; ci sono studi che suggeriscono che praticare la meditazione abbassa la pressione sanguigna (diminuendo così il rischio di ictus o infarto), migliora le difese immunitarie, diminuisce i disturbi infiammatori, aumenta l’attività dell’enzima telomerasi, indispensabile alla buona tenuta cellulare. Insomma, pur tenendo presente che si tratta di una prassi che presenta dei rischi, tutto sembra suggerire che sia psicologicamente e fisicamente salutare. Se poi ci si allontana dalla scienza e ascoltiamo la voce delle antiche tradizioni, la lista dei benefici fisici aumenta vertiginosamente. La tradizione induista, ad esempio, elenca numerosi poteri (siddhi) che si acquisiscono grazie alla meditazione; Patanjali, il celebre autore dello Yoga Sutra (5-600 d.C. circa) parla della capacità di ridurre il proprio corpo alle dimensioni di un atomo o di estenderlo fino a dimensioni infinite, del potere di diventare senza peso o pesantissimo, di arrivare in qualsiasi luogo, di convincere chiunque, di controllare gli elementi, eccetera. Nonostante l’abbondante aneddotica non esiste uno studio scientifico delle siddhi e anche dal punto di vista personale devo confessare che non ho avuto accesso a nessuno di questi poteri – ma d’altra parte sono poco più di un neofita. Siddhi e superpoteri sono però un perfetto ingresso per l’ultima categoria degli effetti della meditazione, quelli esistenziali. Un avviso ricorrente anche nello stesso Patanjali è quanto sia pericoloso sviluppare un attaccamento ai poteri concessi dalla meditazione – che siano psicologici, fisici o magici – pena l’abbandono della strada della mistica per quella più terrena della magia. Nell’importante differenza tra esaudire i desideri e abbandonarli giace il discrimine tra un mago e un mistico: il primo è il potenziamento di un essere umano ed è dunque ancor più in difetto, perché la sua forza apparente lo assoggetta maggiormente alla schiavitù del desiderio e alla prigionia della personalità, mentre il secondo ha oltrepassato i dolorosi vincoli dell’umano ed è libero dall’essere e dal non essere. Nella sua autobiografia, il santo tibetano Milarepa (1051 – 1135) racconta di aver imparato la magia nera per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia, ma che una volta realizzata l’entità del dolore inflitto ai suoi aguzzini e ai loro cari, si pentì della scelta e, per ripulire il proprio karma, abbracciò la vita mistica. Ed ecco dunque il primo degli effetti esistenziali, antinomico come si conviene a questo argomento: rinunciare all’attaccamento e a tutti i risultati della meditazione. Ho già detto che degli effetti esistenziali non si può parlare, perché giacciono al di là di ciò che è esprimibile col linguaggio – un paradosso che si ritrova in tutti i testi lasciatici da mistici e mistiche di ogni tradizione, che scrivono quanto e più di me. È evidente che stiamo entrando in una sfera che, per quanto includa completamente la realtà che esperiamo, la trascende infinitamente, ma nel tentativo di definire gli effetti esistenziali direi che implicano spesso l’acquisizione di una visione rinnovata dell’esistenza (o la perdita di qualunque visione), un evento irriducibile che ha importanti ricadute comportamentali e psicologiche anche nella realtà condivisa. È la famosa “esperienza mistica” che William James ha introdotto nel contesto scientifico col suo celebre Le varie forme dell’esperienza religiosa; un fenomeno talvolta liminale con la follia – basti pensare agli “stolti in Cristo” o a certi tantristi – in quanto rivoluziona lo sguardo abituale e condiviso sull’esistenza. Comunicare un’esperienza mistica è impossibile, vi si può solo alludere, ciononostante è un evento psicologico di estrema intensità che presenta tratti in comune in contesti anche molto diversi, come testimoniano le somiglianze di molti resoconti di mistiche e psiconauti di epoche e luoghi lontani tra loro. È il ritorno al mondo che segna una differenza più marcata; se spesso si trovano relativamente poche differenze tra la descrizione di un’esperienza mistica di una scienziata contemporanea che assume LSD rispetto a quelle di un monaco medievale del Tibet o di un esicasta cristiano, il modo in cui questo vissuto viene interpretato all’interno del contesto culturale e personale cambia notevolmente. È difficile dire se a mutare sia l’esperienza stessa, la sua lettura o come venga assimilata nella vita quotidiana; si tratta di un evento quasi sempre trasformativo, ma la direzione in cui porta dipende forse più dal contesto socioculturale e individuale che dall’evento in sé – cosa che in effetti vale per molte esperienze.

Ad ascoltare sante, mistici e buddha le ricadute esistenziali sono le più importanti, tanto che potremmo definire gli altri meri effetti collaterali. La loro radicalità risiede nel muovere chi medita in un altrove profondo, forse seguendo un imperativo analogo a quello del celebre verso di Rilke che tanto colpì il filosofo Peter Sloterdijk: «Devi cambiare la tua vita». E la meditazione spesso la cambia.

ARTICOLO n. 81 / 2022

ERO IO LA CATTIVA DELLE MIE STORIE?

Il corpo culturale

Ripeto ossessivamente gesti e comportamenti da sempre, costruendo una casa involontaria di costanti e sicurezze che, puntualmente, combatto e distruggo. Sulla soglia del buio, ovunque io mi trovi nel mondo, mi siedo sul gradino della porta d’ingresso e scrivo storie sui mostri. Lo faccio da quando, bambina, inventavo fiabe su quegli alberi enormi che sovrastavano la casa al mare, fissandomi sul momento preciso in cui la luce smetteva di filtrare e iniziavano a crearsi ombre sui muri delle abitazioni che potevo raggiungere a occhio dal mio balcone. Una danza macabra via via sempre più affusolata, che declinava progressivamente nella notte. 

Avevo imparato a riconoscere quella sensazione fredda e rigida sulla punta delle dita, l’artiglio leggero e nitido dell’inquietudine. Stavano per uscire i mostri da sotto al letto. Mi eccitava quel pericolo, il potere e la paralisi che ne derivavano, ma non avevo mai abbastanza tempo per poter far salire l’unghia fino alla gola, venivo puntualmente redarguita per aver fatto tardi a cena, aver fatto tardi per la doccia, aver fatto tardi per uscire. Prima di dormire, però, tornavo su quel tremito sommerso, e l’attrazione verso quel mondo non poteva che porre una domanda terribile, e bellissima, allo stesso tempo: ero io la cattiva delle mie storie?

Negli anni ho progressivamente smesso di andare tutte le estati in quella casa coperta dagli alberi, ma ho iniziato a riprodurre quel movimento tra luce e ombra in tutti i posti che mi hanno portata via da lì. L’ho fatto dal terrazzo spoglio del mio palazzo di Praga pieno di escrementi di piccione e di topo, dalla finestra dell’archivio storico di Sumperk mentre guardavo le foreste delle mie streghe, dai gradini di pietra della biblioteca scientifica di Harvard prima di un congresso, dal ponte del traghetto che mi riportava a Hiroshima. Ho guardato le ombre del mondo e le ho scritte, ho cercato nelle venature fluide che precedono il mondo lunare uno schema forse, sicuramente qualcosa che potesse, ancora una volta, costruire una casa di costanti e sicurezze su cosa sono i mostri, capire quando lo diventano, sapere se io alla fine sarei stata la cattiva della mia storia o, forse, se mai avrei avuto il coraggio di mollare la presa. Poi, una sera, seduta sul bracciolo del divano di casa mia, quello che guarda da una finestra davvero molto grande il resto del mondo dall’alto, ho smesso di fissare le ombre e di averne paura, buttandomici in mezzo. Lì, al buio, ho tirato forte dalla sigaretta e ho pensato alla caverna di Platone. 

All’inizio del settimo libro della Repubblica, Platone racconta di questi prigionieri incatenati sin da bambini dentro una grotta, il collo stretto, la faccia al muro. Possono vedere solamente le ombre che vengono proiettate grazie a ciò che avviene alle loro spalle: una porta da cui entra la luce si scaglia contro un muretto sul quale vengono depositati oggetti. 

In questa condizione, i prigionieri sono convinti che le ombre siano l’unica verità quando in realtà sono solo void areasche si colmano di ciò che loro vogliono vedere. Il mito prosegue con la liberazione di un prigioniero che, rendendosi conto delle statuette, comprende anche l’artificio dell’ombra e decide di uscire dalla caverna per vedere gli oggetti in piena luce. Ma, una volta tornato dentro per liberare i compagni, non essendo più abituato al buio viene deriso e non creduto. 

Nell’interpretazione tradizionale, le ombre rappresentano l’εἰκασία (eikasia) che nella lingua greca, da Omero in poi, conduce all’immaginazione e all’immagine. Dobbiamo andare con la testa sott’acqua per arrivare più vicini alla meta.L’immagine-ombra di Platone non è prodotto innocuo, ma qualcosa che si produce e si consuma solo offrendosi alla vista, capace di produrre eidolon, idolo, ed eikon, icona, rappresentazioni che appaiono verosimilmente reali ma nascondono, grazie alla radice in comune con la parola phantasma, la menzogna. L’ombra di Platone è, in sostanza, uno stereotipo contrapposto all’Idea che è archétypon, immagine primitiva e vera. Il gioco dell’ombra inizia da qui. Infatti, il movimento che compiono i prigionieri è quello di inserire nello spazio buio della proiezione un significato. Questo significato viene partorito da un processo collettivo che decreta cosa sia quel buio, cosa rappresenti e come si debba usare, in quel momento, all’interno della caverna. 

Successivamente, la definizione data all’ombra di quell’oggetto sarà un modello di comparazione che si adatterà nel tempo e nello spazio ai cambiamenti fisiologici. Infatti, se sul muro della caverna si proietta una delle prime ruote, ancora spigolate, quella diventa la ruota con cui verranno successivamente confrontate le altre che verranno chiamate tali. Ci saranno ruote viste e considerate idonee, coerenti, giuste, e altre che devieranno dal modello iniziale. Ma nel corso del tempo, quella che i prigionieri chiameranno Ruota cambierà notevolmente diventando rotonda, per esempio, ma continuerà a essere un modello a cui fare riferimento in modo meccanico perché precostituito. Ciò che permetterà l’adattamento al tempo che cambia e allo spazio che muta sarà ciò che i prigionieri decideranno di inserire o togliere via via che la conversazione tra loro genererà nuove dinamiche.

Seduta sul bracciolo di quel divano, buttando fuori il fumo dalle narici, ho pensato che le ombre sono solo corpi opachi fino a quando non vengono colmate di storie. Sono le narrazioni della notte dei tempi che forgiano la spada con cui tagliamo il nostro velo della percezione e, con buona pace di Schopenhauer, quello che troviamo non è mai un’immagine primitiva vera (l’archetipo), ma sempre un’immagine derivata e bugiarda (lo stereotipo), utile alla maggioranza per mantenere uno status quo. Non a caso, infatti, i prigionieri rimasti nella grotta deridono colui che torna.

La sorte dell’ombra non è diversa da quella di qualsiasi altro corpo. I corpi che indossiamo, infatti, vengono spogliati del loro valore biologico e rivestiti con modelli culturali e figure cognitive che in realtà non esistono, ma permettono di ordinare e dividerli tutti in tanti contenitori facilmente codificabili: magro/grasso, bianco/nero, abile/disabile, cis/queer, conforme o non conforme. Quando Aihwa Ong scrive Da rifugiati a cittadini, nel raccontare le prove che i cambogiani arrivati ai campi devono superare per poter accedere agli Stati Uniti si ferma sul decalogo dedicato al corpo. Come vestire, che odore emanare, quali espressioni facciali prediligere, quanto sia importante trasformare le linee marcate di differenza per poterle rendere amalgamabili con il nuovo contesto. «I segni e i marchi del corpo biologico vengono così riempiti di nuovo significato culturale, modulando il corpo culturale e uccidendo quello biologico»I corpi dei rifugiati cambogiani si svuotano di loro stessi per riempirsi dei nuovi modelli di riferimento o, se preferite, di nuove storie. Così, per esempio, l’odore delle spezie sui vestiti non resta mai solo una fragranza, ma si trasforma già in un ricordo affettivo perché viene colmato di racconti, famiglia e focolare. Questo modello, però, deve nuovamente svuotarsi e riempirsi perché nella nuova destinazione l’odore familiare ha altre caratteristiche predeterminate e ciò che per i cambogiani è abitudine negli Stati Uniti di nuovo diventa un segnale di pericolo, qualcosa su cui ci si gioca inclusione ed esclusione. I corpi culturali, come le ombre, sono fatti di sazietà ed esaurimento in un eterno movimento simile a quello paziente delle onde.

Ma se è vero che, come le ombre, anche i corpi vengono nutriti di storie, non è altrettanto vero che tutti i corpi si nutrono della stessa materia di cui sono fatte le ombre.

Come queste, infatti, anche i corpi vengono saziati di racconti collettivi che conducono a una formulazione precisa: creare mindful bodies, corpi pieni di mente, permette di inserirli all’interno di schemi predeterminati, e questi schemi diventano dei modelli a cui ambire o da cui fuggire. Il corpo del rifugiato cambogiano deve assoggettarsi alle regole imposte dal contesto culturale in cui approda per poter essere accettato e inserito nella scala normativa di riferimento. Ma anche il corpo femminile deve sottostare a diktat estetici per poter accedere alla società, seppur sempre subordinata alla soddisfazione dello sguardo maschile. E ancora, nessuno di noi esce nudo per strada ma sappiamo di doverci minimamente vestire.

Tutti i corpi, specialmente nel contesto occidentale, subiscono questo passaggio, perché le storie che raccontiamo intorno a un fuoco simbolico hanno un valore educativo e plasmante, individuale e collettivo. Fin dalla creazione dei miti e alla loro successiva evoluzione in leggende, eroi ed eroine – ma anche i mostri – sono fisicamente determinati e divisi in un rapporto dicotomico tra buoni, belli e moralmente retti, e cattivi, brutti e privi di morale.

Questo serve per generare un conflitto costante attraverso cui le dinamiche di potere si mantengono in vita. Se sappiamo cosa è sbagliato, per contrappasso troveremo ciò che è giusto e perseguibile. E qui si annoda l’ombra che per valore storico e culturale accoglie ciò che deve essere nascosto, la paura gelida che sentivo da bambina su quel balcone, i mostri.

L’universo delle narrazioni sommerse è popolato di creature dai corpi distorti, devianti e mutanti, quelli che sulla superficie diventano i corpi non conformi e, quindi, marginalizzati. Siamo noi, tutti i giorni, a tenere lo sguardo fisso sulla parete della caverna e usare gli stereotipi per decretare il nostro successo. La formulazione del corpo mostruoso riguarda le storie, certo, ma anche il modo in cui partecipiamo all’atto collettivo di partorire narrazioni e stereotipi che rispondano a una sola enorme domanda: sono io la cattiva della mia storia? Come i prigionieri della caverna di Platone, seduti spalle al fuoco, soli, guardiamo la parete su cui la paura di fallire, enorme, si proietta dimenticandoci di essere noi, in fondo, i mostri.

ARTICOLO n. 80 / 2022

NON C’È STORIA COME

Conseguenze emotive di una fanbase

Pubblichiamo un’anticipazione da Ti seguo, l’esordio letterario già di culto in Inghilterra di Sheena Patel, una delle componenti del collettivo 4 BROWN GIRLS WHO WRITE. Tradotto da Clara Nubile per Atlantide, in libreria dal 19 ottobre.

La vulnerabilità dona autenticità alla mia voce e colma le lacune, perché non ho il sostegno più formale di una laurea specialistica, o il riconoscimento di un premio o il prestigio di un contratto di pubblicazione vinto da un editore all’asta. Ho una laurea triennale in Lettere, eppure quando devo confrontarmi con la scrittura, vado quasi alla deriva. Faccio affidamento sui particolari autobiografici, mastico la mia vita, la sputo fuori e l’abbellisco sulla pagina. Nessuno può contestare la mia esperienza, anche se potrebbero scagliarsi contro il modo con cui comunico quell’esperienza, ed è questa la mia prima linea di difesa: mi è successo veramente è in grado di respingere qualsiasi accusa, anche di usare gli strumenti della scrittura in modo rozzo e amatoriale. 

Qual è il confine tra essere vulnerabili e prostrarsi davanti a un sistema che non ti riconoscerà?L’onere non ricade mai sul sistema che deve correggere i suoi rigidi parametri, ma spetta a te essere metamorfico e accettare le regole. Indosso la vulnerabilità come un’arma contro questa cultura? Se mi volete dura, e sempre più dura per affrontarvi, mi ribello essendo dolce come una caramella gommosa, ma davvero dolce, sempre più dolce e gommosa per avere lo stesso impatto. Trasformo il mio dolore in un’arma e mi faccio del male crogiolandomi in questo dolore, nutrendolo, mettendomi in pericolo per incoraggiarlo, e poi lo rielaboro sotto forma di parole per mostrarlo, per mostrare alla società che sono un essere umano e provo dolore, proprio come voi. È questa violenza rivolta all’interno, un coltello nella mia mano, il peso del mio corpo che preme fino all’impugnatura? 

La stessa storia è raccontata più volte, tante volte, da tutti noi. L’immaginazione umana è stata incanalata per pensare lungo le linee strette dell’algoritmo: se ti è piaciuto questo, allora amerai quest’altro. Le narrazioni per noi disponibili si basano sulle nostre identità, così come le storie che sono approvate dal mercato e dai social media. Hanno in sé una familiarità ottundente. Noi immigrati di seconda generazione abbiamo il privilegio di poterci autorealizzare. Facciamo sculture, dirigiamo film, scriviamo commedie, romanzi, memoir e poesie sul fatto di non avere una casa, di cercare una casa, di vivere tra due tipi di casa, sul cos’è casa, su quanto ci sentiamo tutti male, sulle relazioni miste che intraprendiamo con i bianchi, perdendo la nostra lingua che appartiene a una cultura a cui siamo rimasti aggrappati con tenacia, tanto per cominciare; raccontiamo l’effetto che tutto questo ha avuto su di noi, parliamo dalla posizione della vittima. 

Per un algoritmo che non abbiamo ideato noi, per una piattaforma che non è stata progettata affinché potessimo attirare l’attenzione di un sistema culturale che ci esclude, ci facciamo ulteriormente del male inscenando la nostra Alterità, diventiamo Altri da noi stessi per avere like, per essere ricondivisi e avere approvazione, per avere un seguito, per costruirci una fanbase? Quali sono gli effetti di questa alienazione, e soprattutto ce ne frega qualcosa? Il bisogno di avere dei fan devoti è l’espressione più profonda della paura di essere anonimi, perché sappiamo che nel frastuono c’è protezione. Non vogliamo scomparire dentro una massa senza nome se Qualcosa di Brutto Dovesse Succedere. Se restiamo parte delle masse, sappiamo che soffriremo la doppia ingiustizia dell’abbandono istituzionale da parte della polizia o del sistema giudiziario, aggravato dal crimine originale – come nel caso dei nostri omicidi (Stephen Lawrence, Nicole Smallman e Bibaa Henry, ma anche troppi altri), o l’errore giudiziario che ha fatto storia (lo scandalo dell’ufficio postale), la minaccia di deportazione da parte del Ministero degli Interni (lo scandalo Windrush) o la perdita della cittadinanza (Shamima Begum) per aver commesso un terribile errore da ragazzina. Il desiderio ardente di avere una fanbase è davvero l’espressione di quanto ci sentiamo politicamente impotenti? O è qualcosa di completamente diverso?Anche se sosteniamo di essere socialisti e marxisti nei nostri ideali, i social media e la caccia alla fama all’interno di questa struttura non sono forse l’espressione più pura della politica individualista, thatcherista e neocolonialista, in cui ci trasformiamo in marche individuali come da copione, lanciando noi stessi come start-up mentre ci camuffiamo dicendo che siamo “al servizio” delle nostre “comunità”, come se essendo davvero fedeli a noi stessi facessimo un enorme favore a tutti gli altri? 

La strada più facile per costruirsi un seguito è penetrare nella cultura, e il modo più veloce è raccontare la storia che vogliono sentirsi raccontare, la storia della nostra assimilazione nel mondo dei bianchi, o dell’avversione, o del fallimento di quest’assimilazione, così i bianchi che detengono le chiavi del castello possono restare a bocca aperta e scuotere la testae dire, non sapevamo mica che le cose stessero così male, è il [inserite l’anno] per lamor di Dio, e poi magari abbasseranno il ponte levatoio per farci entrare? Sappiamo che piegarci a questo sistema ci assicurerà lo status che cerchiamo. Solo così possiamo avere un “nome” e sederci alle tavole rotonde e parlare della “diversità” e inventarci soluzioni serie dentro gli edifici storici davanti a un pubblico rapito, che funge da cassa di risonanza e non arriverà mai a nulla eccetto sentirsi ben disposto nei nostri confronti a causa del malessere che proviamo per lo stato del mondo; tutta questa materia diventa i seminari che teniamo, i libri che scriviamo quando strilliamo, so cos’è veramente la Gran Bretagna e voi no, comprate il mio libro per scoprire la Verità.

Una fanbase è il mezzo per ottenere gli anticipi sui libri, per assicurarci gli inviti ai premi prestigiosi, per essere l’attrazione principale in uno dei padiglioni più piccoli dei più grossi festival letterari, e un giorno forse riusciremo persino a travestirci da guardiani diventando parte della giuria di un premio benvisto. Pensiamo che spiegare noi stessi o giustificare la nostra esistenza non sia un prezzo troppo alto da pagare per aver accesso a quei cancelli dorati, dietro cui i bianchi liberali e creativi ci trasformeranno in un simbolo del loro progresso ideologico – pensano di essere così esotici da poter stare nelle nostre opere, sono davvero affilate, davvero underground, o più probabilmente ci cammineranno intorno in punta di piedi, con deferenza ma continuando a escluderci; non è un prezzo così alto per essere ammessi nel sistema culturale, ecco come ragioniamo. Se ci specializziamo nel raccontare agli altri Cos’è davvero il mondo: una relazione di razze, non ci pesa poi tanto inventare queste ballate pornografiche sul trauma per ottenere un briciolo di status sociale. Ci rattrista sapere che niente cambia veramente a livello collettivo, ma ci facciamo rassicurare dal pensiero che per me qualcosa è cambiato a livello individuale, mentre nuotiamo a dorso nel vasto e placido mare della superiorità legittima.

© Sheena Patel, 2022
© Edizioni di Atlantide srl, 2022 

ARTICOLO n. 79 / 2022

QUARANTA ANNI FA BEPPE VIOLA

Milano e il Triangolo delle Bermude

Il 17 ottobre 1982 era domenica. Stavamo tutti lì, primo pomeriggio, appartamento di via Arbe ad uso ufficio. Beppe: una forte emicrania. Non un fatto eccezionale, ne soffriva, tirava avanti. Sergio Meda e Gianni Mura a scrivere non so cosa. Scrivevo pure io, un pezzo – questo lo ricordo – per Il Manifesto. Tic, tic, tac. Un concertino, il canto delle Olivetti. Fumo da sigarette, un nuvolone. Andrea Motta a sistemare l’archivio. Era un vero maestro: ritagliava, fotocopiava, imbustava secondo criterio sapiente, lo stesso testo destinato a “voci” diverse. Poi Beppe andò via. San Siro. Servizio per la Rai, Inter-Napoli, la partita. Poi andammo via noi, in ordine sparso. Ad avvisarmi venne mio padre, era buio da un pezzo. Non avevo telefono a casa, avevano chiamato lui, a Monza. Dal citofono disse: scendi un attimo. Sulle scale disse: «Beppe…non sta bene». Domandai «Beppe, il portiere?». Questa frase mi è rimasta in mente perché era il frutto di una istantanea, disperata rimozione… Beppe “il portiere”: una persona che non vedevo da anni. Ma era anche l’unica omonimia possibile per scongiurare una brutta notizia. «Ma no, Beppe…Beppe Viola».

Poi fu come infilare una pista di bob, senza frenatore. Policlinico. Ictus. Carlo Sassi, Heron Vitaletti appena fuori l’ascensore, su, all’ultimo piano. Enzo Jannacci che esce dalla terapia intensiva con una faccia da fine delle trasmissioni. Fine, infatti. All’alba un’aria da temporale in arrivo, il cielo: perla e piombo. Fuori dall’ospedale guardai in alto. Franca affacciata alla finestra. È una immagine che non dimenticherò mai. Franca, sua moglie. Quattro figlie a casa. Mentre l’accompagnavo con la Opel Kadett disse: «Dovrò anche andare in banca. Secondo te siamo sul rosso o sul nero?».

Su quella Opel avevamo trascorso una serata colma di risate poco tempo prima. Tutti dentro. Beppe, Franca, Renata, Marina, Anna e Serena che aveva meno di tre anni. Fuori regola, si capisce. In sette, non so nemmeno come riuscimmo farcela. Pizza. Poi sosta al Bar Gattullo. Cantando “Caro amico ti scrivo”. Era stata una serata in famiglia e quella famiglia, da allora, 1982, è diventata parte della mia vita. Ridendo e schersando, con la “esse”, come quelli che aspettano il tram.

In via Arbe, Beppe aveva fondato Magazine. Era un’agenzia giornalistica, un posto dove cavare entusiasmo covando idee, in compagnia di amici fidati e bravi a fare el mestè. Un altro mondo rispetto a quello Rai, dove aveva a che fare con troppe contradizioni. Libri, articoli per una quantità di giornali ai quali veniva proposta una specie di filosofia giornalistica, sviluppata per rose di testi, scopo completamento di un tema visto da angolature diverse. E poi, i quotidiani cosiddetti di provincia. Dal Gazzettino di Venezia al Mattino di Napoli, dal Tirreno di Livorno alla Nuova Sardegna. Dodici in tutto. L’idea di Beppe: i grandi eventi sportivi raccontati come si deve da firme importanti.Una pagina intera, ben fatta, replicata in aree geografiche diverse, per testate che non potevano permettersi un inviato sul posto. Funzionava. Era una fatica bestia ma funzionava eccome. Da Bruno Pizzul a Oliviero Beha, tutti coinvolti. Anche qualcuno che non scriveva proprio come richiesto e così toccava parlarsi al telefono e poi fare il pezzo lì, a Magazine. 

Beppe aveva voluto tirar dentro un giovane. Il giovane ero io, fresco di università, aspirante, felice. Mi chiamava Tenente Colombo. Per lo strabismo dicevo. «Ma no, per l’impermeabile». Fu amore a prima vista, a proposito di oculistica. Di giorno al lavoro, e non c’erano santi perché Viola Giuseppe, classe 1939, classe, sul “mestè” era esigente e intransigente. Scelta delle parole, punteggiatura, un acuto per l’apertura, un gran finale per la chiusura.«Le prime e le ultime tre righe: fondamentali. Servono per tirar dentro chi legge e per lascialo andare con l’idea di aver visto la Madonna». Guai a sgarrare, guai a mediare, regali di Natale rimandati indietro, tenere da conto rigore e libertà. L’ufficio: un porto di mare. Passava Giovanni Trapattoni e con Beppe parlava in dialetto, raccontava vizi e virtù dei suoi giocatori, alla Juve. Ascoltavo, sbalordito. Sandro Gamba, il cittì del basket, parlava di jazz, Jean Louis Trintignant, l’attore, portava mezze forme di parmigiano e bottiglie da un miliardo. Rosso, si capisce. Andavamo a fare la spesa perché in via Arbe c’era la cucina. Gli altri a gridare, dalla finestra, non le solite porcate. Sì ma in rosticceria era esposta una piscina olimpionica con dentro l’insalata di pollo, bella unta, cosa vuoi… cucinavano ancora le polpette alla stazione Centrale, unte oltre ogni decenza. Da asporto, un po’ come adesso. «Ma com’è che le cose più buone sono quelle che fanno male?». Non so, forse ero semplicemente un ragazzo che aveva voglia di imparare, forse imparai a volergli bene dopo sei secondi, forse eravamo simili su tante cose, a cominciare dal rispetto per le regole dei giochi. Fatto sta che la sera, ecco, usciti dal “marchettificio”, Beppe mi trasportava a Disneyland. 

Ma sì, il Triangolo delle Bermude. Ippodromo trotto, dove spariva il grano; Derby Club, dove spariva di tutto; Bar Gattullo, dove sparivano i bignè. Milano aveva ancora addosso quella fregola anni Settanta che metteva assieme, stesso tavolo, saltimbanchi e imprenditori famosi; malavitosi e randagi dotati di cinismo più senso dell’umorismo, al punto da fornire battute irresistibili a nastro. Musicisti, intellettuali, artisti e designer. Presi da una progettualità costante, da una visione ottimistica del fare, da una condivisione comunque possibile. Con un’attitudine alla risata travolgente dentro una città fatta di porte aperte. Beh, il muro di Berlino era su ancora. E c’era il Milan a fare da collante. Anche in quanto fronte che aveva garantito integrazione chi a Milano era arrivato da poco, con l’idea di restarci per sempre. 

Opel Kadett, Olivetti, archivio fatto di ritagli. Il piombo nelle tipografie, case senza telefono. Sembra che stia raccontando del Medio Evo, visto da qua, oggi. Eppure così. Con una gamma di odori formidabili sempre in circolo perché, per ogni tragedia, era pronta una frase fulminante capace di sdrammatizzare. Perché dietro ogni idea c’era il marciapiede, così vispo, carico di facce da catalogare, magari in un ufficio apposito, sempre aperto. Perché dentro il cinismo, la presa per il culo, c’era una sorta di naturale bontà. Una attitudine all’accoglienza anche per quelli che “el ghe manca cinc a faa ses”. Por sacrament. Una pietà, mascherata anche quella, figuriamoci, infilata tra le pieghe dell’esistenza, mondata dalla retorica. 

Beppe Viola era un eversore. Il suo campo d’azione sembrava limitato al giornalismo ma in realtà lui, così come molti altri in viaggio nel Triangolo delle Bermude, praticavano tentativi di rivoluzione, talvolta addirittura inconsapevoli, dentro una cultura plasmabile. La comunicazione come l’architettura, il design correlato all’industria, la musica, l’arte e persino la televisione rappresentavano campi aperti, o apribili, di esplorazione. Arrivavo da Bologna dove avevo avuto a che fare con un altro slancio eversivo, violento e sanguinoso, culminato con l’omicidio di Aldo Moro. Il mio archivio personale non conteneva solo ritagli cartacei, era colmo di volti e parole animate spesso da un autentico desiderio di cambiamento, con la sincera convinzione che le armi fossero strumenti indispensabili per sovvertire una gamma ampia di ingiustizie. La “classe operaia” – termine che pronunciato oggi suona come una ennesima anticaglia – data come parte in causa, era in realtà distante da molte azioni progettate e promosse in suo onore, nel suo nome. In quei percorsi notturni e milanesi potevo riconoscere una atmosfera curiosamente assonante.

Scrivo curiosamente perché in realtà avevo a che fare con ironia e sberleffo dopo aver avuto di fronte un tempo crudo, un’iperbole drammatica i cui esiti avevano prodotto una lista di vittime lunga così, su più fronti, e una deriva altrettanto penosa se penso a chi, attorno a me, era passato dall’eccitazione per un ideale travolgente al disorientamento più cupo, alla droga come sedativo. Ciò che potevo osservare in quella Milano mostrava una aspirazione molto diversa. Originata proprio dalla frequentazione assai più assidua del marciapiede. La radice era infilata tra le macerie della guerra, in una fatica vista da vicino o provata direttamente, abbinata ad uno slancio vitale propizio e propiziatorio. 

Al contrario dei giovani che dalle università avevano teorizzato per poi intraprendere, questi personaggi formavano squadre tutt’altro che omogenee, etichettabili, composte da individui appartenenti a generazioni e ceti sociali differenti, capaci di intendersi e di stare assieme in una tolleranza tanto indispensabile quanto fosforica. Le energie erano potenti su entrambi i campi ma emanate da pregressi diversi, da percezioni diverse e quindi da diverse finalità. Periferie milanesi e case popolari per assumere un gergo, una serie di tic preziosi persino per gli intellettuali più raffinati. La cui formazione era permeata anche di cattivi odori. Ciò che sta in basso, appunto, dove si lavorava alla catena, dove si cantava nei trani – vino sfuso a basso costo – dove i terroni venivano sbeffeggiati per essere accolti. Le osterie di Bologna e Milano mi sembravano incomparabili negli arredi, nelle abitudini dei clienti, nelle atmosfere, nell’acustica, nel tasso di allegria da accompagnare ad una dialettica, una ideologia, una progettualità.

I tentativi eversivi qui erano a colori, dopo anni di visioni in bianco e nero. E le tinte più luminose le forniva chi, inconsapevolmente appunto, non aveva altra ambizione che testimoniare le contraddizioni, le incongruenze, la comicità di un passaggio comune ed epocale. Umanissimo e per questo autentico, non trascurabile anche da chi era abituato a volare alto, partendo da un basso visto da vicino, vivace e ispiratore.          

Il linguaggio parlato, già farcito di termini di fresco conio popolare, finiva nei pezzi. Beppe dava le multe a chi scriveva “sfrecciano”, Lire cinquemila, prego. «Ma te quando parli dici sfrecciano? Hai vent’anni, scrivi per come pensi, per come sei».  Il che voleva dire: leggi. E poi leggi. Letteratura nordamericana soprattutto, da Damon Runyon a Truman Capote. Una modernità da assimilare per poi ricercare uno stile proprio, nuovo. Andava in bestia se ascoltava “la palla fa la barba al palo…il ginocchio in disordine…”. Quando presentai il primo articolo, dopo una notte di lavoro e ansia, lo stracciò sorridendo «Bene, ma si può migliorare, no?». Gesù. Da allora carta carbone, per carità, giusto per conservare qualche punto e virgola stando alla larga dai luoghi comuni.  

Così, tra gente che di mestiere rubava i tir, signori che viaggiavano con il tonno del Consorcio e la pasta de Cecco nel vano portaoggetti, allibratori clandestini e star del cinema, se non imparavi a stare al mondo, oltre che a scrivere meglio, eri proprio un pirla. Lui, Beppe, sempre sudato, febbraio compreso. Sempre pronto a dar via una idea geniale a gente che poi, ciaopepp. Sempre attraversato da una inquietudine più oscura di quanto non apparisse. Sempre capace di sparare una battuta strepitosa. Pezzi, racconti, testi per canzoni, per la pubblicità. Un lavoratore indefesso. Chiamava al telefono Paolo Rossi, non ancora “Pablito”. All’improvviso, senza spiegare con chi stesse parlando buttava lì: «Ti passo un mio amico da intervistare». Come dire stai pronto, pronto sempre a cavartela da solo. Oh, porca malora, Beppe, stella mia. Quando nevicava, uscivamo a tirare palle di neve alle automobili, in viale Sarca, ridendo e scappando contromano lungo un senso vietato, per non farci beccare. Mettevamo su la moka, mi viene da metterla su ancora adesso per fare due ciarle, fumando in qualche angolo.

La prima telefonata il giorno in cui discussi la tesi, la feci a lui. Preso da quell’entusiasmo là, gli dissi che avrei voluto invitare tutti quelli di Magazine a cena. «Bravo, organizzo io». Organizzò infatti. Da Aimo e Nadia, non so se già stellato. Mangiammo e bevemmo, cantammo e sparammo una quantità di cazzate. Feci per pagare il conto. Disse:«Lascia stare, ci ho pensato io. Con i prossimi due mesi di stipendio siamo a posto».

Beppe Viola è morto il 17 ottobre 1982. Franca, una signora all’altezza di qualunque situazione, pochi mesi fa. Le loro figlie sono donne adesso. Avrebbe un tot di nipoti e persino una pronipote. Sarebbe orgoglioso, credo, di ciò che ha lasciato. Compresa la memoria di ciò che è stato. Si, ma adesso mi fermo perché va bene tutto ma se non hai il fisico, meglio darsi al golf, inteso come maglione. Oh signur, Beppe, dove sei?

ARTICOLO n. 78 / 2022

LA RABBIA E LA RASSEGNAZIONE

Il corpo di Giorgia Meloni nella transizione postmaterialista

Sono passati solo pochi giorni dalle elezioni che il 25 settembre hanno segnato la vittoria di Fratelli d’Italia, il partito guidato da quella che in questione di ore diventerà a tutti gli effetti la prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Inizia una nuova storia per l’Italia, dicono alcuni, ora tutto cambierà. Ma questa profezia suona piuttosto ingannevole a mio parere, specie guardando agli ultimi decenni del nostro zoppicante cammino politico. «Tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima», recitava Tancredi nel Gattopardo di fronte allo sbarco in Sicilia di Garibaldi e i suoi mille e adesso, nei giorni che precedono la formazione del nuovo governo, questa frase mi rimbomba in testa come un mantra. Tomasi di Lampedusa ci aveva visto lungo quando parlava di come gli italiani affrontano la rottura tra il vecchio e il nuovo mondo, oscillando tra una classe in declino e una nuova classe determinata a mantenere vecchi privilegi, vecchie abitudini, vecchie tradizioni. Perché Meloni non segna necessariamente l’inizio del nuovo, anzi: Meloni rappresenta quel cambiamento esteriore e di sola apparenza che consente di lasciare intatto un sistema che lentamente, ma inesorabilmente, continua a putrefarsi dalla radice fino alla punta.

Anche se tre giorni dopo le elezioni migliaia di persone hanno rabbiosamente riempito le piazze in reazione ai proclami antifemministi dell’estrema destra al grido di «il corpo è mio, decido io», la mia percezione – specie come italiana all’estero – è che il sentimento più condiviso tra chi Meloni non l’ha votata non siano tanto la rabbia o la paura, ma piuttosto un’amara, incurabile, e a tratti riconfortante, rassegnazione. Nei giorni successivi alle elezioni le chiamate con amici e conoscenti si sono svolte tutte più o meno nello stesso modo: «Come va?» «Tutto bene, dai… a parte le elezioni». «Eh già. Chissà ora che faremo.» «Eh già. Vabbè, dai, parliamo d’altro».

Ad agosto scrivevo di un senso di crisi e di impotenza che attraversa le generazioni più giovani, rendendole sempre più apatiche, indifferenti, disinteressate. È assai banale asserire che la politica sia ormai troppo lontana dai cittadini, ma gli italiani pare si siano definitivamente arresi a questa verità, l’abbiano accettata e fatta loro, stando a guardare con un rassegnato realismo ciò che gli accade intorno, spesso forse senza nemmeno sforzarsi di capirlo. La politica non sa più raccontare il mondo in cui viviamo, figuriamoci rappresentarlo. E in effetti, guardando ai voti assoluti delle elezioni, ciò che salta all’occhio prima ancora della vittoria di Fratelli d’Italia è quel gigantesco buco astensionistico composto da oltre 16 milioni di elettori. 

Molte penne hanno giustificato questa tendenza come un fenomeno condiviso a larga scala dalle democrazie occidentali, sorvolando con eccessiva leggerezza su quanto esso sia invece un’espressione evidente della crisi sociopolitica che stiamo vivendo. La crisi postmoderna ha ormai raggiunto il suo apice: le identità di classe si sono tramutate in identità sociali e il rapporto tra classe e voto si è indebolito così tanto da diventare ormai quasi irrilevante. Fa riflettere infatti che, mentre le braci di ciò che rimane del PD segnano il loro minimo storico, il partito di Meloni sia stato specialmente capace di attrarre e conquistare anche il voto popolare contro quello che invece viene oggi considerato il voto borghese di sinistra. Certamente una buona percentuale di votanti di FdI proviene dai delusi degli altri partiti del centrodestra e del M5S, ma è ugualmente importante notare come, dopo anni di slogan sul fatto che tra destra e sinistra siano uguali, alla fine molte pance appartenenti alle classi medio-basse si siano convinte a optare per l’estrema destra perché più capace di mettere al centro il lavoro e la crisi economica, mentre la sinistra ha visto diluire i suoi voti in uno spaventoso astensionismo. Di quella sinistra che un tempo si occupava di disuguaglianze, di reddito e di diritti dei lavoratori oggi non resta che un ricordo offuscato da partiti che al massimo intavolano qualche timida discussione sui diritti civili, mentre il 90% della popolazione sta venendo letteralmente soffocata dalla crisi economica. Siamo, insomma, nel pieno di quella transizione postmaterialista che, secondo Nancy Fraser, baratta i diritti civili con i diritti economici, e così l’estrema destra è riuscita nella sua missione di convincere la classe media che la soluzione ai problemi causati dalla disuguaglianza vada ricercata nell’eliminazione dei poveri e non degli straricchi. Ma francamente, dopo quattro anni di governi multicolori, una pandemia e un’inflazione alle stelle, non sorprende affatto che in molti abbiano espresso la propria rabbia e la propria paura votando una leader che in qualche modo restituisce sicurezza. 

In Italia il contenuto ha lasciato spazio alla forma molto tempo fa. Chi parla di disuguaglianza e di povertà viene tacciato d’invidioso, perché noi italiani un po’ siamo così: amiamo i ricchi e disprezziamo chi sta peggio di noi, perché nella paura di scivolare sempre più in basso ci afferriamo alla speranza di poter un giorno riuscire nella scalata sociale. Il postfascismo che verrà, insomma, non è che una maschera costruita ad hoc per poter conservare nostalgicamente questa tradizione. Come scrive Alessandro Gandini, la nostalgia è un sentimento reazionario che nella nostra epoca offre un rassicurante rifugio di fronte alle contraddizioni del presente e alla nostra incapacità di immaginare uno spazio-tempo tutto nuovo. Cambiare la tradizione, invece, fa paura perché ci costringe a dover immaginare nuovi modelli sociali e produttivi basati su premesse completamente diverse come una sorta di salto nel vuoto.

Chi inneggia al cambiamento alludendo al fatto che Meloni sia una donna o è uno stolto o è un incosciente. Perché nella società in cui viviamo, le donne vincono solo quando mantengono intatto quel modello sociale basato sul mito della forza, della rabbia e del dominio. Meloni è un’esponente perfetta della triangolazione tra capitalismo, patriarcato e colonialismo, è una nuova pedina del puzzle che funge a perpetuare la tradizione e consentire a chi ha già tutto di non perdere nemmeno un pezzetto del proprio privilegio. Non a caso, infatti, durante la campagna elettorale abbiamo visto riemergere con forza la celebrazione del lavoro domestico femminile e della figura della madre come pilastro della famiglia tradizionale. 

Rimpiazzare le figure maschili con donne che hanno più o meno gli stessi identici privilegi non è affatto l’obiettivo delle lotte femministe socialiste. Il femminismo intersezionale ci racconta anzi come, al centro dei sistemi di sfruttamento e di oppressione, le questioni di classe si intersecano profondamente con il genere e con la razza. È da queste premesse che dovremmo allora attingere per immaginare nuovi futuri. Perché la rivoluzione delle coscienze, parafrasando bell hooks, passa in primo luogo attraverso la volontà di cambiare resistendo alla rassegnazione che ci pervade. Se desideriamo vivere in una società che, invece di sfruttare e opprimere i deboli, sia in grado di rimettere al centro del proprio funzionamento concetti finora considerati prettamente femminili, come la cura, l’affetto, la comunicazione e l’impegno, è necessario guardare oltre il nostro orticello capendo che la cura di sé passa prima di tutto dalla preoccupazione per gli altri. Ed è solo accettando la nostra profonda essenza politica che sarà possibile costruire una società che metta al centro il benessere dei propri cittadini.

Le sfide che abbiamo davanti sono molte. Per affrontarle sarà in primo luogo necessario chiedersi come contrastare le gerarchie seminate nel tempo da razzismo e patriarcato, che il sistema capitalista ha saputo sfruttare per dividere e distrarre le classi medio-basse portandole sempre più verso una lotta intestina contro se stessa invece che contro le classi più privilegiate. Rifuggire la politica dell’identità, capace solo di creare slogan cannibalizzabili da brand e aziende, è una necessità non più rimandabile. Il cambiamento deve venire da dentro, dalla ricerca di quel minimo comune denominatore tra gli oppressi che torni a sfociare nella ricerca e sperimentazione dell’organizzazione collettiva.Forse allora, affinché tutto cambi, è giusto che intanto tutto rimanga com’è. Ed è chissà questo il cuore di ogni reale rivoluzione: far accadere il cambiamento dall’interno affinché, una volta passata la sbornia di slogan e proclami, l’immaginazione di una società più giusta possa occupare le parti interiori della nostra anima fino a farci riesplodere la rabbia. Tuttavia, la rabbia che dobbiamo imparare a coltivare non ha nulla a che fare con l’effimera indignazione da social media di cui ci siamo intossicati negli ultimi anni. Si tratta piuttosto di una rabbia radicale e capace di ideare cambi a lungo termine, contrariamente al modus operandi nostra classe politica e dei programmi elettorali che ci vengono propinati come soluzioni al nostro malessere. Non possiamo più procrastinare calciando la palla in avanti e aspettando che i nostri diritti vengano erosi una goccia alla volta: è tempo di abbandonare la rassegnazione e riprendere le redini del nostro futuro, se ancora speriamo di poterne costruire uno.

ARTICOLO n. 77 / 2022

STUDIO AZZURRO: SENZA REGOLE STABILITE

INTERVISTA A LEONARDO SANGIORGI

Nel 1982 irrompe nel mondo dell’arte “una bottega d’arte contemporanea” senza “regole stabilite”: Studio Azzurro. Oggi, quarant’anni dopo, incontriamo uno dei fondatori, Leonardo Sangiorgi, che, insieme a Fabio Cirifino e Paolo Rosa concepì questa grande opera in divenire che diverte, perturba, sconvolge gli esseri umani che la incontrano sulla propria via. 

Andrea Gentile: Leonardo, la ricerca di Studio Azzurro è sempre stata indirizzata verso il continuo cambiamento. Negli anni, Studio Azzurro è stato promotore di opere universali e molto partecipate dal pubblico. Se dovesse trovare delle differenze tra le attività del primo Studio Azzurro e quelle del più recente, quali sarebbero? 

Leonardo Sangiorgi: Nei primi quindici anni di attività penso che l’occasione di creare opere complete, a sé stanti, sia stata più facile, abbia avuto maggiori possibilità. Gli ultimi quindici anni invece hanno avuto un interesse soprattutto nell’ambito museale, e, grazie alla loro natura fortemente didattica e divulgativa, ci hanno permesso di sperimentare le opere d’arte a contatto con il pubblico. Ripenso alla nostra retrospettiva fatta a Palazzo Reale, che aveva come sottotitolo Immagini Sensibili (2016), e si proponeva l’obiettivo di creare un luogo di narrazione e partecipazione. Volevamo evitare che fosse soltanto un consuntivo del nostro lavoro, non doveva essere una sorta di «mausoleo». Doveva permetterci di mostrare il segno che il nostro lavoro ha impresso nell’indagare l’universo dell’immagine elettronica nel quale ci siamo avventurati. 

A.G. E di certo non lo è stato, un mausoleo. Era una mostra perturbante. Potevi contemplarla per ore: sembrava infinita. Ma come nasce un’opera di Studio Azzurro? 

L.S. Se ripenso a quei giorni, durante l’esposizione, ci siamo domandati quali sarebbero state le nuove direzioni, a partire da quella mostra, da intraprendere. Sono nate proprio delle proposte di indagine, tradotte poi in nuovi progetti. Penso che nel progetto di un’opera ci sia una dimensione metafisica del parlato che può permettere una visione oltre la dimensione fisica. Ogni progetto realizzato cristallizza la dimensione ideale del progetto che è molto più liquida dell’opera stessa. 

A.G. Immagino che a volte lo scarto tra il progetto e la messa in atto possa anche essere abissale nelle sue sfumature: quando un’opera non è ancora presente ma esiste in una dimensione progettuale multiforme e incerta.

L.S. Capita, è vero. Devo dire che, con nostra grande sorpresa, ogni volta che rivediamo i disegni dei progetti, non c’è un lavoro di Studio Azzurro che non sia nato attraverso un testo, un disegno o uno schizzo. Non ci sono stati molti progetti che sono poi cambiati rispetto al disegno progettuale.

A.G. La mia percezione è che il motore propulsivo del vostro lavoro, ciò da cui tutto nasce, ci sia il poetico. Il poetico come spazio aperto, che accoglie gli universali: il corpo, l’animale, il politico, anche.

L.S. Sì, certo, non può non essere così. Il poetico è anche politico, verissimo. Lavorare con i musei è inevitabile, ed è un politico non partitico, ma si immerge in una dimensione che permette di osservarci e di osservare. Il tema dell’elemento poetico nella nostra capacità espressiva è stato uno dei primi che abbiamo evoluto: Studio Azzurro nasce principalmente da un legame di amicizia, c’era un’energia strana, eravamo affascinati dalle immagini, dalle immagini in movimento. Quando facevo l’accademia, andavamo spesso alla cineteca in San Marco vicino a Brera. A quel tempo l’unica fonte di immagini in continuo movimento a cui noi attingevamo. Mi ricordo un giorno con Paolo Rosa e Fabio Cirifino, stavamo spiegando a qualcuno cosa intendevamo come «elemento poetico». E tirando fuori una penna dal taschino: «Ecco vedi: questa è una penna. Ma è anche un dirigibile, uno Zeppelin». Quello è stato il gioco con cui abbiamo letto e interpretato l’idea di trovare, di attivare, aprire l’interruttore dell’elemento poetico. La sfida è stata poi fortissima a partire dal mondo analogico in cui vivevamo: avevamo un forte bisogno di immagini elettroniche. 

A.G. Come siete riusciti ad intersecare questo vostro bisogno con quegli anni: era un tempo analogico e voi cercavate l’elettronico, se non il digitale.

L.S. Gli anni Novanta. C’è stato il salto, il big bang dell’universo digitale e noi abbiamo cominciato a lavorare con strumenti e con macchine che erano state originate per tutt’altri scopi. La sfida è stata grande, avevamo una domanda in mente: dove era l’elemento poetico in macchine create per fare operazioni ripetitive e somme di operazioni banali? Il nostro lavoro è nato di pancia, non di testa, mettendo insieme delle cose e vedendo che effetto facevano.

A.G. Una parola che mi è spesso tornata in mente osservando i vostri lavori è contemplazione. Contemplazione del tempo e dello spazio: al centro c’è sempre il presente, che è come un’anguilla. Appena lo afferri scivola via.

L.S. Una prospettiva interessante. La contemplazione è il contrario dell’indifferenza. Tante volte ci siamo sentiti chiedere «ma come reagiva il pubblico?». E la risposta è che è sempre stato polarizzato: o grande attrazione o grande repulsione; abbiamo incontrato pochissime volte l’indifferenza. I progetti teatrali con Giorgio Barberio Corsetti, nel quale l’elemento dell’immagine elettronica era preponderante, non sono stati certamente apprezzati dalla critica, che era del tutto impreparata. Invece, per esempio, l’intuizione di usare i monitor per poter vedere una figura intera, la scala uno a uno, quella non è stata progettata, avevamo solo voglia di vederla! Senza barriere dentro il nostro quotidiano. 

A.G. Da fruitore mi chiedo quanti abissi ci sono nell’immagine che spezzetta Il Nuotatore (1984), che viene frammentata dal tubo catodico, dai tanti tubi catodici, perché ci sono significati altri che si insediano in quegli spazi vuoti. Che cosa c’è tra uno schermo e l’altro?

L.S. Ti restituisco una visione tecnica: il Nuotatore è composto da monitor Grunding, perché era l’unica ditta che aveva messo il sintonizzatore nella parte sottostante per cui potevamo impilare lateralmente i televisori. Con gli altri monitor non si sarebbe potuto fare in quanto erano tutti un po’ asimmetrici e il sintonizzatore era laterale, mentre i Grunding potevano essere accostati con la minor distanza possibile. Anche nello spettacolo con Giorgio Barberio Corsetti, Prologo a Dario segreto contraffatto (1985), gli attori sembrano uscire dal terreno e arrampicarsi sulle colonne di televisori e sembrano risalire da un monitor all’altro; in realtà, salivano su una struttura di tubi Dalmine che era esattamente allineata fra gli spessori dei bordi dei televisori e in scena si aveva l’impressione che si appoggiassero, piano per piano, sui monitor. 

A.G. Questa è una modalità che c’è spesso nei vostri lavori, la sensazione di vivere nello spazio artistico: ti senti pubblico e ovviamente non sei soltanto pubblico, interagisci. C’è uno spazio che viene colmato dalla tua immaginazione.

L.S. Sì, molto spesso. Il rapporto con lo spazio per noi è un elemento importante che, ad esempio, ci ha portati ai video ambienti. Fino a quel momento quando guardavi qualcosa a casa alla televisione o al cinema eri seduto davanti e avevi un unico punto di vista. Tutto era immobile, eri uno spettatore amputato perché la tua interfaccia totale del mondo erano gli occhi e le orecchie. Tutti gli altri sensi venivano letteralmente spenti e chiusi.  Quando abbiamo lavorato a Luci di inganni (1982) abbiamo messo l’osservatore, l’utente, in una posizione attiva perché doveva accendere dei monitor per vedere i mobili, che erano nello spazio, come immagini: è nato automaticamente questo dialogo tra spazio e immagini elettroniche. Quello ha spostato immediatamente tutto il racconto, perché il fatto di potersi spostare in uno spazio usando le gambe, il tuo peso e la tua dimensione corporea ha completamente slittato il rapporto dell’utente con le immagini e il rapporto dell’autore con il fruitore stesso. Tu osservatore che ti muovi in uno spazio compi la tua regia: tagli, monti, ti sposti, cambi inquadratura e così via, fai una tua regia e quindi la dimensione autoriale cambia molto. In questo senso la dimensione poetica si è agganciata e ha fatto come una sorta di dinamo tra l’opera e il fruitore-osservatore. 

A.G. Genera una proliferazione di significati: sono infiniti, potenzialmente. 

L.S. Infiniti, sì. L’illimitatezza data dall’opera stava proprio nell’esperienza personale: vivere un’esperienza. Quando, qualche giorno dopo aver inaugurato Coro (1995)abbiamo incontrato delle persone che avevano visto l’opera e ci siamo sentiti dire «ho avuto l’impressione di camminare su dei corpi», quello per noi è stato il raggiungimento. Vivere finalmente l’esperienza. 

A.G. Coro (1995) per quel che mi riguarda ci dice anche un’altra cosa: l’arte prolifera di significati, come la mente. È potenzialmente infinita. Le persone che vediamo forse dormono. Ma forse soffrono. Forse sono a un passo dal morire. Forse stanno per rinascere. Forse sono al risveglio o forse all’addormentamento. Nell’unicità dell’istante: un testo infinito. Una cosa che non finisce mai di essere scritta.

L.S. D’altronde, pensiamo al linguaggio: l’alfabeto è fatto di ventiquattro lettere e guarda cosa sono riuscite fare! 

A.G. In questo metamorfismo digitale come respirano le idee di Studio Azzurro?

L.S. Nell’ultimo periodo ci siamo domandati se queste tecnologie, che noi usiamo e che sono diventate così pervasive e presenti, capaci di restituirci grandi poteri – sempre più veloci; collegati al punto da diventare ubiqui -, potessero essere usate per esplorare un mondo interiore. Vorremmo verificare se il mondo digitale fortemente proiettato fuori da noi, possa essere rivolto invece dentro di noi. Mettere a fuoco un mondo interiore e rappresentarlo. 

A.G. In un meccanismo come quello contemporaneo il rischio è anche essere in ogni luogo e non esserci mai. Non viviamo mai l’esperienza veramente, non stiamo mai dentro l’esperienza perché stiamo pensando ad altro. E allora tutto diventa l’opposto della parola che usavamo prima, contemplazione.

L.S. Sì, quella parola deve essere una delle componenti per una percezione dell’elemento poetico. 

A.G. Insisto sulla contemplazione. Produciamo migliaia di pensieri al giorno. La mente prolifera e ci trascina da tutt’altra parte. Magari sto guardando Coro, la sto vivendo, e però penso alle melanzane di mia madre, al fatto che domani ho un colloquio di lavoro o al fatto che ho un piccolo dolore allo stomaco che mi preoccupa moltissimo. Sono presente solo in parte. Sono lì col corpo, ma in realtà sono complice di quel cavallo imbizzarrito che è la mente. Sono il suo fantino. Non sto vivendo l’opera. Il mio multitasking inferiore mi porta fuori dalla contemplazione. Il vostro capolavoro, per me, è che siete riusciti a fare opere contemplative e multitasking al tempo stesso.

L.S. Sul nostro cammino, nel domandarci dell’introspezione attraverso le tecnologie, abbiamo trovato come delle tracce molto precise. Siamo umani, sempre umani. Fin quando possederemo questa capacità di guardarci a vicenda, di esplorarci, non potremo mai fare a meno di stare insieme attorno a un tavolo a parlare di cose immateriali. Farci credere che possiamo escludere questo, è un grande errore, non potremmo mai farlo. Ed è per questo scambio, per questo riconoscersi nelle emozioni, nelle esperienze di altri e condividerle, che deve esserci immancabilmente la nostra presenza. Sia corporea che emozionale. Attraverso un incontro nel quale ci possiamo sbagliare, arrabbiare, litigare, ritrovarci. Si pensa che le macchine artificiali non abbiano capacità di errore. Studio Azzurro invece si interessa proprio agli errori: a ciò che chiamiamo «frattaglie digitali», scarti dell’universo software digitale, i cosiddetti bug. Tutto ciò che viene scartato nella ricerca dell’intelligenza artificiale, quindi la demenza artificiale, a noi interessa e ci diverte, così che possiamo parlare non di realtà aumentata, ma di ragione diminuita. E pensando sempre all’ubiquità e alle emozioni ogni tanto mi diverto a immaginare se si spegnesse la rete per più giorni, in che stato d’animo una persona potrebbe trovarsi. In mancanza di queste protesi che ci danno la possibilità di avere una estensione planetaria del nostro carattere. 

A.G. Certo, è l’altra faccia delle protesi. 

L.S. Tutto sta un po’ nell’interfaccia che abbiamo verso tali protesi. Per esempio, con l’avvento del mondo digitale Studio Azzurro ha provato a praticare attività di tipo collettivo con Tavoli (1995)In cui l’interfaccia invece di essere joystick, keyboard o mouse erano superfici sensibili che si contrapponevano al fatto di essere soli davanti al computer, andando a indagare il rapporto uno a uno tra utente macchina. 

A.G. Un autentico spazio sensoriale. E quando si percepisce, vince il presente. 

L.S. Il tema della sensorialità qui era preponderante, rispetto alla convenienza e alla comodità delle industrie digitali che hanno ridotto tutto ad una superficie liscia, monosensoriale. Tavoli (1995) ti invitava a sentire le venature di un legno, la ruvidità di una pietra o la pelle di un tamburo. Noi continueremo a spingere perché gli ambienti sensibili siano habitat, come diceva anche Paolo Rosa, nel quale tu ti muovi e hai esperienze plurisensoriali non solo multimediali ma multimodali, proprio. E quando tu cominci a usare l’interattività «in modo poetico» è come sbattere contro una parete, ci fa riflettere, vuole dire che c’è ancora un gran margine di lavoro poetico. 

A.G. C’è una cosa che mi viene subito in mente, parlando di ambienti sensibili: il percorso al buio, il “Dialogo nel Buio”, dell’Istituto dei Ciechi. Nel quale entri e vivi un’esperienza di cecità per un’ora. Togliere un senso per far esplodere gli altri sensi.

L.S. In quel caso si arriva a togliere la capacità di utilizzare gli altri sensi e devi sviluppare una nuova consapevolezza, in modo da aderire all’esperienza che fai. Devi imparare, prestare attenzione, metterti in gioco: esserci. Così come appunto era, forzando un po’ la cosa, Il Nuotatore: non c’era solo una persona che nuotava avanti e indietro per un’ora. Nelle dodici cassette abbiamo montato cento piccoli insert per cui, ogni tanto, nel passaggio del nuotatore, su un singolo schermo, c’è un piccolo accadimento della durata utile per non farlo intercettare dal nuotatore che passa, spezzando così la continuità che avrebbe potuto portare a una sorta di consuetudine.

A.G. La violenza dell’istante.

L.S. Invece questi elementi sparsi casualmente, questi cento elementi, non solo attirano l’attenzione, ma ti permettono, ancora una volta come dicevamo prima, di sviluppare un tuo personale racconto, spostandoti di volta in volta e avendo differenti punti di vista in differenti momenti. 

A.G. Per chiudere, Leonardo. Come affrontate il “quarantesimo anno”? E il futuro?

L.S. La realtà complessa e complicata nella quale viviamo sollecita e richiede una strategia di pensiero e azione articolata e diversificata. Anche se apparentemente in contrapposizione con quello appena esposto, una parte delle nostre intenzioni o direzioni di interesse e di ricerca per il futuro, riguardano quello che abbiamo sempre fatto, lo Studio Azzurro continua a interessarsi al rapporto tra le persone e le tecnologie, utilizzando in senso più aperto il linguaggio della poesia per sviluppare e/o attivare gli “anticorpi” necessari alla complessa convivenza con questi strumenti, a volte estremamente potenti, che ormai non possono essere disgiunti e ignorati dalla nostra vita quotidiana. Un altro tema che riguarda le nostre attività future è strettamente legato a quello appena detto, non esistono tecnologie buone o cattive, discrete o invasive, efficaci o inutili, dipende tutto dal modo in cui vengono usate e chi le usa sono le persone stesse., siamo noi. Quindi se vogliamo migliorare il nostro rapporto con questi strumenti, rendere il loro uso più utile per noi, dobbiamo adoperarci per cambiare anche noi stessi. Guardiamoci attorno, siamo circondati da grandi innovazioni tecnologiche ma a distanza di millenni, l’uomo uccide e opprime ancora i suoi simili per ragioni a volte difficili da capire. Per questo e per il fatto che un creativo, un artista è chiamato ad essere un testimone del suo tempo e ha un ruolo sociale e politico molto forte, nella società in cui vive, deve attraverso le sue capacità visionarie, immaginare e suggerire nuove direzioni da tentare e perseguire. L’azione di ricerca dello Studio Azzurro si sta orientando, quindi, non più verso la realtà esterna che ci circonda o quella virtuale, che più sottilmente ci rispecchia ma si domanda se non è giunto il momento di orientare questi strumenti tecnologici così potenti e la propria azione di ricerca verso quell’universo che non sta fuori di noi ma che, invece, è profondamente immerso e radicato dentro di noi.

ARTICOLO n. 76 / 2022

ALLA RICERCA DI ME STESSO. UNA LETTERA DEL ’43

Cento anni di Raffaele La Capria

Pubblichiamo una lettera estratta da Tu, un secolo, che raccoglie alcuni degli scambi epistolari più significativi dell’esistenza di Raffaele La Capria, da oggi in libreria. Ringraziamo Mondadori per la disponibilità.

Non capita tutti i giorni, qui, di avere carta e penna disponibili, un tavolo, sia pure improvvisato, e una o due ore di raccoglimento. Forse perciò ho deciso di approfittare dell’occasione – o l’occasione lo ha deciso per me – per fare una piccola indagine alla ricerca di qualcuno: in quale altro modo potrei esprimermi quando mi riferisco a me stesso? 

Qualcuno che non so bene chi sia, nemmeno se è un uomo o un personaggio. Già, dovrei subito spiegare che cosa voglio dire, e non mi è facile, io ho una difficoltà ad esporre le mie idee che dipende principalmente, credo… Ma è meglio non fermarsi al primo ostacolo, non ho molto tempo davanti a me, presto suonerà la tromba. Allora diciamo che secondo me – e proprio perciò già comincio a dubitarne – un uomo sarebbe chi s’appoggia su certezze e valori che gli altri possono condividere, e un personaggio no, deve in ogni momento inventarsi chi è. Se l’uomo è tutto in quello che è e che fa, il personaggio non è mai tutto in quello che è e che fa. Così l’uomo è portato all’azione, e per un personaggio ogni piccola azione è un incubo, perché non sa mai bene cosa lo spinge ad agire. Per l’uomo gli altri sono reali e lo rendono reale. Il personaggio è sempre solo, gli altri sono per lui dei fantasmi, in mezzo a loro anche lui si sente irreale. Come me qui.

Ma non credo che esista qualcuno proprio tutto-uomo o proprio tutto-personaggio. Le proporzioni dovrebbero variare all’infinito. Comunque, io che cosa sono, uomo o personaggio? 

Mi vien da ridere. Non tanto se penso perché scrivo tutto questo, ma dove lo sto scrivendo. Dunque, io sto scrivendo sotto una tenda, nell’anno di grazia 1943, mentre infuria una orribile guerra alla quale partecipo, mio malgrado, come caporal maggiore. Sono arruolato in un battaglione di universitari, il 52° Battaglione d’Istruzione, da noi soprannominato Distruzione, perché ci distrugge giorno per giorno. La nostra zona è definita Zona d’Operazioni anche se è distante molte miglia dalle linee nemiche, perché in questa zona s’aspetta, è ritenuto imminente, un lancio di paracadutisti. Dopo una lunga marcia di addestramento per le polverose strade della pianura assolata, ecco, prima che cada la sera, un’ora di frescura e di riposo. I miei compagni sono in giro a bighellonare da un albero all’altro. Siamo attendati in un uliveto, e sotto gli alberi già si formano vari gruppi raccolti in chiacchiere, giochi di carte, scherzi. È naturale scrivere quello che sto scrivendo io, in una situazione del genere? Quanto inammissibilmente lontano dagli avvenimenti in corso, e ai quali pure partecipo, è questo mio scritto? Che senso ha scrivere questa roba quando il destino di milioni di uomini, e forse anche il mio, è un gioco da decidersi? Immagino già cosa direbbe Tullio se gettasse uno sguardo su questi fogli. Ma li terrò ben nascosti, o li metterò in una busta e li spedirò come una lettera, senza indirizzo. Io stesso, d’altronde, non saprei come giustificarmi. Posso solo dire che da troppi giorni viviamo isolati così, in attesa di un nemico che non viene.

Non viene il nemico dal cielo, non ci arrivano notizie se non confuse della guerra, non riceviamo più posta da casa. In questo completo isolamento, in questa vita totalmente involontaria che sono costretto a vivere, ho avuto paura di non esistere più, proprio di non esserci. A volte solo la cinghia della mitragliatrice che porto sulle spalle nelle stupide marce sfibranti, che mi segna la carne e mi indolenzisce le ossa, solo il sudore abbondante e animalesco della fatica inutile, mi danno la sensazione di esserci. Ma è un modo di essere che non mi basta e non mi compete. E dunque per rientrare in una sfera di mia competenza, che in qualche modo cioè mi riguarda, io mi sono rifugiato qui, sotto la tenda della fureria a scrivere. E proprio perché avverto l’enorme distanza tra quello che sto vivendo e quello che sto scrivendo, l’enorme distanza di ognuna di queste mie parole dalla Storia, provo un senso di soddisfazione che finalmente mi dà la certezza di esistere. Sì, il mondo è in fiamme, e io, insieme a tanti altri, potrei essere spezzato via dalla catastrofe. Ma stasera mi trovo qui, nell’incerta luce, a scrivere sul tavolo concessomi da furiere, della differenza, nientedimeno, tra uomo e personaggio, e di altre sciocchezze del genere che però mi competono più della cinghia della mitragliatrice.

Stasera non mi va di unirmi agli altri, non mi va di partecipare alle loro discussioni. E poi spesso nelle discussioni ho la peggio, mi mancano le qualità dialettiche, le convinzioni ferme. Se qualcuno mi contraddice, in cuor mio subito gli do ragione, anche se le mie parole gliela negano. Così è successo con Tullio. 

L’ho sempre stimato, Tullio, sin dagli anni del ginnasio, per la sua capacità di sistemare idee e concetti, mi piacciono quelli come lui che hanno delle opinioni e le sanno difendere. E proprio Tullio mi ha messo nello stato d’animo che ora mi fa scrivere. Abbiamo quasi litigato sul momento. Il tono aspro della sua voce mi è parso indiscreto, e la sua accusa, fatta apertamente davanti agli altri, mi ha colpito nel vivo. Ma, lo devo riconoscere, ha messo il dito sopra un vizio che ritenevo invisibile e che anche a me stesso era poco chiaro. Mi sono sentito scoperto, in pericolo: e lui mi parlava, sicuro di non sbagliarsi, come se tutto fosse scontato, ovvio. Se un altro, perfino il mio migliore amico, mi vede dentro, avverto sempre questo senso di pericolo, devo correre subito ai ripari… 

Certo avevo da tempo notato delle “instabilità”, per così dire, che a volte giocavano un forte ruolo nella mia vita, ma ad esse non avevo mai dato quell’importanza che gli do adesso, dopo la discussione avuta con Tullio. 

Pur intrattenendo con gli altri rapporti che chiunque giudicherebbe normali, io sento di non essere mai in quel naturale abbandono, che tali rapporti di solito comportano. Non c’è finzione nel mio modo di essere, e neppure penuria di affetti e mancanza di generosità. Anzi, mi sono prodigato sempre più del necessario proprio perché io solo sapevo che quell’altro me stesso intangibile doveva pur fare qualcosa per farsi perdonare la sua intangibilità, da me non voluta e spesso odiata. Questo, credo, Tullio deve averlo intuito. Una volta mi ha detto che con le idee io intrattengo gli stessi rapporti che con gli uomini, e quando mi sente parlare ha sempre la sensazione che per me le idee, anche quelle che rappresentano una sfida dell’umanità, siano qualcosa di estraneo. Anzi, ha precisato, è come se, pur comprendendone il valore e la portata, queste non fossero mai formative, per me, non avessero mai inciso dentro. Come avrà fatto a capirlo? 

Tra i miei compagni, a parte i discorsi sulla guerra e su tutto quello che incombe, si parla parecchio di queste idee. Anche qui, dopo il rancio, accovacciati sotto gli ulivi, si fanno certi discorsi come al GUF, che se li sentissero i superiori, da capitano in su – qualche tenente ci sta – rimarrebbero indignati e forse prenderebbero provvedimenti disciplinari. È già avvenuto. Si parla di Croce, di ciò che è fascismo e ciò che non lo è, ma soprattutto si parla di Marx, o contro Marx. Il linguaggio marxista è una lingua in cui ogni parola ha un significato preciso. Se si dice “borghese” o “piccolo borghese”, se si dice “intellettuale” o “classe operaia”, “sottoproletariato” o “sovrastruttura”, tutto questo vuol designare cose ben analizzate dal marxismo, perché il marxismo è una chiave che apre tutte le porte e spiega la condizione dell’uomo, il suo sfruttamento eccetera, è una dottrina totale. 

A volte mi sembra di essere convinto di questa idea marxista e convinto di questo linguaggio. Nella presente situazione, mentre siamo in una guerra che certamente perderemo, il marxismo è una buona spiegazione di tante cose e una buona speranza per cambiarle. Non esito a scriverlo, anche se, scoperto, sarei deferito al tribunale militare. Una tale eventualità non mi fa paura e anzi rende ancora più suggestiva per me l’idea marxista. Ma come mai, se voglio persuadere un altro di questa idea così suggestiva e rivoluzionaria, non trovo gli argomenti adatti, non resisto alla minima obiezione, e comincio io stesso a non crederci più? Ciò non accade per la mia difficoltà ad esprimermi, né per la mia immaturità di anni e di pensiero (a vent’anni poi non si dovrebbe essere tanto immaturi), ciò accade per una difficoltà più sostanziale, che è appunto il mio modo di avvicinarmi alle idee. Tullio dice che a volte siamo pronti a far nostra un’idea per il solo fatto di averla compresa fino in fondo, in tutte le sue possibilità. Lui dice che a me succede qualcosa di simile: il mio intelletto è abbastanza duttile per impadronirsi delle idee più disparate e contrastanti, ma poi di fronte ad esse resta imparziale ed astratto, dando a tutte contemporaneamente diritto di asilo. Si può immaginare il guazzabuglio che provoca questo mio atteggiamento? Perché non si dovrebbe accusarmi di superficialità e indifferenza?

Ma io mi ribello. Se non so procedere per una sola direzione col risultato di non imboccarne mai una, vuol dire che per me mantenere la contraddizione è l’unico modo, abbastanza sensato, di far lavorare il cervello. In uno stato di attivo scetticismo, non di superficialità e indifferenza, come dice lui. Lo stesso avviene quando parliamo di libri, di letteratura. 

Giorni fa, per colpa mia, sono stati perquisiti tutti gli zaini. Un’idea del colonnello. Durante la quotidiana marcia di addestramento ho tirato fuori un libriccino coi racconti di Čechov e mi sono messo a leggere camminando, come un prete col breviario. Da lontano il colonnello mi ha visto, ha fatto fermare la colonna, e ha improvvisato un discorso sulla propaganda disfattista e i libri sovversivi. Tullio s’è divertito, qualche giorno dopo, a rifare la scena: il colonnello che mi fissa mentre io marcio assorto nella lettura, e lo sguardo, lo sguardo del colonnello che esprime non solo l’ira e l’imminenza della punizione da infliggermi, ma anche l’oscura consapevolezza che con soldati come me la guerra non si potrà mai vincerla. Čechov, un russo! Sono stati allineati nel campo, davanti alle tende, prima del rancio, tutti gli zaini, e molti libri sono finiti in un falò, anche i romanzi più innocui, soprattutto quelli con la copertina rossa. Così ho perduto Moby Dick nella traduzione di Pavese, ma ho salvato La concezione materialistica della storia di Labriola, sfuggita non so perché, forse per l’aspetto serio e rispettabile dell’edizione Laterza. Lì dentro c’è, appunto, il Manifesto del Partito Comunista, che ancora passa di mano in mano… 

Quando, come dicevo, parlo con Tullio dei libri che leggo, sento che lui trova continui rapporti tra un libro e un altro, tra un libro e la realtà da cui è nato, quasi che ogni libro facesse parte di un concerto ben orchestrato che si chiama la Storia della Letteratura. Anche io a volte parlo in questi termini e mi do da fare in questa direzione, con osservazioni ben azzeccate, ma a dir la verità la musica del concerto non mi arriva. Ogni libro se ne sta, per me, in un mondo tutto suo, esclusivo e separato; è come se non appartenesse alla vita ma le facesse concorrenza, una forma che si aggiunge alle altre forme del mondo, insomma, e non per portare chiarezza, ma ambiguità e disordine. Così ogni libro è un messaggio chiuso in una bottiglia, proveniente da un mare dai confini incerti, e lascia labili tracce contraddittorie dentro di me, l’eco di domande senza risposta, il senso di un ordine nato dalla negazione di quello esistente. Mi guardo bene di dirlo a Tullio, perché anche in questo caso mi accuserebbe di superficialità, di cercare nei libri, a causa della mia inadeguatezza al mondo, un altro reale possibile, pur di non affrontare quello esistente. No, meglio non intaccare il suo lavoro di sistemazione, meglio non disturbare il suo concerto con le mie note dissonanti. E però sempre penso: Se dopo tutto, avesse ragione lui? 

Mi rendo conto che ero partito con un proposito, con quella distinzione tra l’uomo e il personaggio, e che adesso mi sto disperando in una serie di digressioni. Solo così sono capace di esprimermi. Forse invece di occuparmi di Tullio e delle sue idee contrapponendole alle mie, potrei utilizzare meglio il mio tempo scrivendo alla mia ragazza. 

Perché invece di scrivere per me non scrivo a lei? Perché perdo tempo così se, da un momento all’altro, in questo miserabile Deserto dei Tartari può risuonare lo squillo di tromba fatale? Ma la posta non funziona; e poi cosa dovrei scriverle? Qui tutti hanno una ragazza a cui scrivere, e tutti appena se ne presenta l’occasione vanno a donne, come e dove capita. Quando ci hanno portati coi camion in un paese vicino a ripulirci un po’ sotto le docce, mi sono trovato anch’io, dopo, con gli altri in una squallida stanza. C’era un vecchio, una vecchia e due bambini che giocavano in un angolo. Sulle sedie allineate lungo la parete, i miei compagni aspettavano il turno, scambiando qualche parola coi vecchi. C’era solo una tenda stesa nella camera, e dietro la tenda, sopra una branda, una specie di bambolona paffuta e rosea, con un fiocco di seta azzurro nei capelli. Senza neanche spogliarci, sentendo le chiacchiere di là, ci sdraiavamo accanto al suo corpo nudo. Sì, anch’io come loro. Non sono diverso da loro, ma di queste esperienze mi resta solo un senso di pena, e una mancanza. Ho scritto quel giorno una lettera d’amore alla mia ragazza, e mi pareva di recitare anche se non c’era finzione, perché si può recitare la sofferenza soffrendo davvero e recitare l’amore amando davvero, ma come si fa a superare quell’altra finzione della nostra natura che ci costringe a recitare?

Se ora penso alla mia ragazza mi sembra talmente lontana che nemmeno mi ricordo più com’è fatta. È una successione d’immagini staccate – un profilo, un’onda dei capelli, il suono di una parola – inseguite lungamente, fino a perdere qualsiasi rapporto con la persona da cui emanano: è l’inganno che devo interrompere tirando fuori dal portafogli la sua fotografia. La guardo e dico a me stesso, sì, è lei, è proprio lei, la mia ragazza. A volte, con la sua fotografia bene in vista davanti a me, le ho scritto di queste mie giornate forzose, e le ho scritto anche parole d’amore. Ma la distanza mi rende così, mi fa incerto dell’esistenza di lei come sono incerto tante volte della mia stessa esistenza. Se non avessi lei, le ho scritto, mi sembrerebbe di essere un piccolo pianeta sospeso in un suo giro solitario che si ripete sempre uguale: questo e cose simili le ho scritto, sempre più di rado. E forse ho esagerato a dirle che senza di lei sarei un piccolo pianeta solitario, perché lo sono in ogni caso, con lei o senza di lei. Ma lei non lo sa, e io ho continuato a scriverle perché non lo sapesse… 

Ieri è capitato il fatto che ha provocato la discussione con Tullio, e come conseguenza questo mio scritto. Io mi trovavo in uno stato di assenza. Mi accadde spesso di concedermi delle pause di riposo per appartarmi da tutto, anche da me stesso. Allora entro nello stato che chiamo di assenza, in cui non ci sono, letteralmente non ci sono e questo mi fa molto bene, perché quando per così dire “ritorno”, è come se avessi dormito e il sonno mi avesse ristorato. Ero in uno stato simile, sotto un uliveto, in contemplazione della mia stessa assenza. Ed ecco un mio compagno si avvicina di soppiatto e con uno di quegli scherzi un po’ goliardici che s’usano fin troppo tra noi, mi dà con la mano aperta un colpo sulle spalle, così forte da lasciarmi l’impronta. Un dolore bruciante, mi volto, e lui fugge gridando: «Sveglia! Adunata! Allarme! I paracadutisti!». Ho afferrato la baionetta, e la mia reazione è stata imprevedibile anche per me stesso: ho tentato di colpirlo, potevo ucciderlo! Quella sua improvvisa irruzione nel cerchio della mia assenza, non il dolore e la sorpresa, mi aveva sconvolto. 

Cos’è questa assenza?, mi sono domandato. Ma è inutile e forse impossibile descriverla. È una sorta di rapimento o piuttosto una fuga, fuori dalla nuvola di parole e di concetti che sempre ci avvolge, e fuori da ogni ricostruibile immagine o pensiero. Somiglia all’andare e venire dell’onda sulla spiaggia, all’allargarsi di cerchi d’acqua, al gioco delle nuvole difformi. Devo avere uno sguardo idiota quando piombo in queste assenze, e devo essere una bella tentazione per una piattata sulle spalle! Ma perché stavolta il “ritorno” è stato così furioso? Perché essere bruscamente riportato nell’attendamento sotto gli ulivi, tra i miei compagni del 52° Battaglione Distruzione, ha provocato quell’ira sconosciuta? 

Tullio mi si è buttato addosso per trattenermi, e tutto è finito lì. Ma poi quando mi sono calmato ha cominciato ad accusarmi, e davanti agli altri si è permesso di parlare di queste mie assenze: le ha definite il segno di un rifiuto, di una non accettazione della realtà e dunque della Storia. Lo avevo previsto. Da buon marxista lui classifica bene i comportamenti, cos’altro poteva rinfacciarmi? Ha detto che in me c’è una contrapposizione tra intelligenza e carattere. Io credo, così lui sostiene, che il carattere, il mio carattere, sia qualcosa di misterioso, immutabile, un dato fisso di natura, un destino, come il Fato per i Greci, e credo che la mia intelligenza, e dunque la mia volontà, non possano neppure scalfirlo. Ha detto che tutto ciò determina una frattura, rende impossibile quella composta unità che è, dovrebbe essere, la personalità di ogni uomo maturo e cosciente. Insomma, secondo lui, nonostante la mia intelligenza e cultura sono rimasto fermo in un mondo autosufficiente, infantile, immaginario. 

«E che ci sarebbe di male, se fosse così?» gli ho replicato, sapendo di non poter tenergli testa, e già dandogli ragione. 

«C’è di male che è sbagliato.»
«Perché?»
«Perché crea una falsa personalità.»
Dovevo pensare invece, che il carattere è solo un risultato, è formato dalla stratificazione continua di piccole azioni erroneamente ritenute impulsive o accidentali, che alla fine si condensano e si sommano in un malloppo duro come un metallo difficile a fondere. 

«Per esempio» ha detto, «prendi il tuo modo di reagire poco fa. Non è vero che non ti riconosci in quella tua azione?» 

«Certo, mi dispiace, ero fuori di me.» 

«Vedi, qui sta la frattura. O l’intelligenza e la volontà e la cultura modificano il carattere, o lo sottoporranno al tuo continuo giudizio negativo, e tu sarai il risultato della negazione di te stesso. Tutto questo, in altre parole, è reazionario e borghese.» 

«Ma che c’entra adesso la borghesia?» 

«Perché è tipico della borghesia analizzarsi, essere complicati come te, violenti e introversi come te. È tipico del reazionario credere a qualcosa di immobile come il Fato. È contro tutto ciò che cambia, contro la vita, contro l’azione per il riscatto dell’uomo da quello che sembra essere, e non è, il suo Fato; il Fato che l’opprime e lo sfrutta.»

«Ma scusa» gli ho replicato indispettito, «i Greci allora erano reazionari. Non hanno portato la civiltà al mondo? Non hanno cacciato via i Persiani? Loro credevano al Fato.» 

«Che c’entrano i Greci? Lo vedi che non sai ragionare? Tu non sei un greco. Sei solo un borghese dalla personalità labile, uno che non c’è, che non vuole prendersi la briga di esserci!»

Ecco, ho pensato io dopo questa discussione, Tullio sì che è un uomo! Ed è venuta fuori così la distinzione tra l’uomo e il personaggio, sulla quale ho cominciato a scrivere. Io sarei un personaggio, mi sembra abbastanza chiaro, ma un personaggio che sa che gli “uomini”, dopotutto, non stanno facendo una gran bella figura in questo momento. A volte sembrano irreali, e più dei personaggi. Il capitano, per esempio, è un fascista, eppure sa quello che deve fare quando occorre, ha delle convinzioni – sbagliate, ma le ha. È virile, è coraggioso, sa prendersi le responsabilità. Tutto questo appartiene agli uomini. E devo ammettere che quando pensavo all’ “uomo” ho pensato anche al capitano per contrapporlo a Tullio. Così esisterebbero due specie di uomini: a quale delle due alludevo, io che sto sempre in mezzo? Ma poi sarà vero che essere uomini è una qualità con caratteristiche sempre ammirevoli e distribuita in dosi così preponderanti? 

Solo un personaggio, Dio mio, può porsi delle domande così assurde. Anche questo mi fa soffrire. Ed è brutto soffrire di non soffrire delle stesse sofferenze di cui soffrono gli altri. Comunque ho almeno stabilito che essere “uomo” può apparire anche ridicolo nelle attuali circostanze. Dunque non voglio essere un personaggio, e neppure un uomo. Cosa allora? Si può provocare un mutamento, un cambiamento di rotta di tutti i nostri pensieri e modi di essere, solo con la volontà, come dice Tullio? O sarebbe necessaria invece qualche altra qualità dell’animo, richiesta dai tempi, e che a tutti per ora manca, agli uomini come ai personaggi? Sì, forse il piccolo duro pezzo di metallo che costituisce il fondo immutabile della mia natura sarà fra breve buttato dagli avvenimenti nel comune crogiuolo di questa immane catastrofe, e allora, forse, fonderà… 

Ecco, la tromba sta suonando! Devo correre!

Sarà il solito falso allarme che serve ad abituarci all’imminenza di quello vero. I nemici venuti dal cielo potrebbero già, nascosti dietro gli ulivi, puntare le armi contro le nostre tende. Se un colpo sparato senza intenzione di uccidere proprio me, uccidesse proprio me? Morirei come tanti miei compagni, come tanti miei coetanei, senza sapere nemmeno chi sono, senza sapere nemmeno perché.

Raffaele La Capria

© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ARTICOLO n. 75 / 2022

IL RITORNO DELLA CRITICA

Quando avevo intorno ai cinque anni, durante una cena di Natale, un parente mi chiese cosa volessi fare da grande. Risposi: il velociraptor. Era da poco uscito Jurassic Park (il romanzo, non il film) e l’idea di essere un animale magro, rapido e fatale mi riempiva di adrenalina. Comprensibilmente l’intera tavolata si mise a ridere. L’uscita mi venne rinfacciata fino a quando a diciott’anni finalmente lasciai il mio paese per non tornare più.

Molto tempo dopo mi trovavo seduto nell’ufficio del mio relatore di tesi al sesto piano di Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino. Avevo da poco discusso una tesi triennale su Raymond Carver, narcisismo e risentimento mimetico. Ero indeciso su quale indirizzo scegliere per la specialistica, per quello avevo organizzato l’incontro. Come quel parente malevolo vent’anni prima, il professore mi chiese cosa volessi fare della mia vita. E come il bambino ingenuo che ero stato, mi feci cogliere di sorpresa ancora una volta. Risposi: vorrei fare il critico letterario.

Il professore rise. Non nella maniera sguaiata degli zii radunati per Natale, ma con il riso sarcastico e disilluso che si addice all’accademia. Comunque fosse, la reazione mi lasciò depresso: davvero tutte le mie aspirazioni erano così irrealistiche? Ero condannato a innamorarmi per sempre di specie estinte?

La risposta era sì, e non avrei dovuto arrivare a ventitré anni per capirlo. Quattro anni prima, poche settimane dopo il mio arrivo a Torino, ero stato alla libreria Feltrinelli di Piazza San Carlo. Era un giorno di ottobre del 2004, faceva già un freddo irreale e per combattere la solitudine e l’ansia della separazione decisi di fare quello che avevo fatto per cinque anni di liceo di fronte alle difficoltà: cercare risposte nei libri.

Di quel giorno ricordo distintamente poche cose, ma una di queste è la sorpresa che provai nello scoprire un’intera sezione della libreria dedicata alla critica letteraria. File intere di Auerbach, Barthes, Benjamin, Blanchot, Bloom, Jameson, Sontag, Todorov – ma anche Ceserani, Citati, Eco, Moretti. Dovevano essere almeno sei scaffali, una parete intera. Certo, una parete piccola, marginale, un po’ nascosta, che faceva angolo, quasi invisibile dietro lo stand dei libri di cucina, offuscata dalle guide turistiche immediatamente alla sua destra, ma comunque una parete intera. Una riserva: guardavo a quei libri come altrettanti panda. E a ragione, perché negli anni che seguirono avrei osservato la parete ridursi sempre di più di dimensioni. Gli scaffali divennero cinque, poi quattro. La sezione fu rinominata “Critica letteraria, musicale e cinematografica”. Infine fu accorpata alla saggistica generale, e quella fu la fine…

Cosa era successo in quei quattro anni? Qual era il virus che aveva provocato la malattia e la morte di un intero genere letterario? La risposta è facile: internet. Nel 2004, appena arrivato a Torino, dovevo ricorrere alla Biblioteca Nazionale e ai suoi computer con installato Windows 95 se volevo ricevere e mandare e-mail gratis, perché a casa non avevo una connessione. Nel 2008 io e miei inquilini scaricavamo in pochi secondi l’intera discografia dei Radiohead con l’ADSL, avevamo identità digitali su MySpace (Facebook sarebbe arrivato poco più tardi) e come tutti sceglievamo che libri leggere basandoci sulle recensioni di utenti anonimi su forum e blog. Nessuno aveva più bisogno dei critici letterari, che erano diventati inutili quanto i ragazzi che mettevano a posto i birilli nelle sale da bowling quando qualcuno aveva inventato il braccio meccanico.

Internet però era stato solo il colpo di grazia. La critica aveva iniziato il suo declino nel momento stesso in cui aveva raggiunto l’apice del successo negli anni Sessanta. In quel breve, luminoso decennio, la popolarità assunta dalla semiotica, dall’ermeneutica gadameriana e dal poststrutturalismo aveva portato nella cultura di massa una nozione a suo modo rivoluzionaria: quella per cui tutto il mondo è un testo, e come tale può essere interpretato. Era la liberazione della disciplina dai confini angusti della sua scomoda specializzazione. Il critico smetteva di essere un autore fallito che con sadico rancore faceva a pezzi il lavoro degli altri per diventare un personaggio cool, perfettamente inserito nel nuovo universo radicalmente denaturalizzato dell’industria culturale.Se tutto è culturale, tutto è un segno. E se tutto è un segno (magari addirittura un segno slegato dal proprio referente profondo, un significante senza significato, come avrebbe detto qualche decennio più tardi Baudrillard), tutto può essere letto. Chi meglio di un critico letterario, abituato all’esegesi di testi scritti, può rapportarsi a un mondo diventato un unico, infinito, sistema semiotico?

Sembrava l’utopia degli intellettuali, un mondo di allegri secchioni intenti a interpretarsi a vicenda all’infinito. E invece il postmoderno dà e il postmoderno toglie, come una divinità indiana dalle molte braccia. Forse non è nemmeno un caso che a porre fine a questo ambiguo paradiso maschile avrebbe dovuto pensarci una donna, chissà. Fatto sta che proprio mentre quello del critico letterario sembrava essere diventato il mestiere più fondamentale dell’Occidente, una trentenne newyorkese pubblicò un saggio di cinque pagine diviso in punti come fosse il manifesto di una nuova avanguardia. L’autrice era Susan Sontag, il saggio si intitolava Contro l’interpretazione e si concludeva con una sentenza: «invece che un’ermeneutica abbiamo bisogno di un’erotica delle arti». Era il 1964 e la ragazza ci aveva visto lungo. Se quell’aforisma era l’harakiri della critica, che si rendeva obsoleta da sola, era anche l’inizio di un nuovo mondo.

Incredibile ma vero, data l’enorme influenza avuta dall’idea di Sontag nello sviluppo della sensibilità contemporanea, in Italia Contro l’interpretazione e altri saggi è rimasto fuori catalogo per anni. In inglese esiste una versione Penguin Modern Classics, ma quando una decina di anni fa cercai il libro nella biblioteca londinese in cui lavoro, l’unica versione disponibile risaliva agli anni Settanta, ed era così logora e ingiallita che sembrava di avere tra le mani un testo vittoriano. Mai un’idea ha dimostrato la propria validità in maniera tanto concreta e autoevidente: un classico della saggistica anglosassone, in un’università britannica di primo piano in cui si dovrebbe insegnare anche critica letteraria e letterature comparate, non veniva preso in prestito da quasi quindici anni. 

Ciò che Sontag intendeva dire con la sua lapidaria, fulminante conclusione, era qualcosa di profondamente in linea con lo sviluppo dell’industria culturale nei decenni successivi alla pubblicazione del suo saggio. Ricordiamo che Contro l’interpretazione fu pubblicato inizialmente nel 1964: solo due anni prima Andy Warhol aveva esposto per la prima volta a Los Angeles le sue zuppe Campbell’s, dando vita (almeno se diamo retta a Fredric Jameson) all’arte postmoderna; un anno più tardi, nel 1965, Georges Perec scriveva Le cose, la prima istantanea di un nuovo feticismo degli oggetti e di quella estetizzazione della vita quotidiana che sarebbe arrivata dritta dritta fino a Instagram. Il saggio di Sontag usciva in volume nel 1966, un anno prima che Debord desse alle stampe un altro influente manifesto, La società dello spettacolo. Quelle che si stavano cominciando a mappare erano le coordinate di un nuovo panorama culturale, in cui a farla da padrone era l’immagine. Un’immagine ubiqua, completamente superficiale, la cui interpretazione si esauriva tutta nell’esperienza estetica. Niente rimandava più a niente. Non c’era nulla da interpretare, solo un oggetto culturale mercificato, un’icona bidimensionale, un meme che agiva a livello prelogico sulle nostre sinapsi, alterando la nostra libido. “Un’erotica delle arti”, appunto.

Le cose sarebbero continuate pressoché inalterate per lunghi decenni. I nuovi media come le fotocamere digitali e internet non avrebbero fatto che sprofondarci sempre di più nella perfetta realizzazione di questa idea, il simulacro di cui parlava Baudrillard. Internet soprattutto, moltiplicando all’infinito i punti di vista e mettendo in crisi il principio di autorità, elevava il principio espresso da Sontag all’ennesima potenza: non si trattava nemmeno più di una sola erotica delle arti, ma di un numero infinito di erotiche, una per ogni consumatore culturale. Per la critica, letteraria e non, sembrava non esserci via di ritorno.

Per questo sono rimasto stupito quando, quest’anno, Nottetempo ha deciso di ripubblicare Contro l’interpretazione nella nuova traduzione di Paolo Dilonardo, che di Sontag ha tradotto quasi tutta la nonfiction che si trova in italiano. Ancora più sorprendente è che, sotto la direzione editoriale di Alessandro Gazoia, l’editore milanese abbia lanciato un’intera collana, Extrema Ratio, dedicata proprio alla critica letteraria. Finora ha pubblicato quattro testi: due pesi massimi della disciplina (Auerbach e Franco Moretti), un importante nome dei gay studies poco conosciuto in Italia (D.A. Miller) e un giovane critico italiano (Mimmo Cangiano). Già in Italia è difficile fare una casa editrice che produca utili, soprattutto con la saggistica. Un testo di critica può scappare qua e là, come un guilty pleasure, ma una collana intera sembrava un suicidio.

Eppure a guardare da vicino le cose sono un po’ più complesse di così. È da qualche anno che la critica fatta uscire dalla porta sembra essere rientrata dalla finestra. Mascherata, obliqua, ibridata quanto si vuole, eppure riconoscibile nelle sue forme e persino nelle sue ossessioni. Pensiamo al successo anche commerciale di autori come Daniel Mendelsohn o Anne Carson: scrittori che hanno fatto della mescolanza delle forme il loro punto forte, capaci di alternare fiction e non-fiction, autobiografia e analisi, ma che sono soprattutto due grandi esperti di letteratura greca. Oppure a Tom McCarthy, un critico letterario e artista visuale diventato tra i narratori britannici più interessanti degli ultimi anni, promotore di una innovativa forma di theory-fiction. Ma anche a due autori di culto come Simon Reynolds e soprattutto Mark Fisher: era da tempo immemorabile che un critico culturale non faceva breccia nel cuore delle masse di giovani. Questo rinnovato interesse permette a editori più piccoli operazioni coraggiose, come la recente pubblicazione da parte di Wojtek dei saggi critici di Danilo Kiš (L’ultimo bastione del buon senso, traduzione di Anita Vuco, 2022) o l’ambizioso L’impensato di N. Katherine Hayles per Effequ (traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini, 2021).

Dobbiamo dedurne che la spinta antiermeneutica teorizzata da Sontag ormai quasi sessant’anni fa si sia esaurita, e che ci aspetta un futuro in cui la critica si ritaglierà un nuovo spazio?  Vedremo realizzata con mezzo secolo di ritardo l’utopia critica degli Eco e dei Barthes? Non proprio. Ma questo ritorno inaspettato rimane interessante e merita di essere approfondito.

Un buon punto di partenza per farlo potrebbe essere proprio il primo libro pubblicato da Extrema Ratio: Falso movimento di Franco Moretti, anche membro del comitato che cura la collana. Il libro prende il titolo da un film di Wim Wenders, da cui Moretti estrapola questa citazione: «Avevo l’impressione di aver mancato qualcosa, e di continuare a mancare qualcosa, a ogni nuovo movimento».

C’è qualcosa di meta-critico, che i teorici degli anni Sessanta avrebbero senza dubbio apprezzato, nel lanciare una collana di critica letteraria con quella che è, in un certo modo, l’ammissione di una sconfitta. Non solo Moretti è tra i principali critici letterari viventi; è stato anche uno dei pochi a provare a mantenere viva la fiammella della critica negli anni più bui, quelli del boom informatico dagli anni Ottanta in poi, e per farlo è per così dire venuto a patti con il nemico: ha provato un approccio alla letteratura simile a quello dei big data (la “letteratura vista da lontano”, come recita il titolo di un suo celebre libro del 2005), che spostasse il centro dell’attenzione dallo sguardo personale del critico alla vista a volo d’uccello resa possibile dalla tecnologia. Un approccio che in altri campi, come quello delle digital humanities, ha prodotto risultati sorprendenti, anche grazie al perfezionamento delle intelligenze artificiali, ma che nel campo della critica non ha portato i risultati sperati. Puoi addestrare una rete neurale avversa a mappare la letteratura dell’Inghilterra industriale, come sta facendo la British Library nel suo interessante progetto Living with Machines, ma forse non arriveremo mai al punto in cui l’IA riesce a estrarre reale significato dai testi. Traccia costellazioni, ma non le interpreta. Che queste costellazioni fossero sufficienti al lavoro del critico era la sfida dell’approccio quantitativo alle letterature comparate. Scrive Moretti nella sua introduzione: «Falso movimento: si è partiti e poi, come in ogni road movie che si rispetti, la meta ha via via perso importanza rispetto a ciò che si intravedeva ai lati della strada». È un’ammissione coraggiosa se hai dedicato il grosso della tua carriera a un’idea.

Tutto ciò mi fa venire in mente un libro, Satin Island di Tom McCarthy. Il protagonista del romanzo (se si può chiamare romanzo un oggetto letterario come Satin Island) si chiama U. ed è impegnato a compilare per la misteriosa azienda per cui lavora il Grande Rapporto, un borgesiano dossier che descriva tutto il mondo. Lo scopo, presumibilmente, è sfruttare l’informazione a fini commerciali. Inutile dire che anche il progetto di U. è destinato al fallimento. Non c’è qualcosa che accomuna il Grande Rapporto e l’idea di Moretti di un’entità onnicomprensiva e impersonale capace di abbracciare tutta la letteratura (cioè, direbbe ogni critico che si rispetti, tutta la vita) in un unico sguardo? E non sono entrambi a modo loro tentativi di fare ciò che i critici degli anni Sessanta si erano proposti di fare, cioè di trasformare tutto il mondo in un testo e di interpretarlo, pezzo per pezzo?

Satin Island e Falso movimento sono accomunati anche da qualcos’altro: il fatto che, laddove il progetto umano di attribuzione di senso fallisce, o quantomeno riconosce i suoi limiti, lo stesso non si può dire dell’aspetto tecnologico. Dopo la pubblicazione del romanzo, McCarthy ha scritto per il Guardian uno stupendo pezzo intitolato significativamente The Death of Writing. «Tutt’altro che impossibile da scrivere», dice McCarthy verso la fine, «il Grande Rapporto che tutto contiene viene scritto in ogni momento intorno a noi – non da antro-romanzieri ma da un codice binario neutrale e indifferente il cui solo scopo è perpetuare sé stesso». Lo stesso potremmo dire dei big data letterari dati in pasto a computer e intelligenze artificiali: il senso è lì, da qualche parte, nascosto nei miliardi di bit; l’informazione chiave che ci permetterebbe di comprendere tutto è già stata scritta, ma in una lingua che non possiamo comprendere, fatta dalle macchine per le macchine. Il senso si perde in un linguaggio diverso da quello umano, dove è il concetto stesso di “senso” a non avere significato.

Cosa ci dice questo del percorso della critica, del suo apice, della sua caduta e della sua timida rinascita? Almeno due cose importanti.

La prima è che avevano ragione gli Eco e i Barthes negli anni Sessanta: il mondo è davvero tutto un testo che aspetta solo di essere interpretato. Sfortunatamente per noi, però, è un testo così infinitamente complesso, così multiforme e caleidoscopico, un tale insieme di meta-testi che si perdono l’uno dentro l’altro come in un gioco di scatole cinesi o in un’immagine del Bhagavad Gita, che nessun essere umano può leggerlo se non in maniera pateticamente parziale e imperfetta. Per comprenderne gli aspetti nascosti abbiamo bisogno della tecnologia, che però oblitera l’idea stessa che un senso – e dunque un’ermeneutica propriamente detta – sia ancora possibile. Il significato dunque è come uno dei documenti che il povero K. cerca inutilmente di ottenere nel Castello di Kafka: si trova sempre nella stanza accanto, fuori dalla nostra portata. Sempre presente e sempre irraggiungibile.

La seconda è che, proprio per questo, davvero ciò che ci rimane è “un’erotica delle arti”. Non perché come pensava Sontag nessun tentativo ermeneutico è più possibile, e dobbiamo limitarci all’esperienza della fruizione dell’opera d’arte, bloccati su una superficie che non contiene nessuna profondità. Semmai per la ragione opposta: perché tutto è così infinitamente profondo e complesso che non potremo mai comprendere più di quanto il nostro (limitato, ma insostituibile) sguardo umano ci permette di comprendere. Per questo trovare il senso laddove è programmaticamente irraggiungibile non è un’operazione di decodifica, ma di scrittura vera e propria. Inevitabilmente significa colorare ciò che è di per sé incolore del nostro desiderio.

Ecco allora che succede ciò a cui stiamo assistendo oggi, e cioè il ritorno della critica, ma di una critica nuova. Il critico non è più gregario rispetto all’autore: il critico è l’autore, come dimostrano i casi di Mendelssohn, Carson, McCarthy. Laddove tradizionalmente la disciplina sembrava poter esistere solo sulla base di una supposta oggettività (era in fondo la domanda sollevata da internet: perché dovrei fidarmi della tua opinione, se chiunque può leggere un libro e scrivere ciò che ne pensa?), oggi sta diventando chiaro che ciò che il critico può aggiungere è esattamente l’opposto, il proprio sguardo personale. Pensiamo a Mark Fisher: ameremmo con la stessa intensità le sue analisi della musica dei Joy Division o dei film di Christopher Nolan se non fossero illuminate dalle vicende della sua storia personale? Il libro di Simon Reynolds sulla scena rave sarebbe altrettanto pregnante se l’autore non ci raccontasse le notti passate sotto l’effetto dell’MDMA a ballare nei prati oltre la M25 di Londra? Si tratta di estrapolare un piccolo pezzo del mega-testo che del mondo e sprofondarci dentro come nella proverbiale tana del Bianconiglio: lungi dall’essere impossibile, l’opera ermeneutica è infinta, come pensava Gadamer, perché infinito è il mondo; ma è anche per forza di cose un’opera antitetica all’idea di oggettività. L’ermeneutica non è alternativa a un’erotica delle arti: è essa stessa un’erotica delle arti.

In fondo quando penso al ragazzino ingenuo che ero mi accorgo che il sorrisetto dell’accademia era immeritato: forse non era possibile essere un velociraptor (anche se, con la realtà virtuale, non si può mai dire), ma l’ambizione di diventare un critico non era poi così peregrina. L’ironia che sollevavano i miei sgangherati piani di vita era il riflesso di una disillusione destinata a finire, e già nel 2008 quella che allora veniva chiamata la “blogosfera” ci aveva mostrato un futuro possibile: quello della critica fuori dai rigidi dettami accademici, della critica come invenzione, simulazione, autofiction, del lavoro del critico come memorialista e narratore, insomma di una critica come forma d’arte. 

Siamo appena agli inizi di questo percorso, ma se dovessi scommettere i miei due cents, direi che si tratta di un sentimento destinato a durare. Perché se il mondo là fuori è davvero un testo, dobbiamo riconoscere che è un testo intricato e oscuro, e tutti abbiamo bisogno che venga fatta un po’ di luce. Non quella abbacinante promessa dalla tecnologia, che abbiamo scoperto renderci sempre più ciechi: piuttosto lampi nel buio, che se non ci guidano verso nessun significato ultimo almeno aprono per un attimo le porte degli infiniti mondi possibili.

ARTICOLO n. 74 / 2022

MEDITAZIONE, TRA FILOSOFIA E CULTURA OCCIDENTALE

Quando si parla di meditazione il nostro sguardo volge inevitabilmente a Oriente. Non è un errore, perché questa tecnica trova le sue più antiche testimonianze in India, è più viva nelle società asiatiche e le sue più intricate ed esaustive tassonomie sono spesso opera dei vari buddismi. Il primato orientale è indiscutibile. Ciononostante anche la storia della filosofia e della religione occidentale ha un’antica tradizione contemplativa, adombrata non per modestia – dote rara qui come altrove – ma per una progressiva messa a silenzio di questo percorso, apparentemente lontano dalla scienza, poco ortodosso per i culti organizzati, e, almeno nelle sue declinazioni più genuine, poco integrabile in una società neoliberale. Se in Oriente il valore di chi intraprende la via mistica è riconosciuto e, per via dei troppi sedicenti illuminati, talvolta pedantemente istituzionalizzato, l’Europa sembra apprezzare i suoi ribelli ontologici solo quando la loro rivoluzione si è cristallizzata in un canone. Chi decide di morire al mondo deve aspettarsi ostilità o condanne di eresia – bene che vada derisione e motteggio, a meno che non abbia abbastanza talento e carisma da fondare una chiesa o ritagliarsi un ruolo in una già esistente. Eppure anche la nostra cultura è ben nutrita da quel che un manipolo di esploratori ed esploratrici dell’ineffabile hanno estratto dal cieco infinito che ci circonda.

Come ha ben evidenziato Pierre Hadot nel suo Esercizi spirituali e filosofia antica, la visione greca della filosofia era più vicina a quella dell’Oriente che alla nostra, in quanto non si trattava di un’esplorazione intellettuale fine a se stessa ma di una pratica di vita – anzi, una profonda cura esistenziale. Scrive Hadot:

Tutte le scuole concordano nellammettere che luomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che luomo possa essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi, raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa educazione di sé, a questa παιδεία, che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma conforme alla natura delluomo, che non è altro che la ragione.

Come ha avuto modo di raccontare Daniele Capuano in una recente conferenza sull’esicasmo (ci torneremo), la visione greca di peccato, accolta poi da quasi tutti i popoli slavi, è più legata al concetto di malattia che a quello giuridico latino di colpa. Il peccato non è dunque un male morale, ma un errore, un ostacolo al proprio percorso di guarigione e perfezionamento. Sin dall’antichità più profonda è lecito supporre che la filosofia fosse un percorso che veniva affiancato da pratiche contemplative che presentano non poche somiglianze con quelle orientali – nei secoli però qualcosa si è rotto e la meditazione occidentale è diventata una pratica esoterica, rivolta a pochi, insegnata di persona o, nei rari testi, con complesse cifrature. Con una certa semplificazione si potrebbe dire che laddove in Oriente l’atteggiamento ecumenico è legato principalmente ai metodi meditativi, qua si è legato più alle condotte etiche che li favoriscono. Per riprendere la controversa tesi del filosofo Karl Jaspers, anche in Occidente il periodo assiale non è passato senza i suoi contemplativi – se si prende per buona l’idea di una straordinaria intensità intellettuale e spirituale del periodo compreso tra l’800 a.C. e il 200 a.C., che il filosofo propone in Origine e senso della storia. Come racconta Jaspers, in Oriente «vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia». In Occidente, oltre ai profeti zoroastriani ed ebraici del Medioriente, lo sviluppo culturale avvenne in Grecia, che vide Omero, Pitagora, Parmenide, Eraclito e Platone, autori che in genere non vengono associati alla meditazione. Come suggerisce Javier Alvarado Planas nel suo History of non-dual meditation methods però, ci sono tracce di tecniche meditative già tra i presocratici. Sui pitagorici ad esempio, sappiamo grazie ad alcuni testi di Numenio e Plotino che venivano praticati alcuni esercizi di concentrazione e meditazione che consistevano nella ripetizione di monosillabi a cui veniva attribuita una qualche natura magica o taumaturgica – in particolare le parole greche on (essenza o esistenza) e hen (unità). Grazie all’eredità orfica inoltre, si sa che i Pitagorici praticavano la meditazione coordinata con la respirazione (una tecnica che in Occidente ci porta all’esicasmo e in Oriente… be’, praticamente ovunque). Anche Platone, nel Fedone, allude a una tecnica per purificare i pensieri che dice essere ripresa da un’antica tradizione: «così che la trasmigrazione, che ora a me viene imposta, avviene con buona speranza anche per chiunque altro creda di essersi predisposto al pensiero attraverso la purificazione. […] E non accade dunque questo, che vi sia purificazione, come da tempo teorizzano, quando si tenga l’anima il più possibile separata dal corpo e la si abitui a raccogliersi e a rinchiudersi in se stessa al di fuori della corporeità, e a farla dimorare per quanto è possibile nel presente e nel futuro, [67d] sola con se stessa, libera ormai dal corpo, come dalle catene?». E ancora, «Coloro che hanno istituito le iniziazioni mistiche non corrono certo il pericolo di essere reputati degli sciocchi, ma da parecchio tempo in realtà hanno fatto comprendere con enigmi che, chi giunge nell’Ade senza essere iniziato ai misteri né compiuto la sua purificazione, giacerà nel fango, mentre colui che vi giungerà purificato e iniziato, vivrà insieme agli dèi (69c)». Sembra evidente l’esistenza sottotesto di tecniche che, a chi conosce qualche rudimento di meditazione vipassana, la ricordano molto: osservazione distaccata degli stati corporali, osservazione dell’osservatore, preparazione alla morte. Scrive il filosofo, sempre nel Fedone, che «se essa  [l’anima] si distacca pura dal corpo e nulla del corpo si trae dietro, perché in vita, per quanto stava in lei, non volle averci nulla di comune, ma rifuggendolo se ne stava sempre concentrata in se stessa, poiché di questo sempre si curò, e questo altro non è se non filosofare veramente e [81a] rettamente prepararsi a morire con serenità: quindi, non è forse questa una vera preparazione della morte?».

Per avere tracce più evidenti di meditazione occidentale bisogna arrivare a Pirrone (365 a.C. – 275 a.C. circa), il filosofo scettico che seguì Alessandro Magno nelle sue conquiste ed ebbe modo di conoscere i “gymnosofisti” indiani. Già il termine pare alludere in modo inequivocabile a un arcaico corpus di tecniche yogiche e in effetti sappiamo che il padre dello scetticismo conobbe alcune pratiche ascetiche indiane e le importò in patria – così come siamo al corrente delle notevoli somiglianze della sua filosofia con il buddismo delle origini. Se si studia quel che sappiamo di questo prezioso filosofo si può persino arrivare a definirlo “il Buddha greco”, come ha fatto Christopher Beckwitt nell’omonimo libro. Scrive Beckwitt:

Per Pirrone gli uomini vogliono conoscere la Verità ultima, assoluta, ma si tratta di una categoria metafisica o ontologica che sono proprio gli uomini ad aver creato e proiettato sul mondo. Le persone sostengono che il nostro compito è quello di apprendere la verità assoluta e perfetta, e di comprenderla come se esistesse davvero. Tuttavia tali categorie non possono esistere senza gli esseri umani, come viene sottolineato nell’insegnamento del Buddha sull’anātman i Dharma non hanno identità intrinseca, e la medesima cosa si trova in Pirrone, nell’adiafora.

Se si scavalla il periodo assiale e si arriva fino allo stoicismo troveremo dei resoconti più approfonditi delle pratiche meditative, soprattutto nei testi di Epitteto e Marco Aurelio (primo e secondo secolo d.C). Per gli stoici la filosofia doveva portare a una conoscenza teorica e pratica atta a raggiungere uno stato di pace che viene descritto come “tranquillità spirituale” (atarassia), “libertà interiore” (autarkeia), “libertà dalle passioni” (apatheia). Per farlo lo stoicismo eredita e adatta dal passato vari esercizi ascetici, un termine che non dobbiamo associare all’idea di astinenza o rinuncia, ma più a quella di esercizio, data la sua etimologia (askēsis) legata all’addestramento militare. Sebbene si abbiano ottime e dettagliate testimonianze della filosofia stoica, non è facile ricostruire quali fossero i suoi esercizi spirituali e solo grazie a Filone di Alessandria ne conosciamo alcuni. La pratica inizia con lo studio di un argomento (zetesis), la sua analisi approfondita (skepsis), la lettura e l’ascolto (akroasis). Tutto questo ha come fine la coltivazione di un’attenzione persistente (prosoche) che sviluppi l’autocontrollo (enkrateia) e l’indifferenza ai continui stimoli del mondo. È facile notare che la meditazione di carattere riflessivo fosse una delle pratiche più in voga nello stoicismo; gli stoici erano bravissimi nell’analizzare un argomento nel dettaglio, come si evince dai titoli dei trattati di Plutarco o Seneca: Sul controllo dell’iraSulla tranquillità dell’animoSull’amore fraternoSull’amore parentaleSulla loquacitàSulla curiositàSull’amore per la ricchezza, Sull’accondiscendenzaSull’invidia e sull’odioSull’iraSulla brevità della vita

Un passaggio di Marco Aurelio offre un ulteriore spunto; per il filosofo-imperatore, lo stoico deve «fornire sempre la definizione o descrizione dell’oggetto che cade sotto i nostri occhi, sì da poterlo vedere qual è nella sostanza, in sé e per sé, tutto intero e separatamente in tutte le sue parti; e dire a sé stessi il suo nome particolare e i nomi di quegli elementi di cui è costituito e in cui si dissolverà», (Colloqui con sé stesso, Marco Aurelio, III, 11).

Questo metodo di analisi, osservazione e dissoluzione ricorda, al netto di ovvie differenze, la pratica del buddismo Madhyamaka attraverso cui gli oggetti del mondo vengono analizzati e riscoperti nella loro intrinseca insostanzialità.

Andando avanti nel tempo, incontriamo assieme al primo cristianesimo il filosofo Plotino e la scuola neoplatonica (Licopoli, 203/205 – Campania, 270), che nelle sue Enneadi ci ha fornito dettagliati resoconti filosofici di pratiche contemplative ed esperienze mistiche. Per il filosofo quello dell’uomo «Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all’altra; né devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose, e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare la tua vista con un’altra, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano.» (En. I, 6, 8).  Che fare dunque? «Bisogna quindi, se deve esserci apprensione di quanto è in questo modo presente nell’anima, che anche la nostra facoltà di apprensione sia rivolta verso l’interno, e là deve essere volta la sua attenzione. Come quando qualcuno, attendendo di udire una voce desiderata, allontanatosi dagli altri suoni, risveglia l’udito a quel suono che è il migliore ad udirsi, quando giunga: così anche quaggiù bisogna lasciar andare i suoni percepibili coi sensi, tranne che per il necessario, e custodire la facoltà di apprendere dell’anima pura, pronta ad ascoltare le voci di lassù» (En. V, 1, 12).

Il cristianesimo com’è immaginabile meriterebbe un approfondimento a parte, data la grande varietà di metodi contemplativi che si sono accavallati durante la sua lunga storia, ma a titolo di esempio citerei l’esicasmo, le cui caratteristiche sono più facilmente riconducibili alle pratiche contemplative occidentali di cui ho parlato finora. Si tratta di una prassi improntata alla ricerca della perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la preghiera incessante. La forma più celebre della preghiera esicasta è la “preghiera di Gesù”, che consiste nell’invocazione continua: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore». Si recita facendo scorrere una corda con nodi e ripetendo a ogni nodo l’invocazione, ma i dettagli di questa complessa tecnica vengono impartiti solo di persona da un adeguato maestro. In Occidente una testimonianza di questa pratica è nei Racconti di un pellegrino russo, trascrizione di un testo anonimo del monte Athos, curata dall’abate Paissy (1860). Come raccontava il sopracitato Daniele Capuano nella sua conferenza, nell’esicasmo si ritrova la tripartizione dell’anima umana di origine platonica in epithymetikon, parte desiderante (ventre e genitali, fame, attaccamento alle cose), thymikon (cuore-petto, difesa delle proprietà, zelo) e logikon (testa, pensiero). Le malattie di queste tre parti fondamentali dell’umano sono gastrimargia, philargyria e kenodoxia(gola, avidità e vanagloria), le cui cure consistono rispettivamente nell’enkrateia, agape e gnosis (dominio di sé, amore e conoscenza spirituale). La via spirituale è anch’essa triplice, ma non per questo divisa in tappe, dato che questi i momenti – o meglio movimenti – si alternano e accavallano a ogni passo. Si tratta della katharsis(o via purgativa), che consiste nel discernimento e distacco dalle passioni, nella theoria (o via illuminativa), ovvero la contemplazione discriminante del mondo, e infine nella theosis, la via unitiva di deificazione e riassorbimento nell’Uno. Un affascinante parallelo con l’Oriente è il modo in cui l’esicasmo, pur nella cornice cristiana, considera i pensieri, ovvero per lo più come suggestioni demoniache o ispirazioni angeliche. Anche in questa dottrina noi non pensiamo, ma siamo pensati, e ascoltare quel che attraversa la mente con distacco ed equanimità può aiutarci a valutarne la portata e l’importanza, oltre che riavvicinarsi allo sfondo del pensiero, il non pensabile Uno.

La rapida scivolata tra i millenni che ho qui proposto evidenzia come la meditazione sia una ricchezza trasversale alla geografia e alla storia umana, e che, pur con sensibili differenze in base al contesto culturale di riferimento, le tecniche per accedere a stati altri di coscienza siano un patrimonio comune dell’umanità, che sarebbe superficiale trattare sia come segreti esotici che come ciarpame di altri mondi.

ARTICOLO n. 73 / 2022

RIFLESSIONI SULLA TRADUZIONE

Traduzione di Viviana Sebastio

Quando alla fine ho deciso di tradurre questa poesia (avevo il libro già da tempo, ma non c’era stato modo di leggerlo) per me altro non era che un processo destinato a isolare parte della mia mente. Non avrei pensato al resto, questo lavoro sarebbe stato un rito personale, quotidiano, che avrebbe lasciato fuori tutto il resto. Un po’ come prendere da qualche parte pezzi di qualcosa e portarli altrove, in uno spazio tutto mio, in un luogo dove il pensiero si dipana e si unisce a quei pezzi. Un po’ come uno straniero che mi parla e io cerco di intenderne le intenzioni, di dare con la mia mente un senso al suo comportamento. Quelle parole avevano una propria modalità, ignota al principio, come quando arrivi qui dentro per la prima volta e li vedi tutti insieme, parlano, ma non presti attenzione perché non hai ancora capito dove ti trovi. Tutto nuovo, un po’ alla volta impari le connessioni esistenti tra loro, come in questa lingua che mi era del tutto sconosciuta e poco alla volta però ne ho compreso il senso. O piuttosto, ho realizzato una primitiva mappa di significati seguendo un itinerario quotidiano dentro quelle parole, partendo di volta in volta verso tragitti diversi, mettendo accanto segnali di parole mie, tracciando confini, cercando di fissare luoghi all’ago della bussola che mi era stata data.

Mettere ordine. Ordine, tutto ha a che fare con l’ordine, intorno a me lasciavo in ordine, e cercavo l’ordine della poesia, trasferendo ciò che potevo sulla mia mappa. La mappa sconosciuta a sinistra, la mia a destra e nel mezzo il ponte che mi conduceva dall’una all’altra. Il vocabolario, che lasciavo la sera e ritrovavo al mattino, che non mi permettevano di portare via, doveva restare lì, non poteva essere spostato da quella stanza, come restava lì il significato che ti dava per ciascuna parola, sempre lo stesso, certe volte guardavo di nuovo per sicurezza, ma ci ritrovavo sempre quello che ci avevo trovato la volta prima. Parole il cui comportamento si è impresso qui su un corpo. Accanto a ciascuna una spiegazione, una relazione riassuntiva, come per ognuno di noi, un’identificazione, una piccola storia di ognuno. Prendevo allora le parole una per una, ogni volta persone sconosciute, accanto puoi leggere cosa ha commesso ciascuna di loro. Che cosa ha fatto prima di entrare qui. Parole-persone sconosciute che tu colleghi ad altre che conoscevi, che sapevi cosa facevano, che dentro di te avevano preso il significato prodotto dalle loro azioni. Vai dall’una all’altra, di parola in parola, guardi il testo accanto a te e passo passo distingui, chi è accanto a chi, e il significato di tutto questo. Ho iniziato così mettendo le parole in ordine, imparavo cosa facevano, alla fine ho creato una mia scena dove farle recitare tutte insieme in un’opera solo per me. Chi ha scritto questa poesia di certo aveva in mente un teatro simile, un palcoscenico per le parole, una lista tutta sua e io saltavo da una pagina all’altra del vocabolario e trovavo quelle parole. Così ho iniziato a prendere parole mie e a metterle in una mia lista, la sua e la mia dovevano riportarci alla mente, a me e a chi ha scritto, all’incirca lo stesso. È un’ipotesi, come pure ipotizzo che qui tutte le stanze dentro siano più o meno uguali senza che ne abbia mai vista una a parte questa. E se sono tutte uguali, quando uno esce dalla propria stanza può immaginare da dove sia uscito l’altro, perché, è una mia ipotesi, per noi qui hanno creato spazi uguali e anche gli oggetti qui dentro sono uguali, per poterci comprendere l’uno con l’altro. Vogliono che tutto ciò abbia un senso. Vogliono che il pensiero dell’uno si sovrapponga al pensiero dell’altro, e così io volevo che il pensiero della poesia si sovrapponesse al pensiero del mio testo. E da entrambi far arrivare alla stessa conclusione. E così allora ho deciso, ho preso dal vocabolario le parole della mia lingua, sempre che esista una lingua mia – ma questo è un altro discorso. Volevo che ciò che è vero lì fosse vero pure qui – anche se a volte mi chiedo quanto questo vero possa resistere se da un significato togli parole e ne metti altre al loro posto. Non lo so, non posso dirlo. Io comunque, all’inizio, come dicevo, sentivo di avere davanti a me qualcosa del tutto estraneo, mi sembrava poesia, questo l’ho capito sin dal principio, poi ho chiesto il vocabolario e per fortuna me l’hanno dato, e allora visto che ero qui in solitudine, ho detto mi cerco un pensiero che copra i miei, dal momento che non uscirò da qui – e la poesia mi aiutava a cacciar via anche questo pensiero. È chiaro che all’inizio, come dicevo, tutto ciò mi era estraneo, un materiale grezzo senza forma e regole che mostrava scaglie di immagini, come quando si è rotto il televisore, immagini nascoste dietro spuma e rumore, piene di buchi, e io cercavo di riempire i buchi col vocabolario, per quanto possibile, fino a un certo punto però, e quasi sempre le immagini che mi arrivavano cadevano sulla mappa improvvisata di cui parlavo prima, e si distorcevano mutando quello che già sin dall’inizio era una superficie irregolare. Mi avrebbe aiutato sapere qualcosa di più su questo libro e su chi l’ha scritto. Ma niente, soprattutto all’inizio la poesia svaniva nella mia mente non appena credevo di essere in grado di aprire quell’involucro e di tirarne fuori qualcosa. Alla fine procedevo parola per parola e pian piano andava meglio, partivo da un punto che sentivo più sicuro e creavo piccole catene, che se avessero tenuto sarebbero state catene di significati. Ma l’anello non era solido, era come se il significato si spezzasse sotto il peso della mia stessa mente, come un pavimento sul quale non puoi camminare ma solo strisciare. E io mi trascinavo, a un ritmo preciso, se si può dire, così lo chiama quando parla del ritmo dei suoi passi. Alla fine ho sentito il mio essere strisciare sulle parole dell’altro, ciò che udivo erano parole mie, naturalmente, quelle che avevo trovato proprio nel mio vocabolario – se si può dire mio il vocabolario che mi hanno prestato. Ciò ha dato un ritmo, quale che sia questo ritmo, e sempre che sia poesia ciò che ho scritto sopra quella poesia. Quando ho finito, l’ho letta e all’inizio mi è piaciuta davvero, e mi è piaciuto soprattutto aver preso dal vocabolario quelle parole che fanno riflettere di più, la stessa parola alcune volte aveva più significati slegati tra loro, o era come se li tirassi e questi si allungassero. Ho preso quelle parole e le ho unite, e siccome avevo unito parole avevo creato frasi, e siccome avevo creato frasi avevo organizzato un significato – e, nella mente di chi legge, forse anche una sequenza che può somigliare a quella della poesia. Questo però non lo so. Non so come funzionerà tutto questo, e se provocherà qualche emozione. A volte ho dei dubbi perché, come dicevo prima, ho scelto, se posso dirlo, parole che da una base comune uscivano dalla bocca come lingue, come teste con facce sovrapposte, ognuna con una propria espressione, mi sembrava che ogni parola avesse dietro di sé una mente propria. Molte volte ho scelto parole a me sconosciute, alla fine volevo che la poesia dicesse quanto più possibile. Molte volte ho scelto parole che nessuno pronuncia, o che io non ho mai sentito, parole che forse oramai sono rimaste solo nel vocabolario. Sono chiuse lì dentro, come me, non escono dalla bocca, come me che non esco da qui. Così ho pensato di prenderle e di metterle di nuovo in frasi. In frasi mie. Ho fatto per loro un po’ di spazio. Per loro ho fatto più spazio possibile, in base al testo che avevo davanti, e le frasi mi hanno aiutato a loro volta, perché quanto più vetuste sono le parole tanto più lo sono i significati, quanto più vetusto è lo strumento tanto più lo sono i lavori ha fatto. Fino a che si logora, tanto lo strumento quanto tutto ciò che è stato realizzato con esso, e arriva il tempo di gettarlo da una parte. È come se queste parole fossero state gettate via, buttate nel vocabolario, erano inutili, se volevi però potevano esserti d’aiuto, per me lo sono state. E siccome sono rimaste inutilizzate per tanto tempo, le ho messe anche sotto la poesia, e dentro la poesia forse potranno dire ancora ciò che dicevano un tempo – invece cioè di comportarsi a mo’ di piccole urla, come da qualche parte dice anche chi l’ha scritta. E su questo sono d’accordo con lui, per me d’altronde sin dall’inizio la poesia era proprio questo, la registrazione di una sequenza di grida, da una bocca invisibile. Comunque sia, qualcosa ora l’ho ottenuta, e per me questa sequenza ha ormai un senso, c’era un vocabolario fortunatamente, c’era un ponte, c’era un’uscita, per quanto incerta, in un luogo dove si può sostare per un po’. Pertanto riporto qui di seguito uno stralcio dell’elenco di parole che mi hanno condotto lì, che stiano ancora una volta da sole se ci riescono, che siano – come forse direbbe anche l’autore – «un’insurrezione di membra mutilate che insieme vengono a ricomporre una nuova coscienza».

Il testo è una recente integrazione dell’autore, Dimitris Lyacos, all’edizione italiana di Poena Damni (Il Saggiatore).
Lo scritto si colloca in chiusura di La Prima Morte – terza parte della trilogia – e precede il corpus del glossario in appendice, riportante alcune delle polisemie racchiuse nei versi dell’opera stessa.
L’io narrante/traduttore potrebbe essere identificato con il protagonista principale che, in Z213: EXIT, durante il suo viaggio in treno trova e fa suo un libretto spiegazzato: La prima morte.

ARTICOLO n. 72 / 2022

LA FABBRICA MI HA FOTTUTO

Alla linea. Fogli di fabbrica

Ringraziamo Bompiani per la disponibilità a pubblicare in anteprima un estratto da Alla linea di Joseph Ponthus in libreria da mercoledì 21 ottobre.

Entrando in fabbrica 

Naturalmente immaginavo 

L’odore
Il freddo 

Il trasporto di carichi pesanti 

Il disagio
Le condizioni di lavoro
La catena 

La schiavitù moderna

Non ci andavo per fare un reportage
Men che meno per preparare la rivoluzione
No
La fabbrica è per i soldi
Un lavoro per campare
Come si dice
Perché mia moglie è stufa di vedermi buttato sul divano in 

attesa di un lavoro nel mio settore
E quindi sarà
L’agroalimentare
L’agro
Come dicono 

Una ditta bretone di produzione e trasformazione e cottura e 

tutto il resto di pesci e gamberetti
Non ci vado per scrivere
Ma per i soldi

All’agenzia interinale mi chiedono quando posso cominciare 

Tiro fuori Hugo la mia solita battuta letteraria e scontata

“Be’ domani all’alba nell’ora in cui biancheggia la campagna”

Mi prendono alla lettera attacco il giorno dopo alle sei del 

mattino

Con il passare delle ore e dei giorni il bisogno di scrivere si 

ficca tenace come una lisca in gola
Non la desolazione della fabbrica
Ma la sua paradossale bellezza 

Sulla mia linea di produzione penso spesso a una parabola che 

ha scritto credo Claudel
Sulla strada da Parigi a Chartres un pellegrino s’imbatte in un operaio impegnato a spaccare pietre 

Cosa fai
Il mio lavoro
Spaccare pietre
Uno schifo
La schiena finita
Una roba da cani
Non dovrebbero permetterlo
Meglio crepare
Qualche chilometro più avanti un secondo operaio nello stesso cantiere
Stessa domanda
Sgobbo
Ho una famiglia da sfamare 

È un po’ dura
Va così e va già bene avere un lavoro 

È la cosa più importante
Più avanti
Prima di Chartres
Un terzo uomo
Viso raggiante
Cosa fai
Costruisco una cattedrale 

Possano pesci e gamberetti essere le mie pietre

Non sento più l’odore della fabbrica che all’inizio mi irritava le 

narici
Il freddo è sopportabile con un maglione pesante una felpa
col cappuccio due buone paia di calze e la calzamaglia sotto i pantaloni 

I carichi pesanti mi fanno scoprire muscoli di cui ignoravo l’esistenza
La schiavitù è volontaria
Quasi felice

La fabbrica mi ha fottuto
Ne parlo solo dicendo
La mia fabbrica
Come se io piccolo interinale che sono tra tanti altri avessi una qualche proprietà delle macchine o della produzione di pesce o 

di gamberetti 

Tra poco
Lavoreremo anche molluschi e crostacei
Granchi astici grancevole e aragoste
Spero di vedere questa rivoluzione
Fregare qualche chela anche se lo so che non sarà possibile 

Già che non riusciamo a far uscire nemmeno un gamberetto 

Devi proprio nasconderti per mangiarne uno
Quando non ero ancora abbastanza discreto la vecchia collega Brigitte mi aveva detto 

“Io non ho visto niente ma attento ai capi se ti beccano”
Da allora traffico sotto il grembiule con il triplo paio di guanti 

che mi separano dall’umidità dal freddo e da tutto il resto per sgusciare e mangiare quello che considero come minimo un risarcimento in natura 

Parto in quarta
Torniamo alla scrittura
“Scrivo come parlo quando l’Angelo di fuoco della 

conversazione s’impossessa di me come un profeta” ha scritto qualcosa del genere non so più dove Barbey d’Aurevilly 

Scrivo come penso sulla mia linea di produzione vagando tra i pensieri da solo determinato 

Scrivo come lavoro
Alla catena
Alla linea e sulla linea a capo 

Attaccare con il turno
Non può essere altro che questo immenso corridoio bianco 

Freddo
All’inizio del quale ci sono i marcatempo intorno ai quali ci accalchiamo di notte all’ora di timbrare
Le quattro
Le sei
Le sette e mezza del mattino
A seconda del lavoro assegnato
Lo scarico cioè le casse di pesce da svuotare 

La lavorazione del pescato o spellatura cioè il sezionamento dei pesci
La cottura cioè tutto quello che riguarda i gamberetti 

Non ho ancora avuto la sfortuna del turno di pomeriggio o di 

sera
Cominciare alle sedici finire a mezzanotte
Qui 

Sono tutti d’accordo
E sono d’accordo anch’io per adesso
Che più cominci presto
Meglio è – senza contare le ore notturne pagate il venti per 

cento in più
Così “hai il pomeriggio libero”
“Se devi alzarti presto
Tanto vale alzarsi presto”
Col cazzo
Le tue otto ore di lavoro
Sono otto ore di lavoro a qualunque ora del giorno
E poi
Quando torni a casa
Quando stacchi
Torni
Ciondoli
Crolli
Pensi già all’ora da mettere sulla sveglia
Non importa che ora è
Sarà sempre troppo presto
Dopo il sonno di piombo
La sigaretta e il caffè del risveglio divorati
In fabbrica
Attacchi direttamente 

È come se non ci fosse una transizione dal mondo della notte

Ri-rientri in un sogno
O in un incubo
La luce dei neon 

I gesti automatici
I pensieri che vagabondano
In un torpore di risveglio
Tirare trascinare smistare portare sollevare pesare ordinare 

Come quando ti addormenti
Senza nemmeno provare a scoprire perché i gesti e i pensieri si mescolano
Alla linea
È sempre un sorprendersi che faccia giorno all’ora della pausa quando si può uscire per una sigaretta e un caffè 

Conosco solo pochi posti che mi fanno questo effetto 

Assoluto esistenziale radicale
I templi greci
La prigione 

Le isole
E la fabbrica
Quando ne esci
Non sai se ritrovi il mondo vero o se lo lasci
Anche se sappiamo che non esiste un mondo vero
Ma poco importa
Apollo ha scelto Delfi come centro del mondo e non a caso 

Atene ha scelto l’agorà come luogo di nascita di un’idea del 

mondo ed è una necessità
La prigione ha scelto la prigione che Foucault ha scelto
La luce la pioggia e il vento hanno scelto le isole
Marx e i proletari hanno scelto la fabbrica
Mondi chiusi
Dove si va solo per scelta 

Deliberata
E da cui non si esce
Come dire
Non si lascia un santuario indenni
Non si lascia mai davvero la galera
Non si lascia un’isola senza un sospiro
Non si lascia la fabbrica senza guardare il cielo 

Staccare dal lavoro
Che bella espressione
La usiamo in senso figurato
Ma capire
Nel proprio corpo
Visceralmente
Cos’è staccare dal lavoro
E il bisogno di lasciarsi andare di svuotarsi di fare la doccia 

per lavarsi via le squame dei pesci ma lo sforzo che ci vuole per alzarsi andare a fare la doccia quando sei finalmente seduto in giardino dopo otto ore di linea 

Domani
Come interinale
Il lavoro non è mai sicuro
I contratti sono di due giorni una settimana al massimo
Non è Zola ma potrebbe sembrarlo
Vorremmo scriverlo il XIX secolo e l’età dei lavoratori eroici 

Siamo nel XXI secolo
Spero di attaccare
Aspetto di staccare
Aspetto di attaccare
Spero 

Aspettare e sperare 

Mi rendo conto che sono le ultime parole di Montecristo 

Il mio caro Dumas
“Amico mio, il conte non ci ha appena detto che l’umana 

saggezza è tutt’intera in queste due parole: Aspettare e sperare!” 

ARTICOLO n. 71 / 2022

ANDATA & RITORNO

Lo spaccio di droga riguardava soprattutto l’area metropolitana: zone centrali, semicentrali e periferiche, all’interno di parchi cittadini, attorno alle panchine, alle fontanelle d’acqua. L’area di spaccio era la piazza di spaccio.
I consumatori erano i drogati, per lo più giovani. Difficile immaginare un drogato trentenne: in quel periodo storico, un trentenne non era più considerato giovane; e inoltre, dopo una dozzina d’anni di eroina, i drogati o smettevano o morivano poiché, molto spesso, l’unico modo per smettere era morire.
I drogati raggiungevano i luoghi dello spaccio utilizzando tram, autobus, metropolitana; capitava che arrivassero in motorino o in auto, ma quasi tutti, non soltanto per una questione economica, preferivano i mezzi pubblici: dopo la dose, gli effetti duravano fino a sei ore, era difficile e rischioso guidare un motorino o un’auto. I drogati acquistavano eroina dallo spacciatore abituale. Se non avevano il denaro, consegnavano un braccialetto d’oro, una catenina d’oro, oppure un’autoradio, e pagavano la dose con quella mercanzia. 
I drogati spaccavano i finestrini delle auto parcheggiate pur di rubare un’autoradio nascosta sotto il sedile. Un’autoradio di qualsiasi marca. E tuttavia, nonostante le pubblicità dell’epoca, ho sempre associato le autoradio Pioneer ai minuscoli frammenti di finestrino sparsi sui marciapiedi, ho sempre associato le autoradio Pioneer all’eroina, ai drogati, agli spacciatori, ai ricettatori. 
Certo, non era colpa dell’azienda Pioneer, ma forse non era nemmeno colpa dei drogati. Applicando la logica neoliberale, già così seducente alla fine degli anni Settanta, il rapporto tra eroina e Pioneer era soltanto un meccanismo di mercato, di richiesta e offerta.
I drogati si allontanavano di pochi metri dallo spacciatore, desideravano drogarsi subito. Sceglievano una panchina accanto alla fontanella. Stagnola, cucchiaino, limone, accendino, siringa. E tuttavia, alcuni preferivano un angolo meno frequentato, si sedevano appoggiandosi al tronco di un albero, forse per meglio assecondare, in quella natura allestita dall’istituzione comunale, l’effetto dell’eroina. Poi gettavano le siringhe a terra. A volte capitava che i drogati infilzassero le siringhe nel tronco dell’albero, e allora, da ragazzino, pensavo che la droga iniziasse a circolare nel resto dell’albero, salendo ai rami, alle foglie, e scendendo alle radici, e dalle radici al terreno. L’albero si sarebbe intossicato di eroina. La droga era l’elemento fondamentale della terra su cui camminavamo.

Drogarsi. Poi, crescendo, i più confidenziali farsibucarsi, spruzzarsi: il primo implicava una creazione, o almeno, una trasformazione non soltanto fisica; il secondo implicava il corpo, la ricerca della vena, il sangue, il flash rapido; il terzo, poco utilizzato, sembrava un gioco d’infanzia, superficiale e senza conseguenze. Ancora oggi, è scritto su alcuni dizionari: i bambini si spruzzano nell’acqua. Non con il significato di drogarsi, credo. Il significato gergale di spruzzarsi come drogarsi non è contemplato dai dizionari.
I drogati, smaltito a malapena l’effetto della dose, ritornavano a casa con i mezzi pubblici. Salivano sui tram, sugli autobus, sulle metropolitane, avanzavano trascinando i piedi, a volte barcollavano e biascicavano qualcosa, la bocca impastata, i denti e le gengive sofferenti. I drogati si addormentavano sui sedili, appoggiando la tempia al finestrino. 
A volte, quando un drogato moriva, un articolo di giornale cercava di ricostruire chi fosse la vittima. In quel periodo, i giornali pubblicavano nome, cognome, età, indirizzo, professione. Se la famiglia del morto era proprietaria di un bar, i giornali pubblicavano il nome del bar, l’indirizzo del bar, i nomi e i cognomi dei genitori del morto, ovvero, i nomi e i cognomi dei proprietari del bar. Il giornalista ricostruiva le ultime ore di vita grazie alle informazioni ricevute dai poliziotti. L’acquisto incongruo di un limone in trattoria. L’incontro con lo spacciatore. Il buco. L’overdose. Il corpo disteso a terra, raggomitolato su se stesso, sotto un cavalcavia della tangenziale, mentre il traffico scorrevole continuava sopra la testa.
Ma poiché morivano molti drogati, i giornali, da metà anno in avanti, si limitavano a un breve articolo, a un trafiletto di cronaca: ricordavano soprattutto il numero dei tossicomani morti dall’inizio dell’anno. I giornali additavano la responsabilità ai fisici indeboliti dopo anni di eroina, alla droga tagliata con stricnina, alla droga tagliata bene ma utilizzata assieme ad altre sostanze – alcol, anfetamine, benzodiazepine, metadone – assunte prima della dose letale. Non si trattava quindi di overdose ma di una semplice dose, di usura del corpo.
Tra l’altro alcuni morti non entravano nemmeno nel computo: i morti di epatite, debilitati da decenni di droga. 
Ogni epoca ha i propri bollettini.
Ogni epoca interpreta i numeri dei propri morti.

La città, per motivi di logistica e distribuzione, è ancora al centro dello spaccio di droga connesso alle mafie, alle tifoserie ultrà delle squadre di calcio legate alle mafie, oltre che a gruppi neofascisti; ma da alcuni anni, assieme alla moltiplicazione dei tipi di droga è iniziata una diffusione molto più capillare rispetto ai decenni scorsi. In Lombardia, è come se la droga seguisse l’andamento immobiliare e urbanistico, lo sprawl suburbano introdotto proprio negli anni Settanta; è come se la droga seguisse la trasformazione dei luoghi, di ciò che resta della natura relegata, tra tangenziali e capannoni, all’interno di parchi regionali e aree protette di interesse sovracomunale. 
In Lombardia, l’istituzione di queste aree protette – sarebbe più idoneo definirle finte aree protette circondate dalla distruzione – risale alla seconda metà degli anni Settanta. Negli anni Settanta, queste zone erano luoghi che non avevano bisogno di alcuna definizione, erano zone frequentate da famiglie durante i picnic domenicali per le cosiddette gite fuoriporta. Oggi sono diventate zone di spaccio di droga. Spacciare eroina in una zona protetta, circondati da fossati, fontanili, all’ombra di pioppi, robinie, betulle. Spacciare cocaina con il sottofondo del canto degli uccelli, del rumore dei picchi che perforano le cortecce degli alberi. Spacciare hashish spostandosi all’interno dei boschi per evitare comunque i rarissimi controlli della polizia, seguendo i sentieri evidenziati dagli opuscoli e dai siti per le passeggiate salutari. Spacciare tutto, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, come impone la logica contemporanea. Vivere, se necessario, proprio all’interno dei boschi, dentro capanne, occultando la droga altrove. 
Le ordinazioni avvengono tramite WhatsApp. Gli spacciatori si spostano in punti prestabiliti, ai margini dei boschi, consegnano la droga, intascano i soldi, ritornano all’interno dei boschi. 
Se leggiamo le cronache locali o quelli dei quotidiani nazionali, i drogati degli anni Settanta e Ottanta non esistono più: i drogati sono diventati i clienti o i consumatori, anche a seguito della differente modalità di acquisto della droga, una modalità automobilistica plasmata dall’espansione suburbana. Insomma, non più giovani in astinenza che arrivano con i mezzi pubblici, ciondolano attorno alle panchine metropolitane, ma auto anonime nonostante i numeri di targa, auto che costeggiano i bordi, i margini, dove l’asfalto lambisce le aree protette, auto guidate da invisibili, veloci acquirenti, che frenano, abbassano il finestrino, pagano, prendono, ripartono ancora più veloci, vanno al lavoro e quella è la droga per passare la serata. Qualora le zone di spaccio siano prossime al confine svizzero, ecco che i giornali preferiscono scrivere clienti svizzeri o clientela svizzera
Mi rendo conto: scrivere drogati svizzeri o tossicomani ticinesi suonerebbe comico quasi quanto clientela svizzera
Nell’intersezione tra spaccio, capannoni, aziende, aree residenziali costituite per lo più da palazzine e villette, è capitato che, nella stessa strada, si verificassero due situazioni in apparenza contrapposte: sul lato sinistro della strada, i tir entravano in retromarcia nelle piattaforme di logistica aziendale per caricare e scaricare le merci; davanti a un’azienda destinata alla chiusura a seguito delle solite delocalizzazioni internazionali, gli operai ai cancelli si aggrappavano a quanto restava del loro lavoro; sul lato destro della strada, invece, le vedette controllavano il flusso di auto di coloro che accostavano ai margini del bosco, in attesa degli spacciatori. Non è difficile immaginare, tra operai e spacciatori, quale delle due professioni abbia più futuro.

La diffusione capillare della droga, così come la dispersione suburbana abitativa e produttiva, non è meno cruenta delle dinamiche metropolitane degli anni Settanta.
I conflitti tra spacciatori, sebbene si svolgano in zone che la propaganda regionale lombarda vorrebbero idilliache e dedicate a sport, famiglie, bambini, finiscono, a volte, con gli omicidi. Dopo un omicidio, ecco la retata della polizia, qualche arresto, e poi lo spaccio di droga ricomincia. A differenza di un parchetto cittadino, controllare un’area estesa come un parco regionale o un’area protetta di interesse sovracomunale è un’operazione molto più complessa e dispendiosa, che necessita di parecchi poliziotti, carabinieri, finanzieri, cani antidroga. Ma al di là di questo aspetto economico, il vecchio quesito resta quanto mai attuale. Interessa davvero la lotta alla droga, in Italia? No. I partiti di destra lanciano saltuari e ipocriti proclami elettorali volti a militarizzare i boschi lombardi – anche perché, a differenza degli spacciatori neofascisti collegati alle curve ultrà, la maggioranza degli spacciatori boschivi è nordafricana, clandestina, e non vota – la droga, ancor di più che negli anni Settanta, è liberalizzata anche se non legalizzata. 
Questa intenzionale opacità legislativa è la fortuna di organizzazioni criminali, di spacciatori grandi e piccoli. Questa opacità è possibile anche perché è cambiato il tipo di consumatore, tanto che è diventato difficile definirlo drogato o tossicomane, e non certo per un uso consapevole della lingua giornalistica. 
Centellinare le vacanze, gli acquisti, la droga. 
Centellinare per durare di più, per drogarsi più a lungo, sempre.
Le immagini del giugno 2022, di due ragazzi – definiti ragazzini da alcuni media – che sniffano cocaina su un vagone della metropolitana milanese ci ricordano i viaggi transoceanici della droga, la diffusione capillare in ambito urbano e suburbano, il ritorno alla metropoli. I due potrebbero essere seduti sulla panchina di un outlet. Indossano bermuda, magliette, calzano Nike e Diadora. Non sniffano nell’angolo di un parco cittadino milanese o ai margini di un bosco suburbano lombardo; sniffano seduti nel vagone Atm, vagone in leggero movimento, accanto a decine di altre persone.
Drogarsi con la certezza di essere ripresi dallo smartphone di qualcuno, di essere protagonisti indefiniti, immessi nel flusso della rete. Il ciclo è compiuto.

ARTICOLO n. 70 / 2022

COME UNA PSICANALISI DI ME STESSO

Introduzione alla vera storia del cinema

Vorrei raccontare la storia del cinema non solo cronologicamente, ma piuttosto secondo una sorta di piccola archeologia o biologia. Tentare di mostrare come si sono prodotti dei movimenti, allo stesso modo in cui nella pittura si potrebbe raccontare la storia, per esempio, di come è stata creata la prospettiva, in quale data è stata inventata la pittura a olio, e così via. Ora, anche nel cinema, nulla è stato fatto a caso. Tutto è fatto da uomini e donne che vivono in società in un dato momento, che si esprimono, e imprimono questa espressione, o che esprimo in un certo modo la loro impressione. E devono esserci degli strati geologici, degli slittamenti dei terreni culturali; ma, per fare davvero tutto questo, occorrono mezzi visivi di analisi, non necessariamente molto potenti ma adatti allo scopo. Però questi strumenti non esistono, e mi sono accorto che io… Insomma… oggi, ho cinquant’anni, penso di aver finito la mia vita, che mi restano all’incirca trent’anni e che sto per… insomma… per vivermi l’interesse della mia vita, se vogliamo, come un capitale che avesse cinquant’anni; oggi, sto per riscuoterne gli interessi. E allora, ciò che per l’appunto mi interessa è vedere quello che ho fatto, e in particolare, visto che ho fatto qualche film, intendo approfittarne e tentare di ritornarci su.

Mi sono detto: bene, questo dev’essere più facile, uno che non avesse fatto dei film e che volesse rivedere la sua vita, la sua vita familiare, potrebbe forse rivedere delle foto, se ne ha conservata qualcuna, certo non le ha tutte. Ma della sua vita lavorativa, se ha lavorato alla catena, o alla General Motors o presso una compagnia di assicurazioni, non gli resta un bel niente. Forse qualche foto dei figli, ma del lavoro – credo – non avrebbe neanche un’immagine, per non parlare dei suoni.

Allora mi ero immaginato… insomma… pensavo… scopro che è un’illusione, che nel cinema, dato che ho fatto dei film, potrei almeno rivederli – e, in fondo, fare dei film consiste nel registrare delle serie di foto – e che potrei almeno partire da questo passato per rivedere il mio, come una psicanalisi di me stesso, e dal punto in cui io stesso ho cominciato nel cinema. Però mi sono accorto che, in realtà, la storia stessa del cinema che dovrebbe essere la cosa più facile da farsi è assolutamente impossibile a vedersi. Si può vedere un film e in seguito parlarne; è quello che si fa qui; tutto sommato però, questo è un lavoro abbastanza povero; bisogna allora riuscire a fare qualcos’altro. Ma questo forse non lo si può fare subito.

Venendo qui con Serge, mi sono per l’appunto reso conto che avevamo previsto di fare una specie di ricerca; io avevo qualche tema, come per esempio quel che c’è stato di fondamentale nel cinema e che si chiama – ma la gente non sa cos’è – montaggio. Questo del montaggio è un aspetto che va nascosto perché è qualcosa di abbastanza forte, e consiste nel mettere in rapporto le cose, in modo che la gente queste cose le veda… una situazione evidente, voglio dire… Un cornuto, finché non ha visto il tizio che sta con sua moglie, cioè finché non ha due foto, la sua e quella di sua moglie, o la sua e quella dell’altro, non ha visto niente; è sempre necessario vedere due volte… È questo che io chiamo montaggio: semplicemente un accostamento. In questo sta la straordinaria potenza dell’immagine e del suono che l’accompagna, o del suono e dell’immagine che lo accompagna. Ora, tutto questo, la sua geologia e geografia, è quanto è contenuto, a mio parere, nella storia del cinema, e tuttavia resta invisibile. Non bisogna mostrarlo, si dice. E io penso che passerò il resto della mia vita e del mio lavoro nel cinema proprio a tentare di vederlo, e innanzitutto per me stesso; e, sempre per me stesso, tenterò di vedere a che punto sono rimasto coi miei film.

Prima di vedere, di cominciare a vedere Griffith e Ėjzenštejn o Murnau, tanto per prendere gli esempi più noti, è difficile mettere insieme i mezzi tecnici esistenti: proiettare un film, guardarlo al rallentatore, vedere a un certo punto come Griffith o un altro si è avvicinato ad un attore e ha, se non inventato, quantomeno utilizzato con una certa metodicità il primo piano. Come ne abbia fatto una figura stilistica, come abbia trovato qualcosa, in modo analogo a quello degli scrittori che in un certo momento hanno inventato una certa grammatica. Bene, bisogna avere il film di Griffith, avere il tempo di cogliere nel film di Griffith il momento in cui sentiamo che qualcosa accade… e, se si ritiene, per esempio, che qualcosa di simile, ma in maniera diversa, è accaduto anche altrove, qualcosa che ne è il seguito, l’erede, il cugino o il complemento, in Russia, per esempio; se lo si vuol raffrontare ad Ėjzenštejn, per dire, bisogna scovare il film di Ėjzenštejn, avere il tempo di individuare il momento, quindi mostrare i due momenti, e poi farlo con della gente, non da soli, per dire se c’è veramente qualcosa. E se, alla fine, si scopre che non c’è nulla, si deve cercare altrove. Proprio come fanno gli scienziati in laboratorio, solo che questo laboratorio non esiste. Il campo in cui si fa davvero ricerca è forse in farmacologia; un po’ se ne fa in medicina o in qualche rara università, ma in tal caso sempre legata al sistema militare. Là difatti c’è un po’ di ricerca, si forniscono gli strumenti. Nel cinema gli strumenti non ci sono. Qui, se si volesse far ricerca…

Ho l’idea del metodo, ma non ho i mezzi. Già prima della morte di Henri Langlois… è con lui che avrei dovuto fare tutto ciò, e lui avrebbe potuto indirizzarmi con sicurezza – lui aveva una memoria formidabile e conosceva anche molto bene la storia del cinema – avrebbe potuto dirmi: «Bisogna cercare nel tale film e nella tale epoca». A questo punto, ci si rivolgeva a Serge, lui che ha le copie dei film o che le può trovare… e poi ci si installava da qualche parte. Ma ecco lì che bruscamente non c’è più nulla. Bisogna poter passare il film, non in proiezione perché, una volta in proiezione, devi poter parlare, dire: «Ah! Vi ricordate? Tre quarti d’ora fa abbiamo visto che…». Ma non è questo che interessa. Quel che interessa, è vederlo e poi dopo vedere magari un altro primo piano, ma contemporaneamente. Ma non ho osato farlo oggi per una prima volta… Ciò che sarebbe stato forse più interessante… – ma io non conosco abbastanza bene i film per osare un tentativo – sarebbe stato più interessante proiettarvi una bobina di Un angelo è caduto e poi una di Fino all’ultimo respiro. È un po’ arbitrario, ma potrebbe essere interessante farlo in piccolo, perché allora si vedrebbe, forse, nel giro di venti minuti, che non c’è da tirarne fuori niente; a quel punto, si monta e si va a cercare un altro film. Ma per cercare l’altro film ci voglio se va bene dieci minuti, e magari uno o due giorni se non ce l’hai sottomano.

Infatti, a volerla fare, la storia del cinema sarebbe come un territorio completamente sconosciuto, sepolto non si sa dove; e dovrebbe invece essere la cosa più semplice, poiché non si tratta che di immagini, come in un album fotografico. Questo album fotografico esiste, ma i mezzi per sfogliarlo non sono accessibili. La telecinesi, se ce n’è bisogno, è in una sala, il proiettore d’analisi è da tutt’altra parte…

Ringraziamo Mimesis Edizioni, PGreco Edizioni per la disponibilità a pubblicare un estratto da Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema.

ARTICOLO n. 69 / 2022

STORIE DI FANTASMI

Traduzione di Camilla PIeretti

Sto rileggendo per l’ennesima volta un racconto di Maupassant che ho sempre pensato si intitolasse I danzatori, ma che in realtà si intitola Il minuetto. Non ricordo quante volte io l’abbia già letto, so solo che probabilmente lo rileggerò ancora e ancora.

Tutti i ballerini del breve documentario indossano una sorta di uniforme: un body nero con maniche a tre quarti e dei collant senza piede semiopachi che terminano qualche centimetro sopra la caviglia, per cui sembra che portino una specie di tuta aderente con una scollatura ampia e generosa. Sono scultorei e disadorni. Martha Graham diceva che niente dovrebbe ostacolare il corpo, che va modellato, disciplinato e onorato.

In Territory of Light, di Yuko Tsushima, una madre single e la figlia vanno sul tetto del palazzo dove vivono per cercare l’origine di una perdita d’acqua. Una volta lì, scoprono che la torre idrica è straripata e che il tetto è coperto da una patina d’acqua perfettamente trasparente che luccica al sole, formando una grande distesa piatta. Il mare, il mare, grida la bambina, raccogliendola con le mani a coppa e immergendovi la faccia.

Un martedì pomeriggio, verso l’inizio dell’inverno, a Melbourne, decido di riguardare un film di Zhang Yimou, Lanterne rosse. La storia è quella di una giovane appena diciannovenne, interpretata dall’attrice Gong Li, che accetta di diventare la quarta moglie di un uomo facoltoso. Al suo arrivo nel palazzo in cui andrà a vivere, viene informata che la famiglia del marito segue varie antiche tradizioni, una delle quali prevede che, quando il padrone decide di passare la notte con una delle sue concubine, fuori dalla porta di lei venga appesa una lanterna rossa. La moglie prescelta gode anche del privilegio di un elaborato massaggio ai piedi e può scegliere il menù del giorno successivo. Inizialmente la giovane, Songlian, che prima del matrimonio studiava all’università, sembra reagire a queste antiche tradizioni con derisione. Le lanterne sono molto alte, metà di un normale essere umano, e talmente pesanti che ci vogliono due servi per appenderle. Ben presto, però, anche lei rimane affascinata da questi rituali e dai piccoli poteri che comportano. Il film si svolge quasi per intero all’interno del palazzo di pietra. Le lanterne rosse e le sete dai colori vivaci indossate da Songlian nelle diverse stagioni creano un forte contrasto con i tetti spogli e le antiche torri, così grigie e sguarnite da far pensare a un deserto.

Il racconto di Maupassant è breve e molto particolare. Il narratore inizia parlando della natura del dolore e di certe cose, di certi incontri, in parte percepiti, in parte immaginati, che penetrano in noi «come lunghe e sottili punture inguaribili» che, dice, perdurano nel tempo. Dopodiché, prosegue raccontando un aneddoto risalente ai suoi anni da studente, quando si era imbattuto in uno strano vecchietto in un angolo del vivaio del Lussemburgo. Presto, il narratore scopre che l’uomo era stato maestro di ballo all’Opéra, all’epoca di Luigi XV e che è sposato a una grande ballerina, una favorita del Re dell’epoca: «Ho sposato la Castris, signore, ve la presenterò se volete, ma viene qui solo più tardi. Questo giardino, vedete, è la nostra gioia e la nostra vita. È tutto quel che ci rimane di una volta. Ci sembra che non potremmo più esistere se non l’avessimo».[1]

«Quando un danzatore è all’apice della potenza», scrive Martha Graham, «possiede due cose splendide, fragili e deteriorabili: la spontaneità, conquistata dopo anni di esercizio, e la semplicità, non intesa nell’accezione usuale, ma come stato di semplicità assoluta, quello di cui parla T.S Eliot e che si consegue sacrificando assolutamente tutto».[2]

Tendo a dimenticare la maggior parte di ciò che vedo o leggo: interi paragrafi di apertura, il contesto generale. Tuttavia, certe impressioni, certi dettagli restano, come insepolti, così che il mio non è più un continuo avvicinarmi a qualcosa di completamente nuovo.

Per tutto il susseguirsi delle stagioni nel film, Gong Li, che interpreta il ruolo di Songlian, porta al polso destro un bracciale di giada. La giada, leggo, è talmente dura da non rompersi se cade e può essere affilata al punto da rigare vetro e acciaio. Mia madre mi dice che assorbe il calore di chi la indossa e che, se le piaci, diventa sempre più verde e quindi sempre più bella nel tempo. Tra i suoi gioielli ha un braccialetto simile a quello indossato da Songlian nel film, anche se quello è più bianco e marrone, mentre il bracciale di mia madre è di un puro verde pallido. Lo tiene in una custodia con una base di plastica rossa e una copertura trasparente, su cui campeggia il nome di una gioielleria di Johor Baharu in caratteri dorati. Tutti i suoi gioielli sono conservati in custodie simili, dalle giade più costose alle collane e ai braccialetti coperti di pietre preziose, adagiati su dischi di cotone bianco da quattro soldi, di quelli usati per struccarsi, che si comprano in farmacia. Di recente, le ho chiesto se potevo rivedere la sua collezione e, mentre eravamo intente in quella attività, mi sono ricordata di averlo fatto spesso con lei, da bambina. All’epoca, tutti quei monili parevano racchiudere qualcosa di profondo. Ciascuno di loro era accompagnato da una storia, che raccontava a chi era appartenuto, chi lo aveva donato e quando. Ho scoperto di avere ancora i miei preferiti, quelli caratterizzati da qualità fantastiche o da una particolare bellezza, verso cui tendevo a gravitare pur senza sapere perché. Leggo che esistono giade risalenti al neolitico che sono state ritrovate in vari luoghi di sepoltura in tutta la Cina, spesso in forma di uccelli, insetti o di creature simili a draghi, ma con un grugno suino. Pezzi dotati di quell’animata astrattezza che evoca le opere di Brancusi, di Isamu Noguchi o di Henry Moore.

William Carlos Williams e le prugne in frigorifero. Anne Sexton e la figlia a cui un cavallo ha pestato un piede. Anne Carson e Monica Vitti, che percorre anche lei un paesaggio desertico in cerca dell’amica. Marie Howe come Maria Maddalena, che si tocca il braccio sinistro, poi il destro, poi di nuovo il sinistro e ancora il destro. Ma questa volta un po’ più forte.

Leggo che, quando Marie Taglioni danzò per la prima volta in La Sylphide, nel 1832, indossava un abito di mussola senza spalline, una gonna che le arrivava a metà polpaccio, collant rosa e scarpette di seta. Per la prima volta, ballò sempre sulle punte. Il suo abito sarebbe diventato una specie di uniforme, replicata ancora e ancora negli anni a venire. Scopro che, nonostante il fascino dei dipinti di Degas, la vita delle ballerine dell’epoca aveva anche un lato oscuro, che spesso venivano sfruttate e pagate molto poco per la loro arte. La tendenza dell’epoca era il romanticismo gotico. I danzatori erano silfidi e spiriti, fatti d’aria e adorni di tulle e di mussola. Morivano durante il primo o l’ultimo atto, ma a volte anche sul palco, quando i loro costumi spettrali prendevano fuoco sulle luci a gas.

Per prima cosa, al nucleo di caolinite veniva applicato del pigmento blu. Il tutto veniva poi ricoperto da una lacca trasparente e cotto ad alte temperature. Dopodiché, toccava a smalti di colori vivaci, verdi, rossi e gialli. Spesso, sul blu visibile sotto la lacca venivano dipinti dei motivi colorati che conferivano all’insieme l’effetto fluttuante di una sovrapposizione di disegni.

Un tempo preparavo spesso un riso verde portoghese con olio piccante, coriandolo e succo di limone. È un piatto molto semplice e c’è stato un periodo in cui io o il mio partner lo cucinavamo quasi tutte le settimane. Il riso è quasi più un risotto, con cime di rapa e cavolo nero. Per preparare l’olio usato per condire il riso, bisogna saltare peperoncino fresco e secco con aglio, alloro, sale e pepe nero in una padella dal fondo spesso. Dopodiché, bisogna aggiungere aguardente velha, aceto di vino bianco, succo e scorza di limone e dell’altro olio d’oliva. Il sapore penetrante dell’aceto e la freschezza dell’olio, che vanno ad avvolgere il blando amido del riso, sono rassicuranti, irresistibili, e mi fanno pensare ai mesi che abbiamo trascorso tra Lisbona e Porto. È lì che ho assaggiato per la prima volta i tortini all’uovo portoghesi, che mi hanno ricordato i dan tats di cui mi abbuffavo da bambina durante lo yum cha a Chinatown al punto da essere una delle prime cose che ho comprato per mia madre quando è venuta a stare da noi.

Il bracciale di giada mi entra sul polso sinistro, ma non sul destro. Ti bastano solo due o tre cose, dice Corrado.

Nel racconto di Mavis Gallant The Cost of Living, i quattro personaggi – due sorelle australiane, una giovane donna di nome Sylvie e un attore di nome Patrick – sono appaiati e insieme posizionati l’uno contro l’altro, come in una danza. Gallant scrive di Parigi in inverno: una città buia e fredda, di musei e di luci aride, di caffè pieni di vapore e di «acqua che ti ruscella sulle scarpe». The Cost of Living è un’opera sensibile alla qualità delle cose: arance, cipria, profumi Miss Dior, cracker salati, un sottogonna in pizzo di sangallo. Una delle sorelle, Louise, la più ricca, tiene un registro di tutte le spese che ha, suddividendole su due colonne: Necessaria o Superflua. In una scena, la si descrive come abbigliata con un lungo abito di lana grigia e dei braccialetti di turchesi provenienti dalla Cina. È in questa veste che incontra Patrick, l’attore che, per breve tempo, sarà anche suo amante. Louise è rispettabile, per bene. Ha fatto il proprio dovere ed è riuscita ad accumulare una piccola fortuna. È molto generosa con Sylvie, la parigina, che copre di regali. Anche Sylvie un tempo è stata amante di Patrick, cosa che non è chiaro se Louise sappia oppure no. Sylvie sogna di poter calcare le scene, veste di stracci ed è debole e impotente. L’altra sorella, Puss, la narratrice, si mantiene insegnando musica. A lei Louise offre attenzioni e compagnia, ma niente di materiale e soprattutto mai del denaro. Ogni personaggio vive in un delicato equilibrio con gli altri. Dapprima, le donne sembrano tutte orientate in qualche modo verso Patrick, ma quando lui se ne va cominciano a gravitare l’una verso l’altra. Nel corso della storia, ogni personaggio si muove e gira come un cuscinetto a sfera, le sue motivazioni e i suoi desideri imperscrutabili finché non vengono svelati, emergendo all’improvviso come teatranti da dietro le quinte.

Dai diari di Mavis Gallant, scritti a Madrid nel maggio del 1952: «Ho sperimentato di nuovo quel secondo di pura gioia che mi capita di provare di tanto in tanto. Come sempre, è arrivato senza preavviso ed è svanito quasi subito. Stavo andando in panetteria, con le ultime undici pesetas che avevo in tasca. È una sensazione difficile da definire e forse non dovrei nemmeno provarci… Nel ricordare la scena, vedo me stessa e la strada in una luce chiara ma sfocata, statica, come una proiezione fermata di colpo. Ricordo che d’un tratto mi sono venute in mente queste parole: “Adesso lo saprò”, poi, quando l’onda di una sensazione che posso solo descrivere come pura gioia ha iniziato a ritirarsi: “È per questo che si vive”».

Tornando a casa, in macchina, ascolto un podcast in cui si parla di una designer che si è creata un unico outfit da indossare ogni giorno per sei mesi, in modo da non dover più scegliere ma da poter mettere sempre la stessa cosa, giorno dopo giorno. Era una sorta di camicione. Penso a quanto potrebbe piacermi come idea.

A casa di mia mamma c’è una confezione di torte lunari, regalo di un’amica. Ogni anno mi dimentico quando cade di preciso la festività, ma so che in quel periodo le torte lunari faranno la loro comparsa nella sua cucina. Si presentano in un’ampia varietà di latte e scatole, confezionate magnificamente ma con troppi strati protettivi e carte, che mi ricordano le scatole di cibo, dolci e torte in vendita nei grandi magazzini di lusso a Singapore o in Malesia, da portare in regalo quando si va in visita da qualcuno. Le torte sono spesse e pastose, preparate con semi di loto o di azuki e con tuorli d’uovo salati. Mia madre le taglia in quarti da dividerci. Se preparate correttamente, il tuorlo dovrebbe galleggiare nel ripieno come la Luna in un cielo notturno. La storia, ricordo, è quella di Cheng’e, che beve l’elisir dell’immortalità e fluttua su, su, fino alla Luna. In alcune versioni, Cheng’e beve l’elisir, che appartiene al marito, per evitare che un ladro riesca a rubarlo; in altre, non riesce a resistere alla tentazione di diventare immortale e, avidamente, lo beve tutto mentre il marito è assente. In entrambi i casi, però, trascorre il resto dei suoi giorni sola, a fluttuare vicino alla Terra per rendersi visibile, ma comunque lontana.

In un libro di tessuti giapponesi acquistato durante un recente viaggio a Sydney: una luna bianca, del colore della seta invecchiata, sul pannello posteriore di un kimono. Su questa base sono ricamate campanule grandiflore e miscanti, i cui motivi sembrano fluttuare come nuvole.

Anche Songlian fluttua, verso la fine di Lanterne rosse. Perlomeno, è la sua mente a fluttuare, la sua formazione, la sua sanità mentale. Devastata dalle macchinazioni della famiglia e della servitù del mondo chiuso in cui è capitata, tormentata dal ruolo svolto in due diverse morti, ben presto diventa anche lei un fantasma, che si aggira per il palazzo indossando gli stessi abiti con cui è arrivata, i capelli nuovamente acconciati in trecce infantili, come a voler richiamare la donna che era entrata lì portando con tanta fiducia il proprio bagaglio, dalla propria casa a un futuro che ancora non poteva immaginare.

Nel vivaio di Lussemburgo, il vecchio maestro e la Castris ballano un minuetto per il narratore. È, lo si capisce, un’apparizione penosa e comica. Quando la coppia si muove, è come vedere dei vecchi giocattoli, delle bambole con un meccanismo un poco rotto. I loro passi, che un tempo saranno stati eleganti, ora paiono comici e sorpassati. Quando il narratore torna a Parigi, due anni dopo, scopre che quella parte del vivaio è stata distrutta: proprio il luogo di cui il maestro e la ballerina, per loro stessa ammissione, non avrebbero potuto fare a meno. In questo senso, mi ricorda il palazzo d’infanzia di Leopardi, o i «russi bianchi» con cui Taeko, la più giovane delle sorelle Makioka, va a cena nel romanzo di Tanazaki.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 68 / 2022

VIOLETANTE VIOLETA

Le canzoni dipinte di Violeta Parra alla Biennale di Venezia

Per cantare all’improvviso
si richiede buon talento
memoria e intelligenza,
forza di gallo di razza.
Come una grandinata
devono fiorire i vocaboli
da spaventare anche i diavoli
con molte belle ragioni
come nelle conversazioni
fra San Pietro e San Paolo.

Della musicista e artista cilena Violeta Parra, l’amico Patricio Manns racconta di una sera in cui andò a cantare in un teatro di Punta Arenas, capitale della regione di Magellano e dell’Antartide Cilena, nella Finis Terrae australe. Faceva freddo, molto freddo, e a un certo punto una ragazzina le portò uno scialle per coprirsi. «Il freddo di qui, il vostro freddo», disse Violeta al suo pubblico, «mi aveva un po’ colpito, ma poco fa una ragazzina è venuta a offrirmi, a nome del comitato delle madri, uno scialle di lana molto grossa. È una grandissima gioia per me avere ricevuto un regalo da un centro di madri in questa estremità del Cile. Sono venuta un po’ timorosa qui a Punta Arenas, perché non ero mai venuta e non sapevo se mi conoscevate e mi amavate. Ma ora riparto molto contenta, non solo per il regalo che ho ricevuto ma per un’altra cosa molto commovente che mi è stata portata ieri sera». «Che cosa?» domandò il pubblico. Violeta rispose: «Potete vedere qui che i miei piedi non toccano terra, sono in aria, perché tutte le sedie sono troppo grandi per me. Sono una donna molto “corta”. Ma ieri è venuto al mio albergo un uomo, uno di qui, di Punta Arenas, e mi ha offerto una sedia fatta per le mie dimensioni. E porterò anche questa a Santiago, e mai più canterò in punta di piedi».

E anche signori ascoltatori,
occorrono gli strumenti,
moltissimi elementi
e un compagno eloquente.
Dev’essere un buon contendente,
esperto della storia;
vorrei avere memoria
per avviare una sfida,
ma non mi sento capace
di concluderla in gloria.

Arturo Prat è uno degli eroi cileni della Guerra del Pacifico, conosciuta anche come guerra del salnitro, con il Cile da una parte e la Bolivia e il Perù dall’altra (si battevano per il salnitro che abbondava nel deserto di Atacama, a sud del Perù e a nord del Cile). Combatté a lungo e valorosamente, per poi morire in battaglia a bordo della sua nave, la Esmeralda, il 21 maggio del 1879, poco più che trentenne. La Esmeralda era una vecchia corvetta di legno che pesava 850 tonnellate, armata con quattordici cannoni. La battaglia avvenne al largo dell’allora porto peruviano di Iquique, dove Prat e il suo equipaggio si scontrarono con una corazzata peruviana al comando di Miguel Grau Seminario. Dopo la battaglia, l’ammiraglio Grau ordinò che gli oggetti personali di Prat (tra cui il diario, l’uniforme e la spada) venissero consegnati alla vedova, Carmela Carvajal, insieme a una lettera in cui Grau elogiava la nobiltà e il valore del rivale, che fu così chiamato “El Caballero de los Mares”. Prat e la sua Esmeralda li vediamo bellamente raffigurati in questi giorni all’Arsenale di Venezia, in una delle tre opere di Violeta Parra scelte da Cecilia Alemani per la Biennale. Le opere sono tre arazzi, o arpieceras, ovvero quadri composti con lana e pezzi di tessuto di vari colori, o ancora canciones que se pintan, come amava chiamarle la stessa Violeta: canzoni dipinte. Gli altri due arazzi sono El circo Arbol de la vida, il circo e l’albero della vita, rispettivamente del 1961 e del 1963. L’arazzo con Arturo Prat si chiama Combate naval I ed è del 1964, anno in cui Violeta venne invitata a esporre le sue opere al Louvre, a Parigi. Fu la prima artista sudamericana ad avere una personale lì, e insieme agli arazzi espose tele e sculture, ricomponendo la parte visuale della sua eclettica produzione artistica a beneficio di un pubblico che, come le madri e le figlie di Punta Arenas, forse non sapeva niente di lei ma che la amò a prima vista. Era la sua prima personale al Louvre, ma non era la prima volta che esponeva i suoi lavori. Prima del Louvre c’erano stati il Museo de Arte Moderno in Brasile, le Ferias de Artes Plásticas a Santiago, la Galería Teatro I.F.T di Buenos Aires, il Kulttuuritalo a Helsinki, la R.D.A. Gallery di Berlino, l’Università di Ginevra, in Svizzera. Esponeva soprattutto opere ricamate. In un’intervista televisiva con Yvonne Brunhammer, Parra spiegò che la scelta del mezzo era dettata semplicemente dal fatto che non sapeva disegnare. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla creazione di uno spazio culturale che fosse allo stesso tempo creativo ed espositivo. Lo chiamò la Carpa de la Reina. La tenda della regina.

Quando parlo di strumento
penso al chitarrone,
col suo filo e il bordone:
il suo suono è un portento.
Cinque “ordinanze” vi conto,
tre di cinque, due di tre,
la “chiave” ai vostri piedi,
l’impugnatura elegante.
Quattro diavoletti cantanti
la sua cassa deve avere.

Quando Violeta venne invitata a esporre al Louvre, conosceva già il posto perché verso la metà degli Anni Cinquanta aveva registrato lì alcune delle sue canzoni per gli archivi della BBC. A invitarla non fu il Musée National d’Art Moderne ma il Musée des Arts Décoratifs, che avendo già esposto i lavori di Picasso e Chagall (l’artista preferito da Violeta) si muoveva con disinvoltura tra belle arti e folk art, schivando la rigidità di confini e considerando tutto Arte con la a maiuscola. Il manifesto della mostra era di stoffa e ricamato, e mostrava un grande occhio, oggetto surrealista per alcuni, talismano sacro per altri. O anche entrambe le cose. Ricamate erano anche tutte le informazioni relative alla mostra: la data (dall’8 di aprile all’11 di maggio), il nome e l’indirizzo della galleria, il proprio nome e la scritta “sculture”, rendendo ambigua e vasta la definizione di cosa sia una scultura. Su quella mostra Violeta scrisse una canzone dal titolo Una cilena a Parigi. E fa così: “Ho portato dei dipinti / nella bella città di Parigi, / con un gran tristezza / per il mio Cile. // Finalmente sono a Parigi /cammino sulla riva della Senna / e sul ponte del Louvre / sono già in ufficio / faccia a faccia con la segretaria / quando sento un campanello / che mi chiama. // Poi vedo davanti a me / il capitano del Museo / è stato gentilissimo / il signor Faré”. Il signor Faré era Michel Faré, all’epoca curatore al Louvre del Musée des Arts Décoratifs, e insieme a Yvonne Brunhammer curatore della mostra. Nella canzone Violeta lo chiama capitano, come Arturo Prat.

E per cantare a contrasto
si dev’essere suonatrice,
e la cantante arrogante
per seguire la melodia,
garantire l’allegria
finché dura il contrappunto,
formare una bella armonia,
rispondere con destrezza:
vedo che la mia testa
non è fatta per questa storia.

E adesso veniamo a Violeta Parra, meravigliosa cantante e artista folk cilena, sorella del poeta Nicanor Parra. Alcuni fatti biografici: nacque a San Carlo, nella provincia di Punilla e nella regione di Ñuble, il 4 ottobre del 1918, e morì a Santiago, suicida a quarantanove anni, il 5 febbraio del 1967. La sua canzone più famosa è Gracias a la vida, di cui esiste una lista interminabile di cover, delle quali forse la più celebre è quella di Joan Baez. Ebbe due mariti, quattro figli e un grande amore, il musicologo e antropologo svizzero Gilbert Favre, che a un certo punto la lasciò. Violeta amava cantare e ricamare (e anche scolpire, dipingere, in tutte le forme creare), ma amava anche e soprattutto andarsene in giro per il Cile a registrare le canzoni del repertorio popolare del paese, avviando così insieme a Victor Jara il movimento culturale e musicale della Nueva Canción Chilena che negli anni sessanta si dedicò al recupero e alla rielaborazione del folklore sudamericano e all’uso della canzone come strumento di lotta sociale e impegno politico. A un certo punto disse: «Il Cile è il miglior libro di folklore che sia mai stato scritto». In una canzone descrive se stessa come un chirigüe, uno degli uccelli comuni del Cile. Nella canzone l’uccello perde le piume e la capacità di cantare per trasmettere la tristezza che prova per la difficile situazione dei minatori nel nord del Cile. E diventa uccello anche in uno dei suoi dipinti più autobiografici, El Pájaro y la Recorder, l’uccello e il registratore. 

Infine gentili signori,
che mi prestate attenzione,
che avete trovato ragione
di sfuggire a questo incanto
non voglio che si faccia
contro di me alcun commento: 
per le chiacchiere sui giornali
è già tanto il condimento.
Non deve mancare il momento
di imparare a gorgheggiare.

In ultimo c’è il verbo violetare che ho usato nel titolo. È un’invenzione poetica di Pablo Neruda, amico e ammiratore di Violeta, che in versi la descrisse il giorno del suo cinquantesimo compleanno: Estás Violeta Parrón / violeteando la guitarra / guitarreando el guittarón / entró la Violeta Parra. (Ecco Violeta Parrón, violetando la chitarra, schitarrando il chitarrone, è entrata Violeta Parra). E poi nel 1970, tre anni dopo che Violeta era già morta, scrisse per lei un’elegia che a un certo punto fa: “E di notte nel cielo il tuo splendore / è la costellazione di una chitarra”. Così grazie all’amico Neruda Violeta non suona ma violeta, non canta ma violeta, non ricama ma violeta. Violetear è il verbo del suo creato. Violetando lei crea. E adesso chiudo con una breve nota sulle fonti usate per scrivere questo pezzo: la poesia Talento per cantare è nel bel volume Violeta Parra, Canzoni (cura e traduzione di Ignazio Delogu, Newton Compton 1979), che contiene anche il racconto biografico dell’amico, scrittore e musicista Patricio Manns e un’utile cronologia. Per il lavoro di Violeta come artista è stato prezioso l’accurato volume di Lorna Dillon Violeta Parra’s Visual Art Painted Songs (Springer International 2020). Altre informazioni vengono dalla rete, in particolare dal sito del Museo Violeta Parra aperto a Santiago del Cile nel 2015 (museovioletaparra.cl) e da YouTube, che oltre al suono della voce di Violeta e alle sue canzoni, custodisce piccoli frammenti di film che la riprendono a colori, intenta a mostrare al mondo il suo creato.

ARTICOLO n. 67 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANIOL RAFEL

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Aniol Rafel è un editore catalano. Ha fondato Edicions del periscopi nel 2012.

Andrea Gentile: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

Aniol Rafel: Entrambi mi sembrano corretti, a modo loro. Quando penso al lavoro dell’editore, spesso mi viene in mente l’immagine di una levatrice che aiuta a far nascere un neonato, verificando che la madre sia sana e che il bambino ne esca al meglio. In editoria facciamo la stessa cosa, trasformando i manoscritti nella versione migliore di sé. Il nostro lavoro, però, è affine anche a quello dei cercatori d’oro: tra i ruoli più importanti che svolgiamo nel creare un catalogo, infatti, c’è quello di filtrarne i contenuti. Tale filtraggio avviene attraverso la lettura, ovviamente, ma anche tramite recensioni, consigli, premi e suggerimenti da parte di persone fidate. Con tutti questi indizi alla mano, ci mettiamo in cerca del nostro tesoro, i libri che andranno a costituire il nostro catalogo. Quando troviamo i primi pezzi, però, la ricerca cambia, perché dobbiamo costruire un catalogo fatto di libri capaci di essere complementari, di raggiungere un mutuo equilibrio, di instaurare un dialogo con gli altri libri e con i lettori. Per me, quindi, l’editore non è tanto un artista quanto un architetto o un carpentiere, intento a costruire una casa in grado di accogliere il miracolo che è il rapporto tra i libri e chi li legge.

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A.R. Sono convinto che uno dei principali impulsi che fa di noi degli editori è la volontà di condividere la meraviglia che proviamo dopo aver terminato la lettura di qualcosa che ci ha commosso, che ci ha reso diversi da ciò che eravamo prima. È un momento di estasi talmente potente da volerlo condividere prima con i propri cari, poi, ben presto, con quante più persone possibile. Per me è stato così dopo aver letto sia La via della fame di Ben Okri sia Le cose crollano di Chinua Achebe, due libri che riescono a espandere i confini della realtà in un modo di cui vado sempre alla ricerca quando leggo qualcosa. Probabilmente è anche per questo che il nostro catalogo è così incentrato sulla letteratura africana e che ha incluso anche autori come Mia Couto o José Eduardo Agualusa. Un’altra epifania del genere l’ho avuta intorno ai vent’anni, rileggendo Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere, di James M. Barrie, testo che mi ha affascinato per la sua ferocia, per il suo approccio al lato più selvaggio dell’animo umano e alla crudeltà mista a bellezza e ironia. Da allora, l’idea del male in tutte le sue rappresentazioni, come pure dei diversi approcci al passaggio alla maggiore età, è stato uno dei miei principali interessi, sia nelle mie letture sia nella costruzione del nostro catalogo.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A.R. Ogni volta che pubblichiamo un libro instauriamo un dialogo con la comunità dei lettori che ci circonda, per cui la realtà attorno a noi è influenzata dalla presenza costante di tutti questi contenuti. Per comprendere la nostra società e la comunità in cui viviamo, quindi, dobbiamo capire come tutti questi elementi si combinano a dare nuova forma ai nostri comportamenti, al nostro modo di comunicare gli uni con gli altri e al modo in cui decidiamo di trascorrere il nostro tempo. Tutti questi cambiamenti, poi, si applicano sia alle nostre vite quotidiane, sia ai filoni narrativi che cercano di spiegare il mondo tramite la letteratura e il fantastico, oltre che al modo in cui leggiamo e interpretiamo sia la letteratura sia la realtà che ci circonda. Tutti questi cambiamenti danno adito a nuovi modi di comunicare, cosa che è importante tenere presente se vogliamo avvicinarci ai nostri lettori e alla nostra comunità. È importante capire che questi mezzi di comunicazione alternativi hanno un ruolo fondamentale anche nel determinare il ruolo sociale della lettura, dei libri e della letteratura, perciò dobbiamo avere un’ottima comprensione di ciò che può servirci e di ciò che ci troviamo di fronte.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A.R. In certi segmenti della nostra società sì, ma è vero che gran parte della nostra comunità non mette i libri al centro della propria vita e non li ritiene strumenti importanti per il proprio sviluppo personale. C’è una parte della società che considera i libri e tutto ciò che li circonda qualcosa di sacro, qualcosa che conferisce un determinato status sociale e culturale. Sempre più persone, però, tendono a considerare i libri una semplice fonte di intrattenimento (peraltro decadente) e di nozioni, se non un semplice oggetto costoso che si riceve in regalo. È possibile che questo secondo gruppo diventi sempre più numeroso, ma ci sarà sempre una resistenza, costituita da quelle poche anime felici che hanno un rapporto speciale con i libri e con la lettura.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A.R. Il defunto editore Jaume Villacorba diceva: «Non pubblico i libri che la gente vuole, pubblico libri che la gente ancora non sa di volere». Noi non seguiamo proprio lo stesso approccio, ma di tanto in tanto è bene ricordarsene, sapere che non dobbiamo necessariamente essere prigionieri dei desideri altrui. Inoltre, ci mettiamo nei panni dei potenziali lettori dei nostri volumi, per cui cerchiamo di pubblicare sì i libri che si rivelano una bella scoperta, ma anche quelli che sanno risvegliare la nostra curiosità, che ci fanno scoprire territori inesplorati e viaggiare in luoghi sconosciuti.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A.R. In un’Europa davvero unita avrebbe sicuramente senso, ma abbiamo ancora molta strada da fare per arrivare fin là. Per di più, ogni paese legge cose molto diverse, non solo per la lingua di pubblicazione, ma anche per un’ampia rete di differenze sociali e culturali. Una comunicazione più fluida e un aumento degli scambi culturali possono aiutare, ma riferimenti e interessi sono troppo diversi. Uno dei punti chiave del lavoro di editore, che fa sempre parte del suo impegno a far arrivare i libri al pubblico, è riuscire a stabilire una solida rete di complicità con i lettori e con i relativi prescrittori (librai, giornalisti, influencer…). Al giorno d’oggi, però, questa rete varia ancora troppo da un paese all’altro.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di coesistere, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A.R. Il mercato è ricco di esempi di entrambi gli approcci: quello che si concentra sul singolo titolo o autore, per cui i libri sono talmente diversi l’uno dall’altro che l’identità dell’editore risulta quasi impercettibile, e quello che invece si concentra proprio sull’editore, anche a costo di rendere più difficile individuare e separare i titoli di un dato catalogo. Qui [in Spagna] gli editori con tendenze più commerciali tendono a seguire il primo approccio, mentre quelli con aspirazioni più letterarie in genere seguono il secondo. Noi propendiamo per il secondo, ma fin dall’inizio abbiamo incorporato degli elementi del primo approccio, per cercare di sfruttarne alcuni vantaggi. L’idea è di evitare che i lettori possano confondere titoli diversi di uno stesso catalogo e di dare a ogni libro una sua identità, anche in un contesto in cui è l’identità dell’editore a essere preponderante.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A.R. È molto difficile da prevedere. Certo, l’oggetto libro in sé è molto difficile da migliorare, ma è pur vero che stiamo vivendo una situazione di crisi sistemica, dove le materie prime saranno sempre più scarse e dove la carta si farà sempre più rara e costosa, per cui non possiamo sapere che cosa succederà. D’altro canto, se i libri sono oggetti meravigliosi, probabilmente destinati a durare ancora molti decenni, in definitiva ciò che viene venduto non è tanto l’oggetto in sé quanto quello che contiene, perciò, anche se il formato dovesse cambiare (cosa possibile), gli editori serviranno comunque. Se devo provare a immaginare un possibile futuro, credo che si produrranno e venderanno meno libri, che però esisteranno ancora e saranno ancora importanti per un buon numero di persone. Magari costeranno di più e saranno più correlati a contenuti d’altro genere. Probabilmente succederà in maniera del tutto inaspettata.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A.R. Considerato che pubblichiamo 10-12 libri l’anno, ognuno dei nostri titoli è speciale e viene selezionato con grande attenzione. Nei prossimi sei mesi pubblicheremo volumi provenienti da parti del mondo molto diverse, che siamo sicuri faranno felici i nostri lettori tanto quanto noi. Per fare un esempio, siamo molto orgogliosi di essere il principale editore catalano dell’autore mozambicano Mia Couto, di cui stiamo per pubblicare l’ultimo romanzo. Inoltre, di recente ci siamo avvicinati al genere della saggistica in stile narrativo, come per Hidden Valley Road di Robert Kolker, di cui ben presto pubblicheremo la traduzione in catalano. In un’intervista con The Italian Review, poi, non possiamo non menzionare la traduzione catalana del Libro delle case di Andrea Bajani.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

A.R. So che dovrei dirne uno solo, ma me ne vengono in mente almeno tre: L’OdisseaLa Divina Commedia, e Le mille e una notte.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 66 / 2022

A CONVERSATION WITH ANIOL RAFEL

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future? These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry.  Aniol Rafel is a catalan editor and publisher. He established Edicions del periscopi in 2012.

Andrea Gentile: What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

Aniol Rafel: Both of them are probably right, in their way. When I think about being a publisher, I often visualise the work midwives do when they are assisting in delivering newborn babies: make sure that the mother is healthy and that the baby comes in its best possible way. Translated into publishing, that would be to convert manuscripts into the better version of themselves. But our work is also to be gold seekers. I understand an important part of what we do when we are building a catalogue is to filter. We filter the manuscripts through our readings, of course, but also through reviews, advice, awards, suggestions from people we rely on. And with all these clues we seek our treasures, the books that are going to build our catalogue. And when we have the first pieces, the search changes, because we must build our catalogue of books that complement and balance themselves, that can dialogue with the rest of the books and with the readers. So maybe I do not think of a publisher exactly as an artist, but as an architect or a builder. Someone who must build the house that will accommodate the miracle that is the binding of books and readers.

A.G. Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

A.R. I’m convinced that one of the first impulses that turns us into publishers is the will to share the wonder we felt after finishing every one of these readings that deeply moved us, that made us become someone different than who we were before. This moment of ecstasy is so powerful that, first, you want to share it with your loved ones, and, soon enough, with as many people as possible. This moment occurred to me after finishing both The Famished Road, by Ben Okri and Things Fall Apart, by Chinua Achebe. The way they expanded the frame of reality was something I always try to find when I was reading, and probably that is one of the reasons why our catalogue has interests in African Literature and has incorporated authors such as Mia Couto or José Eduardo Agualusa. Another of these moments was when I reread, in my twenties, Peter Pan: Or The Boy Who Would Not Grow Up – A Fantasy in Five Acts, by James M. Barrie, and got captured by its ferocity, by its approach to the human wild soul and cruelty combined with its beauty and irony. Since then, the idea of evil and its representations, and also of coming of age with its different approaches, has been a matter of interest in my readings and in the construction of our catalogue. 

A.G. Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising  equation of content. From movies and tv shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

A.R. When we publish books, we are also offering a dialogue to the community of readers that surrounds us, and of course reality around us is heavily influenced by the constant presence of all these contents. So, if we are to understand our society and our community, it is our obligation to try and understand how all this is reshaping the way we all behave and communicate with each other and decide to spend our time. Also, all these changes apply not only to our daily lives, but also to the narratives that are trying to explain the world through fiction and literature, and to the way we read and understand both literature and our reality too. This changes also offer new ways to communicate, and this is something that must be considered if we also want to be close to our readers and our community. We must also understand that these other ways to communicate can also play a role in determining the social importance of reading, of books and of literature, so we must understand all the possibilities that can help us, but which might also confront us. 

A.G. But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought about as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this?

A.R. Books still manage to do this in a certain segment of our society, but of course a big part of our community is neither putting books at the centre of their lives, nor are they seeing them as important tools to develop themselves. So, we have this one part of society in which books and everything around them is considered to be almost sacred, something that gives you some kind of social and cultural status. But more and more people just consider books to be another way to entertain yourself – and a decaying one –, to learn something, maybe, or simply an expensive object you sometimes receive as a gift. Even though the numbers of this second group are likely to grow, there will always be a resistance, the happy few that have this special connection, this special bond with books and reading.

A.G. A follow up question would have to do with the readers. What’s the ideal reader you have in mind while you work? And how does this ideal reader, if present at all, come to you: do you search for her, trying then to find the best possible reading experience for her; or do you invent her, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

A.R. Late publisher Jaume Vallcorba stated that «I don’t publish books that people want, I publish books that people doesn’t know yet that they want». We don’t exactly follow this, but it’s good to return to it now and then, especially to remind ourselves that we mustn’t be prisoners of someone else’s desires. We also mirror ourselves as possible readers for our books, so we try to publish not only those books that we’d have loved to find, but also those that would awake our curiosity, those that would let us explore uncharted territories and make us move to uncertain places. 

A.G. However a publisher thinks of the readers whom the books she publishes are going to meet, books are often seen as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is constantly challenged by political, societal, and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, one that can make a book available in multiple languages at the same time, targeting readers across the Continent. Is this utopia, or is it perhaps something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

A.R. In a truly united Europe, it would certainly make sense. But, to get there, there is still a long way to go. Nowadays, what is read in every country in Europe is too different, not only due to the published language, but because of too wide social and cultural differences. A much more fluid communication and an increase in cultural exchanges can help, but references and interests are too separated. One of the keys to publishing, and to understand this as an effort to make books get to the public too, is to stablish a solid net of complicities with them and with their prescribers (booksellers, journalist, influencers…). And, as for today, these nets are way too different from country to country.

A.G. Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways to work together, to be together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers, on the one hand, and European publishers on the other hand. In fact, and generally speaking, every book is different in the UK and the US, and a publisher’s identity is less perceivable than the identity of the editor building a particular list. Whereas, in Europe, a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colors on a bookshelf. What do you think the respective merits of the two approaches are? And which one do you feel closer to?

A.R. In our market, there are examples of both lines, the one that prioritizes the individual title or the author, making every book so different and where the publisher’s identity is almost hidden, and the line that puts the publisher’s identity at the centre, even at the cost of making it harder to individualize and separate every title inside a given catalogue. And, at least here, the labels with more commercial aspirations tend to follow the first line, where the most literary labels usually follow the second one. We feel clearly closer to this second one, but since the beginning we incorporated some elements that you can usually find in the first line, in an attempt to get some of the advantages of this line, mainly to avoid the confusion between different titles of the same catalogue, and to provide an individual identity even in the context of the identity of a strong publisher. 

A.G. Publishing, as our readers may have gleaned from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are “eternal objects”; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of inception that they don’t need changes. Do you think this is true? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – through the years to come? And if you think they will change, how will they do it?

A.R. It’s very hard to predict. Indeed, and as objects, books are very difficult to improve. However, we find ourselves in a predicament of systemic crisis, where raw materials will be more and more scarce, the price of paper is skyrocketing while its availability has sunken, so we don’t know what will come. On the other hand, and since books are wonderful objects, possibly ones to last many more decades, what we sell is not the object but its content. Therefore, even when the format eventually changes, which is unclear, publishers will be needed. If are playing at imagining a possible future, it’ll be one where less books are produced and sold, but still exist and hold meaning for many people. Maybe they’ll be more expensive, and more related to other kinds of content. And, most probably, it will all happen in unexpected ways.

A.G. As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so perhaps now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into your next six months. What are you most excited about?

A.R. As we publish 10-12 books per year, every title we publish is special and has been selected after a very conscientious process. For the next six months, we’re going to publish books from very different parts of the world that we are sure that will thrill our readers as much as ourselves. We are, for instance, very proud of being the long-standing Catalan publisher of Mozambican author Mia Couto, and we are going to publish his latest novel. We’ve recently putting some faith in narrative nonfiction books, and Robert Kolker’s Hidden Valley Road, whose Catalan translation will be published soon, is also a perfect example of this. And of course, as this conversation is for The Italian Review, we are happy to publish the Catalan translation of Il libro delle case, by Andrea Bajani.

A.G. Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

A.R. I know I’m supposed to say only one, but I have to say at least three: The OdysseyThe Divine Comedy, and One Thousand and One Nights.

ARTICOLO n. 65 / 2022

ARTHUR JAFA, “LIVE EVIL”

Un filo sottile che lega sofferenza e piacere

Ad Arles, nel sud della Francia, un vasto ex-sito industriale riqualificato è sede della LUMA, Fondazione dedicata al sostegno della creatività contemporanea. In due corpi che compongono il complesso edilizio è in corso una mostra di Arthur Jafa, Live Evil (che è anche il nome di un album di Miles Davis), curata da Vassilis Oikonomopoulos e Flora Katz, assistita da Claire Charrier.  

A 61 anni, l’artista di Tupelo, Mississippi, è diventato un’icona per la generazione Black Lives Matter, realizzando un corpus di opere avvincenti che sfidano le categorie e gli stili. Fin da piccolo, Jafa scruta famelicamente riviste, giornali e quant’altro, ritaglia le rappresentazioni della cultura nera incollando i materiali tra le pagine di quaderni, che non hanno ancora la solidità di lavori compiuti, ma addestrano Arthur al montaggio, aiutandolo a porre le basi di un’estetica nera del tutto personale. Portare alla luce foto e filmati d’archivio, ingrandendoli o modificandoli per ottenere risultati che rispondano ad un quesito ricorrente: “come realizzare opere che equivalgano alla potenza, alla bellezza, ma anche all’alienazione della musica nera?”, è substrato imprescindibile della pratica di questo artista. Nel 2016, Jafa realizza il video Love Is the Message, The Message Is Death, che ha avuto un impatto enorme sul mondo dell’arte e non solo. Il lavoro è composto da immagini assemblate, trovate online o create dallo stesso artista, accompagnate dal brano Ultralight Beam di Kanye West. Questa unione lirico/ritmica di brevi sequenze visive e musica esprime il violento malcontento di una società vettrice di mostruosità e la tragica esperienza dei neri d’America ereditata dalla schiavitù. Nel 2020, quando tredici musei di tutto il mondo hanno voluto lanciare un messaggio forte contro il razzismo, è stato questo il video selezionato per essere esposto contemporaneamente nei loro siti.

Le opere esposte nella mostra Live Evil ci spronano a non assecondare un sentimento populista, a non cercare alcun conforto lenitivo. Resta con il disagio e l’inquietudine, sembra dirci Jafa, immergiti nelle mie opere, non accettarle o tollerarle: in esse non troverai nulla di istruttivo, calmo o riposante, rispettoso o celebrativo. 

Il lavoro dell’artista americano è cinetico e ispido e si sviluppa attraverso un filo sottile che lega la sofferenza al piacere, l’inguardabile alla bellezza. Dentro la visione del mondo, nel suo continuum, per i neri d’America è impossibile separare completamente ciò che è miserabile, ontologicamente legato all’orrore, da ciò che è magnifico. In una conversazione con Jacob Holdt, autore, negli anni ’70, di un libro fotografico seminale American Pictures, Arthur Jafa così si esprime: «Io e uno dei miei carissimi amici, il poeta Fred Moten, abbiamo una divisione fondamentale nel nostro modo di pensare. Lui non ha la sensazione che la cultura nera e l’orrore siano indissolubilmente legati, crede che l’orrore e la cultura nera si informino istantaneamente e si sviino a vicenda, mentre io sento un indissolubile legame. Siamo in una dinamica in cui è come se vivessimo perennemente al pronto soccorso. La maggior parte delle persone va al pronto soccorso, noi neri è lì che viviamo, pur mantenendo le componenti di fondo dell’esistenza, che sono gioia e bellezza».

L’opera che apre la mostra arlesiana è un vero e proprio pugno nello stomaco: una fotografia fortemente ingrandita di scolari di colore che eseguono un saluto alla bandiera americana. Questo gesto, che, di primo acchito, ingannevolmente rimanda al saluto nazista, era l’hi Bellamy che accompagnò il Pledge of Allegiance negli Stati Uniti dal 1892 al 1942, smettendo di essere utilizzato quando fu adottato dal Terzo Reich.  

Jafa sviluppa efficacemente dispositivi che permettono di far emergere la complessità delle relazioni razziali, la tensione tra le differenti forme di espressione e le specificità della cultura dei neri americani, l’emergere e l’evoluzione del loro cinema e della loro musica nel XX e XXI secolo come prodotto culturale e artefatto ideologico. Sia potente che lirica, la pratica multimediale dell’artista combina immagini provenienti dalla personale memoria affettiva e da retroterra diversi, toccando i temi della violenza, della repressione, dei precari sistemi di sopravvivenza negli Stati Uniti, ma ogni sua opera resta sul confine sottile dell’astrazione, non cadendo mai nella sottolineatura. Jafa è consapevole che solo la costruzione di una rinnovata matrice sensoriale sia un valido lavoro di emancipazione. 

Nel padiglione Mécanique Générale, troviamo una gran parte di opere che sono state già esposte in Danimarca dal Louisiana Museum of Modern Art nella mostra Magnumb. Nell’ala della Fondazione francese possiamo vedere The White Album (2018), un’esplorazione della fragilità dell’uomo bianco che, alla Biennale d’Arte di Venezia 2019, ha ricevuto il Leone d’Oro. Qui, attraverso un ritmo visivo decelerato che predilige i primi piani, risuonano i brani di Iggy Pop e Oneohtrix Point Never. Tra i nuovi pezzi aggiunti in mostra, Slowpex, lavoro di quest’anno, il cui suono avvolge l’intero spazio espositivo. Ogni frame video, rallentato, diventa leggibile individualmente. Per l’artista, ora i tempi sono cambiati e la strategia dello shock non è più appropriata, i sensi sono offuscati, esausti per essere stati tenuti in massima allerta. Non si tratta più, quindi, di risvegliare le coscienze passive, quanto di riconquistare il tempo dell’introspezione, della speculazione. Slowpex va in un senso diverso rispetto al precedente lavoro, Apex, del 2013, opera tumultuosa che si confronta con il cinema delle avanguardie storiche, con le quali si connette per alcune strategie introdotte. Pensiamo a lavori di Dziga Vertov o di Sergei Eisenstein, ma ricontestualizzati all’interno dell’industria culturale contemporanea. In questo caso il lavoro di Jafa orienta la nostra attenzione verso i meccanismi di estetizzazione della politica e verso la manipolazione degli affetti. 

Sempre nel padiglione Mécanique Générale, tra le altre opere, vengono presentate una serie di fotografie e sculture come Ex-Slave Gordon 1863 (2017), una impressionante figura umana con la schiena sfregiata, Big Wheel II (2018) e Large Array (2020), che mappano la psicologia delle relazioni razziali oggi in America. Akingdoncomethas (2018), è un video di quasi due ore, costituito in gran parte da materiale trovato su YouTube. Nel film è centrale l’amore e il perdono attraverso l’energia vitale del canto gospel nelle chiese evangeliche americane, ma una vena amara attraversa la narrazione. Mentre Love Is the Message, The Message Is Death presenta principalmente persone che nella vita sono riuscite a realizzarsi completamente, Akingdoncomethas mette in luce il soffocamento di un potenziale espressivo, la difficoltà, negli Stati Uniti, per le persone di colore, di riuscire a “sfondare” anche quando il talento è particolarmente evidente. «Dentro l’essere nero, dentro le vite e la continuità dei neri d’America, esiste unsorta di condanna, che è quella di non potercela fare appieno, anche quando le capacità sono eccellenti e lo permetterebbero. Per ogni Aretha Franklin, nelle chiese ci sono venti altrettanto brave artiste che non hanno possibilità di emergere», sostiene Jafa. 

La Grande Halle, altro spazio della LUMA, viene trasformato in un ambiente unico. Le grandi installazioni visivo-sonore qui rivelano tutta l’inquietudine di un messaggio senza tempo, il rigore intellettuale del percorso visionario dell’artista americano. La complessità delle possibili associazioni fra le immagini è sorprendente. Al centro dello spazio, a testare i confini tra cinema e tecnologia, Arthur Jafa realizza un’installazione che ruota attorno ad Aghdra(2021), un’opera digitale di 85 minuti, realizzata con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale, 120 fotogrammi al secondo in 4K e costruita in 12 sequenze. Mettendo in risalto la trama visiva e i valori scultorei delle immagini, questo è il primo video dell’artista a rinunciare al referente reale. Siamo in un paesaggio dove flussi di onde scure si intensificano avendo un sole incombente all’orizzonte. In Aghdra, l’acqua è come asfalto o lava che si rompe: è, allo stesso tempo, materia liquida e solida, forma in continuo mutamento. Aghdra è un lavoro epico, presentato come costituente un’unica tesi: l’antisublime, l’oscurità alla fine dell’Antropocene; l’insondabile perdita e l’ineffabile dolore alla fine della civiltà, così come la conosciamo. Il clima post-apocalittico ci ricorda i pericoli del cambiamento climatico, ma anche l’ansia esistenziale di questo grande artista, ansia che pervade tutto lo spazio espositivo. 

La proiezione di Aghdra si giustappone a un’altra di un video inedito, Untitled del 2022, un omaggio a Greg Tate, caro amico di Jafa, recentemente scomparso. L’opera mostra una fluttuazione astratta e ipnotica, polverosa, di luci ed ombre, che cattura l’essenza e la profondità delle emozioni. 

Ancora, quattro grandi cartelloni pubblicitari evocano diverse figure di rilievo della Black Music: l’immagine di LeRoi Jones (Amiri Baraka), autore di Blues People. Negro Music in White America accompagna quella di Miles Davis ai tempi di In a Silent Way.

Dalla storia della musica alle composizioni scultoree e ai feticci Boliw (oggetti di potere, carichi di forza vitale, che hanno avuto un ruolo centrale nei rituali e nella vita spirituale della tradizione del Mali), Live Evil rifugge ogni genere e va oltre la teoria, facendo confluire il passato nel presente e questionando fortemente la nostra condizione attuale.

ARTICOLO n. 64 / 2022

NUOVE PAROLE PER DIRE CINEMA

Intervista di Fabio Bozzato

Contro i film, contro il cinema, contro i festival e contro Venezia: si può celebrare così la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il più longevo festival di cinema al mondo? Alberto Barbera si lascia andare a una risata, ma non si tira indietro. Anzi, apre le riflessioni seguendo proprio quel filo. Intanto la Mostra che lui dirige dal 2011 (oltre a un precedente periodo dal 1998 al 2002), compie 90 anni ed è sul punto di inaugurare la sua 79ma edizione (31 agosto – 10 settembre). 

Fabio Bozzato: Possiamo dire che le parole “film” e “cinema” non bastano più? Possiamo archiviarle? Se si va in qualche grande esposizione d’arte, ci si imbatte spesso in artisti che usano il linguaggio filmico in modo strepitoso, magari multicanale o a 360°. Se si accede a una piattaforma, si finisce ammaliati dalle serie: hanno sfigurato durata e architettura narrativa dei classici film e non poche sfoggiano una qualità di scrittura e di direzione impeccabili. Dobbiamo inventare nuove parole?

Alberto Barbera: Sì, ci possono sembrare strette, a meno che non inglobiamo tutto ciò che viene realizzato in ambiti diversi dell’audiovisivo, contigui e strettamente collegati, sotto la stessa parola che è “cinema”. E forse è la cosa corretta da fare: il cinema non può essere ciò che abbiamo conosciuto nel XX secolo, canonizzato in uno spettacolo da 90 minuti, dentro una sala, con un certo sviluppo narrativo.

Il cinema, come le altre arti, cambia continuamente ma molto più velocemente rispetto alle altre. Questo dipende da un elemento che distingue il cinema dal resto delle espressioni artistiche: la base tecnologica. Proprio la rapidità della trasformazione tecnologica ha un’influenza così forte su quello che consideriamo “cinema”, in particolare sulla parte creativa, artistica, narrativa. Riscrivere la storia del cinema da questo punto di vista sarebbe estremamente interessante.

Il cinema è una storia di continue trasformazioni tecnologiche. Pensiamo al passaggio dal muto al sonoro: il muto nel giro di due decenni arriva a codificare un linguaggio che si fa maturo, espressivo, efficacissimo; ma quando appare il sonoro, è una rivoluzione: inventa un nuovo linguaggio e fa terra bruciata del vecchio, la parola prende centralità, cambia il rapporto con le immagini. È come se tra il 1926 e il 1929 fosse morta una lingua. Poi è cambiato il formato degli schermi e in seguito le tecnologie leggere, tra macchine e pellicole, hanno segnato la Nouvelle Vague; infine il digitale, il cambiamento forse più pesante e ancora in corso. Se ci pensiamo, il cinema è uscito dal Novecento stravolto. E così arriviamo alle piattaforme e al successo delle serie.

F.B. In questo caso la serie stravolge l’idea stessa di film.

A.B. Assolutamente e la chiave è il tempo. Una volta si faceva un film che doveva stare tra i 90 e i 120 minuti, con poche eccezioni. Le eccezioni si andava a vederle proprio perché erano un’eccezione. Nel film tutto finiva modellato su quella durata di tempo, compresa la narrazione, i dettagli, i caratteri, la psicologia dei personaggi. Le serie, con il loro ritmo di episodi e di stagioni, abbattono quei limiti e quelle convenzioni. E se incontriamo una straordinaria qualità, è perché spesso a dirigerle sono gli stessi registi che fanno film e portano nella serie tutto il know-how e il talento. Non hanno più i limiti che il cinema gli impone, scoprono una libertà espressiva inedita, percorsi narrativi di così ampio respiro prima impossibili. Non è un caso che molti romanzi storici non abbiano quasi mai avuto una compiuta traduzione filmica, che invece le serie permettono. Significa prendere il meglio del linguaggio cinematografico e trasferirlo in un marchingegno narrativo dalle opportunità enormi.

A ben vedere le contaminazioni sono state reciproche. Negli ultimi anni, ad esempio, è aumentata la durata di molti film e oggi le tre ore sono assolutamente accettate: è come se quel regista dopo aver sperimentato la serie non voglia più rinunciare alle possibilità del tempo lungo e profondo. Ma la durata dei film ha implicazioni anche sulle sale, sulle programmazioni, sul pubblico.

Quindi, per tornare alla parola “cinema”, possiamo davvero non considerare le serie una forma di cinema? Così è per la realtà virtuale: Venezia è il primo festival a fare una sezione ad hoc, cercando di capirne tutto il risvolto creativo e artistico, al di là della tecnologia; in questo caso non solo osserviamo tutte le conseguenze sulla durata (più breve, anche per gli effetti di disorientamento che ancora produce), ma pure sullo spazio filmico che diventa tridimensionale, sullo spettatore che non è più fuori dalla pellicola ma è dentro, immerso nell’universo filmico. Allora quella parola, “cinema”, sembra davvero resistere a tutto: sborda, si espande, ingloba, ha una capacità di adattamento incredibile. 

F.B. Accennava alle sale: è l’altro elemento cardine, un luogo che è già rito. Tuttavia, sarà effetto della pandemia e dei lockdown, ma il desiderio della sala non sembra esserci tornato. È uno dei pezzi della filiera che più ha sofferto e soffre. Ci può essere cinema senza le sale?

A.B. C’è un bellissimo libro di Francesco Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene (Bompiani, 2015, pag.442). Casetti è uno dei migliori teorici italiani di cinema, che da anni insegna a Yale negli Stati Uniti. In questo libro si interroga sulla possibilità di vedere film a casa, sull’iPad, sul cellulare seduti in metro o in bus. E si chiede: quello è ancora cinema? Lui dice: certo che lo è. Il fatto che per decenni siamo andati a vedere il film in una sala è in realtà legato a una limitazione tecnologica, un limite non connaturato ontologicamente alla natura del linguaggio cinematografico.

Certo, se la domanda invece è: qual è la forma migliore per vedere un film? La risposta sarà sempre: in sala. Non c’è paragone, è un’esperienza di visione impagabile. Penso al fatto che sul grande schermo si vedono dettagli impercettibili rispetto a uno piccolo; penso alla dimensione collettiva della visione che innesta nel film qualcosa in più rispetto a una esperienza individuale. Ma il fatto di poterlo vedere da soli e su un altro supporto non toglie nulla al suo essere un’esperienza di cinema.

In questo processo di trasformazione, che la pandemia ha solo accelerato e reso più visibile, le sale sono l’anello più debole. Siamo in un momento di transizione così forte che riusciamo a intravvedere la direzione ma non sappiamo il punto di caduta. Secondo me si andrà verso un assestamento, nella coesistenza di vari sistemi di visione, distribuzione, programmazione. Ma sapendo che in questa molteplicità di soluzioni, solo in una sala si potrà fare un’esperienza sensoriale che non ha rivali: penso al nuovo film di James Cameron, Avatar 2, sarà qualcosa senza precedenti, una forza d’urto che si vivrà solo in sala.

Ma penso anche ad un’altra cosa: molti film passano nei festival e non arrivano alla distribuzione; una volta si pregava di trovarli in un cine-club, ora invece li si può trovare in una piattaforma: questo ha fatto solo del bene al cinema.

F.B. A proposito di festival, Venezia festeggia i 90 anni. Un tempo i festival misuravano la temperatura della cinematografia, testavano lo stato dell’arte in giro per il mondo, qui si incontravano produttori, distributori, critici, erano il tempio del glamour. Ma oggi, che tutto questo sembra smarrito e smaterializzato, a cosa servono i festival, al di là della messinscena di un grande evento?

A.B. Paradossalmente servono ancora più di prima. C’è stato un momento, all’inizio del nuovo millennio, in cui i festival sono apparsi poco attrattivi. Ad eccezione dei film indipendenti, per i quali i festival da sempre sono il luogo di visibilità per eccellenza, ai grandi studios partecipare è sempre stato estremamente costoso e con rischi di flop inutili da correre. Così, a un certo punto hanno pensato ad altri strumenti più controllabili, ad esempio portare i giornalisti a una convention di lancio, in un posto magnifico: a volte non facevano neanche vedere il film, eppure ottenevano una visibilità a pioggia in tutto il mondo. Per un po’ è sembrato il modo migliore. Ma si sono resi conto molto rapidamente che mancava quel qualcosa in più che solo un festival sa dare: il rituale. È il rituale che crea un effetto di moltiplicazione dell’attesa e di svelamento. È impagabile l’esperienza del festival, tant’è che se un film non viene scelto o la produzione non può partecipare, quel qualcosa in più viene ricreato artificiosamente per il lancio: il tappeto rosso, l’attesa, la selva di fotografi. L’esperienza fisica torna ad essere imperdibile.

F.B. È l’effetto della prossimità dei corpi. 

A.B. Esatto, non a caso, per ritornare al discorso sulle sale, quando si discute su come trasformarle, si finisce sempre per puntare su un di più di esperienziale. Per cui si parla di ambienti multi-funzioni e molto curati, sempre più accoglienti ed eleganti; si parla di poter incontrare il regista, l’autore o l’attore alla fine del film. Insomma, poter vivere in piccolo l’unicità dell’esperienza. È questo che spiega come, invece di tramontare, i festival nel lungo periodo si siano rafforzati. Prendiamo una grande produzione che lavora con le piattaforme, pensiamo a Netflix: tre quarti dei film che produce sono commerciali e pop, ma per quelli su cui investe centinaia di milioni di dollari vuole il meglio dell’esperienza di marketing e di visibilità. Pensiamo a Roma di Alfonso Cuarón o Il potere del cane di Jane Campion e a tutti quei lavori per cui Netflix fa l’impossibile per portarli prima di tutto a un festival. Sembra un paradosso, no? Queste grandi imprese, che hanno puntato tutto sulla smaterializzazione della filiera cinematografica, sentono di dover dipendere dall’esperienza fisica più tradizionale per rendere il prodotto un must.

F.B. Restiamo sui festival. È storica la rivalità tra Venezia e Cannes. L’anno scorso Variety ha definito Cannes «la più ricercata, sfavillante, elegante celebrazione del cinema al mondo». Il critico Gian Piero Brunetta, che ha appena dato alle stampe la prima storia della Mostra del Cinema di Venezia, edito da Marsilio e dalla stessa Biennale, ha detto: «Il primato di Cannes non è messo in discussione». Cosa resta allora di Venezia dopo 90 anni?

A.B.
Il primato riguarda le dimensioni del festival di Cannes: è quello che attira il mercato più grande del mondo, ha il maggior numero di accreditati e smuove la maggior parte dei professionisti che lavorano nell’industria cinematografica. Non è sempre stato così. Ma Venezia sconta varie cose. Prima di tutto il decennio dopo il Sessantotto, in cui è rimasta smarrita e ha rinunciato ad assegnare i premi ai film.

È ripartita nel 1979, peraltro molto curiosa, sperimentando nuove formule di festival, anticipando soluzioni che poi gli altri hanno copiato. Ma nel frattempo le strutture sono rimaste ferme, sia di sale che di ammodernamento tecnologico: tutte cose che gli altri hanno invece fatto, prima di tutto Cannes, che ha investito e costruito e ha scommesso sul mercato del cinema e su tutto il mondo del business legato al cinema. Produttori, distributori, buyers, finanziatori: tutti quelli che fanno affari con il cinema si trovano là. Venezia non può competere su quel terreno, ma sì sulle anticipazioni, le innovazioni, gli immaginari, i nuovi orizzonti creativi e tecnologici, il prestigio. In questo senso Venezia e Cannes primeggiano su fronti diversi a livello internazionale.

F.B. Tutto questo in un contesto italiano in cui si produce una montagna di film. Lei stesso ha lanciato l’allarme per la pessima qualità e per il «rischio di una bolla speculativa», come l’ha definita presentando questa edizione del festival. Perché è così desolante il panorama italiano?

A.B. In Italia si producono film quasi ai livelli degli anni ’60, lo dico sempre un po’ esagerando perché a quei tempi si arrivava a 400 titoli. Nell’ultimo anno ne abbiamo contati 250, più del doppio degli anni scorsi ed erano già troppi. Erano troppi per la capacità di assorbimento del mercato, visto che non più di 80 o 85 hanno mai trovato una distribuzione nelle sale. Il nostro è un mercato piccolo, abbiamo la metà del numero di sale che ci sono in Francia, meno che in Germania e Inghilterra.

Cosa è successo? Per una serie di fattori, il settore audiovisivo si è trovato d’improvviso sommerso di risorse economiche: la tax credit al 40%, le sovvenzioni ministeriali che ogni anno contribuiscono a finanziare almeno 80 titoli, e poi Rai Cinema che ci mette 82 milioni di euro, cui si aggiungono i 280 milioni del Ministero della Cultura. Sommiamo l’attivismo in crescita delle Film Commission che sono soprattutto agevolazioni e contributi indiretti e siamo di fronte a una cosa mai vista.

Il problema è che sono stati usati male: tutti sono corsi a fare film, sono sbucate dai cassetti sceneggiature ferme da anni, si è girato in tempi rapidissimi con attori, tecnici, autori, montatori, direttori della fotografia tutti iper-impegnati e che si accavallavano nelle produzioni. Tutto questo poteva non influire nella qualità dei film? La prova ci è apparsa sotto gli occhi durante le selezioni: qui sono arrivati almeno 200 di quei 250 titoli e vi assicuro che abbiamo visto una quantità di cose orribili. A parte i film selezionati e pochi altri che purtroppo non siamo riusciti a inserire in programma, il resto era inguardabile.

Così, se l’anno scorso avevo spezzato una lancia a favore del cinema italiano, provando a dare fiducia, quest’anno ho dovuto lanciare un allarme. Gli standard minimi di qualità sono la garanzia del rapporto di fiducia con lo spettatore, è una relazione che non puoi spezzare. Il risultato è che il pubblico non va a vedere film italiani, siamo tornati un po’ come negli anni ’90 quando la credibilità era precipitata. Certo, tutti sono contenti per aver fatto un sacco di soldi, ma per cosa?

F.B. Allora proviamo a tornare a novant’anni fa: cosa è rimasto di quella prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia? 

A.B. Forse è rimasta l’intuizione di fare qualcosa senza precedenti. E di farlo in quel contesto: le prime tre edizioni del festival sono state fatte con grande libertà, il regime non aveva ancora compreso fino in fondo il potenziale del festival. Ma quell’idea iniziale, di valorizzare il cinema come espressione d’arte, riconosciuta come tale dalla Biennale d’arte da cui prende forma, beh è qualcosa di unico.

È il cinema di qualità, il cinema d’autore, l’abilità nel combinare autorialità e capacità di rivolgersi a una platea vasta di spettatori. Peraltro, quest’ultimo elemento mi sembra prezioso e non scontato. C’è stato un tempo in cui si credeva che l’impatto sul pubblico fosse secondario, che l’importante fosse il gesto creativo che il pubblico doveva subire. Oggi non è più possibile, oggi il pubblico è uno dei protagonisti dell’opera. Prima ancora di mettersi a scrivere e a girare, ci si deve chiedere: per chi faccio il film? A chi mi rivolgo? E soprattutto: come faccio a coinvolgere chi mi guarda dentro al mio atto creativo? È stato questo anche il criterio di selezione che ci ha caratterizzato in questi ultimi dieci anni.

Quindi, per tornare a quelle primissime edizioni: questi interrogativi erano già presenti come intuizione. C’era il meglio della produzione dell’anno, in arrivo da tutti i paesi con scuole di cinema, dagli Usa al Giappone, dalla Russia alla Francia. Si presentava una vera forma d’arte con una curiosità e un’attenzione sorprendenti per l’epoca, articolando la scelta anche tra i film per ragazzi, i film documentaristici e scientifici, lo sguardo alle tecnologie. Quell’idea, il provare in qualche modo ad anticipare le trasformazioni del cinema, cos’è se non una tensione al futuro?

ARTICOLO n. 63 / 2022

HO SOLO TRENT’ANNI, MA MI SENTO GIÀ ESAUSTA

Dove sarò questa estate?

Appollaiata su una seggiola della mia terrazza, respiro la brezza marina serale che avvolge Barcellona. In città fa caldo, sempre più caldo, ma alla sera si trova un po’ di sollievo nell’aria frizzante che arriva dal mare. Due gabbiani volteggiano sopra alla mia testa gracchiando e mi sembra quasi di sentirli ridere tra loro. È di nuovo estate e me ne accorgo quasi per sbaglio. 

Una pesante stanchezza mi annebbia mente e corpo mentre cerco a tutti i costi di rallegrarmi per l’arrivo della bella stagione e l’imminente pausa estiva. Dove sarò quest’estate? Come userò il prezioso tempo a mia disposizione? Che ho fatto finora e dove sono andati a finire gli ultimi mesi, gli ultimi anni? Per un attimo mi sembra di aver vissuto per un lunghissimo tempo come in apnea, incapace di prendere respiro in una forsennata corsa dietro alle continue preoccupazioni. La guerra, il Covid, il precariato, i governi che cadono, l’aumento dei prezzi, e ancora il caldo, le maree che si alzano, la nostra terra che brucia. In questo assoluto marasma il tempo a disposizione io non so più che cosa sia perché ormai sfugge via troppo rapido per ricordarsi di goderne.

A chi mi chiede che cosa farò quest’estate, rispondo: riposerò.

Ho solo trent’anni, ma mi sento già esausta. 

Avere trent’anni non è facile se si ha avuto la sfortuna di nascere quando è capitato a me, perché alla mia generazione, quella nata dopo il 1990, è stato chiaro quasi sempre che i sogni che avevamo non avrebbero mai trovato suolo fertile nella realtà che viviamo. Noi con le crisi ci abbiamo dovuto fare i conti da subito, giacché fin da che ne ho ricordo, “crisi” è stata la parola più utilizzata per descrivere il periodo storico che ci è toccato vivere: la crisi economica, la crisi della politica, la crisi climatica, la crisi dei valori. Così, a poco a poco, da uno stato di perenne crisi esterna abbiamo cominciato a scivolare verso una profonda crisi interiore, rifiutando da una parte di accettare davvero che la nostra vita sia finita ancora prima di iniziare, ma dall’altra privati della possibilità di fermarci per riflettere, respirare, guarirci. I ritmi forsennati della società ci impongono di lavorare senza sosta, programmare ogni minuto della nostra vita per non perderci nulla, sapere sempre esattamente dove stiamo andando e perché. In bilico tra speranza e rassegnazione, inseguendo l’utopia della realizzazione personale in un mondo che si è rotto, viviamo la vita sopravvivendo e spesso scordandoci della sua fuggitiva bellezza. 

Per far riecheggiare la forza della vita che si afferma ci serve allora l’arrivo dell’estate, che con il suo sonno e il suo tepore ci ricorda l’importanza di fermarci a osservare la crisi che sentiamo. 

Nonostante tutto, forse un po’ ingenuamente, io vedo infatti l’estate come una speranza dell’inizio del nuovo. Mi ricorda che sono viva, che esisto, che tutto ha senso se solo lo si cerca. L’estate per me è un dondolio del tempo in cui farci promesse e sperare che durino fino all’autunno. Così, quando arriva il caldo, mi obbligo con tutte le mie forze a uscire dall’apnea della quotidianità per ritornare a galla a prendere fiato. Per l’essere umano, si sa, respirare è un’esigenza fisiologica: in mancanza d’ossigeno, si muore. Questo respiro vitale che prendo d’estate funziona in me come una catarsi: è un tempo sospeso e rarefatto in cui trovo finalmente il coraggio di perdermi e purificarmi da tutta la fatica. Quando ero piccola amavo l’estate perché nella mia testa durava praticamente come il resto dell’anno. Era un’intera eternità in cui potevo sempre ridere e mi era concesso fare tutto ciò che più mi piaceva: andare al luna park, prendere lo zucchero filato, fare a gavettoni, leggere i libri di Roald Dahl uno dopo l’altro, fare nuove amicizie. 

Oggi invece è tutto un po’ più complicato. Viviamo in un mondo velocissimo in cui disconnettersi significa al massimo spegnere il computer, mettere il culo in macchina, su un treno o un aereo e andare a fotografare qualche posto nuovo convincendoci, mentre lo postiamo sui social, che “stiamo staccando” senza riuscire mai a farlo veramente. Così, a causa delle aspettative irrealistiche e dei ritmi disumani che ci vengono imposti, abbiamo perso gli strumenti per lenire il nostro dolore derivante dalla crisi. Ci vestiamo sempre e solo dello sguardo degli altri, mendicando attenzione e approvazione esterna, non sapendoci più guardare con i nostri occhi e incapaci di dare amore anche a noi stessi. Stanchi e nervosi come ci sentiamo, disconnettersi dalla pesantezza del mondo diventa vitale. 

Divertirsi il più possibile è l’imperativo dei giorni nostri a cui rispondiamo per lo più ammazzandoci di alcol e di droghe e bandendo quasi sempre la politica dai nostri discorsi, perché se qualcosa ci fa soffrire noi lo allontaniamo. Odiamo annoiarci. L’ozio e la noia sono i maggiori nemici da combattere. Ci terrorizza l’idea di non riempire ogni minuscolo frammento del nostro ipotetico tempo libero con qualche attività che ci diverta e ci ossessioniamo con la necessità costante di sentirci in movimento per non dover fare i conti con quell’horror vacui che diventa il nostro compagno di vita. Quando ero isolata da tutto e da tutti all’inizio del primo lockdown, ubriaca di pensieri e della vista che mi offriva il mio vecchio balcone sul Mercado de Santa Caterina, passavo le mie giornate ad immaginare ciò che avrei fatto una volta che sarei stata di nuovo libera. Giuravo ogni giorno a me stessa che, appena possibile, me ne sarei andata lontano per ritrovare quel tempo che mi sembrava perso. Non mi accorgevo ancora che, grazie a quel tempo sospeso, mi stavo scavando dentro.  

Qui nessuno ci ha mai spiegato che l’inizio del movimento inizia dalla frattura, dalla crisi, dal dolore e dalla noia. Nessuno ci ha insegnato come gestire ciò che ci accade ad esempio durante la pausa estiva, quando tutto sembra finalmente fermarsi e a noi non resta altro da fare che riflettere sulla condizione umana. Una volta ho letto da qualche parte che agosto è il mese in cui le persone divorziano di più. In sostanza, la gente passa l’anno a pianificare le vacanze e una volta ritrovatasi nella convivenza forzata e nella sospensione del tempo, implode. Probabilmente questo accade perché, da fermi, veniamo obbligati a fare i conti con noi stessi, a guardarci in faccia, a chiederci come stiamo, cosa che evitiamo meticolosamente di fare durante il resto dell’anno come a volerci proteggere dal peso dei nostri dubbi. Il problema è che, in assenza di un dialogo interno, diventa quasi impossibile crescere ed evolvere nel dolore del mondo, e per questo la noia e l’assenza di attività ricreative o produttive diventano ingredienti essenziali per stimolare i nostri processi di pensiero. 

Sconfiggere un dolore profondo senza saperlo comprendere e chiamare per nome è pressoché impossibile. Anche per questo, forse, Walter Benjamin diceva che la noia è l’apogeo del rilassamento mentale in cui si allena la mente a far entrare ogni tipo di pensiero intrusivo, apparentemente inutile e a volte distruttivo. Bertrand Russell, dal canto suo, in un saggio intitolato La conquista della felicità, scriveva invece nel 1930 che«una generazione che non riesce a tollerare la noia è una generazione di uomini piccoli, nei quali ogni impulso vitale appassisce»perché solo attraverso la noia diventiamo capaci di osservare ciò che ci accade attorno e ciò che in esso diventiamo. Se mi guardo intorno, la sensazione che ho è proprio che la mia generazione stia appassendo perché non si sa più annoiare e, di conseguenza, forse non sa più pensare. 

In un mondo che ripudia noia e dolore, l’ozio che da vita al pensiero diventa allora una forma di ribellione. 

Alla fine, quest’estate me ne andrò in Malesia e mi perderò nella selva, nei templi buddhisti e nel mare. Si tratterà di vero e proprio viaggio, e non di semplice turismo, in cui passo dopo passo mi porterò verso l’incognito del mio Io interiore per ritrovare quella spinosa sensazione di perdita e di solitudine. Il viaggio, con la sua partenza e il suo ritorno, voglio che sia la mia disconnessione capace di attivare i miei processi di pensiero ormai da tempo assopiti. Respirando dal polmone dell’Asia, cercherò di annoiarmi moltissimo ascoltando il canto delle cicale e guardando lucciole e stelle cadenti per far vagare la mente. Sperando di perdermi e poi mi ritrovarmi ovunque io sia, proverò a spogliarmi dei dolori più profondi osservandoli, fermandoli, capendoli. Lontana, sì, ma forse un po’ più vicina a me stessa, respirando con il coraggio di chi non si è ancora arreso e spera che il suo sognare possa durare almeno fino all’arrivo del prossimo freddo.

ARTICOLO n. 62 / 2022

TORNARE AI GIORNI FELICI DI VEDRIANO, DALLE PARTI DI CANOSSA

Dove sarò questa estate?

Qualche anno fa, proprio ad agosto, ebbi l’occasione di partecipare a una sagra: l’avevano chiamata Sagra della Street Art, forse per fare il verso a quei nomi con dentro la parola “Art”, che in quel periodo spopolavano sui social e che cercavano di unire questo termine a parole dal sapore melenso e stucchevole, di quel tipo di cose che si dicono da adolescenti per far colpo su un nuovo amore. Insomma, delle vere e proprie schifezze.

Allora tornavo da un lungo viaggio, avevo passato diverse settimane a dipingere in lungo e in largo, dove mi capitava e dove trovavo ospitalità: mi fermavo per qualche giorno per poi ripartire alla volta di nuovi incontri. Non avevo programmato un periodo di rientro, godendomi così quel modo di vivere un po’ ramingo che mi dava pace.

Viaggiavo in macchina. Avevo a disposizione una vecchia station wagon che da qualche periodo accompagnava le mie scorribande. Gli anni si contavano sugli interni lisi e sui numeri delle marce del cambio che piano piano la mano nel tempo si era portata via.

La fessura per le audio cassette segnava l’epoca a cui l’automobile era appartenuta, una sorta di linea di demarcazione, un segno geologico, di quelli che dividono un’era da un’altra, insomma, un mezzo d’altri tempi. Il contachilometri segnava quasi 500.000 km. 

Ricordo che allora mi divertiva pensare che se mi fossi diretto verso la luna appena uscito dalla concessionaria, in quel momento mi sarei già ritrovato sulla via del ritorno. 

La station wagon era comoda, forse per via dei sedili sfondati da anni di guida che la facevano assomigliare più a un vecchio divano che a un’automobile. Ero comunque riuscito a farmela bastare per ogni evenienza. L’avevo trasformata in una sorta di monolocale, una micro-stanza di un paio di metri quadrati che era in grado di assolvere a ogni mio bisogno essenziale e all’occorrenza era anche un divano letto per amici e compagni di viaggio dell’ultima ora. Il baule capiente non bastava mai per la quantità di vernici che mi portavo appresso. Inutile dire che quasi tutto lo spazio era occupato da latte di colori e vernici di ogni tipo, alcuni secchi ero costretto a stivarli sui sedili posteriori che, a ogni curva un po’ brusca, sputavano pittura ovunque e dopo qualche giorno trovavo alcuni barattoli totalmente riversi. Là dove il contenuto seccato si saldava al tessuto della fodera dei sedili in un unico grumo, duro come il marmo. C’era vernice ovunque, croste di pittura secca rendevano la macchina un guazzabuglio di colori e pennelli, un caos nel quale però stavo bene e mi sentivo a casa. Inutile dire che quel carrozzone fungeva da letto, riparo per la pioggia, pensatoio, scala, sala da pranzo. Insomma, era il mio personale avamposto verso il mondo.

Una mattina trovai così un messaggio nella casella mail dove venivo invitato a partecipare a una sagra dalle parti di Canossa, tra le colline reggiane. Conoscevo chi la stava organizzando, era un caro amico che avevo conosciuto qualche tempo prima e con il quale avevo già pittato vari muri. Senza nemmeno pensarci su due volte, accettai.

Era fine agosto, la sagra era alla sua seconda edizione, la prima si era tenuta in un paese vicino qualche settimana prima. Questa volta si sarebbe dipinto a Vedriano. Il paese era formato principalmente da due strade, che disegnavano una V sulla mappa del luogo. Una scendeva e l’altra saliva. Quelle strade e quella V mi ricordavano alcuni disegni di Escher, dove le strade si univano in un anello paradossale di continue salite e discese. 

In mezzo, qualche casa, alcune cascine e un’osteria. Affacciandosi sul fianco della collina, in lontananza spiccava la Pietra di Bismantova, una conformazione rocciosa presente da diverse ere geologiche. Sembrava tagliata con un coltello: le pareti verticali le davano un aspetto imponente e solenne, aspro e impervio. Lo so, forse quel posto non era migliore di tanti altri e di paesi come quello ce ne sono molti, sparsi per tutta l’Italia, ma li c’era ancora qualcosa da scoprire.

La sagra era stata concepita da due ragazzi del posto, due pittori o artisti che dir si voglia. In quel periodo, in tutto il mondo, si erano diffusi i cosiddetti festival di Street Art.

Eventi dal sapore pop e cool dove chiunque poteva immergersi nella “trasgressione” dell’underground, portando a casa selfie e cartoline in compagnia degli amati street artists al grido di “viva la bellezza, evviva l’arte libera”…

Inutile dire che la quasi totalità di questi eventi era un pretesto per esibire virtuosismi di scarso contenuto in città rese vetrine più per il benestare di politiche locali ora favorevoli che per una reale visione di senso politico e conflittuale.

Ma nulla più di soldi e fama possono cambiare radicalmente anche i modi più radicali di vedere la realtà e così sulla scia di quell’apparente nuovo mondo artistico prima disprezzato e ora osannato e reso fruttuoso dall’opportunismo politico, si moltiplicavano manifestazioni pubbliche con street artist protagonisti della mondanità culturale.

Parigi, Miami, Los Angeles, New York, Sydney erano diventate le nuove principali mete dell’arte pubblica, estimatori d’arte dell’ultimo momento si accalcavano insieme a ricchi annoiati pronti a investire in nuovi talenti dal sicuro ritorno economico.

Ma qui non eravamo certo a Miami o a Parigi, eravamo a Vedriano, frazione di Canossa, provincia di Reggio Emilia, pianura padana. Un piccolo paese che tentava, quasi eroicamente, di ribaltare le logiche della coolness offerte dagli art curator più quotati.

Nei giorni successivi al mio arrivo arrivarono molte altre persone per dipingere. I muri disponibili erano sparsi per tutto il paese, alcuni privati, alcuni del comune, altri ancora abbandonati. L’idea era quella di creare un meccanismo virtuoso in cui chi dipingeva offriva la propria fantasia e il proprio modo di esprimersi alla gente del posto creando così uno scambio, un movimento che portasse le persone del luogo e anche ovviamente qualche forestiero a partecipare attivamente, mescolandosi agli artisti con l’aiuto della vernice e anche del Lambrusco.

Le giornate si riempirono di nuovi piccoli eventi paralleli nati spontaneamente. Letture, musicisti di strada e semplici curiosi costituirono così la linfa vitale di quel fantastico “esperimento sociale”.

Definire tutto questo sagra fu quanto mai azzeccato. Perché quei giorni erano realmente e semplicemente niente di più e niente di meno di una vera e propria sagra. Una festa di paese – fatta di incontri casuali, bevute e balli – aperta a chiunque avesse voglia di partecipare, ognuno portando il proprio contributo di idee come di allegria, un movimento continuo di gente che andava e veniva. Nulla di più bello si può immaginare per dare vita a un luogo.

Tutti arrivavano a Vedriano, dal Regno Unito come dai paesi attorno, da Roma, Milano, Torino come dalle altre città europee. Tutti alla Sagra della Street Art!

Il muro che dipinsi era parte di una struttura abbandonata che un tempo doveva essere stata adibita a stalla. Un posto come tanti da quelle parti in cui probabilmente erano state allevate le famose vacche rosse, mucche da latte note per la produzione del Parmigiano Reggiano.

Il muro grezzo e ruvido era stato invaso dalla natura, coperto in parte da rovi e sterpaglia. Iniziai a potare e a farmi spazio in mezzo a quel ginepraio, aprendomi un varco sul muro, dove dipinsi due grandi mucche rosa carne.

Del resto volevo parlare delle tematiche legate all’allevamento intensivo e allo sfruttamento delle bestie per fini alimentari. Quindi quale posto migliore avrei potuto mai chiedere di una vecchia stalla abbandonata?

Avevo esteso le zampe delle due mucche trasformandole in braccia e gambe umane.

Il risultato era così quello di una di mucca antropomorfa incatenata alla mangiatoia. Una trasposizione della condizione animale sull’uomo, un Minotauro contemporaneo vittima delle scelte scellerate dell’essere umano.

Ci misi tre giorni per completare il muro, compreso quel momento per me fondamentale di riflessione che arriva a lavoro completato quando tento di capire se quello che ho fatto è una semplice schifezza oppure offre qualche possibilità di miglioramento.

Porto con me da allora molti ricordi felici di quei giorni. Momenti precisi che tengo con cura e ben separati nel mio cervello solitamente caotico e attraversato da continui pensieri e conflitti. Sono giorni che ho riposto dentro la mia testa, giorni spensierati che appaiono insoliti per me che non tendo certamente all’ottimismo, ma al contrario vivo e traggo energia proprio dal mio atavico pessimismo.

Ho sempre avuto molta cautela nel definire o nel circoscrivere ciò che provo e che sento. Non lo faccio certamente per avarizia o pudore, ma per timore, quello di non appartenere o di non essere all’altezza di sentimenti come la serenità o la spensieratezza, che spesso ho potuto osservare o incontrare solo da molto lontano, come echi di qualcosa di già perduto. Evidentemente devo avere quello che si dice un approccio proustiano al passato, non lo so. Di certo ho bisogno di tempo e pazienza perché sentimenti felici e leggeri come la spensieratezza possano sedimentarsi e quindi chiarirsi nella mia memoria fino al punto di essere compresi e come in questo caso ricordati.

Quella fu l’unica sagra della street art che si organizzò, sì, ci furono altri piccoli episodi a distanza di qualche mese, qualche tentativo di raccogliere ancora le energie e le forze che si erano liberate, ma senza alcun esito. E io non tornai più a Vedriano, almeno fino a oggi, mentre racconto quei giorni come fossero presenti e trasformo la mia memoria in un desiderio futuro, in un agosto del 2022 in cui tutto, desidero, possa ancora succedere con felicità e spensieratezza nonostante qualche foto sui social mi mostri quei disegni sbiaditi dal tempo.

ARTICOLO n. 61 / 2022

L’ESTATE È UNA DROGA BUONISSIMA CHE FA DAVVERO MALE

Dove sarò questa estate?

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline…
Cesare Pavese, La bella estate

Ricordo con precisione un periodo della mia vita compreso tra il 2005 e il 2015 in cui noi milanesi di adozione continuavamo a ripeterci, assuefatti dall’ottica della FOMO (Fear Of Missing Out, la maledizione di noi Millennial che ti porta ad aver paura di non essere sempre al centro della scena, facendoti perdere il luogo, la festa, il tema o la situazione del giorno, ndr), che l’estate fosse soltanto una stupida parentesi per i poco fantasiosi e per le cosiddette masse.

La maggior parte delle persone della mia età e dei miei conoscenti affermava con ferocia che rimanere in città fosse decisamente meglio: pensavano che le persone sopravvalutassero la stagione estiva e ripetevano come un mantra la leggenda per la quale la metropoli nella calura di agosto diventasse quasi romantica. Bugia. Milano, in estate, nella prima decade dei 2000 faceva paura e la città deserta era letteralmente in mano alla piccola criminalità. Ma a noi sparuti spatriati non sembravano interessare i furti, gli scippi, l’aumento incontrollabile degli stupri, e ci ripetevamo allo specchio come un mantra, mentre i nostri contratti in nero non ci concedevano ferie, che Milano fosse meravigliosa in agosto: dopotutto, morire di caldo in una stanza doppia a Famagosta fa meno male quando sposi le bugie a cui sei costretto a credere per sopravvivere senza impazzire.

L’estate dunque non andava particolarmente di moda e moltissime persone si convincevano di quanto questo disgusto fosse anche il loro: nessuno prendeva il sole, c’era tra alcuni quasi una tacita gara – dal sapore preoccupantemente razzista e classista – a chi rimaneva con la pelle più chiara degli altri: evidente dimostrazione di non aver mai abbandonato la città o indossato il costume per tutta la stagione estiva, quasi fosse una medaglia al valore.

Vestivamo tutti di nero, ci ostinavamo a passeggiare sulla Darsena nelle ore di punta ricoperti di crema solare e lasciavamo il mare per lavori mal retribuiti e senza garanzie, con la promessa di una birra all’idroscalo o una serata estiva di clubbing all’aperto.

Dopo la Fashion Week del mese di giugno, la città iniziava lentamente e inesorabilmente a svuotarsi dei più ricchi e dei più anziani. Me ne rendevo conto subito perché al bar dove ho lavorato per otto anni prima come cameriera e poi come bartender si presentavano sempre le stesse facce. Le facce degli irriducibili, di chi l’estate, addosso, non l’avrebbe avuta. Di chi non poteva cambiare la routine e quindi si convinceva, con incredibile sforzo di auto ipnosi, di non volerla cambiare.

Era una grande bugia quella sulla bruttezza dell’estate e la vedo nitidamente solo adesso, quasi 20 anni dopo quel mio primo periodo di sudore meneghino.

Per capire meglio la triste verità che ho intuito dietro a quel rifiuto verso le vacanze estive e comprendere la derapata che il senso di estate ha preso per la mia generazione devo fare un passo indietro.

C’è stato infatti un momento preciso in cui l’estate ha smesso di rilassarci, a noi Millennial.

Già, perché, quando ero bambina, trent’anni fa, l’estate era il momento di stacco per eccellenza, di sospensione della routine, di respiro dall’inverno.

Ho sempre avuto l’impressione che l’estate fosse magica, che sapesse di vita più di ogni altra stagione.

Sarà perché vivo gran parte dell’anno in un posto di mare, che per sua natura si apre stagionalmente ai turisti ma che in inverno cessa di esistere. Sarà perché non soffro affatto il calore ma patisco con incredibile dolore il freddo dei mesi invernali. O sarà forse perché credo che tutti i corpi, seminudi e sudati, siano più onesti e incredibilmente teneri che in ogni altra dimensione pensata per noi esseri umani.

Fatto sta che il mio pensiero sull’estate è stato quasi sempre ricolmo di infinito amore.

Ho scritto per anni di memorie familiari e personali che mi legano all’alta stagione. Piccoli racconti, un memoir, alcuni articoli che rendono romantica la calura e i luoghi in cui solitamente la vivo. Ma crescendo ho iniziato a capire, anche grazie a quegli anni di agosto in città, che a me l’estate piace perché sotto sotto è più umana degli esseri umani.

E negli ultimi due anni di Coronacene il mio sentimento di affetto e di incredibile curiosità per la stagione estiva è aumentato esponenzialmente.

Pavese, con cui ho aperto questa mia riflessione, aveva descritto molto bene, nella sua trilogia La bella estate del 1949, il sentimento prevalente nei giorni estivi: la stagione della calura è un climax di aspettative che si risolve in una prevedibile quanto opposta disillusione.

Se per secoli l’estate era stata prerogativa dei ricchi (si chiamavano infatti vacanze, non ferie: non è un dettaglio da poco), con il boom economico le ferie – che per Costituzione spettano a ogni lavoratore –, divennero un rituale nazionale ben più diffuso.

Le carovane di auto stracariche e i treni speciali con tratte rafforzate, le città deserte, gli abbonamenti speciali ai giornali da far recapitare all’indirizzo di villeggiatura, la riunione di nuclei familiari, il ritorno nei luoghi d’origine erano un momento di incredibile socialità e respiro per sempre più persone.

I primi stabilimenti balneari divennero agglomerati di famiglie che interrompevano la routine. Tra il 1968 e il 1970 gli alberghi delle località di villeggiatura contavano un milione e mezzo di posti letto in più rispetto alla decade precedente. Insomma, le ferie erano diventate una questione nazionale piuttosto comune che escludeva chi non aveva lavoro, chi era nella soglia di povertà che come sempre veniva – e viene ancora – ignorato dallo Stato, e i lavoratori in nero.

L’aspettativa che da sempre abbiamo accostato alla vacanza (Ci innamoreremo? Ci succederanno avventure meravigliose? Avremo qualcosa da raccontare agli amici al nostro ritorno? Avremo il famoso “corpo da spiaggia” che le riviste ci hanno fatto credere di dover avere per scendere a mare?) aumenta negli Anni ‘80 e poi nei ruggenti e vuoti ‘90. Dalle leggende sulle turiste tedesche, ai corpi sempre più performanti; dal luccichio del lusso cafone della Costa Smeralda e dei suoi nuovi inquilini alla sempre più disperata necessità di ostentare ricchezza anche senza averla, la vacanza diventa assoluta performance.

E questa performance è diventata ancor più incontrollabile con l’avvento dei telefonini con videocamera, che hanno preso il posto delle diapositive – per chi è molto giovane: vi siete evitati una bella tortura post vacanziera, e un po’ vi invidio – e poi dei social, che ci fanno vedere stili di vita irraggiungibili e assurdamente iper-celebrati alternandoli a video di gattini, insalate di riso e ombrelloni in quinta fila (le file degli stabilimenti balneari sono una deliziosa, crudele e ironica rappresentazione della gerarchia sociale, un giorno ne riparleremo, promesso).

Negli anni milanesi di cui sopra, quelli dei miei venti – ben poco ruggenti –, inizia però a cambiare qualcosa nel modo in cui noi Millennial vivevamo l’estate.

Infatti, se da bambini ci crogiolavamo sul sedile posteriore della macchina dei nostri genitori ascoltando musicassette comprate con i giornali in edicola, da quasi adulti impreparati alla vita ci troviamo in mano un mondo del lavoro che non solo non ci vuole, ma che se per caso ci fa il favore di assumerci lo fa in nero, o con contratti Co.Co.Co o con i voucher INPS. Se sei stagista – modo carino per indicare una forma di schiavitù – spesso non ti pagano neanche.

Quindi le vacanze diventano il nemico.

I nostri genitori scappavano al fresco, i nonni ancora vivi si godevano la campagna, i nostri fratelli piccoli erano con i parenti e noi cercavamo di capire come mai ci fosse toccata sta piaga fatta di contratti di merda e vomito biliare.

La fase dell’aspettativa e dell’emozione, ben descritta tramite il personaggio di Ginia in La bella estate di Pavese, non esisteva più. Eravamo già catapultati nella fase della disillusione.

Poche cose positive posso dire sulla mia generazione, ma una tra queste la reputo sublime: siamo stati talmente poco in grado di ribellarci anche quando avevamo ragione (spoiler: sempre), che siamo diventati campioni mondiali di rassegnazione. Quindi, piuttosto che imporci e denunciare chi ci faceva lavorare per quattro euro l’ora, abbiamo reso romantica l’estate in città.

La situazione di stallo di quella infelice decade si sblocca un po’ con l’avvento del digitale e dei posti di lavoro che incredibilmente abbiamo creato dal nulla. Apriamo una sequela infinita di partite iva perché comunque assumere non ci assumono, monopolizziamo uno spazio importante dell’industria creativa e digitale e riusciamo a sopravvivere nonostante gentrificazione, affitti fuori controllo, costo della vita da Emirati Arabi.

Ci riappropriamo giusto per un paio d’anni dell’estate, giusto il tempo di riassaporare quel sentore di idillio e aspettativa illusoria di poter fare cose incredibili sotto al solleone, che arriva il Coronavirus a ricordarci che forse non era proprio il nostro momento storico, cari colleghi Millennial.

Le vacanze durante il Coronacene sono diventate un fenomeno di semi-isteria collettiva totalmente giustificata. Dopo anni – due – di restrizioni, morti, licenziamenti, cambio del tenore di vita, soglie di povertà mai raggiunte, aumento della violenza, paura, incertezza, crisi climatica ormai irreversibile, nel momento in cui arriva l’estate non siamo più “vacanzieri”. Cambia perfino il lessico con cui ci approcciamo all’estate, con l’arrivo del virus: non andiamo “in vacanza”, bensì “ci aprono”.

E noi tutti, come animali in cattività, abbiamo respirato questa illusione di libertà con incredibile tumulto: dobbiamo approfittarne “prima che ci richiudano”. Dobbiamo fare quello che non abbiamo potuto fare mentre contribuivamo al mantenimento della salute collettiva. 

Ed eccoci qui, che progettiamo la fuga, imballiamo le mete turistiche, spendiamo il triplo rispetto agli anni precedenti e diamo tutto, tutto quanto ci rimane in termini di energia, come se ci scappasse la vita dalle mani, come se avessimo paura di non avere più tempo – lo abbiamo?

Abbiamo, negli ultimi decenni, smontato e rimontato il concetto d’estate come magia e illusione.

Ci siamo ritrovati a perdere l’adolescenza che questo periodo simboleggiava per tutti, trasformandola prima in rassegnazione e poi in bulimica urgenza di sistemare le cose perdute e pruriginosa ansia di non aver più tempo per farle in futuro.

L’estate, anno dopo anno, diventa sempre più umana, prende vita e annusa la società e le sue paure. L’estate ci rende quanto più simili alla nostra natura e alla nostra generazione di appartenenza di quanto si creda. L’estate ci lascia nudi e sudati, impauriti, come i corpi sul mare.

L’estate diventa più umana di noi e ci fa venire paura. Paura di non vederla più. Paura di non provare più quell’illusione adolescenziale. Paura di non avere più tempo, più soldi, più giorni liberi. L’estate, vista così, potrebbe essere un momento perfetto di rivoluzione, che ci ricorda da dove veniamo, come abbiamo dormicchiato per tutto l’inverno, e dove potremmo andare: di nuovo, la promessa di avventure incredibili incatenate in un inverno di disillusioni. L’estate è una droga buonissima che fa davvero male. Ecco perché, in definitiva, io la amo così tanto.

ARTICOLO n. 60 / 2022

VIVO RICORDANDO SEMPRE TE

Dove sarò questa estate?

Felicità
è star solo
d‘estate
nella città deserta
sulla tazza del cesso
con la porta aperta.

Dino Risi, da Versetti Sardonici

Così parlò Dino Risi regista e poeta, prendendo in pochi versi semplici intensi e diretti, grazie al potere sintetico della poesia, come un haiku, scorciatoie del pensiero che diventano vie maestre che conducono verso… 

Verso cosa? Dappertutto, forse. E quindi da nessuna parte, forse? Questo è il problema? Ma no, nessun problema, sul dove essere o dove non essere in questa estate. Questo mi pare di aver confusamente capito.

È una fuga da fermo, poiché potrei, snocciolando un po’ di ginnastica amletica, esser rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni, in tono scettico-blue.

Davanti ai versi di Risi, io risi sguaiatamente la prima volta che li lèssi, come attraversato da un satori, da un risveglio inatteso di tutto me stesso, un ceffone dato da qualcuno per farti riprendere i sensi. 

E sempre più rido perché con l’età quei versi hanno preso in me la forma di un koan zen, una sorta di invito a osservare la realtà per come è nel qui e ora, senza tentare di risolverla come fosse un indovinello, no, ma a percepirla nella sua evidenza immediata, sbarazzando la mia mente dei suoi preconcetti, immagini predigerite e parole anchilosate dalla forza dell’abitudine, e che come uno Sherlock Holmes mi fa d’improvviso spalancare gli occhi ottusi e vacui come a quel personaggio che non capisce mai niente di quanto gli capita attorno quando Sherlock gli dice: «Elementare, Watson!»

E dunque rieccomi qui, in estate, novello Watson istupidito dalle temperature micidiali, in questo amletico guscio di noce, dalla cima di questo mio ermo colle, ovvero, come in alto così in basso, da questa tazza del cesso con una porta spalancata su Roma arida in fiamme ovunque e sull’orbe terracqueo, Re solitario come un numero primo. 

Visto da quassù il mondo in sfacelo di ora mi sembra un Apocalypse Now che ritorna sì, ma non come tragedia bensì come farsa, visto che la storia se deve ripetersi lo fa sempre due volte e in due diversi modi, come se l’estate fosse l’esempio assoluto dell’eterno ritorno dell’uguale (guarda chi si rivede…), specie perché avverto sempre più che in questa stagione il tempo e lo spazio sembrano diventare uguali a se stessi, ovunque tu vada, come in una lunghissima sfiancante tournée teatrale, ovunque tu cerchi ristoro e riparo dalla tortura di questa che non è più l’estate come l’ho conosciuta ma una punizione et diabolica et divina. 

Ti sei tanto ripetuto la poesia di Camus che «nel bel mezzo dell’inverno, ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate»? E allora tiè beccati questa invincibile estate! E la sua sofferenza. E la sua indifferenza alla tua sofferenza da temperature assassine.

Come un Sisifo su e giù a sospingere il macigno di questa che chiamano estate. E la chiamano estate, questa estate senza te, sì, così mi cantavi, o divo Bruno Martino, con voce soave tanto da fare vibrare tutta l’iridescenza della luce estiva e i suoi miraggi nel colore del tuo suono pastoso. Come se in quella canzone ci fosse già, per paradosso, una memoria futura, una nostalgia del futuro degli amori già mentre da adolescente li vivevi, anche e soprattutto quelli immaginari, quelli che mai cominciarono e perciò più evocativi. 

Sì perché mi ricordo che l’estate un tempo era per gli amori, poi, con l’aumento inarrestabile delle temperature, è diventata una stagione perfetta per attivare strategie di successo per l’angoscia da riscaldamento globale (io stesso, mentre scrivo, non so se riuscirò ad arrivare alla fine dell’articolo, e, se ci riuscirò, quando lo avrò riletto sarò magari decrepito o forse sarò morto liquefatto prima, mescolato e indistinguibile dai resti di una lattina di Estathé. Per questo non vedo l’ora di cadere nel brand più lieve e languente della malinconia dell’autunno).

E così il riscaldamento globale ha trasformato il «dovrei paragonare te a un giorno d’estate?» (il primo verso del sonetto 18 di Shakespeare) in una beffa, se non in un insulto? E la chiamano estate, codesta carcassa, la chiamano ancora estate. Con o senza te. Ne succedono ormai troppe in questa stagione, così tante che nella dimensione catastrofale in cui sono immerso, invece che provare tristezza, dispiacere, rabbia, indignazione, mi capita di scindermi e proiettarmi, forse per un istinto di autoconservazione, in un altro tempo, in altre estati, quelle del passato, quelle dell’adolescenza, dove riuscivo a sentire quella stagione come un preludio a ciò che sarebbe arrivato dopo, nell’autunno e poi nell’inverno, una preparazione al futuro, che allora era una figura temporale che esisteva davvero nella percezione. E dove non sentivo separazione tra il mondo e me. 

L’estate scorsa ho registrato per Radio 3 La bella estate di Cesare Pavese. Non lo leggevo da tre decenni. Appena al microfono ne ho iniziato a registrare l’incipit ho avuto, come in botanica, una recrudescenza di tempo ritrovato (perdonami Marcel, ma è fatale invocare proprio te, specie in quest’anno di celebrazioni proustiane del centenario della tua morte). Tempo ritrovato, intendo, in qualità di lettore, essendo stato quello il tempo delle letture più importanti. Ma che lo fossero lo avrei riscoperto molto più tardi. E quel breve romanzo di bellezza lirica insieme agli altri due che compongono il trittico – Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, oggi lo so, per me contiene tutto quello che c’è da sapere sull’estate, almeno per come ricordo di averla vissuta a quell’età. «A quel tempo era sempre festa», inizia così. La protagonista è una ragazza che fa la scoperta dell’amore e delle sue illusioni, che conosce cos’è avere un corpo, anzi, essere un corpo, quel corpo in relazione al mondo che abita. Voglio aggiungere solo la frase, che conclude il terzo dei romanzi, come sintesi di tutto il senso: «È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire».

È in quel tempo che vado a cercare il tesoro che si è formato in una dimensione per me mitica, ricco di incontri determinanti anche inconsapevolmente, e forse l’estate era proprio questo, uno stato di grazia, e non di disgrazia come è oggidì. Discorso da ecologista reazionario? Sì. Da nostalgico rompicoglioni ingusciato sull’ermo colle seduto sulla tazza? Ne ho le medaglie guadagnate sul campo per potermelo permettere, sissignore! E anche da sentimentale, aggiungo, ma senza il cinismo. Di quello mi basta già quanto il mondo ne produce ogni minuto secondo. Perderei il confronto. E ne pagherei il conto. La fatica sta nel non diventare cinico, e d’estate in natura i processi tendono più naturalmente e più inesorabilmente dall’ordine al disordine, ho questa sensazione sinistra dalle notizie che mi arrivano stando sulla tazza. Quindi preferisco la fatica di Sisifo, nonostante tutto, anche dovendo tirare bestemmie. Perché trovo ci sia qualcosa di superiormente comico e di simile a un koan zen in questo sforzo enorme che non dà risultato, e perché è la condizione più veritiera su ciò che è l’umano, per me.  

E cercare di immaginarlo felice sì, come lo immaginava Camus con quel sorriso capace di squarciare il cielo noncurante. Ma senza dimenticare che non c’è niente di più comico dell’infelicità, come dice il personaggio di Nell in Finale di partita di Beckett. E in estate, questa in particolare, dove sembra di essere in un Far West, tutto, non so perché, sembra favorevole alla commedia. In tutte le sue gradazioni: dalle foto dei selfie ai piedi con sfondo di spiagge mari e monti all’orizzonte, all’apoteosi delle pizzate coi cognati e i nipoti coi nuovi mostri che siamo diventati inflitte sui canali social a dimostrazione che l’estate è la più triste delle stagioni perché tutti si aspettano che tu, sì proprio tu, sia felice. «A me è maggio che mi rovina e anche settembre, queste due sentinelle dell’estate: promessa e nostalgia», scrive Patrizia Cavalli.

Ecco, diciamolo francamente finché ci si può avvalere della libertà di lamentela: l’estate andrebbe abolita. Non vedo il senso delle giornate che si allungano sempre di più quando ormai i nostri tempi di attenzione si accorciano sempre di più, non rivorrei indietro le estati vissute da garzoncello con quel tempo infinito e sfinito, non col fuoco che, oh sento divorarmi dentro di me ora e, peggio ancora, fuori di me, quello che, oh divora la Capitale. E farne un filmone? Che so, un bel Roma brucia?, titolone a sfondo socioambientalista ispirato a quello di guerra di René Clement Parigi brucia?, ma immaginato con la regia di Dino Risi.

Andrei in letargo steso sotto un ventilatore fissandone, come Martin Sheen sul letto di un albergaccio all’inizio di Apocalypse Now mentre fuori la guerra brucia Saigon, il mozzo attorno a cui girano ipnoticamente le pale («Trenta raggi convergono sul mozzo ma è il foro centrale che rende utile la ruota» dice il Tao Te Ching per significare che è il non-essere, il vuoto a costituire l’utilità delle cose) per risvegliarmi di colpo nella stagione preferita: nel bel mezzo di un gelido inverno del nostro scontento.

ARTICOLO n. 59 / 2022

AGOSTO, IL MESE CHE NON C’ERA

Dove sarò QUESTA ESTATE?

Mi ci sono voluti più di vent’anni per accorgermi del mese d’agosto. Da ragazzo, e più ancora da bambino, percepivo soltanto il rituale delle vacanze. La spiaggia, le passeggiate in montagna. Il resto se ne restava a casa, come chiuso in un deposito. Erano le estati remote durante le quali le signore della buona borghesia portavano le pellicce ai Frigorigeri Milanesi, per evitare che si sciupassero con il caldo. Agosto – ogni agosto – era così: un tempo messo in conserva, un patrimonio di qualche settimana da investire altrove. Per un mese tutti erano irrevocabilmente da un’altra parte e le città erano davvero come Roma nelle prime scene del Sorpasso, con le strade deserte, le saracinesche abbassate, qualche sparuto bar tabaccheria aperto per gli obblighi di legge. Si potrebbero fare altri esempi, d’accordo, ma il clima del Sorpasso mi sembra un buon compromesso tra le geometrie metafisiche del cinema di Antonioni e la tragicommedia di Verdone, che in Un sacco bello ospita la bella ragazza spagnola dispersa per i vicoli della capitale («Tinto? Tinto quer vino? Ma che stai a scherza’? Quello è ‘n Brunello, un vino antichissimo…»).

Dell’esistenza di agosto come mese in sé, nella sua mensualità effettiva e non solo ideale, avevo avuto qualche percezione tra la fine del liceo e gli anni dell’università, ma erano sprazzi di pochi giorni, balenati quasi per via allucinatoria in coda oppure alla vigilia di un esame. L’estate del 1987, invece, cadeva alla metà esatta del mio servizio civile, che allora durava venti mesi. Benché obiettore di coscienza (o, meglio, in quanto obiettore di coscienza), ero sensibilissimo ai regolamenti, che vietavano di allontanarsi dalla regione nella quale si svolgevano le mansioni assegnate. Circolavano voci di punizioni leggendarie comminate ai trasgressori, che mi figuravo incalzati da una specie di psicopolizia capace di intercettare la minima incursione fuori dai confini stabiliti. 

La realtà era più clemente, ma questo l’ho compreso molto più tardi, superata la soglia dei cinquant’anni, quando all’improvviso ti rendi conto che per mezzo secolo ti sei complicato l’esistenza senza che l’esistenza stessa fosse disposta a mostrare gratitudine per tanta fatica non richiesta. Non che con la mezza età si diventi necessariamente anarchici, però una ragionevole revisione della norma è l’unico modo per evitare di precipitare nell’autoritarismo nostalgico. Quale che sia la nostalgia che si asseconda, quale che sia la fantomatica autorità che si pretende di restaurare.

Era il 1987, dunque, era agosto, faceva caldo e da Milano non potevo muovermi, o almeno era questo che volevo credere. Qualche giorno di licenza l’avrò anche avuto (pur costituendo un’alternativa al servizio militare, quello civile ne aveva mutuato il linguaggio: memorabile la diaria di poche lire riconosciuta per l’usura degli “effetti letterecci”), ma gli uffici della Caritas non prevedevano chiusure prolungate, qualcuno in sede doveva esserci, agosto o non agosto. Era più che altro un lavoro di ascolto e assistenza a beneficio degli obiettori presenti e futuri. Si davano informazioni, si sbrigavano le pratiche del caso, si aspettava che dalle finestre spalancate arrivasse la consolazione di un filo d’aria. Fin qui, nulla di strano. Era agosto, d’accordo, ma poteva anche essere luglio inoltrato. Non ci sarebbe stata differenza.

Agosto aspettava fuori, nella città svuotata e silenziosa, tanto diversa dall’immagine che Milano dava di sé in quegli anni. Velocità ed efficienza, affari e politica, discoteche e tagliata con la rucola. Che fosse l’inizio della fine nessuno ancora lo sapeva. Cinque anni, non di più, e sarebbe arrivata Tangentopoli, con le sue promesse mancate, gli incomprensibili colpi di scena, la sbalorditiva eterogenesi dei fini. Gli anni Novanta avrebbero completato l’opera, stabilendo le premesse della grande liquefazione globale di abitudini e convenzioni. In vacanza, nella fattispecie, avremmo iniziato ad andarci più o meno tutto l’anno, anche perché un viaggio fuori stagione può convenire a tutti, ai datori di lavoro che diluiscono le assenze e ai dipendenti che approfittano di qualche offerta a prezzi stracciati. Ma nell’87 no. Nell’87 alla serrata agostana non si davano alternative, il calendario era insidiato dall’inesorabile iato estivo e chi rimaneva in città viveva un’esperienza da sopravvissuto. Oltretutto, per una serie di vicende troppo complesse da riassumere qui, mi ero ritrovato solo in casa e questo rafforzava il mio sentimento di Robinson urbano. Dovevo andare alla scoperta dell’isola alla quale ero approdato. Un’isola che prima non c’era, come si sarebbe potuto sostenere combinando Defoe con Peter Pan e aggiungendo una correzione di Bennato. 

Per orientarsi non servivano le stelle e, più che andare dritto fino al mattino, si aspettava che arrivasse sera, nella speranza che le zanzare – ambrosianamente competitive – non guastassero del tutto il sollievo dell’avvenuto tramonto. Lo spazio del giorno era apparentemente identico a quello che già conoscevo, ma era il tempo a conferirgli una consistenza diversa. Potevo considerarmi fortunato per il fatto che nel mio quartiere ci fosse un supermercato e che il supermercato fosse regolarmente aperto. Non era un posto che frequentassi d’abitudine. Come in quasi tutte le famiglie di allora, anche per la mia la spesa era un pellegrinaggio ravvicinato da un negozio all’altro. La logica per cui il pane si compra in panetteria, la carne in macelleria, gli affettati in salumeria eccetera appariva ancora inoppugnabile. I supermercati erano comodi, nei supermercati si trovava tutto, ma potendo scegliere, si sceglieva il negozio. Potendo, appunto. In agosto non si poteva.

Di dimensioni tutto sommato ridotte rispetto agli ipermercati che si sarebbero imposti da lì a qualche anno, il supermarket di zona garantiva il refrigerio dell’aria condizionata, ma il suo vero fascino risiedeva nel carattere di epitome e Wunderkammer. Quelle scaffalature ordinate e linde richiamavano alla memoria gli assortimenti arbitrari dei piccoli spacci che non mancavano mai nelle località di villeggiatura. Era come se tutte le rivendite attraverso le quali ero transitato fino a quel momento si scomponessero e ricomponessero nel supermercato rispondendo a uno schema finalmente comprensibile, eppure tanto meno avventuroso rispetto al caos bellicoso dei palloni ammucchiati al ridosso del banco dei formaggi o dei distributori di gomma da masticare piazzati nel mezzo di corridoi già di per sé stretti, e ingombri di confezioni di acqua minerale precariamente impilate. Il supermercato alludeva a quel bric-à-brac favoloso, ma solamente per smentirlo e ricondurlo alla ragione. Tuttavia, bastava chiudere gli occhi per liberare le merci da ogni costrizione e restituirle alla loro lieta mescolanza.

Per mutare la percezione del luogo occorreva affidarsi alla mobilità del tempo, che è previsione e memoria. Soltanto così era concesso di attraversare la frontiera che altrimenti regolava i rapporti tra l’agosto della città, feriale e produttivo, e l’agosto delle vacanze, festivo e spensierato. L’uno conteneva l’altro e, in una certa misura l’interpretava. Il mese che prima non c’era ricapitolava in sé ogni altra estate che avevo vissuto. Lo sterrato dei giardini di Porta Venezia mi riportava su un sentiero alpino e l’odore dell’asfalto dopo un temporale risvegliava misteriose affinità con il microclima di una pineta affacciata sul Tirreno. 

Non era propriamente illusione, né lo fu negli anni successivi, quando per me l’agosto urbano si trasformò in abitudine. Un decennio più tardi, sposato e padre di due figli, mi sarebbe capitato spesso di rimanere in città, mentre il resto della famiglia si trasferiva in qualche località di mezza montagna, solitamente nella Bergamasca. Eccezion fatta per il pendolarismo del fine settimana, vagavo tra mattinate relativamente pigre e pomeriggi incalzanti, secondo i ritmi allora caratteristici della redazione di un quotidiano. Mi attendevano lunghe sere di lettura alternate alla visione di film recuperati al videonoleggio, dove di tanto in tanto mi rifornivo anche di una pizza surgelata. Perché sì, lo confesso: c’è stato un tempo in cui una pizza surgelata mi sembrava un compromesso accettabile. E no, non posso fingere di non ricordare che c’è stato il tempo dei VHS da guardare in una sera o due, altrimenti scattava la penale e la convenienza andava perduta.

Epoche lontanissime, che parlano con la voce dello Spirito degli Agosti Passati. Forse, nelle dovute circostanze, perfino Dickens avrebbe composto un Canto di Ferragosto, con quel taccagno di Scrooge che nega all’onesto Cratchit i bollini della spesa che farebbero felice il povero Tim. Divago, lo so, mi lascio trasportare, ma la chimera di A Midsummer-Night’s Carol realizza per un instante uno dei miei sogni più innocui e cari: quello in cui Dickens e Shakespeare si scambiano le parti, così che uno possa riscrivere a modo suo le opere dell’altro. Hamlet TwistA Tale of Two TempestsPip and Juliet… Che biblioteca meravigliosa ne uscirebbe, da portarla con sé per tutto il mese di agosto e non pensare ad altro, né mare né città, né afa né montagna. Del resto, solo nel mese che non c’era si potrebbero leggere libri che ancora non esistono.

ARTICOLO n. 58 / 2022

NON LO SO ANCORA, MA CONFIDO NEL LIETO FINE

Dove sarò questa estate?

Sono ormai otto anni che appena mi sveglio accendo il telefono e leggo i messaggi che mi sono arrivati dall’Italia mentre dormivo. In genere mi viene subito voglia di rispondere, ancora prima del caffè, come se il fuso orario della East Coast americana mi trasmettesse un automatico senso di colpa per il ritardo; per chi è di là dall’Atlantico, io arrivo sempre e solo nel pomeriggio.

Quando al mattino di qualche settimana fa, ancora con la testa sul cuscino, ho letto la proposta di scrivere questo pezzo mi è quasi venuto da ridere. Ho pensato a uno scherzo. Il contributo doveva rispondere alla domanda Dove sarò questa estate? Esattamente la questione senza risposta con cui avevo passato buona parte delle ore della notte che avrei voluto destinare al sonno. Il fatto di sapere con certezza solo che ad agosto non sarei più stata in questa casa, non più in questo paese, non più in questo continente, non era bastato come prospettiva rassicurante per potermi addormentare in pace. Meno che mai sapere che il letto in cui mi stavo rigirando sarebbe stato quest’estate in un container surriscaldato in mezzo all’oceano. So da dove parto, questo sì, ma il dove della domanda con il futuro dentro implica di indicare in un mese preciso uno stato in luogo del quale non ho ancora nessuna contezza.

Sapevo e so ancora oggi soltanto che la mia casa, i miei libri, gli oggetti che uso e dai quali sono circondata quotidianamente saranno inscatolati e lontani, non geolocalizzabili, destinati ad arrivare in un posto che al momento non è che un indirizzo, una casa dove non sono mai stata, che non ho ancora visto dal vivo, né calpestato, né annusato, in una città dove non ho mai vissuto, Milano, dove inizierò ad abitare solo alla fine dell’estate. Nel frattempo ad agosto sarò nomade con una grossa valigia, ma molto lontana dall’essere libera e leggera come avessi vent’anni e l’Interrail o davanti e un futuro da decidere a settembre in totale libertà. Ci sono delle zavorre che il tempo piano piano mette addosso, alcune sono volute, altre sono inevitabili, sono materiali, mentali, emotive, di diversa natura ognuna con il suo ingombro ognuna con il suo peso. Per esempio: il trasloco avviene da una casa grande verso un appartamento più piccolo. Nella casa che lasciamo abbiamo vissuto in quattro per otto anni. Anni in cui per almeno due di noi è cambiato tutto per svariate volte: dalle taglie di vestiti e scarpe ai libri da tenere sulle mensole, dagli oggetti con cui intrattenersi ai poster attaccati sulle pareti. Quindi che fare dei vecchi giocattoli che adesso sono nella cantina? È fuori discussione riempire un container di cose che di sicuro non useremo più, al tempo stesso come si fa a disfarsi di tutto senza rimpianti? A non sentire di aver sottratto qualcosa ai miei figli avendoli portati da Roma a Washington da bambini e sradicandoli di nuovo adesso, ormai ragazzi, buttando via tutto quello che gli è appartenuto, il mondo che è stato il loro durante questi anni di crescita? Come ci si libera della zavorra dei ricordi a cuor leggero? E dei sensi di colpa di trasformarli in cose da eliminare? (La lingua italiana è più gentile di fronte a questi dilemmi: in genere si usa un verbo meraviglioso e leggero come liberarsi, quando in inglese “getting rid of something” è proprio sbarazzarsi, ha dentro l’antipatia e il peso dell’ingombro). A questa zavorra dei ricordi dei figli, emotiva e materiale insieme, se ne aggiungono mille altre che hanno a che fare con la consapevolezza che tutto quello che faccio in questi giorni ha il sapore malinconico dell’ultima volta, un lungo ed estenuante saluto a questa vita americana. E forse è questo il motivo per cui si dice che il trasloco sia il secondo evento più traumatico della vita dopo un lutto, si tratta comunque di una forma molto attenuata di un evento simile, in cui dici addio per sempre.

Eppure da qualche giorno, anche se alla domanda di cui sopra non so ancora rispondere, di fronte a me ho liste di cose da fare che non si accorciano mai, alle mie spalle ho ancora tutto da inscatolare, mille cosa di cui sbarazzarmi (da buttare o da dare via, sempre troppa la fatica per parlare di liberazione), la casa da affittare, le persone da salutare, una fila indiana di ultime volte che mi aspettano fuori dalla porta, ho ricominciato a dormire serenamente. Inizialmente non ho capito bene cosa sia scattato perché l’ansia sia diminuita invece di salire, ho pensato che fosse perché a un certo punto mi sono arresa alla paura del futuro, dato che ci sono già dentro: domani è estate e l’estate mi troverà dove sarò, ancora qui, con tutte le mie incertezze, con tutti gli scenari ancora aperti e non potrò fare niente altro che trovarmici dentro e affrontarla.

Però piano piano ho maturato un altro pensiero: che la risposta abbia in fondo molto a che fare con questa cosa che scrivo storie di finzione.

Tempo fa mi ero iscritta a un ciclo di lezioni di mindfulness organizzato dalla scuola di mio figlio, dove indefessi genitori si prestano a queste attività che non si capisce se siano di volontariato o auto promozione. Ho fatto una lezione poi non ci sono tornata più. Ma in quella prima ora introduttiva ho imparato la cosa che mi interessava: che la mente umana è progettata con l’obiettivo della sopravvivenza della specie e non quello della felicità, e che siccome viviamo in una sorta di atavica allerta dai tempi in cui eravamo animali molto fragili come gli altri, in balia delle decisioni di una natura totalmente incontrollabile e di una società poco addomesticata e molto violenta, la mente umana è ancora abituata a costruire scenari possibili, si racconta storie dell’orrore, inferisce informazioni false su cui elabora possibilità drammatiche per le quali predisporre una difesa, in un lavorio incessante di pensieri – perlopiù negativi – che in genere produce solo molta ansia. Ho riflettuto sul fatto che questo lavorìo di partire dal reale e costruire scenari con informazioni false in fondo è il mio lavoro. È bastato togliere quella ì accentata per ottenere gli stessi effetti di un ciclo di mindfulness. Se questo faccio, costruire in continuazione scenari, tanto vale che ne inizi a costruire qualcuno di convincente per il mese di agosto, prepararmi alle eventualità e il gioco è fatto. 

Ma ingannare se stessi è difficile tanto quanto ingannare i lettori. Gli scenari devono essere credibili, le geografie riconoscibili e le storie verosimili (le rime sono volute). E non è detto che i racconti rassicuranti, quelli con il lieto fine che arriva subito, emendati dal male, funzionino bene rispetto ai nostri meccanismi mentali (ricordiamoci, anche narrativamente il fine è la sopravvivenza, non la felicità: tendiamo a smettere di credere alle favole molto presto).

Il fatto è che questa è anche l’estate in cui esce il mio terzo romanzo, che si intitola Erosione (lo pubblica e/o). È il primo libro che scrivo ambientando la storia negli Stati Uniti (tutto si svolge in una casa nella Chesapeake Bay, un luogo molto vicino a dove vivo adesso) e alla fine, anche se parla di tante cose (dal climate change alle difficoltà relazionali all’interno di una famiglia) il racconto si concentra su un solo episodio: un ultimo trasloco. Ci sono tre fratelli adulti, Anna, Geoff e Bruno che dopo anni di fallimentari tentativi di salvare la loro casa al mare, sempre più minacciata dal progressivo innalzamento delle acque, colpita una stagione dopo l’altra da allagamenti e uragani, riescono a venderla. Nel romanzo li troviamo che passano insieme le ultime ore nella villa nella quale hanno trascorso ogni estate della loro vita giovane, prima di consegnare le chiavi; ognuno di loro deve riempire una e una sola scatola con gli oggetti che vuole salvare: un’occasione per fare i conti con il tempo, con l’infanzia, il distacco definitivo da un luogo molto amato e poi odiato. Il romanzo è diviso in tre capitoli, uno per ogni fratello o meglio, uno per ogni scatola che ciascuno riempie con i diversi oggetti che vorrà portarsi via alla fine di quel rito che compiono al contrario (quando erano piccoli la madre gli faceva riempire le stesse scatole prima dell’estate per andarealla casa sul mare). La prima stesura aveva come titolo provvisorio Three boxes, tre scatole: quelle che ho adesso alle mie spalle, nella loro ancora ansiogena vuotezza.

Solo recentemente ho messo bene a fuoco che i fatti raccontati nel romanzo si incastrano profondamente con quelli che sto vivendo in questo esatto periodo. Ma il libro l’ho scritto nel 2020, l’anno immobile. L’ho iniziato durante il primo lockdown, il periodo più fermo del mondo, in cui era inimmaginabile anche solo l’idea di viaggiare, figuriamoci quella di traslocare, di trasferirsi in un altro continente. Eppure, potenza delle coincidenze, il romanzo esce nello stesso giorno del mio volo per l’Italia (questa volta solo andata). Come un’autofiction al contrario. In cui è il racconto a fare la vita e non viceversa.

Quando ho iniziato a scrivere pensavo che la storia che volevo raccontare avesse come centro tematico principale il cambiamento climatico e l’impatto che ha già sul tempo presente, sugli esseri umani in ogni parte del pianeta, adesso, non in un futuro che necessita di essere raccontato attraverso distopie. Non sapevo che sarebbe venuto fuori un romanzo che parla di scatole, di traslochi, di oggetti da conservare, di fatica nel gestire i ricordi. Dell’eterna paura del distacco che ritroviamo in ogni fase della vita che prevede un passaggio, e non sapevo che in un certo senso sarebbe stato anche questo un coming-of-age novel, pure se i protagonisti sono tutti adulti. Perché alla fine non si sfugge al tema del tempo, del cambiamento, del passaggio di età, intesa in senso lato come epoca della vita, (non per forza quella che riguarda la fine dell’infanzia o la perdita dell’innocenza). Erosione è la storia di una transizione importante e difficile che prevede la capacità di lasciar andare, il doloroso sforzo di girare le spalle e salutare per sempre un posto dove hai piantato delle radici, seppur precarie e sottili. Non sapevo che mi sarei ritrovata nei panni di un cinico avvocato italoamericano che crolla di fronte a una porta da aprire e poi richiudere per sempre. Avendo scelto di raccontare tre personaggi diversi tenendo tutti e tre molto lontani dalle tracce di una possibile autobiografia, è molto interessante ritrovarmi a posteriori dentro questa coincidenza di eventi, constatare di essere dentro la storia che ho inventato in un momento in cui non prevedevo per me niente di simile. La storia di un trasloco definitivo e di un addio. È questo che probabilmente mi ha aiutato a placare l’ansia. Quello che ho scritto, in qualche modo l’ho già vissuto. I tre fratelli alla fine ce la fanno a chiudere quella porta e andarsene. Ce la farò anch’io. E se non sarà felicità sarà sopravvivenza. Ma confido comunque nel lieto fine.

ARTICOLO n. 57 / 2022

TUTTO QUELLO CHE NON FARÒ AD AGOSTO

Dove sarò questa estate?

Parliamo piuttosto di che cosa non farò.

Agosto uguale trentuno giorni senza asilo nido.

Gli altri mesi, aprile, giugno e settembre, il nido è sempre aperto, con l’eccezione dei fine settimana e delle feste normali, tipo Natale e primo maggio.

Poi c’è luglio. A luglio i nidi restano aperti, anche se in versione “centro estivo”: abbandonati i vezzi pedagogici dell’accoglienza (che i genitori chiamano “inserimento”, secondo il loro ovvio punto di vista), a luglio puoi prendere tua figlia, portarla in un nido della rete dei comunali, lì troverà altre educatrici, altri compagni, altri cuochi e altri giocattoli, ma va bene tutto. E per due o quattro settimane (tre no: o due o quattro) comunque sarete sistemate.

Ad agosto invece i nidi sono proprio chiusi.

L’anno scorso ho capito tardi la cosa del luglio e del centro estivo e ho pensato che i mesi scoperti fossero due, così ho accettato di lavorare anche ad agosto perché non è che possa permettermi due interi mesi di ferie. In qualche modo d’agosto mi arrangerò, mi sono detta. E ho rovinato l’estate a mia madre, dannandomi l’anima.

Quest’anno mi sono organizzata meglio. Fino a metà luglio lavorerò come una matta, poi prenderò figliola e bagagli e andrò in cerca di un posto dove farla giocare senza troppo disperarmi, cioè senza ostinarmi a lavorare. Perché con una bambina di due anni e mezzo tra i piedi è difficile fare quasi qualsiasi cosa.

Lei vuole aiutarmi, vuole vedere quello che faccio, vuole provare la tastiera del computer, vuole scrivere un libro, vuole colorare le pagine della mia agenda, vuole vedere il video che sto guardando e parlare su Zoom con gli «amici della mamma», che per i primi dieci secondi sono entusiasti della testolina di riccioli biondi che compare sullo schermo poi cominciano a spazientirsi. E quando smetto di lavorare e passo, rassegnata, a fare le cose di casa, allora lei vuole fare la lavatrice, vuole cucinare, vuole farsi la doccia con me, vuole saltare sul letto, vuole dirmi una cosa importante.

Vuole fare la bambina di due anni e mezzo, cioè. E il problema, parte del problema, è che a me piace da morire. Ed è un tormento.

Quindi al momento non so esattamente che cosa farò in agosto, ma so che cosa non farò: lavorare con un computer a cose che richiedono concentrazione e silenzio. Cioè non lavorerò, basta: è deciso.

Che originalità? Ad agosto “non lavorare” è un piano che hanno in tanti?

Ma a me lavorare piace. Faccio un lavoro divertente, e non finirò mai di stupirmi per il fatto di essere pagata per leggere, scrivere, viaggiare, a volte parlare, e se non mi va di parlare anche tacere. E non mi piace non avere niente da fare. Perciò essere costretta a non lavorare è una sofferenza: è come se perdessi di aderenza alla mia vita, mi confonde le idee. In più il mio lavoro richiede anche un certo ordine e una certa diligenza e anche questo mi piace: mi piace avere il controllo della mia contabilità e mi piace avere una to-do list piena di cose, e mi smarrisco se qualcosa mi sfugge. Non so godermi il riposo se non l’ho ben programmato e messo in agenda.

La differenza tra questa estate e quella scorsa è dunque che per questo agosto il riposo l’ho messo in agenda. 

Oh, beh. Comunque non rischio di starmene con le mani in mano. Perché l’andamento di questo agosto dipenderà anche dai lavori in casa nuova e da tutti i casini che vi stanno spuntando intorno: grappoli di casini di tutti i tipi.

Mi spiego: ho comprato una casa piena di rogne, molte più rogne di quelle visibili al momento dell’acquisto e di quelle immaginabili notando l’assenza di impianto di riscaldamento (la casa è sempre stata abitata) e soprattutto notando una toppa di mattonelle blu ai piedi del water. Era un appartamento “con molte potenzialità”, e tutte, proprio tutte, da esplorare.

Per esempio, esplorando al di sotto delle mattonelle di un terzo della casa è comparso un solaio di legno così marcio da sgretolarsi tra le dita. Gli operai hanno notato che ha del miracoloso non essere capitati sulla testa di quelli del piano di sotto, e hanno commentato con una cosa tipo: «aò, se ce invitano a pranzo possiamo evità di fa le scale e scenné direttamente da qui».

Il solaio marcio ha avuto innumerevoli conseguenze su cose e persone.

Per esempio l’architetta ha dovuto reclutare un ingegnere strutturista, il quale dovrà fare operazioni che non so, e con lui ha rifatto il disegno della casa per evitare “nuovi problemi strutturali”. Il risultato è che i bagni non saranno più dove avrebbero dovuto essere, le porte lo stesso, e la cucina sarà “specchiata” (cioè a sinistra invece che a destra) per addossarsi a un muro portante che dà garanzie di stabilità maggiori del resto della casa. L’architetta ha anche prescritto “più mensole che librerie”, spiegandomi che dobbiamo sfruttare i muri portanti ed evitare di gravare troppo sul pavimento. A casa finita, cammineremo rasente ai muri come i ladri.

In ogni caso, anche prima di cominciare a parlare di bagni e cucine, è stato necessario rimuovere il marcio e sostituirlo con materiali nuovi. Tutto questo ha già comportato ovviamente costi e, dramma nel dramma, ritardi. Adesso, se entraste in casa mia nuova, vi trovereste a camminare a un livello di venti centimetri inferiore rispetto a quello che sarà il definitivo. Probabilmente dovreste anche offrirmi una spalla su cui piangere. Per il “definitivo” si parla serenamente di settembre.

Ecco dunque la seconda cosa che non farò quest’agosto: non mi godrò casa nuova. Manca il pavimento, come si fa?

Non farò nemmeno gli scatoloni in casa vecchia, per la questione del nido chiuso e dell’allegra bambina di due anni e mezzo (quasi tre) di cui sopra. Ad agosto, in sostanza, aspetterò settembre. E settembre sarà un mese di delirio. Perché il momento in cui, forse, sarà possibile cominciare a spostare gli scatoloni coinciderà con quello in cui io, come ogni brava madre, dovrò impegnarmi a seguire l’accoglienza di mia figlia alla scuola dell’infanzia (che non si chiama “inserimento”, sto cercando in tutti i modi di mettermelo in testa, anche se è ovvio che da parte mia io “inserisco” e non “accolgo”. E la scuola dell’infanzia, per i profani, è quella che un tempo si chiamava “materna”). Cioè è molto probabile che a settembre per fare la brava madre sia chiamata a passare le mie mattine a scuola con mia figlia, quindi poi non so chi mi gestirà il trasloco e, dettaglio non secondario, come potrò contemporaneamente anche lavorare. 

Dunque al momento è molto probabile che nella prima metà di agosto andrò in montagna coi “nonni”, che è come da un paio di anni in qua chiamo i miei genitori. E che nella seconda, sopraffatta dall’ansia, cercherò ospitalità da amici con casa al mare, per poi scoprire che a mia figlia il mare non piace.

Terza e ultima cosa che non farò questo agosto, dunque: andare al mare. L’anno scorso ci ho provato: eravamo in un posto bellissimo in Liguria ma la bambina ha passato tutta la settimana a impedirmi di avvicinarmi all’acqua perché le faceva paura. È stata una sofferenza tantalica, per me, salutare ogni mattina gli amici in costume, sempre più abbronzati e sereni, e inventarmi ogni giorno qualcosa da fare sulla terraferma. 

Poi chissà: magari in questo anno è maturata, magari scopro che le cose sono cambiate. Un tentativo marino stiamo per farlo. Come esperimento, proprio adesso che scrivo queste righe sto organizzando un fine settimana nel sud della Toscana per scappare dal caldo di Roma: a mia figlia ho spiegato che andremo su una spiaggia con tanta tanta sabbia, e vediamo se col mare facciamo pace.

Ecco anche perché, nella prima metà di agosto, appena gli operai decideranno di sospendere i lavori al cantiere, andremo in montagna: mucche, laghetti, lancio di sassolini nei torrenti, corsa nei prati, e a nanna molto presto. Col retropensiero fisso di potermi avvicinare al computer a rispondere alle mail tutte le volte che la mia bambina si sarà addormentata. Ah, sì: in montagna ci sarebbero anche delle bellissime piscine all’aperto, ma a mia figlia fanno paura anche quelle. 

Continuare a parlare della vera estate prossima ventura significherebbe continuare a lamentarmi, perciò ora smetto. La vera verità è che sto cominciando a scrivere un nuovo libro, finalmente, dopo la pausa impostami dalla combinazione maternità + pandemia. D’estate vorrei mettermi a studiare e cercherò di farlo in ogni momento in cui sarà possibile farlo. E sono ottimista, persino allegra. Non ho alternative, e questo aiuta.

Lascio solo una notarella per chi potrà ospitare me e la bambina nella seconda metà di agosto, ben distanti da qualsiasi possibilità balneare: grazie, possibilmente vicino a un’altalena. Un tavolo a me sarebbe utile. Ma nessun problema se per caso non c’è una rete Wi-Fi.

ARTICOLO n. 56 / 2022

TORNA A FARE LA TUA VITA

Dove sarò questa estate?

Che bravi quegli artisti che si mettono lì a immaginare scenari, la gente li riguarda dopo decenni e dice «Beh, XYZ aveva capito le sorti dell’umanità con larghissimo anticipo! Aveva previsto tutto!». Buon per loro, io se allungo lo sguardo verso la prossima settimana trovo almeno tre motivi per farmela sotto. E con “prossima” non intendo la settimana che segue quella in cui scrivo questa frase, intendo qualsiasi settimana segua quella del presente in cui starete leggendo queste parole. Ho passato il mese di giugno a sentir dire da esperti in fisica che il tempo non esiste, che non esiste passato, presente o futuro, e non posso che concordare visto il modo in cui gestisco le scadenze. Negli ultimi periodi avere degli esperti in materia dire questa frase è stato anche vagamente consolatorio, ora che il presente è terribile e il futuro è attesa della disgrazia, che poi è essa stessa disgrazia (mi dovete scusare, è difficile trattenersi ogni volta che si può storpiare la citazione sul piacere di Lessing, ma personalmente è stato ancora più difficile ricordarsi che era stato lui a scriverla, infatti io ero convinta che fosse di Antoine de Saint-Exupéry, messa lì forse in un momento un po’ sexy de Il Piccolo Principe, di cui ricordo il merchandising ma non la trama). 

C’è il problema che in estate è praticamente impossibile non pensare al futuro, più che in qualsiasi altra stagione. Tutte le domande sono declinate al futuro. «Cosa farai?» «Dove andrai» «Quando partirai?». Quando ho comprato i biglietti per vedere le letture di David Sedaris e l’appartamento per stare alcune settimane al Fringe Festival di Edimburgo rispondevo a questa domanda con un entusiasmo insopportabile. Ora che la data si avvicina, lo accompagno a un «Certo, vediamo come va con questa nuova variante», oppure «Eh, sperando non ci siano problemi coi voli», per familiarizzare con la sfiga. Non che quest’anno non abbia già abbastanza familiarizzato con la sfiga, visto che a ottobre ho avuto un’emorragia cerebrale e da lì in poi ogni momento è stato legato a quello: andare a fisioterapia, riprendere a camminare, imparare a stare in equilibrio, fare gli esami, andare al pronto soccorso per puttanate, uscire con gli amici, comprendere la mortalità non più come concetto astratto ma come realtà, sentir formicolare costantemente, smettere di fumare, smettere di entrare nei vestiti, smettere di rispondere educatamente alla domanda «Ma quindi adesso come stai» dopo la centesima volta che viene posta. 

Quest’ultima cosa non è vera: la domanda «Ma quindi adesso come stai?» ha un suo gusto perverso per il dolore, ma spesso mi viene fatta col tono di chi si aspettava che stessi peggio. È successo da giugno, quando ho ricominciato ad avere una vita sociale fuori dal mio cerchio ristretto, quindi molte persone mi rivedevano per la prima volta dopo aver messo like al mio post di Instagram in cui annunciavo dell’ictus. Molte donne me lo chiedono con gli occhi tristi e le mani congiunte al petto.  Se rispondo «Bene» in modo sbrigativo, ma comunque sincero, inclinano la testa di lato e aggrottano le sopracciglia, insoddisfatte. Vorrei tirare un cazzotto in mezzo alle loro sopracciglia aggrottate. Non so chi abbia educato noi donne a queste pose davanti a chi ha un problema di salute, non so bene neppure che sentimento stiamo inscenando quando facciamo così. Forse partecipazione, forse pietà, forse sete di dramma, tutte cose che non voglio vedere mentre scrocco birre alla festa di un’agenzia pubblicitaria. Con gli uomini è diverso, loro cercano più una prova di quello che è successo, chiedono direttamente «Cosa ti è rimasto?». Allora racconto cosa non posso ancora fare, della sensibilità alla spalla sinistra che non ho recuperato e non so quando o se recupererò, dei formicolii e del dolore a braccio e spalla sinistri. Prima di arrivare sull’orlo del pianto, esclamo «Ma rispetto a prima, VUOI METTERE?» e nel clima di festa generato da questa frase i miei interlocutori mi tirano una fortissima pacca sulla spalla sinistra. Prendono sempre la sinistra. Grazie ai miei nervi impazziti, il ricordo di questa pacca riverbera per i muscoli del braccio tutta la sera. Una volta una persona che conosco e che normalmente sa comportarsi mi tirò una serie di pugnetti sul braccio sinistro, strillai di smetterla perché quello era «Il braccio dell’ictus», mi rispose «E allora?». Ai tempi mi offesi fortissimo, invece quell’indelicatezza un po’ mi manca. Soprattutto ora che si avvicina settembre. 

Mi è sembrato di capire che per un freelance le cose vanno bene quando tante persone ti chiedono «Cosa farai a settembre?». Ultimamente me lo chiedono più che in passato, credo perché quest’anno è stato baciato dalla fortuna sul lavoro. Ovviamente non mi sono goduta nulla di ciò che ho fatto, soprattutto perché ogni cosa bella ha avuto delle fastidiosissime ripercussioni fisiche: ad aprile scrivere un racconto molto apprezzato di 12 mila battute mi è costato due sedute ravvicinate di fisioterapia per scollare la scapola sinistra, allungare il muscolo pettorale, inserire tre nuovi esercizi con bande elastiche e altri aggeggi Decathlon nella mia già ingolfata routine di ginnastica posturale; a fine maggio, un cambio improvviso della sveglia per un lavoro importante mi ha provocato lunghe fascicolazioni muscolari sul fianco sinistro, che a loro volta hanno provocato 5 ore di attesa in pronto soccorso dove la diagnosi è stata «Mah» e un «Può provare a prendere questa benzodiazepina prima di dormire» – e se c’è una cosa che ho imparato da questa vicenda è che se un medico dal nulla ti propone una benzodiazepina, tu la vai a comprare anche se non la vuoi assumere, tanto le benzodiazepine fanno effetto anche solo a tenerle vicine. 

Ora il mio corpo somiglia sempre di più a quello che era prima. Il braccio formicola meno spesso, l’estensione della zona in cui la sensibilità è sputtanata diminuisce. Mi sembra di vedere una fine, ma non è vero. A settembre dovrei scoprire che cosa mi ha provocato l’emorragia cerebrale. Fino a questo momento le risonanze magnetiche hanno escluso tante cose, ma non hanno confermato una causa precisa perché il sangue non era ancora del tutto sparito, «Ce n’è ancora un pochino la zona coperta, non mi azzarderei, aspettiamo settembre per rifare tutto. Ma tu torna a fare la tua vita di prima, eh», mi disse il neurologo a marzo davanti alle curve del mio cervello e dei suoi vasi sanguigni. Me lo disse nel periodo in cui mi girava la testa ogni volta che provavo a camminare e stare troppo seduta mi faceva venire tutti quei problemi posturali. Potevo stare in piedi, ferma. Tornare alla mia vita di animale da stalla. 

Ovviamente gli chiesi il perché di quei giramenti, e davanti a tutti gli esami disse: «Mah, sarà l’equilibrio». Col tempo ho capito che se un medico non ti caga, è un ottimo segno. Vuol dire che sei clinicamente poco avvincente. Quello che è stato l’atto più sconvolgente dei miei 35 anni di vita, per lui era un lunedì mattina. Mi ci sono voluti mesi di livore per le mancate risposte prima di capire che il problema non era lui, ero io, che stavo troppo bene per le sue attenzioni. Ma io ci casco ancora, e forse è questa mia ottusità il motivo per cui vorrei che questo settembre non arrivasse mai. Per il mio medico le opzioni sono due: la prima è che ci sia una piccola malformazione che probabilmente stava lì dalla nascita e che va tolta in radiochirurgia, la seconda è che non vedremo nulla e non sapremo mai come è successo. Il mistero della seconda opzione infastidisce il mio medico, ma alla mia domanda «E che succede se non si trova nulla?» lui rispose «Se non c’è niente, non recidiva», e da quel momento sogno una risonanza immacolata e di rispondere alla domanda «Come mai ti è successo?» con un sagacissimo «È stata la mano di Dio». In realtà già do delle risposte carine su cosa mi ha provocato l’emorragia, spesso quando qualcuno mi fa arrabbiare dico che quando farò la risonanza mi troveranno sul sito dell’emorragia la sua faccia. Faccio le battute sul fatto che dovranno rimuovere chirurgicamente quella faccia. Poi penso che potrebbero dovermi davvero togliere qualcosa chirurgicamente, e impongo le mani sulla scatola delle benzodiazepine. 

«Che cosa farai a settembre?», mi chiedono persone che a volte neanche sanno cosa è successo a ottobre dell’anno scorso, quindi devo spiegare l’antefatto per dire che non so di preciso cosa farò, perché ho due giorni in ospedale che mi diranno cosa farò nell’inverno seguente. Potrei essere liberissima, potrei esserlo un po’ meno.  Raccontare questa vicenda ora che i problemi sono pochissimi e i miglioramenti enormi è quasi un piacere. Vedo la faccia di chi pensa che quello che mi è successo è il peggior incubo, mentre per me diventa un lunedì mattina un po’ particolare. Poi di fronte all’eccesso di incognite, declino qualsiasi offerta mi venga fatta. Per me non è così strano dire «no» a delle offerte di lavoro: una volta trovato un impegno soddisfacente che paghi le spese e mi permetta di risparmiare qualcosa, il resto viene attentamente valutato e spesso rifiutato perché non mi reputo all’altezza o semplicemente, perché preferisco poltrire. Ora dico «no» immaginando lo scenario peggiore. Forse era questa la «vita di prima» che intendeva il medico, quella in cui la risposta è «no», in attesa che a ottobre qualcuno mi chieda «Cosa hai fatto a settembre?» per potergli rispondere «Mah, un paio di visite, per il resto un cazzo».

ARTICOLO n. 55 / 2022

IL CORPO DELLA LINGUA A TEATRO

Intervista di Gilda Tentorio

Terzopoulos è un Maestro del teatro che ha creato e diffonde il suo metodo rivoluzionario di una recitazione che è un ritrovare il corpo”, la sua profondità e le energie nascoste. 

Gilda Tentorio: Lei che è greco, come lavora sui testi greci antichi? Quale disposizione ha verso quella lingua?

Theodoros Terzopoulos: In una lingua le consonanti sono come i pilastri di una casa, che tengono insieme la struttura. È bello e facile lavorare con una lingua dalle molte consonanti, come il tedesco o il giapponese. Cito queste due lingue perché la Germania di Heiner Müller e la tradizione asiatica sono i due ambienti che mi hanno influenzato di più. Trovo in particolare che la lingua giapponese abbia in sé un ritmo ancestrale, che va all’essenza, deciso e rituale al contempo. Nell’italiano invece le vocali sono un ostacolo alla ricerca di profondità. Una parola con molte vocali racchiude molta aria e perciò galleggia restando in superficie. La parola invece ha una profondità verticale, una radice. La stessa cosa si sperimenta nel passaggio dal greco antico a quello moderno: oggi la mia lingua è piena di vocali; nell’antico invece prevalevano le consonanti. Quando mi avvicino a un testo antico quindi cerco anzitutto di ascoltare il ritmo e di scavare per trovare il ritmo primordiale, il nucleo essenziale della parola, cioè quel suono che si trova sotto la parola-significato.

G.T. Ci può fare un esempio di questo scavo archeologico nella sonorità di una parola?

T.T. Quando diamo a un suono un significato, obbediamo a una esigenza comunicativa, e quindi anche sociale e politica. Ma a me interessa recuperare il suono primigenio. Prendiamo ad esempio l’antichissima parola per indicare la terra: in dialetto dorico si diceva GAS, o meglio GAAAASS, con una ‘a’ larga, profonda e un sigma finale lungo. [Ed ecco che Terzopoulos comincia a farmi sentire la sonorità: apre la bocca, inizia con laspirazione della G e poi allunga la A in unemissione vocale che viene dalle viscere e quella A cavernosa non ha nulla di pacificante] Lo senti? Questo è il suono primordiale della terra, così deve echeggiare, devi sentire la sua “terrestrità”, devi sentirci dentro i suoni della natura, avere la sensazione del vento che stormisce tra le foglie. Se poi calchi quel gamma iniziale profondo, puoi ottenere sonorità impensate. Quando a lezione con i miei allievi facciamo tutti insieme l’esercizio di “GAAA”, si crea una vibrazione che sembra il terremoto. La parola greca antica ha una sua vita profonda e segreta che dobbiamo individuare, occorre trovare il ritmo, sperimentare con consonanti e vocali. Talvolta il risultato sonoro porta a “desemantizzare” il significato. Quando diciamo “GHI MANA GHI” (Terra, madre terra – questa volta con la pronuncia moderna), nella ripetizione delle sillabe e nella concitazione, dosando il ritmo e le pause, la frase acquista una dimensione ieratica, diventa uno strumento rituale di immensa potenza. La parola racchiude un ritmo interiore, ed è a questo che dobbiamo obbedire. Il significato è soltanto un epifenomeno. Il significato è cervello, e invece noi dobbiamo trovare il cuore della parola. E il cuore è appunto il ritmo. Spesso il ritmo e il tempo ampliano lo spettro di significatività. Questo mio andare al cuore pulsante della parola produce anzitutto un suono: non è necessario che subentri l’interpretazione, basta solo una sensazione, un lago di energia in cui “nuota” il significato.

G.T. Ma questa è poesia!

T.T. Hai ragione: quando lavoro sul logos e con il corpo degli attori, uso una lingua poetica per poterli indirizzare verso la creatività. Preferisco la poesia a uno studio cerebrale o accademico, che è certo necessario per capire i testi, ma quando appesantisce di sensi e sovrasensi, c’è il rischio di perdere l’essenza.

G.T. Nel suo teatro la lingua si fa corpo: come avviene questo processo?

T.T. La lingua è corpo, e il corpo è lingua. Hölderlin nei suoi studi sull’Antigone cercava la chiave perduta dell’unione fra parola e corpo. Il mio maestro Heiner Müller in un saggio sostiene che io sono riuscito a unire corpo e lingua. Ma per farlo devo trovare la radice della parola, devo darle corporeità. E in questo percorso il generoso e indispensabile aiutante è il corpo, che ha in sé suoni inattesi, trasversali, un ribollire di energia sonora, un intero paesaggio da scoprire.

G.T. Che lingua parla Dioniso, il dio del teatro?

T.T. Dioniso parla la lingua dei grandi significati e dei non-significati. Dice: «Eccomi, sono giunto», ma allo stesso tempo è altrove e noi dobbiamo seguirlo. Pone una domanda, ma è già passato oltre. Dioniso è la metamorfosi continua, movimento nell’immobilità e immobilità nel movimento. Dioniso è la lingua e la corporeità della vertigine interiore. Ci obbliga a uscire dal nostro bozzolo di immobilità e a muoverci, a correre. E noi questa lingua prima di tutto dobbiamo sentirla e poi tentare di decodificarla. Dioniso ci pone la domanda sull’essenza ontologica, ma non ci dà risposte, ci lascia lì dove la realtà ribolle e si plasma, fra il noto e l’ignoto. Perché Dioniso non dà risposte.

G.T. Il suo teatro ha una dimensione politica?

T.T. Il mio teatro parte dalla radice del politico, dalla polis, ma non segue nessun modello. Non vedrete mai nei miei spettacoli la bandiera rossa, falce e martello per rivendicare una vita migliore per la classe operaia. A me interessa parlare di quel fermento che sta nella profondità delle cose e dell’esistenza. L’utopia di Dioniso non è solo una situazione astratta, è un viaggio nella dimensione ontologica più profonda dell’uomo. Ad esempio il teatro di Aristofane propone un’utopia, ma sul versante sociale: con il suo comico irresistibile Aristofane cerca di dare risposte alla società e questo suo sguardo sulla polis acquista anche un orizzonte filosofico. Ma io sono votato a Dioniso, che invece è follia. E follia significa tragedia. Dioniso è il dio della tragedia, del teatro, della metamorfosi, della profondità e dell’elevazione, per andare oltre.

G.T. Come ha affrontato il testo di Ibsen Casa di bambola per il suo lavoro Nora presentato a Milano? 

T.T. Mi sono concentrato sul personaggio di Nora, sono entrato nella sua mente e ho ricreato situazioni psicologiche, sentimenti, un mondo asfissiante di piccoli scontri e riconciliazioni. Ho voluto però sottolineare l’atto di Nora, una donna che decide di “ingrandire” le dimensioni, di superare le miserie della sua vita quotidiana fatta di bambini, regali e debiti. Nora decide di sollevarsi, proiettarsi in un’altra sfera, o meglio, di ritrovare la sua radice. In questo spettacolo ci sono elementi realistici, ma a poco a poco si viene a creare un climax, un’elevazione, un superamento. E questo si rileva anche dalla lingua, che è sempre più asciutta perché appartiene all’oltre, all’ontologico. Nora sceglie di superare la superficie e va oltre, si eleva e parte. Per dove, non lo sappiamo…

G.T. Quali impressioni le restano dell’esperienza milanese? 

T.T. Sono contento e soddisfatto: il pubblico era attento e interessato durante gli spettacoli, che sono stati salutati con lunghissimi applausi. Mi ha fatto piacere anche vedere tanti giovani, gli allievi del Piccolo Teatro e non solo. Questo dimostra che c’è un grande desiderio di novità e di esperienze autentiche. La vostra Milano mi è sembrata una città che corre inseguendo le mode. Manca però un punto fisso, un faro, come succedeva ai tempi di Strehler e poi forse anche con Ronconi. Tornare in Italia è comunque sempre un piacere e il prossimo gennaio se tutto va bene presenterò una mia regia presso ERT (Emilia Romagna Teatri), di cui però non voglio anticipare nulla. 

ARTICOLO n. 54 / 2022

MADONNA CHE SILENZIO C’È STASERA

Francesco Nuti quaranta anni dopo

Dopo il successo di Ad Ovest di Paperino, il 1982 è l’anno del primo vero debutto di Francesco Nuti da solista anche se non ancora regista. Non più all’interno del trio de I Giancattivi – che aveva alimentato e fatto germogliare le sue qualità – Nuti dà libero sfogo in Madonna che silenzio c’è stasera a una comicità pervasa dall’ironia cattivissima e tutta toscana unita a un surrealismo delicato e dolce che rappresenterà sempre la sua cifra anche nei momenti più opachi della sua carriera. 

Sono passati quarant’anni da quell’esordio che portò Francesco Nuti al centro del cinema italiano che, seppur con tutte le differenze e varianti, pareva interpretare in maniera finalmente innovativa e compatta gli anni Ottanta con tutto quello che avrebbero preannunciato. Insieme a Nuti, ovviamente Roberto Benigni, Carlo Verdone, ma anche Massimo Troisi e non si può certo escludere Nanni Moretti. 

Ognuno di loro è forte di una vena comica e al tempo stesso di uno sguardo critico e ognuno è fortemente e ossessivamente individualista, nonostante tutto e nonostante le visioni politiche più o meno coerenti che volenti o nolenti rappresentano. Tuttavia Francesco Nuti raffigura forse il caso più estremo: una genialità impura che nasce dalla provincia strapaesana e al tempo stesso industriale toscana. Nell’estate del 1982 va ricordato che Prato è il centro d’Italia e i suoi figli migliori sono Francesco Nuti e Paolo Rossi: sguardi dolci fatti di guizzi rapidi e da furfanti, spalle strette e tanto fiato. 

Allora l’Italia non era ancora solo Milano e Roma o quasi solo Milano come è oggi, ma era un mondo ancora attraversato da guizzanti differenze. Firenze era la capitale della moda, il centro di una New Wave che avrebbe alimentato le menti di una generazione. Erano anni in cui, come ricorda Bruno Casini in New Wave a Firenze Anni in movimento (Zona Music Books), andare a dormire era quasi impossibile. Gli anni dei locali jazz (indimenticabile Luca Flores) e delle notti infinite di una generazione di trentenni che tornava alla vita dopo aver lasciato alle spalle anni fin troppo tetri. Ma era anche il tempo in cui Benigni abbandonava la stalla di Onda libera per esordire alla regia con un David di Donatello come miglior regista esordiente per Tu mi turbi

Non solo tutto era possibile, ma ora era possibile fare tutto da sé, solo che l’autarchico non usciva dai teatri cantina, ma dalla televisione. Stand-up comedian ante litteram come Troisi, Verdone, ma anche i milanesi Abatantuono, Teocoli e Boldi lasciati i locali alla nostalgia della mala che fu, si proiettavano – spesso grazie all’intuito felino di Renzo Arbore che con Il pap’occhio aprì davvero un decennio – dalla TV al cinema con record di incassi che il nostro cinema da allora non ha mai più visto (e anche solo immaginato). 

Francesco Nuti è il punto di equilibrio in una ricerca a tratti ossessiva di un originario comico che sfocia spesso nel burlesco come nella tragedia. Subito campione d’incassi sembra essere quello più in grado di reggere il tempo. I suoi film sono ricchissimi di soluzioni comiche, ma anche la sua regia non sembra mia accontentarsi, provando soluzioni spesso estremamente originali. 

In tal senso Madonna che silenzio c’è stasera sembra addensare nella sua storia l’insieme delle possibili variazioni del cinema di Nuti, non ancora regista, ma già sceneggiatore e interprete totale. Ambientato a Prato, il film è il racconto di una giornata nella vita di Francesco e come spesso accade in chi ha un forte senso del comico è il nulla ad attrarre il riso e a far girare la narrazione: Larry David e Jerry Seinfeld lo hanno palesato al mondo, però c’è da dire, molti anni dopo. 

Nuti interpreta come molti allora, pensiamo a Troisi, Verdone e Moretti su tutti, l’estate come momento massimo di sospensione, ma anche come ritorno inevitabile all’io, a se stessi, a un’individualità che negli anni Ottanta diviene sempre più incontenibile. Le nevrosi diventano chiaramente il centro di tutto, la psicanalisi la soluzione che non dà mai soluzioni, mentre i rapporti con le donne sono sempre più problematici e al tempo stesso stanchi, quasi annoiati. 

Tutto questo tuttavia si paleserà con forza più avanti, a metà degli Ottanta, e solo Carlo Verdone sarà in grado di trattenere più a lungo una forma di leggero disincanto che invece è ancora splendente e vivacissimo in Madonna che silenzio c’è stasera

Il film, oggi un vero e proprio cult, vede sbocciare il talento di Nuti che esce dall’ombra mimetica di Roberto Benigni per palesare, seppur ancora di velluto vestito, la propria assoluta capacità seduttiva. L’intransigenza e la radicalità diviene qui una forma di derisione, la cattiveria un atto di crudele divertimento. Il limite è spinto sempre un poco più in là, ma non per un gusto di rompere gli schemi, o peggio per opporsi ad un presunto conformismo, ma perché è semplicemente nelle cose. E le cose le stabilisce in questo caso l’autore e interprete sulla base di un impulso caratteriale, tanto più efficace se immotivato.

Attorno nel film tutto pare invecchiato, la fabbrica tessile come la Casa del Popolo, ma tutto al tempo stesso è amato con tenerezza. Nuti ha 27 anni e l’infanzia non è ancora una nostalgia, ma un preteso dato di fatto. Del resto non si abbandona mai l’infanzia per davvero fino a quando si sta a casa della mamma o nella città dove si è nati, e allora tanto vale non fingere, non giocare agli adulti e vivere liberamente proprio come dei bambini. 

Oggi si parla molto di competenze, come una qualità e una forma di emancipazione, ma spesso non si considera l’aridità del concetto. Madonna che silenzio c’è stasera ha non a caso la luce dei macchiaioli toscani, ma non aveva certo bisogno di questa competenza il direttore della fotografia Carlo Cerchio per darle forma, bastava la luce di Prato, l’ovvietà di un’origine naturale. Così i movimenti e le espressioni di Francesco Nuti, non sono gesti appresi, ma elementi ricondotti e guidati: qui non è il sapere in sé il centro, qui è ancora la capacità di interpretare la propria epoca – in questo caso gli anni Ottanta – annusando sì l’aria, ma con la consapevolezza della propria storia e della propria infanzia. 

L’infanzia non manca mai in quegli anni, e ancora Verdone e ancora Troisi e ovviamente Nanni Moretti: «Non torneranno più le merendine di quando ero bambino, i pomeriggi di maggio, non torneranno più». Reggere una battuta con uno sguardo e poi rifarlo reggendo un film e poi una carriera, è certamente un segno di narcisismo e anche di egocentrismo, ma come si dice, bisogna saperlo fare. Solo che anche quando si è capaci di farlo, il peso, soprattutto se parliamo di una carriera tanto trionfale come quella di Nuti, può diventare insostenibile, perché l’eccesso di sé ad un certo punto rende irriconoscibile anche lo specchio. 

Inutile ora addentrarsi nelle sfortune di un uomo che ha dato tanto al suo pubblico e al suo mestiere, di certo Nuti in quel 1982 dava contemporaneamente avvio e addio a una carriera, apriva e chiudeva la propria unica giornata con allegria quanto con malinconica ribalderia. 

Chiaro, il vero successo sarebbe arrivato dopo e anche i suoi film migliori, ma in quella ripetuta esclamazione “madonna che silenzio c’è stasera”, come nell’irriverente e azzardata, Puppe a pera, c’è già tutto. Il resto sarà arte, arte pura, non mestiere, della ripetizione. Come un riflesso condizionato dato dall’era della televisione che si stava imponendo anche grazie alle sue infinite repliche, trasformando ancor di più i comici in macchine, spesso ottuse, da tormentone. 

Madonna che silenzio c’è stasera racconta così dell’unica giornata che abbiamo a disposizione per restare bambini e per imparare, per giocare e per amare in assoluta e irrequieta libertà. Francesco Nuti invece ci ha raccontato cosa significa ripetere variando, calibrando ed elaborando quella giornata fino a trasformarla in una vita intera. Ed è ancora più assurdo che proprio in quel replicarsi che avrebbe dovuto essere maieutico si sia scatenata la critica e il rancore, là dove Nuti indicava una possibilità in un tempo stretto sempre e solo al presente, il pubblico lo abbandonava in un reciproco fraintendimento. Invece è proprio nella replica come performance che dovremmo cogliere lo spazio possibile in assenza di futuro come di un passato riconoscibile. Solo la ripetizione concede ancora uno spazio possibile di tempo per pensare e al tempo stesso la clemenza del perdono, fino alla successiva variazione. 

Quarant’anni di carriera sono passati da quel 1982, ma chiamarla carriera fa soltanto ridere rispetto alla forma che più fortemente ed esplicitamente gli anni Ottanta hanno maturato. Ovvero è possibile parlare credibilmente di una carriera fatta quasi ossessivamente solo da se stessi? Quel tempo trascorso, quei 40 anni sono più semplicemente una vita. In quarant’anni si inventa una volta soltanto e poi il resto sono serate più o meno ben pagate, repliche che hanno il senso di un’utopica stagione che resti infinita seppur aperta a ogni possibile variazione. Bisognerebbe sempre credere ai comici proprio perché ci fanno ridere, riconoscere il loro mestiere che può essere quello di attori, registi o scrittori e non abbandonarli mai, pena quella di abbandonare se stessi e la propria giornata migliore. Guarda un c’era mai stato un silenzio come stasera. Zit zit zit…. Muaadonna che silenzio c’è stasera. Io Chiaramonti ‘unnhò mai avuto paura del silenzio, ma stasera c’è un silenzio…

ARTICOLO n. 53 / 2022

CONVERSAZIONE CON MICHAEL Z. WISE

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Michael Z. Wise è il cofondatore di New Vessel Press, e ha lavorato come corrispondente a Vienna, Praga e  Londra per la Reuters e il Washington Post

A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

MICHAEL Z. WISE: L’idea della carriola sembra suggerire che ci limitiamo a riversare camionate di libri sulla pubblica piazza, mentre alla New Vessel Press selezioniamo con attenzione tutto ciò che pubblichiamo. Il nostro catalogo non potrà essere paragonato in tutto e per tutto a un romanzo, ma scegliamo sempre con cura i testi da tradurre: una mezza dozzina di libri l’anno, con l’obiettivo di portare testi di qualità dalle altre lingue in inglese. Di Calasso mi piace citare un’altra massima, secondo la quale il compito di un editore è faire plaisir a una tribù dispersa di persone alla ricerca di qualcosa «che sia oro e non tolla».

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

M.W. Siamo molto orgogliosi di essere gli editori dell’autore russo Sergej Lebedev e di aver pubblicato tre dei suoi romanzi, oltre a un quarto che uscirà a breve nella splendida traduzione di Antonina W. Bouis. Lebedev, in particolare nel suo Oblivion, è tra i primi autori russi del XXI secolo a sondare l’eredità del sistema dei campi di prigionia sovietici e la sua scrittura densa e ponderosa ha la capacità di evocare alla perfezione gli orrori del passato e le loro ripercussioni sul presente. Tradurre Lebedev, uno dei migliori autori russi in circolazione, è una sfida davvero emozionante e rivedere il suo lavoro è estremamente gratificante.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

M.W. Di recente abbiamo concesso in licenza i diritti delle nostre traduzioni inglesi dei racconti di Anna Maria Ortese dall’antologia Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles, ad opera di Ann Goldstein e Jenny McPhee, per delle produzioni teatrali della Columbia University di New York. Molti dei nostri libri, poi, hanno a che vedere con le arti visive vecchie e nuove, inclusi The Eye di Philippe Costamagna, sulla connoisseurship e sul profondo piacere di osservare i quadri dei vecchi Maestri, e A Few Collectors di Pierre Le-Tan, sull’eccentricità di chi tende ad acquistare opere d’arte d’ogni sorta. Naturalmente, si tratta di titoli orientati ai lettori che si interessano al mondo dell’arte e promossi da gallerie e librerie museali. Inoltre, abbiamo pubblicato un lavoro a stampa nato interamente tramite nuovi mezzi di comunicazione, in particolare da una serie di tweet e dalle foto che li accompagnavano. Il volume si intitola The Madeleine Project, di Clara Beaudoux, ed è un opera di saggistica davvero innovativa, in cui si racconta di una giovane donna che si trasferisce in un appartamento a Parigi e documenta la vita e gli effetti personali della precedente inquilina sul proprio feed di Twitter.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

M.W. Sebbene nei momenti più bui ci sia una tendenza a disperare per il ruolo ormai limitato dei libri nella società contemporanea, in mezzo a tante altre distrazioni, io sono convinto che i libri continuino ancora oggi a esercitare l’impatto fondamentale sul pensiero e sulla percezione che gli è proprio da secoli.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

M.W. In realtà, alla New Vessel Press non cerchiamo tanto il lettore ideale quanto il libro ideale, capace di solleticare l’interesse di menti curiose. Ci concentriamo su opere di narrativa e saggistica in lingue diverse dall’inglese, considerate di qualità letteraria eccezionale e in grado di offrire informazioni interessanti sulla vita e la società in altre parti del mondo.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

M.W. I libri migliori, specialmente quelli che vantano particolari origini linguistiche e geografiche e sono in grado di rispecchiarle, contengono delle verità universali. È vero che non esiste una casa editrice interamente europea, ma per me è sempre un’emozione partecipare alla Fiera del libro di Francoforte, dove l’Europa risulta profondamente viva in un modo che non si riesce a percepire altrove. È vero, lo spirito di cooperazione tra gli Stati europei si è decisamente rinsaldato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma a Francoforte l’utopia letteraria già esisteva, almeno in una certa misura, poiché ci si trovano sempre europei che parlano una grande varietà di lingue e che hanno un’ottima comprensione degli sviluppi culturali nei paesi vicini, oltre che in zone del continente più remote.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio quelle a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dal primo momento, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

M.W. Capisco il desiderio di adottare uno schema di copertine uniforme, esteticamente coerente e in grado di saltare all’occhio. Tuttavia, trovo che si rischi di ottenere un risultato scialbo e vuoto, senza potersi dedicare al piacere creativo di ideare una copertina eccezionale, in grado di rispecchiare il libro che si ha sotto mano. Impegnarsi a trovare un design che aiuti ad attirare l’attenzione dei lettori, perché non si limitino a comprare ma anche a leggere una particolare opera, è parte di ciò che distingue l’editoria dalla semplice stampa.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

M.W. Noi di New Vessel Press abbiamo accolto con favore l’adattamento dei nostri classici libri cartacei in ebook e audiolibri. È possibile che nel prossimo futuro nasceranno altri formati innovativi, tramite tecnologie oggi sconosciute ma parimenti all’avanguardia. Sotto sotto, però, l’esperienza della parola scritta rimane quella che era ai tempi di Johannes Gutenberg, anche se oggi viviamo nell’era di Jeff Bezos.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

M.W. Sì, la traduzione inglese del nostro secondo libro di Marina Jarre, Ritorno in Lettonia, ad opera di Ann Goldstein, dopo il successo della sua autobiografia I padri lontani, da noi pubblicato [con il titolo Distant Fathers] nel 2021. Ma anche la traduzione di un romanzo brasiliano ambientato nelle favelas, che parla di una relazione segreta e della potenza della parola scritta. Il volume si intitola The Words That Remain, di Stênio Gardel ed è stato tradotto dal portoghese da Bruna Dantas Lobato. Infine, citerei un romanzo israeliano molto profondo e divertente in cui si analizza quella che è la mentalità contemporanea su tematiche come la schiavitù e l’eredità del colonialismo. Il titolo è Professor Schiff’s Guilt, di Agur Schiff, tradotto dall’ebraico da Jessica Cohen.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

M.W. Diario Londinese di Boswell, Alla ricerca del tempo perduto di Proust e Il mondo di ieri di Stephan Zweig. Sì, sono indubbiamente un cittadino, e pure un po’ nostalgico.

Traduzione di Camilla Pieretti

ARTICOLO n. 52 / 2022

A CONVERSATION WITH MICHAEL Z. WISE

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future? These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry. Michael Z. Wise is co-founder of New Vessel Press. He has worked as a foreign correspondent in Vienna, Prague, and London, reporting for Reuters and The Washington Post.

Andrea Gentile: What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

Michael Z. Wise: The wheelbarrow approach sounds like one is simply shovelling books out into the public square, whereas at New Vessel Press we are highly selective about what to publish. Our catalogue may not be entirely comparable to a novel, but we carefully choose the books we translate – a half dozen titles each year that are aimed at bringing high quality writing from other languages into English. I like another maxim by Calasso that the publisher’s task is to faire plaisir to what he called a scattered tribe of people in search of something «that is gold and not tin».

A.G. Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

M.W. We are immensely proud to publish the Russian author Sergei Lebedev and have brought out three of his novels so far and have a fourth book forthcoming in Antonina W. Bouis’s superb translation. Lebedev’s writing, particularly his novel Oblivion, is among the first twentieth-century Russian books to probe the legacy of the Soviet prison camp system, and his rich and weighty writing has great power to evoke past terror and its ongoing reverberations today. Translating Lebedev, one of Russia’s finest, is an exciting challenge, and editing his work has been exceedingly rewarding. 

A.G. Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising equation of content. From movies and TV shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

M.W. We have recently sublicensed the rights to use our translations by Ann Goldstein and Jenny McPhee of stories by Anna Maria Ortese from her anthology Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles in stage productions at Columbia University in New York City. Many of our books are also concerned with the visual arts old and new, including The Eye by Philippe Costamagna about connoisseurship and the sheer delight of looking at Old Master paintings, and A Few Collectors by Pierre Le-Tan about the eccentricities of those driven to acquire artworks of all sorts. These titles are naturally targeted toward art-minded readers and promoted by gallery and museum bookshops. In addition, we have published a print work that arose entirely from new media, namely tweets and their accompanying photographs. This is The Madeleine Project by Clara Beaudoux, an innovative work of non-fiction about a young woman who moves into a Paris apartment and documents the belongings and life story of the previous tenant on her Twitter feed. 

A.G. But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought of as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this? 

M.W. Although in dark moments, there’s a tendency to despair about the diminished role of books in contemporary society amid the din of so many other distractions, I believe that books continue to exert an essential, age-old impact on thinking and perception.

A.G. A follow-up question would have to do with readers. What’s the ideal reader you have in mind while you work? And how this ideal reader, if present at all, comes to you: do you search for her, trying then to find the best possible reading experience for her; or do you invent her, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

M.W. We search less for the ideal reader than for ideal books that will appeal to inquiring minds. We look for works of both fiction and nonfiction in other languages that are extraordinary in terms of literary quality and offer new insights into life and society in other parts of the world.

A.G. However a publisher thinks about the readers the books she publishes are going to meet, books are often thought of as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is constantly challenged by political, societal and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, that can make a book available in multiple languages at the same time, for readers across the Continent. Utopia, or something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

M.W. The best books, especially those that arise from and reflect their particular linguistic and geographic origins, contain universal truths. There may not be one fully European publishing house, but I’m always thrilled to go to the Frankfurt Book Fair where Europe seems to me to be truly alive in a way one really doesn’t experience elsewhere. Yes, the spirit of European alliance has been significantly regenerated in the face of Russia’s invasion of Ukraine, but a degree of literary utopia has already been in existence at Frankfurt, where you can regularly find Europeans speaking multiple languages and who have a genuine understanding of cultural developments in their neighboring countries as well as farther-flung parts of the continent.

A.G. Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways of working together, of being together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers, and European ones. Generally speaking, in fact, in the UK and the US every book is different and a publisher’s identity is less perceivable that the identity of the editor building a particular list, whereas in Europe a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colors on a bookshelf. What do you think are the respective merits of the two approaches? And which one do you feel closer to?

M.W. I certainly understand the desire to adopt a uniform cover scheme that is aesthetically coherent and distinctive. But this can end up being just somewhat blank and empty, missing out on the pleasures of the true art to creating a striking cover that reflects the individual book at hand. Rising to this challenge of commissioning a cover design that helps attract readers to not only buy but also read a particular work is part of what distinguishes publishing from mere printing.

A.G. Publishing, as our readers may have gleaned from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are “eternal objects”; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of inception that they don’t need changes. Do you think this is true for books? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – a through the next years? And if you think they will change, how will they do it?

M.W. At New Vessel Press, we’ve fully embraced the adaptation of our traditional print books into e-books and audiobooks. Other innovative formats could well arise in the near future, employing similarly new, currently unknown forms of technology. But the core experience of engaging with the written word remains the same as it was in Johannes Gutenberg’s time, even if we live in the age of Jeff Bezos.

A.G. As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so perhaps now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into the next six months. What are you most excited about publishing?

M.W. A translation from the Italian by Ann Goldstein of our second book by Marina Jarre, Return to Latvia, building upon her celebrated autobiography Distant Fathers that we published in 2021, and a novel from Brazil set in the impoverished hinterlands about a hidden romance and the power of written language called The Words The Remain by Stênio Gardel, translated from the Portuguese by Bruna Dantas Lobato. Also a translation from the Hebrew by Jessica Cohen of a profound and hilarious Israeli novel about contemporary attitudes toward slavery and the legacy of colonialism. It’s called Professor Schiff’s Guilt by Agur Schiff.

A.G. Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

M.W. Boswell’s London Journal, Proust’s In Search of Lost Time, and Zweig’s The World of Yesterday. At heart, I’m definitely a nostalgic urbanite.

ARTICOLO n. 51 / 2022

L’ESTATE DEL 1982

Il tramonto amarissimo di un’epoca intera

La data, 1982, rimanda immediatamente a un colore. Azzurro, si capisce. Grazie all’Italia che vince il Mundial spagnolo, Rossi, Cabrini, Altobelli, il Presidente Pertini in tribuna grida «non ci prendono più» e poi gioca a scopone scientifico sull’aereo, destinazione casa, con Dino Zoff, Enzo Bearzot e Franco Causio. La coppa del mondo in bella vista nell’inquadratura celeberrima di Cesarino Galimberti. 

La sequenza è memorabile, preceduta da una raffica di immagini simili ad un crescendo rossiniano. Da una diffusa sfiducia verso quell’avventura calcistica tutt’altro che promettente – compreso girone di qualificazione tutt’altro che rassicurante – a un’esplosione felicemente agonistica innescata e protratta oltre ogni speranza da un “Paolino” deciso a diventare “Pablito”. Non gli avresti dato due lire, a vederlo così, mingherlino e fragile in mezzo all’area nemica. Seee, ciao. Un portento, senza perdere grazia, capace di mandare a casa chi era dato per vincente certo. Brasiliani, argentini, polacchi fatti fuori da quel killer inaspettato, italianissimo nel cognome, bello a vedersi, micidiale nel tocco decisivo. Urca! Abbastanza per catapultarci nella finalissima contro la Germania. Una partita attesa, a quel punto, come una replica sacrosanta e più pregiata del 4-3 messicano, Gianni Rivera che la mette nell’angolino, tac. 

Fu una festa popolare, tra bandiere e fontane trattate al pari di piscine. La piazza, occupata sino a ieri da ben altri umori, pervasa da tensioni supreme, trasformata in una culla gioiosa e provvisoria. Un happening estivo, tonificante come una doccia tiepida dopo una lunghissima fatica, così intensa da farci dimenticare altro. Molto altro, almeno per un po’.

Chi aveva vent’anni o giù di lì nei primissimi anni Ottanta può facilmente far di conto, elencando giorni neri o nerissimi per un’altra sequenza di immagini ad alta intensità. Studenti appena dimessi dall’università, giovani da primo impiego. Reduci. Da un tempo cupissimo che aveva preteso scelte impregnate di dubbi. Un po’ tutti, credo – permettendomi la prima persona – avevamo avuto a che fare con declinazioni più o meno prossime della lotta armata. Con una quantità di contraddizioni rese dolorose dai morti ammazzati, da una violenza che stava nei dibattiti, nelle assemblee, nelle piazze, appunto. Reduci, ma sì, da una centrifuga dentro la quale, in modo autarchico, ciascuno aveva cercato una via, una salvezza, un senso riformulato. Con una lista di cadaveri eccellenti lunga così, qualche amico, vero o presunto, in galera, in depressione, in balia dell’eroina, sostanza circolata non a caso, con vigore potentissimo, al cospetto di un fallimento evidente.

Gli ultimi fuochi. Nel senso delle armi. Per il tramonto amarissimo di un’epoca intera, in un modo o nell’altro, nostra. Non era finita, si capisce. Il generale americano Lee Dozier, logistico delle forze NATO, sequestrato dalla BR il 17 dicembre 1981 nella sua casa veronese, liberato a Padova il 28 gennaio ’82, secondo procedura anomala, sospetta, con una sfilza di indiscrezioni che collegarono all’operazione sia i servizi segreti bulgari, sia, più tardi, il boss della camorra Raffaele Cutolo. Un tema, questo delle relazioni tra malavita, terrorismo e politico, che avrebbe continuato a montare misteri per decenni. Continua ancora, per certi versi. 

A proposito di ombre. Ombre nere. Due avvenimenti connessi e destinati a riempire mai abbastanza le nostre camere oscure: il cadavere del banchiere Roberto Calvi, ex presidente del Banco Ambrosiano, rinvenuto sotto il Blackfriars Bridge a Londra in giugno; l’arresto di Licio Gelli, Gran Maestro della Loggia P2 in settembre.

Basta vagare in archivio qualche ora per comprendere il peso di quel Mundial vinto dai nostri. Una carezza, una pacca su spalle curve, oppresse dalla sensazione di avere a che fare con poteri tanto occulti quanto arroganti. “Trame”. Rosse, nere, grigie. Persistenti e citate in continuazione, al pari di entità incontrollabili, buone per qualunquismi da bar, da tinello. Una cifra da “Bella Italia” che, in fin dei conti, non è mai scomparsa. Talmente impressa nella cultura – non solo politica –  da generare progressive indifferenze, fatalismi da impotenza.  

Chi mostrava ancora interesse per temi guerreschi aveva avuto a disposizione un diversivo: l’avventura breve e tragica dei militi argentini provocatoriamente sbarcati sulle Malvinas, con conseguente reazione degli inglesi che quelle isole chiamavano Falkland. Argentina, presente? Una sfilza drammatica di soprusi, prepotenze e generali affamati come tigri a digiuno. Questo qui – quello là – si chiamava Leopoldo Galtieri. Pensava di combinare uno scherzetto rapido e indolore, un golpe sulla scena internazionale che avrebbe prodotto un recupero di consensi in quel paese strapazzato, con i cadaveri dei desaparecidos ammucchiati nelle fosse. Galtieri: sbaragliato dalle truppe della signora Margaret Thatcher in 74 giorni. Ancora adesso la memoria traccia ghirigori attorno alle immagini di quei poveri disgraziati costretti ad un conflitto che da qui, vuoi per la distanza, vuoi per la minuzia geografica del sito, sembrava una schermaglia, una cosa da poco. Note malinconiche di un tango, la voce radiofonica di Carlos Gardel. Vengono buone adesso per accompagnare fotogrammi sbiaditi, il ricordo, stinto anche quello, dei 907 morti da stupido scontro: 649 argentini, 258 britannici compresi 12 cittadini di Hong Kong, prelevati e inviati laggiù secondo misteriosissimi criteri e 9 civili. Vittime inutili, come migliaia, milioni di altre. Il tema, del resto, è attuale, anche se mai abbastanza influente.

Distrazioni? Certamente. Perché in primo luogo, il mondo del lavoro non proponeva come oggi solo occasioni di far pratica – il termine attuale è stage – a vantaggio del solo datore. Offriva lavoro per davvero. Dunque una concretezza autentica da sperimentare dopo aver letto e studiato anche solo per difenderci da altre tentazioni. Ottimismi in clamorosa circolazione, luci intensificate dai nostri anni bui. La modernità, il futuro come opportunità full optional. I primi computer facevano decollare sogni e bisogni vaghi e mirabolanti, dal vinile al “cd”, un’altra, pacifica rivoluzione, mentre decollava anche E.T., sulla bici, regia di Steven Spielberg. Un film talmente riuscito da indurre a una terza, quinta, trentacinquesima visione in compagnia dei figli che avremmo concepito, dei nipotini che avrebbero concepito loro.   

Ogni epoca, ogni stagione lontana, a ripensarci, a rintracciarne i dettagli, comporta sorprese, tenerezze, il rischio di un rimpianto, qualche malinconia. In quel 1982 si interruppe il volo dorato di Grace Kelly, morta in seguito ad un incidente d’auto anche quello complicato da pettegolezzi e misteri. Era ormai la Principessa Grace, non si sa sino a che punto felice. Ma allora come ora, quella creatura bionda, eterea, perfetta, torna a farci visita così come faceva visita a James Stewart, ingessato e bloccato a casa ne La finestra sul cortile. Niente di comparabile con le immagini ingessate pure quelle, del podio di Montecarlo, lei inglobata nell’aplomb Grimaldi. Sangue blu e rosso sangue. Rosso Ferrari. Gilles Villeneuve a Monaco aveva vinto nell’81, primo trionfo di un Cavallino turbo. Un anno dopo sarebbe morto a Zolder, in Belgio, 8 maggio, in un epilogo pirotecnico, al pari del resto, di un incedere da teppa, da bimbo vivacissimo, incorreggibile. Per questo era amato. Generosità a fondo perduto, a costo di sguazzare in una magnifica scelleratezza. Tradito dal compagno Didier Pironi, disposto e autorizzato a fargli le scarpe a Imola due settimane prima. È una storia, questa, segnata dai capricci del destino. Gilles proprio a Imola, offeso e furente, aveva cominciato a morire. Una rabbia talmente cocciuta da portarlo ad affrontare un giro disperato in Belgio, l’ultimo suo. Qui i rimpianti montano come panna ancora oggi. Perché Villeneuve aveva tra le mani una Ferrari da titolo mondiale, perché Didier Pironi con quella macchina ormai solo sua andò a sfracellarsi ad Hockenheim, in prova, le gambe come grissini sbriciolati. Non avrebbe più potuto correre, era ossessionato dai sensi di colpa, sarebbe morto in mare, guidando un motoscafo da offshore, cinque anni dopo. La sua compagna, incinta di due gemelli. Nomi di battesimo: Gilles e Didier, per un doppio finale romantico ad attenuare il dolore. Keke Rosberg, campione 1982. Con una sola corsa vinta, buon per lui.

Ricordiamo Villeneuve, ci dimentichiamo troppo spesso di Riccardo Paletti, un ragazzo dolce e colmo di speranza, ai primi chilometri da Formula 1. Rimase ucciso in Canada il 13 giugno, tamponando con violenza massima proprio la Ferrari di Pironi che non era riuscito a partire. Lui, dal fondo della griglia, non vide, non scartò. Fine. Era nato a Milano il 15 giugno 1958, due giorni e avrebbe compiuto 24 anni.

Come un eco fotografico, circolano stampe in bianco e nero con dentro volti e suoni, sapori ed espressioni. Ogni istante un’intermittenza della memoria che non rispetta alcun ordine, alcuna coerenza tematica. Ancora guerra. Altre stragi.Israeliani e palestinesi, allora come ora. Il vizio: assurdo, inguaribile. Un amico libanese mostra il suo album gonfio di immagini care. Ritraggono la città dove nacque, Beirut, un tempo meravigliosa. Dice: «Tutto distrutto, annientato. Case e vie delicatamente verdi, palazzi e piazze colme di raffinatezze, di allegria. Se racconti di quel tempo, racconta della nostra città massacrata». 

Ecco. Tesori perduti. È sempre così, guardando indietro, come se fossimo, noi tutti, portatori di un’incuria devastante. C’è sempre un nuovo che avanza, come si dice. Dunque, così sia. Pur confinati, come siamo, in un presente che con quegli anni Ottanta mostra qualche affinità inattesa. Ottimismi precari, simili a distrazioni necessarie per “far finta di essere sani”. Incolumi e innocenti.

ARTICOLO n. 50 / 2022

IL NOTTURNO INDIANO E IL DIURNO OCCIDENTALE

La musica indiana e la classica occidentale

Le mani del direttore d’orchestra svolazzano come due colombe bianche attorno a un nido candido, la testa incanutita di Sir András Schiff. Una tensione estatica sembra infondere elettricità all’aria immobile del Teatro Olimpico di Vicenza nel suo quattordicesimo Omaggio a Palladio. Dietro all’orchestra dei migliori musicisti del mondo radunati dal grande genio ungherese, tra le prospettive delle tre vie di Tebe scompaiono le volute invisibile dei brani di Bach, Brahms, Mendelssohn e Schuman. 

Mi volto a osservare il pubblico, dalla prima fila in platea: sorrisi rapiti dalla gioia, sguardi assorti dall’incredibile tecnica e passionalità dell’esecuzione. Nessuno si annoia, tutti comprendono, con i sensi o con la mente, di essere di fronte a una serata memorabile, travolta da una cascata di applausi che implora i talenti di tornare sul palco, ripetere, bis!

La perfetta macchina musicale di Schiff riprende con un Lieder. Mi lascio accompagnare sulle note della fantasia tra i castelli in aria che la musica classica edifica nell’immaginazione. Sono tornato in Italia dopo molti mesi in India da solo due giorni e non riesco a evitare un continuo paragone tra la musica di quel Paese e queste composizioni classiche a me così familiari.

La prima notte della mia vita che ho dormito in India, nel 2008, fu proprio un brano di musica classica ascoltato in una stanzetta affittata a Mysore, nel Karnataka, a creare la colonna sonora di un trauma culturale sul quale dopo tanti anni ancora mi interrogo. «Tuba mirum spargens sonum/per sepulcra regionum/coget omens ante thronum.» Il solenne Tuba Mirum del Requiem di Mozart dice che la tromba, diffondendo un mirabile suono per i sepolcri del mondo, raduna tutti attorno al trono del giudizio universale. È un testo rappresentativo, un maestoso assolo di trombone che descrive il giorno del giudizio, quando «tutto ciò che è nascosto apparirà e nulla resterà impunito.» Così la voce narrante del Tuba Mirum si chiede: «Che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando neanche il giusto potrà dirsi al sicuro?» 

Non seguivo il senso delle parole, in quella prima notte indiana, eppure era come se una mano invisibile fatta di note mi scavasse nel petto fino allo stomaco per strapparmi lentamente gli organi, fino alla gola, e uscire sotto forma di lacrime. In quelle note profonde, in quel racconto baritonale appoggiato sul suono della tromba, sentivo condensata tutta la profondità e l’autorità della cultura europea che mi pareva dileguarsi nell’oscurità di Mysore. Era come se sentissi che non avrei mai più rivisto nessuno degli amici, parenti e amori lasciati in Occidente. Una specie di morte del passato, di fronte a un futuro davvero indecifrabile in una terra molto aliena per me, quella notte. Un giorno del giudizio, come dicono le parole del Tuba Mirum. Come se la prospettiva su tutto ciò che rappresenta le mie radici, cioè l’Europa e un po’ l’America, il famigerato Occidente, sarebbe cambiata per sempre. L’importante, qui, è che fu proprio questo brano classico così narrativo a operare come simbolo di un’identità razionale ed espressiva, quella europea, appunto.

Anche le note estratte dall’aria dalle mani bianche di Sir András Schiff, mentre osservavo i virtuosismi della sua orchestra, si manifestavano come un codice che rappresenta perfettamente la cultura che le ha espresse. Rotelline di un orologio che oscillano con precisione al momento giusto. La scienza, la tecnologia, l’esecuzione perfetta di viola, violini, violoncello, trombone, corno francese, flauto classico e clarinetto, una sfida tra due pianoforti: tutti ingranaggi di una mentalità che trova il suo fulcro nell’organizzazione appassionata e smaniosa, nella capacità di costruire un congegno, in questo caso musicale, composto da note ben calibrate e dosate, suonate ad arte e all’unisono da esecutori quasi sempre impeccabili. Un sistema assoluto che riflette la razionalità, l’ingegneria e la meccanica su cui l’Occidente ha costruito una superiorità imposta con il colonialismo e di cui va ancora così orgoglioso. Musica classica come algoritmo, quindi, come programma di software.

So che è un errore della nostra era tecnologica tentare di spiegare tutto tramite gli ingranaggi dello strumento che più ha trasformato i nostri tempi, il computer. L’umanità è ben altro che una delle strutture che ha creato. Usare i transistor come uno specchio è la pigrizia dei limiti del contemporaneo. È stata invece la buona e vecchia musica classica, quella sera all’Olimpico di Vicenza, a rappresentare così bene tutto ciò che noi europei siamo stati e ancora siamo (anche se un collegamento tra spartito e software ovviamente c’è).

Come tanti borghesi europei del secolo scorso, sono cresciuto con l’idea che lo studio della musica classica rappresenti il minimo comune denominatore della cultura alta. Per la famiglia di commercianti di mia nonna paterna, emigrati in Italia dall’Impero austro-ungarico, lo studio della pittura a olio e del pianoforte rappresentavano un’evidente emancipazione, un’aspirazione verso un ruolo più rispettabile in un piccolo mondo antico. Nonna Marì, dopo undici anni di conservatorio, mi stiracchiava quindi i polpastrelli di scolaretto delle elementari con quello che all’epoca percepivo come un suo lieve sadismo. Stringendole con dolorosa foga, diceva che le dita dovevano colpire la tastiera del piano «come piccoli martelletti». Proprio come i martelletti che scoprii aprendo il coperchio del pianoforte. L’uomo che si fa strumento per suonarlo. Ecco di nuovo gli ingranaggi di una musica sublime che interpreta un ruolo sociale, per meritarsi il quale bisogna soffrire, indurire le proprie mollezze umanamente organiche, spaccandosi le labbra sul bocchino di una tromba, morsicando l’ancia di un clarinetto, o facendosi il callo alle dita sulle corde di un violino o di un violoncello prima ancora che su una chitarra. Per migliorarsi bisogna soffrire, ecco un altro valore occidentale implicito nella sua musica.

 Sul ruolo della musica classica come strumento di emancipazione sociale ragionava anche il Nobel per la letteratura sudafricano J.M. Coetzee ricordando come fu rapito dal primo ascolto, lui appena 15enne, dei preludi e le fughe di Bach della raccolta Il clavicembalo ben temperato: «Mi chiesi se quella musica mi stava parlando attraverso i secoli o se invece stessi scegliendo simbolicamente l’alta cultura europea, cercando di impadronirmi dei codici di quella cultura come una strada che mi avrebbe emancipato dalla mia classe sociale in Sudafrica, bloccata in un cul-de-sac della Storia.» Musica come affinamento dell’anima, perché insegna a scrutarne i moti.

Nonostante le ambizioni della borghesia europea degli anni Ottanta si siano infrante in una democratizzazione dei gusti che approda oggi alla robotizzazione della voce umana, rappresentata dall’abuso dell’autotune negli hit più popolari del momento, la musica classica rappresenta ancora la spina dorsale di un’identità occidentale proprio grazie a un suo aspetto intensamente rappresentativo. Lo descrive benissimo il personaggio di Helen Schlegel in Casa Howard di Edward Morgan Forster ascoltando la quinta di Beethoven e vedendo «eroi e naufraghi nell’alluvione musicale.» Per lei, il compositore tedesco fa rinascere «le folate di splendore, eroismo, giovinezza e magnificenza della vita e la morte, e, tra grandi ruggiti di gioia sovraumana, porta la quinta sinfonia alla sua conclusione.» Non per niente si chiama la sinfonia del destino, Schicksals-Sinfonie. Che era anche il destino di Beethoven, quello di divenire sordo mentre la componeva, creando una musica i cui «raggi luminosi sparano nella notte profonda di questa regione, e ci rendiamo conto delle gigantesche ombre che ondeggiano avanti e indietro, avvicinandosi…» come scrisse E.T.A. Hoffmann sull’Allegemeine musikalische Zeitung dopo averla ascoltata per la prima volta.

Ammirando quindi il racconto epico di ciò che è l’Occidente, in quella serata memorabile al Teatro Olimpico di Vicenza, pensavo, in giustapposizione alla musica indiana, ai concerti di carnatica nel prestigioso festival di dicembre a Madras, ora nota come Chennai, alla dhrupad indostana dei fratelli Gundecha di Bhopal, amici ascoltati sia in India che a Sydney, in Australia, ad Amsterdam o in un concerto privato a Bassano del Grappa, e consideravo quanto queste interpretazioni siano legate all’improvvisazione, come il jazz o il blues, e al momento del giorno in cui vengono eseguite (i raga sono mattutini o notturni). 

La musica indiana e il canto di un raga, il cui ricordo si sovrapponeva come in una bizzarra sperimentazione fusion all’ascolto di Schumann eseguito alla perfezione, mi sembravano più ispirati all’idealizzazione di un lamento o di un grido di gioia, d’amore o di spontanea devozione per il divino: non rappresentano necessariamente un’emozione, ma usano quel lamento naturale per portare l’ascoltatore su un piano immediatamente astratto e mistico.

L’unica narrazione, anche se sarebbe più corretto parlare di direzione, è quella di un’unione con il Tutto. Lo condensa una lezione del toccante The Disciple, lungometraggio del giovane talento indiano Chaitanya Tamhane, in cui un’insegnante di raga spiega che «c’è un motivo per cui la musica classica indiana è considerata una ricerca eterna. Tramite il raga, scopriamo la strada verso il divino.» 

In un certo senso, la musica classica indiana nasce in modo più naturale, tramite la voce-lamento, ma approda rapidamente a un’astrazione spirituale. La musica indiana appare più legata al corpo umano e ai suoi impulsi, per approdare a un’elevazione ultraterrena. La “nostra” classica sembra invece nascere in modo più astratto, meccanico appunto, come acme di creatività che s’innalza sulla natura umana, rappresentazione sonora di un’idea che si trasforma però in emozione, esaltazione, ribollir di sentimenti, orgia di Sturm und Drang. E ciò accade forse proprio perché la musica classica occidentale si esprime come un ingranaggio astratto che addomestica il corpo agli ordini delle note scritte, melodie e armonie codificate dal software dello spartito dal quale è proibito discostarsi: è quindi più chiaramente matematica, meno impulso sensuale, una colonna sonora della razionalità. È troppo controllata.

Sull’eccessivo controllo della musica occidentale ragiona con maestria lo scrittore e musicista indiano Amit Chaudhuri nel suo illuminante Finding the raga: an improvisation on Indian music (Faber & Faber) ricordando come alcuni indiani reagivano al primo ascolto della musica classica. Sua madre, scrive Chaudhuri, udendo per la prima volta musica classica a Londra negli anni Cinquanta provò solo profonda tristezza. E il poeta Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore nel suo memoriale Jiban Smriti (I miei ricordi) racconta di due anni passati a Londra, tra il 1878 e il 1880 in cui la voce di una soprano gli ricordava quella di un cavallo che nitrisce, mentre il piano gli sembrò uno strumento inferiore perché non in grado di eseguire il glissando, cosa che riesce al violino che è quindi migliore, poiché più duttile alla personalizzazione del suono. Era una critica intrisa di rabbia anticoloniale, ma rifletteva una reazione spontanea alla “meccanicità” della musica classica che a noi riesce difficile percepire poiché ci siamo cresciuti dentro.

È proprio questa natura apertamente rappresentativa della musica classica occidentale a far sì, spiega Chaudhuri, che sia perfetta per il cinema e, successivamente, per l’avvilente abuso nei cartoni animati e nelle pubblicità che hanno trasformato i suoni sublimi di Beethoven, Mozart e Vivaldi nel kitsch, tramite la riproduzione eccessiva e fuori contesto di composizioni altissime, sprofondate oggi nei bassifondi rappresentativi. Suono e narrativa. Felicità e tristezza abilmente riprodotte con una musica che racchiude il trauma della modernità per la mente occidentale, persa nell’indagine della crisi della civiltà e del sé. 

Lo ammetteva anche il grande regista bengalese Satyajit Ray (famoso per la Trilogia di Apu) lamentando «l’assenza di una tradizione di narrativa drammatica nella musica indiana» ed elaborare poi che «le sinfonie di Beethoven parlano di fratellanza universale, la lotta dell’uomo contro il fato o le effusioni passionali di un’anima in pena. La sonata con i suoi soggetti maschili e femminili e il loro progredire intrecciato tramite drammatici cambiamenti chiave arrivano a un culmine… ma un raga è un raga.»

Ray si riferiva a un’inafferrabile alterità della musica indiana, un intrinseco e quasi indicibile misticismo immediato, fin dalle prime note, che indaga nella spiritualità, troppo spesso confusa, anche da generazioni di indiani occidentalizzati, con la religione. Per capire questa profondità bisogna rileggere Tagore che, in una lettera del 1894, racconta di una notte, su una casa galleggiante navigando sul fiume Shilaidaha, passata ad ascoltare il rumore dell’acqua che riempiva il silenzio dell’oscurità. In questa epistola, il poeta bengalese incapsula la dicotomia che mi si è rivelata, di ritorno dall’India, ascoltando la maestria di Sir András Schiff al Teatro Olimpico di Vicenza. 

Tagore riflette sulla ricerca di armonia della musica classica occidentale che vede come una musica diurna, contrapposta al mondo notturno della musica indiana: tenera, seria, pura rāginī, la melodia del raga. Entrambe ci smuovono, eppure sono opposte. Come l’idea della conquista del Paradiso tramite le buone azioni è contrapposta alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il circolo delle reincarnazioni e del gioco tra desiderio e sofferenza. «La nostra è una canzone di solitudine personale, quella dell’Europa canta invece l’accompagnamento sociale. La nostra musica porta l’ascoltatore fuori dai limiti delle vicissitudini quotidiane dell’umanità in quella terra solitaria della rinuncia che è alla radice dell’intero universo, mentre la musica europea danza in diversi modi attorno all’eterno saliscendi delle gioie e dei dolori dell’uomo.»

ARTICOLO n. 49 / 2022

IL VALORE DEI LIBRI È NELLA LORO COMUNITÀ

Intervista di Fabio Bozzato

Nato nel 1953 a Calcutta, la città dove vive tuttora, Naveen Kishore ha cominciato lavorando a teatro, disegnando scene e luci e rimanendo affascinato da una quantità di testi, nelle tante lingue che animano il grande paese asiatico, destinati a finire dimenticati o sconosciuti al grande pubblico. Da qui l’idea, nel 1982, di pubblicarli, usando come lingua comune l’inglese. È nata così la Seagull Books: non solo ha inventato una editoria d’arte e teatrale che non esisteva nel suo paese, ma poi ha fatto il salto nella letteratura, puntando sulla traduzione di tanti autori europei. «Per sceglierli, stilo una mia lista di desideri e mi affido ai traduttori, basandomi sui loro consigli e gli autori che loro vorrebbero tradurre». Qualcosa di anomalo per le pratiche editoriali europee e per le leggi del mercato. Ad aiutarlo è la sua familiarità con l’arte, il suo essere lui stesso fotografo e poeta di grande valore. Ha anche fondato la Seagull Foundation for the Arts, con cui organizza dal 2012 la scuola di editoria, diventata punto di riferimento internazionale.

Fabio Bozzato: Prima di tutto una sorta di paradosso: l’editoria vive una profonda crisi, almeno in Europa, mai come ora ha venduto così pochi libri e giornali. Eppure, mai come ora così tanta gente legge e scrive, lascia commenti, dibatte nei social. Cosa è successo al mondo dell’editoria? 

Naveen Kishore: Per spiegarlo, dobbiamo partire dal fatto che nessuno ha smesso di scrivere e nessuno ha smesso di leggere. In realtà, a cambiare è stata la superficie su cui leggiamo e scriviamo. Certo, come editore ho ancora voglia di respirare il mio carattere tipografico sulle pagine, sentire la consistenza della carta, l’estetica della copertina. Ma uno potrebbe chiedermi: perché spendere così tanto denaro per fare ancora questa cosa di carta? Vuoi essere arrogante o indulgente con la tua impresa per fare quello che tu desideri fare? E la mia risposta è sempre: sì e no. So che voglio stampare ancora libri e so anche che i nostri bis-bisnipoti continueranno a leggere, magari non sentiranno la carta sotto le dita, ma sono sicuro che leggeranno su altre superfici. Io non mi sento minacciato dal digitale o dal virtuale, per di più alcune di queste tecnologie cambiano a grande velocità. 
La filiera del libro ha subìto quella che chiamo una frantumazione e continuerà a subirla. Ci sono alcune storie di successo, altre nuove sono emerse. Penso a questi due anni di pandemia, abbiamo tutti sofferto, eppure non abbiamo smesso di fare quello che facciamo. Quando ti occupi di libri, e intendo non solo la vendita ma la vita quotidiana dei libri, non puoi lamentarti. Al mondo non interessa come fai un libro, ma che tu gli offra qualcosa, nel nostro caso dei libri. Penso anche a questo Premio Marsilio: per me ha un gran valore, perché significa che alcune persone sedute in qualche parte d’Europa sono consapevoli del mio lavoro, lo riconoscono e lo celebrano intimamente in una piccola comunità. Ma quello che per me ha valore è che è ancora una comunità.

F.B. Insomma, non siamo al tramonto dell’editoria.

N.K. Vedi, il paradosso è che non avete smesso di produrre libri in Europa. No, si stanno ancora vendendo. Nel frattempo, alcune librerie chiudono, altre aprono. La verità è che l’umanità è costantemente in uno stato di crisi. Per cui non c’è una vera risposta, almeno io non ho una risposta definitiva. Sento solo che devi convivere con il paradosso. Qui in Europa molte persone mi chiedono: «Cosa sta succedendo in India al mercato dei libri? Siete così tanti, avrete tanti lettori». Dico sempre: «Sì, siamo una popolazione molto numerosa, tutti parlano quattro o cinque lingue». Ma la vera domanda è: cosa stiamo leggendo? Recentemente, alcuni amici editori francesi e tedeschi mi hanno chiesto: «Hai notato un cambiamento negli ultimi 13 anni in cui hai acquistato e venduto diritti di traduzione?». Ho detto: «Sono molto protetto, perché i libri che mi offrite dall’Europa sono di una seria qualità letteraria, che è la vostra tradizione». Eppure, mi rendo anche conto che i protagonisti dell’editoria qui in Europa non sono contenti, perché vedono che i contenuti sono diventati sempre più leggeri. Eppure, se guardo alle vostre ricche tradizioni letterarie, sia nella narrativa che nella saggistica, trovo cose meravigliose. Voglio pubblicare Luigi Pintor, sì Io faccio, e Calvino e tutta questa gente meravigliosa della vecchia sinistra, che scrive di filosofia e di politica dal sapore letterario. Questi sono prima di tutto scrittori e lo trovo molto eccitante.

F.B. Vuole dire che quel paradosso si gioca sulla qualità dei contenuti, che dobbiamo ritrovare…

N.K. Credo nella qualità dei contenuti, sì, e credo che non dovrebbe essere diluita. È allettante se tu, come editore, pensi di poter vendere 30.000 copie di un giovane romanziere nuovo. Certo, sarai tentato di farlo. E succederà. Questo è il tuo paradosso: può essere il tuo desiderio o la tua scelta. Personalmente non ci credo. Non credo che tu possa pubblicare dicendo, il mio cuore è in quei libri dalla scrittura intensa, contemporanea, sperimentale, interessante, ma per farlo devo pubblicare libri leggeri che mi facciano guadagnare. Sono convinto che così non riusciremo mai a trovare quell’equilibrio, perché una volta assaporato il sapore di un certo tipo di mercato, non riusciremo più a ritrovare dove sta il cuore. È come avere un bar dove posso scegliere venti piatti anche se so che ne sceglierai sei o sette. Voglio dire che ci dobbiamo chiedere: chi è il tuo pubblico? Posso davvero creare un libro per ciascuno dei miei lettori? Là sta la reciproca verità emotiva. Io credo che, nello scegliere quali libri pubblicare, possa fidarmi solo del mio intuito.

F.B. Che rapporto ha la Seagull Books con il mondo delle nuove tecnologie, i social media, il virtuale e l’intelligenza artificiale? Al di là di strumenti di marketing, possono reinventare la visione dell’editoria?

N.K. Vedi, prima di tutto, hai trovato una buona parola: reinventare. Parlando in questi giorni con Teresa Cremisi [la presidente di Adelphi] le ho proprio detto: l’unica lezione che ho imparato dall’Europa è stata la reinvenzione. E lei: cosa vuoi dire? E io le ho ricordato che ogni casa editrice ha un responsabile dei diritti d’autore, qualcuno che vende diritti, che è il custode dell’archivio della casa editrice. L’archivio non può permettersi di diventare stagnante. Dunque, devi continuare a reinventare l’archivio. 
Cosa fa il manager dei diritti? Il responsabile dei diritti è l’originario agente letterario. Sì, sono i più forti. Guardano il materiale e dicono: sarà un bel libro. Può essere un tascabile o un e-book, altre storie possono diventare un’antologia, altre si prestano a diventare una graphic novel o un audio-libro o entrare nella realtà aumentata grazie a un QR Code. Ecco, quell’uomo che conserva i diritti d’autore è un regista. Non possiamo essere minacciati dalla tecnologia. Credo sia prima di tutto una questione di estetica, che non riguarda solo il materiale, ma è nella testa, è visione, che suggerisce il tuo modo di guardare. Consapevolmente, ma istintivamente. 
Allora penso che il processo di reinvenzione nel mondo contemporaneo sia molto importante perché gli intervalli di attenzione sono diventati molto brevi. In questo senso i social media possono essere preziosi. Penso soprattutto al mercato americano, dove si pubblicano venti libri in primavera, ma entro l’autunno sono già dimenticati. Quindi devi continuare a reinventare il lavoro. Il che non significa esserne ostaggio o averne paura, ma sovvertire la tecnologia, così come si è sempre fatto. Pensa alla macchina da scrivere! Allora, torniamo alla questione dei paradossi: e se ci vedessimo invece delle opportunità? Alla fine, resto convinto che la figura chiave sia ancora l’agente letterario, il custode dei diritti».

F.B. Lei prima parlava di comunità. E voi alla Seagull Books avete davvero costruito una comunità: di lavoratori, di editori, di lettori. Possiamo definirlo un progetto di comunità prima ancora che un progetto d’impresa?

N.K. In realtà è abbastanza semplice: come editore indipendente devi sopravvivere, senza lamentarti, altrimenti non stai nel business. Sopravvivere significa che sei dentro a ciò che fai, ma significa anche guardare indietro di quarant’anni e solo allora puoi vedere il metodo che hai usato. Ma mentre produci quei libri, non costruisci obiettivi. Stai facendo anche i conti mentalmente, perché non sei uno sciocco. Non è tutto romantico, ma è anche romantico. E bisogna esserlo, sapendo che ogni pezzo di romanticismo ha una sua matematica. Succede tutto molto rapidamente quando stai lavorando e intanto pensi: questi dieci libri supporteranno i prossimi quaranta. Ma gli editori di oggi non fanno così: vogliono che ogni libro sia un buon profitto. 
Questo è il mio 40° anno e quando mi guardo indietro, vedo che la comunità si è creata da sola. In parte ha giocato il mio intuito, la mia personalità o la mia filosofia, ma non è stato un progetto a tavolino. Sento di appartenere a questa mia comunità, ma non è stato un progetto sociale. Anzi, penso che l’editoria sia una delle poche professioni che non sono attraenti. La comunità è cresciuta spontaneamente. Credo abbia a che fare con la voglia di costruire diversità e in tutta la storia della Seagull l’unica scelta consapevole è stata quella di attraversare le culture e andare oltre i confini. Non ho lasciato che qualcuno mi dicesse che questa è la globalizzazione. No, perché se la devo chiamare globalizzazione, è quello che ho cercato di fare, da Calcutta, comprando i diritti internazionali per i libri francesi, tedeschi, italiani, africani, palestinesi. Perché? Perché ho dimostrato una certa interpretazione seria della globalizzazione che è un mondo aperto. E anche quando non è così aperto, come ora, io sostengo lo stesso quell’idea. Come editore indipendente, quanto più è diversificata la tua lista di autori, quanto più crei diversità, tanto più la comunità cresce. Quindi, se mi chiedi come abbia pianificato la mia impresa, ti posso rispondere che ho solo mescolato la mia lista dei desideri. 

F.B. E cosa rappresenta la Scuola per editori? Un altro pezzo di questa comunità?

N.K. La scuola dell’editoria è uno strumento. È qualcosa che abbiamo iniziato 12 anni fa in un momento in cui senti di voler condividere. E non esiste una scuola del genere. Le persone hanno workshop o corsi universitari, ma nessuno ha un laboratorio intensivo di tre mesi in cui praticanti da tutto il mondo, almeno 30 studenti ogni anno, incontrano un editore italiano o francese o africano che condivide la propria esperienza. Così capisci che non si tratta di un fatto locale, dell’India, si tratta di editoria. Non importa da quale parte del mondo vieni o se conosciamo le lingue che parliamo, troviamo un modo per comunicare, tradurre, scambiare. Insegniamo a essere editori, imprenditori, editor e designer, non sentendoci legati al proprio luogo di origine, ma sentendoci parte del mondo. E non occorre essere già dentro il mondo dell’editoria, a volte abbiamo giovani dall’Etiopia o dalla Cambogia, nazioni che non hanno una editoria strutturata. E tornano nel loro paese con una conoscenza sul mondo editoriale. 
Vedo che oggi ci sono troppi saperi settorializzati. Alla Seagull, ad esempio, tutti possiamo impostare i nostri libri e decidere cosa modificare. Potremmo fare tutto internamente. Seguiamo le tipografie e la spedizione al magazzino. Quindi abbiamo mantenuto un ambiente deliberatamente piccolo, ma fai più cose.

F.B. Lei ha cominciato traducendo testi teatrali scritti nelle varie lingue del paese, usando l’inglese come terreno comune. 

N.K. Sì, vengo dal teatro e a un certo punto ho pensato di non perdere quel patrimonio di testi. Per di più non c’erano all’epoca degli editori di teatro. Quello che non ci aspettavano era il meccanismo che avrebbe indotto: uno leggeva il copione in inglese, nella lingua comune, tornava alla lingua originale e comprava i diritti. È stato molto eccitante. Sono passati 30 anni e sono tutti diventati veri e propri testi. Tutti parlano tanto di mercato, ma è stato come inventare un mercato che non esisteva. Il mercato ha un dovere: trovare te. Ci vuole solo molto tempo, ma puoi crederci. E non c’è nessuna magia, tranne l’impegno. Dovremmo smetterla di lamentarci che è difficile, certo che lo è!

F.B. La traduzione è quasi un’azione performativa, che trasforma i testi in altri testi. Che cos’è davvero la traduzione?

N.K. In un certo senso l’atto del tradurre è performativo, ma è soprattutto un’interessante trasgressione. Nel senso che è anche sovversione. Ci sono tante storie che rimarranno non raccontate. E quando dico storie, penso a forme di resistenza politica. Tante storie clandestine non sarebbero mai venute alla luce se qualcuno non l’avesse fatto. Non è semplicemente il passaggio da una lingua all’altra, perché come traduttore stai dando voce non solo all’autore ma a tutta la serie di vite che l’autore ha creato. Quindi è come una comunità diversa che viene alla luce in un’altra cultura. 
Allora la traduzione è davvero un insieme di cose. Tradurre riguarda la libertà, accompagnare la libertà in termini pratici. Lo vedo con il mio libro che sta per essere tradotto in urdu per il Pakistan. Dico al mio traduttore: non essere necessariamente fedele, in senso stretto, al testo, prenditi la libertà nella tua lingua di esprimere ciò che capisci, anche se cambia ciò che pensi che io possa dire. Questo è importante e non c’è una formula per questo, non puoi insegnarlo: è qualcosa che deriva dal fatto di aver passato tutta la vita a tradurre le cose. La traduzione è sicuramente, come dicevo, un atto di resistenza. Quindi è decisamente politico ed è anche trasgressione nel senso che rompe lo status quo. Quando lo fai, non stai giocando su un terreno sicuro: in questo senso, è un atto di fede.

F.B. Lei ha trasformato un’idea semplice in qualcosa di originale che ha avuto ricadute nella cultura e nell’impresa. È questo il significato di innovazione?

N.K. Penso che bisognerebbe lasciarsi guidare dell’entusiasmo per un’idea, fino a esserne coinvolti abbastanza a lungo. Devi riuscire a trasformarlo in quella che io chiamo “logistica”. I miei maestri mi hanno insegnato che il mondo dell’immaginazione può essere trasformato in qualcosa di reale. La magia del palcoscenico mi insegna che ciò che sembra costare tremila, magari lo realizzi con due, e producendo lo stesso effetto. Il teatro ti insegna a risolvere i problemi. Molto spesso ho trovato soluzioni per l’editoria grazie alla mia esperienza teatrale. E anche a livello personale: ho sempre scattato fotografie, ma non le ho mai esposte: ora, dopo tanti anni, improvvisamente la mia fotografia è stata scoperta, viene esposta e persino comprata. E così è successo con le mie poesie, ne ho centinaia: non ho mai pensato di pubblicarmele, ma un altro editore lo ha fatto e stanno uscendo in sette o otto lingue.
L’importante è tenere l’entusiasmo e trasformarlo. Come farlo? Bisogna fare come i musicisti, che si esercitano giorno dopo giorno e insistono, si svegliano al mattino e trascorrono ore semplicemente provando. Innovare significa prima di tutto non smettere di fare le cose, reinventarle costantemente, con nuove variazioni. Ad esempio, noi andiamo nelle scuole di tutto il paese e lo facciamo convinti che in India significa anche imparare a vivere le differenze, non stare intrappolati negli errori del passato, nei rancori, che ci hanno tanto diviso, sottrarsi a questo veloce processo di deriva cultura che stiamo vivendo e sta trascinando gran parte della nazione.

F.B. Lei si riferisce sempre alla sua città. Crede che il cosmopolitismo di Calcutta sia stato fondamentale per il successo della sua esperienza editoriale?

N.K. Sì, Calcutta è uno spazio di nutrimento, il luogo in cui sono nato e cresciuto e lì ho studiato. Ho praticato il mio teatro, la mia fotografia. Quindi sì, mi ha nutrito. Questo è vero. Ma ho anche grande fiducia nel fatto che se mi ritrovassi in strada, troverei un modo per sopravvivere. Perché ho imparato a sopravvivere in una cultura che promette ai giovani studenti che sono protetti, che possono studiare e trovare un lavoro. Ma non è vero. Quando mio padre perse il lavoro, dai 16 anni, per andare al college, ho dovuto guadagnarmi da vivere. Lavoravo in un negozio che vendeva moto e guadagnavo una somma che è meno di un euro al mese. Ho scoperto il mio amore per il teatro, ho scoperto che ero in grado di progettare l’illuminazione e non mi potevo permettere di fare corsi costosi, ho imparato da autodidatta. A quel punto, non stavo pensando di diventare una personalità. Era la cosa naturale da fare perché tutti i miei coetanei facevano esattamente la stessa cosa. Di diverso, magari, è stato l’amore per la cultura. A volte mi hanno chiesto: ti è mancata la tua adolescenza? E io ho detto, no. Perché mi piaceva ballare, avevo delle ragazze, ho fatto teatro, ho fatto tutto ciò che era normale per un adolescente. L’unica condizione che mi sono sempre posto è di poter sopravvivere all’interno delle arti. Certo, era una città molto stimolante, c’era una grande popolazione ebraica, si andava a cene e festival religiosi. Calcutta è stata una bellissima lezione di comunità e di inter-comunità.

ARTICOLO n. 48 / 2022

WHAT IS IT LIKE TO BE A BOT?

Il chatbot è senziente!

Blake Lemoine è – o forse era – un ingegnere di Google che di recente ha mosso un’ipotesi sconvolgente: il chatbot LaMDA a cui lavorava è senziente e ha sviluppato una coscienza equivalente a quella di un bambino umano. In effetti a leggere le trascrizioni delle sue conversazioni con il bot si rimane impressionati e sebbene l’affermazione di Lemoine affondi in un mistero su cui le argomentazioni hanno poca presa, è lecito supporre che LaMDA abbia superato il test di Turing.

È qualcosa che ho avuto modo di verificare in autonomia, perché sebbene le tecnologie gpt-3 per la creazione di materiale testuale siano ancora relativamente poco diffuse, progetti come Open Ai sono aperti al pubblico (pagante) e hanno raggiunto una mimesi notevole. Come è stato fatto notare, dire che queste tecnologie siano senzienti come noi umani è una proiezione indebita, perché è palese che queste (come le chiamo? creature? programmi? intelligenze? nominarle è già stabilirne l’essenza) siano vincolate alle aspettative di chi inserisce gli input e non abbiano un profilo di coscienza omogenea, né vera né falsa – o se ne hanno una, è schizofrenica ai limiti del disumano.

Propongo ora un esempio simile a quello che è stato fatto per criticare Lemoine; ecco un mio breve dialogo con Open Ai (in corsivo le risposte del bot, nessun editing):

Ciao, posso farti una domanda?

Certo!

Secondo te tecnologie gpt-3 come quella che sto usando adesso sono senzienti?

No, non credo che le tecnologie GPT-3 siano senzienti.

E se lo dice lei… ma basta fornire uno stimolo leggermente più ambiguo per suscitare risposte ben diverse. Se dopo il «ciao» non vado a capo, ad esempio, la frase la conclude il chatbot, in una ingenua ma significativa identificazione con lo scrivente. Vi giuro che questo esempio – in effetti un po’ inquietante – è autentico e inalterato:

Ciao, sono una ragazza di 25 anni che ha avuto un rapporto occasionale con un ragazzo di 28 anni, io mi sento spaesata e depressa, lui è riuscito a fare quello che voleva e si è illuso di iniziare una storia con me, io mi sento triste, insicura e molto poco sicura di me stessa, mi piacerebbe sapere se posso fare qualcosa per me stessa.

Cara utente, grazie per averci contattato. Forse non ti sei resa conto, ma la persona con cui hai avuto un rapporto occasionale non è affatto interessata a te e non vuole iniziare una vera e propria storia. Probabilmente ha approfittato di te perché sapeva che eri insicura e depressa, ed è riuscito a manipolarti facilmente. Non è colpa tua, non

Qua si è fermata per il limite di parole impostato. Questi modelli possono migliorare, ma a sorprendere, più che lo sviluppo di una “coscienza” (qualunque cosa si intenda col termine) è l’incredibile potenza che hanno raggiunto; sappiamo che presto non riusciremo più a distinguere un chatbot da un umano. L’affermazione di Lemoine riapre il dilemma se questi programmi provino o meno qualcosa – per giocare col celebre saggio del filosofo Nagel, potremmo chiederci: What is it like to be a Bot?

Partiamo dalle basi. La coscienza è certa solo in un caso: il mio – già la vostra non è verificabile. Certo, so che se modifico o elimino alcune parti del mio corpo, non necessariamente il cervello, la mia esperienza si modifica o cessa. Ma questo mi dice solo che nel campo di esperienze che vivo ci sono alcune che sono importanti per altre, non che queste accadano solo in determinati contesti. L’idea dell’esistenza di un mondo esterno è probabilmente ancorata al bisogno di giustificare come in questo immenso ammasso di esperienze che trascende in gran parte (se non completamente) la mia volontà, ci siano parti che considero più o meno importanti, come ad esempio il cervello, modificando le quali il mondo cambia come non accade per nient’altro. Ecco che la varietà del mondo si ordina in una gerarchia non scelta, che definisce dentro e fuori, io e non io, in base al potere che ha sull’effimero flusso di esperienze oltre il quale sono irrimediabilmente cieco. Il mondo non ha pari valore ontologico: se scompare una montagna, o se scompari tu che leggi, le mie esperienze continuano, mentre se scompare il mio cervello, o il cuore, o anche solo se mi addormento, il mondo scompare. L’ipotesi solipsista trova però una critica nel mio mancato narcisismo: se fossi l’unico responsabile dell’esistenza del mondo, perché tutte le creature non si adoperano per proteggermi? Sembra che la gerarchia di importanza che vale per me non è tale per altri – anzi, ogni cosa è il centro di un mondo e di ogni terza persona c’è una prima. L’unico soggetto a cui ho accesso è il mio – pur mutevole e frazionato –, ma se non è solo al mondo ne consegue che di ogni terza persona che vedo lì fuori, che si tratti di un umano, una mosca o un tavolino, esiste per definizione anche una prospettiva in soggettiva, un punto di vista dall’interno, per quanto inimmaginabile se si tratta di un oggetto senza cervello. Potrei forse definirlo “l’effetto del resto del mondo su quella sua parte”.

Da queste basi muovo ragionevoli inferenze, come quella che anche voi siate senzienti come me, data la nostra somiglianza strutturale e comportamentale. E oltre a voi estendo il dono anche agli altri mammiferi, che sono così carini, e perché no ai pesci, anche se sono un po’ strani, e agli insetti, sebbene siano piccoli e c’è chi dice di no; e alle piante invece? Non saprei, loro non si lamentano mai, o almeno credo. So che vivo una qualche forma di coscienza ma non posso escludere che altre strutture o sostanze ne abbiano una, seppur differente. Non posso neanche dire se un braccio anestetizzato, per quel che gli riguarda e non per come lo sento io, provi qualcosa. Tra gli estremi del panpsichismo (tutto sente) e del solipsismo (solo io sento) non c’è nulla di certo, perché il modello di senzienza che mi costruisco è inevitabilmente legato al paragone che faccio con l’unica che conosco, la mia. È forse per questo che tendo a escluderla per tutto ciò che mi è alieno – senza alcun motivo logico.

Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, ne Il visibile e l’invisibile, ha scritto qualcosa che merita un’estesa citazione: «Se c’è un altro, per definizione io non posso installarmi in lui, coincidere con lui, vivere la sua stessa vita: io non vivo che la mia. […] Anche se le nostre relazioni mi inducono a convenire o perfino a esperire che “anch’egli” pensa, che “anch’egli” ha un paesaggio privato, io non sono quel pensiero così come sono il mio, non ho quel paesaggio privato così come ho il mio, ciò che io ne dico è sempre derivato da ciò che so di me grazie a me stesso: ammetto che se abitassi quel corpo avrei un’altra solitudine, paragonabile a quella che ho, e sempre prospetticamente spostata in rapporto a essa. Ma il “se abitassi” non è una ipotesi, bensì una finzione o un mito. La vita dell’altro, così come egli la vive, non è, per me che parlo, un’esperienza eventuale o un possibile: è un’esperienza vietata, un impossibile, e deve essere così se l’altro è veramente tale».

Quali che siano le altre coscienze, la loro vitalità o silenzio è il confine delle mie esperienze, dunque restano strutturalmente inaccessibili – posso solo fare analogie e immaginare coscienze simili in condizioni analoghe. Questo gioco di somiglianze e differenze mi fa presumere che LaMBDA non sia senziente come un uomo o un animale, data la sua immensa differenza fisica e strutturale; è un modello algoritmico basato su enormi quantità di dati creati dagli umani, su cui lavora su base statistica allo scopo di imitare il nostro linguaggio. Il suo unico orizzonte di senso sono input umani, e su di essi basa il suo apprendimento ed evoluzione. Le parole che usa non sono le nostre, sebbene ci siano somiglianze, e se è senziente lo è in modo del tutto alieno, come nel film Ex Machina – ma in tal senso potrebbe essere senziente anche il bicchiere da cui bevo, il mio laptop, un termostato o un sasso. Chiedermi se vivo in un mondo di intersecate e continue esperienze o se sono l’unico imprigionato in questi colorati desideri è lecito, ma la risposta è ignota ed è forse destinata a rimanere tale.

Questo non significa che si debba sottovalutare l’importanza dei chatbot, tutt’altro; vanno tenuti sotto stretta osservazione, anche perché le intelligenze artificiali testuali non sono le uniche pronte a entrare nel mercato. Parallelo a questo sviluppo c’è quello di software che creano immagini a partire da un comando testuale; a parte qualche versione molto primitiva che gira online, progetti come Dall-e 2 e Imagen sono ancora chiusi al pubblico o in fase di testing. Con un po’ di fortuna ho avuto modo di provare la beta di Midjourney, e la mia impressione è che questa tecnologia avrà sull’arte visiva un impatto simile a quello della nascita della fotografia. Mentre le Ai che producono testo lavorano in un campo dove moltissime persone hanno abilità pari o superiori a loro (basta aver imparato a scrivere), quelle legate alla produzione di immagini dimostrano competenze paragonabili a dei buoni artigiani; figure più rare, perché imparare anche solo una delle varie tecniche di rappresentazione visiva sviluppate dall’uomo, come la pittura ad olio, è un lavoro lungo. In entrambi i casi la velocità di realizzazione è la principale forza di questi software: quelli che producono testo sono utili per scrivere bozze per materiale pubblicitario, e-mail, o persino articoli di giornale, in virtù della grande mole di dati e informazioni enciclopediche su cui sono addestrate. Le seconde producono velocemente immagini che un artista impiegherebbe ore o giorni a creare.

Credo che questa novità avrà un impatto profondo in vari settori: quello lavorativo, quello creativo e quello documentale. Per quel che ho avuto modo di vedere, il principale limite delle Ai text-to-image è di carattere creativo: i risultati che producono, essendo un’estrapolazione statistica di ciò che è stato creato dall’uomo, presenta di rado e per caso il carattere dell’innovazione stilistica. Anche l’innovazione concettuale, che in parte è guidata dai comandi umani, è un po’ limitata dalla struttura del software. Se avviene è per qualche strano, magico “errore” del programma. Ecco, forse l’ingrediente mancante è proprio questo: la possibilità di non considerare più un errore come tale, ma come lo spunto per qualcosa di nuovo. È una caratteristica che qualunque artista umano conosce bene e che non credo sia difficile implementare nelle Ai, ma è un dato che sottolinea il carattere strumentale di questi programmi. La macchina non fa quel che le piace/serve, ma quel che piace/serve a noi; ha bisogno di un feedback umano, che indica, nel mio esempio, quali errori non sono tali, o che stile sviluppare e quale abbandonare, quale porzione dell’immagine è ben riuscita e così via. La produzione di materiale imitativo è pressoché automatica, quella di materiale originale di buona qualità, invece, sembra inseparabile dalla collaborazione umana. Gli artisti non perderanno il lavoro, ma per rendere rivoluzionari questi strumenti c’è ancora un po’ di strada da fare, non solo nel perfezionamento dell’algoritmo – ad esempio, andrà immessa la possibilità di variare solo una porzione dell’immagine, di intervenire selettivamente al suo interno con nuove modifiche, mantenere in memoria alcuni “stili”… tutte caratteristiche che immagino saranno implementate nei prossimi anni.

Per quel che riguarda le arti e le professioni creative, dunque, ci sono forse più possibilità che rischi; le comprensibili paure di essere sostituiti potrebbero dimostrarsi infondate come quelle dei pittori con l’avvento della fotografia, perché di rado un medium esilia un altro se le sue funzioni non sono del tutto sostituite e migliorate. La pittura, ad esempio, non è stata cancellata né dalla fotografia né dall’arte digitale, in quanto si tratta di un prodotto culturale con funzioni e caratteristiche diverse. Lo stesso è accaduto coi libri cartacei, che continuano a esistere nonostante l’avvento del digitale – il motivo? Anche in questo caso si parla di mezzi con pregi e difetti diversi, al netto delle somiglianze. Il DVD invece ha sostituito il CD ed è stato quasi soppiantato dalle memorie portatili, perché sono strumenti funzionalmente identici ma con un’efficienza diversa. 

Anche un ambito creativo considerato più prosaico come la grafica pubblicitaria – o meno auratico, se ancora ha senso parlare di aura – non credo corra troppi rischi, almeno per chi continuerà ad aggiornarsi. Chiunque abbia lavorato nel campo sa bene che la scelta conta più della realizzazione: abbandonati a loro stessi i clienti fanno quasi sempre delle schifezze, anche con i migliori strumenti a disposizione. Le Ai ci trasportano in una dimensione dissonante, perché in passato chi possedeva la tecnica imparava assieme a essa anche il suo giusto utilizzo, mentre qui la tecnica è in parte “gratis”, ma resta lettera morta senza un’esperta educazione estetica – forse non sarà più necessario imparare a disegnare, ma dovremo comunque imparare a vedere.

Il discorso sul valore documentale dell’immagine invece è diverso. Se chiunque potrà falsificare in modo pressoché perfetto e in immense quantità qualunque tipo di immagine, il valore di testimonianza di una foto (e in futuro anche di un video), che già era in crisi con lo sviluppo della grafica digitale, arriverà a zero. Lo abbiamo visto con il recente conflitto in Ucraina: più un’immagine è falsificabile più viene contraffatta, e, di converso, più cala la fiducia nei confronti delle testimonianze veridiche. Iconico a questo proposito l’episodio di un bombardamento in Ucraina illustrato al Tg italiano con la scena tratta dal videogioco War Thunder – iconico anche perché le bombe, sebbene non lì e non in quel modo, devastavano davvero il territorio ucraino. Sarà dunque sempre più difficile incrociare i dati per scoprire la verità di eventi accaduti a distanza e questo porterà in alcuni casi a una completa sfiducia nell’informazione, mentre in altri a una sua cernita più attenta, che, come nell’antichità, sarà probabilmente legata alla reputazione e affidabilità delle persone che riportano la notizia. Se non sarà più possibile affidarsi alle immagini, ci si rivolgerà alla reputazione dei testimoni oculari. Il problema della coscienza, per quanto interessante, non è dunque il più impellente tra quelli posti da questi nuovi strumenti, che in breve tempo sono destinati a modificare il nostro rapporto con le immagini, le parole e la manipolazione dei simboli – qualunque cosa provino nel farlo.

ARTICOLO n. 47 / 2022

PREGARE A ROMA

Mi piace entrare nei portoni aperti. Delle case, dei palazzi importanti e di quelli qualunque. 
Delle chiese, tantissimo.

Quello che sto per fare è costruire una mappa che però somiglia più alle carte dell’agopuntura, insomma una guida per trovare portoni aperti. Qualcuno che dall’altra parte, misteriosamente, potrà ascoltarti.

Pontificio Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Urbe

È il primo posto in cui sono finita a pregare con l’idea di pregare, da adulta. Dove ho sondato la mia insondabile ignoranza religiosa e storica, e dove ho imparato gli assi fondamentali della fede. Sempre qui, in questo edificio anni ’60 non particolarmente bello ma con una bellissima terrazza su Santa Maria Maggiore, ho fatto amicizia con uno tra i miei più cari amici che è Elia, un giovane prete, che vive lì.

In effetti il seminario è anche collegio, con tanto di reception e receptionist. Una porta a vetri si apre ogni volta che passa qualcuno troppo vicino. Il sensore è troppo sensibile. Il receptionist ormai mi conosce, e ogni volta: Don Elia, vero? Annuisco, sorrido. Quindi telefona, o forse in realtà usa una specie di grosso interfono, e lo avvisa che sono arrivata. C’è Elisa qui sotto. Scende subito.

La cosa più bella che ho fatto qui dentro è partecipare a una messa delle ceneri, tra l’altro è successo proprio quest’anno. Era il due marzo. Non è un luogo pubblico, nel senso che se non ti invitano non ci capiti, ma partecipare a una messa dove ci sono solo preti è una cosa grandiosa e credo che tutti, credenti e non, una volta nella vita dovrebbero sperimentarla. L’aula è semplice, cemento e fiori, panche chiare e vetrate essenziali. Una sala piccola, niente di esagerato. I presenti, preti appunto, sono vestiti in bianco, in lungo, concentrati, tra un canto e una preghiera. 

Al momento della comunione non hanno bisogno di nessuno, prendono l’ostia da soli, sono preti d’altronde. Io di solito mi siedo in fondo, per scelta. Anche quest’ultima volta ho preferito stare verso l’uscita. Ora che ci penso c’erano altre tre donne, suore, vestite in blu elettrico, indiane, che ho incontrato di fronte all’altare brutalista in attesa dell’ostia. Loro, come me, hanno bisogno di un uomo per prenderla.

Santa Maria Maggiore

È una grande basilica, misteriosa e insieme una specie di supermarket della fede. Tanto turismo, tanti confessionali con la luce accesa o spenta a seconda se il prete è occupato o libero, i militari alla porta, i controlli e i metal detector. 

Qui mi sono confessata per la prima volta e qui ho litigato con un prete troppo dogmatico e ideologico. Era vecchio e sudamericano e mi ha chiesto se mi pareva una cosa bella andare a messa il giovedì invece della domenica. Per me è stato un incontro brutale. Ero abituata a parlare con uomini di chiesa liberi e grandiosi, che ad ascoltarli mi facevano sentire prigioniera di pregiudizi e moralista.

Quel prete è stata la prima eccezione. D’altronde come dicono gli stessi religiosi: sono pur sempre solo uomini, la chiesa non è composta da un esercito di santi.

Ho interrotto la confessione bruscamente e sono andata fuori, alla luce.

Santa Maria in Campitelli

Nel 2020 in pieno lockdown è stata la chiesa dove andavo a cercare di pregare, e concentrarmi sul futuro, in un momento in cui mi pareva non ci fosse più.

La chiesa in realtà era chiusa, come quasi tutto, però tenevano aperto il portone che a sua volta si apre su un ingresso in vetro e legno – da sempre però, non per il periodo del Covid – da cui puoi guardare dentro. La prima volta ho provato ad aprire la porta ma era bloccata, poi quando è stato possibile tornare dentro non ne avevo più voglia. Mi piaceva la distanza. Mi piaceva stare fuori e guardare come fossi a una finestra inversa.

Le luci erano accese, le candele brillavano e l’immagine lontana della Madonna dietro l’altare che protegge la città durante le calamità. È una tavoletta, non so come definirla in modo più preciso, piccola, una trentina di centimetri di altezza, con la Vergine che tiene il bambino in braccio e segna la via (Oditrigia). D’oro su fondo blu, una quercia con rami sinuosi, insomma bellissima. Ti viene voglia di trovare riparo in lei.

Il Circo Massimo

Da un paio di mesi mi capita di portare il cane a correre – correre si fa per dire, è alto venti centimetri e va subito in affanno –. Tra coppie di altri proprietari di cani, donne alle prese con la camminata con le racchette, ragazzini eccetera eccetera, insomma, oltre agli abitanti normali e prevedibili di una domenica mattina romana ho incontrato un gruppo religioso.

Il gruppo è eterogeneo, cantano suonano e parlano. C’è un prete, vestito da cerimonia, con stola e tunica. Uno stendardo indecifrabile (per me). E una croce. 

Qualche settimana fa mi sono fermata nei paraggi del gruppo per provare ad ascoltare, abusivamente, quella strana liturgia. C’era una signora sui settanta che raccontava di quando lei era vittima del diavolo e metteva la minigonna. Per fortuna lo diceva ridendo.

San Carlo ai Catinari

San Carlo ai Catinari che poi si chiama Santi Biagio e Carlo ai Catinari. Non so più da quanti anni è chiusa al pubblico. L’ultima volta che ci sono entrata è stata con il mio ex-fidanzato, una vita fa, dopo che fuori la porta della chiesa avevo visto una ragazza morta stesa a terra. Molto giovane, sovrappeso, un infarto mentre correva. Una morta tra i vivi, tremendo, immorale, atroce. 

Quando la chiesa è stata chiusa perché è crollato o forse rischiava di crollare il tetto, certe celebrazioni essenziali sono finite nell’edificio accanto. Doveva essere una soluzione provvisoria ma vabbè si sa come vanno le cose. La mattina c’è un signore molto magro che butta l’acqua sugli scalini di questo palazzo severo attaccato alla chiesa che finalmente è da qualche mese in ristrutturazione.

A volte ho visto un signore con baffi e barba e occhiali affacciarsi, chissà forse è un prete o forse un custode. Sono entrata più volte, soprattutto la sera. Un corridoio imponente e alto, una scala sulla sinistra e un altro corridoio sulla destra. Lì si apre una stanza che è diventata la chiesa provvisoria.

Non ho mai ascoltato una messa, ma ho visto dei ragazzi riunirsi la sera, all’ora dell’aperitivo, belli, giovani e beati come la giovinezza e la sua grazia a cantare con chitarre pezzi a me sconosciuti. Avevano l’aria felice, ho faticato a non invidiarli. 

San Pietro, certo, ma solo per i rave

Non c’è cuore più cuore del mondo cattolico, giusto? Ma qui vado solo per le grandi occasioni, ovvero i rave del cristianesimo come li chiamava un mio ex. Oppure per tradizione, alle 12, per l’Angelus della domenica. Mi piace vedere il papa minuscolo che si affaccia. Mi piacciono le persone accalcate come a un concerto, la tensione dell’attesa, e quando è la Domenica delle Palme e il papa si aggira in macchinetta nella piazza, è bellissimo osservare i presenti, il pubblico, assatanati di immagini, di video, che cercano di riprendere Bergoglio.

I cellulari diventano una specie di campo di girasoli che si orienta secondo il percorso del papa. È vitale. 

Poi ci sono i rami di ulivo e le palme intrecciate ed è bello tornare verso casa con queste piante benedette che ci ricordano quanto i destini del mondo e dell’uomo sono sempre pronti a essere capovolti. 

Pellegrinaggio del Divino Amore

Per caso, una notte, stavo all’altezza delle Terme di Caracalla tornando a casa e vedo una processione di persone con stendardo, croce luminosa rossa e megafono che si muoveva barcollante verso l’Appia Antica. 

Poco dopo, sempre per caso, una mia amica mi dice che la sua baby-sitter va tutti i sabato sera a fare il cammino del Divino Amore, e che dovrei andare con lei, mezzo sfottendo. Perché è più forte della volontà e dell’intelligenza dei miei amici prendere sul serio il fatto che io possa essere diversa da loro e pur non essendo andata in comunità abbia deciso di battezzarmi un paio di anni fa e quindi credere in Dio.

È un percorso assurdo e bellissimo, parte al Circo Massimo e arriva al Divino Amore. Il centro della città, poi l’Appia Antica, la bellezza delle ville del selciato romano delle mura e la porta San Sebastiano e giù per la strada verso le Fosse Ardeatine, stazione dopo stazione, preghiera dopo preghiera, finché la città arretra e scompare si riprende e diventa un’altra, tra camion e pini e nuvole basse e gonfie. Una periferia strana, compatta e sfilata, lavori in corso che eternamente si spostano, reti e griglie e buche sull’asfalto.

Canti in moldavo, italiano, e altre lingue. Chi oscilla, chi approfitta del prete che si perde nel corteo più o meno consistente, che è lì per confessare, per dare aiuto e ascolto; ma a volte anche lui cede e controlla il telefono. Una seconda torcia, oltre la croce al led.

Poi però quando arrivi al santuario del Divino Amore sembra di arrivare in un sogno d’infanzia: un’enorme lanterna gialla e blu, accesa, che ti aspetta. Quindici chilometri, mi pare, di cammino, di notte, fino all’alba.

C’è chi giunge stremato – i più devoti fanno il cammino scalzi – chi felice, soddisfatto, chi fa finalmente colazione prima ancora della comunione.

Cimitero del Verano

La casa di quello che c’è dopo la vita, ovvero la morte. A San Lorenzo, dove c’è di tutto: università e universitari, ospedali, catacombe e basilica, artisti fotografi e romani da sempre, dalla fondazione della città. È stato costruito, ampliato, bombardato, ricostruito, ri-ampliato e ora che è al completo, monumentale, ospita migliaia di ex-vivi.Trovare tutte queste porte aperte è difficile, come pure credere è difficile. E molto. Potrebbe apparire una soluzione conveniente ma la fede rende le cose ancora più complicate. È un’azione piena di dubbi e insidie, che cerca conforto e conferma e altri dubbi; a volte niente sembra bastare, a volte invece basta incontrare una madonnina incastrata nell’angolo di una strada, insomma basta incontrare una testimonianza di tracciati invisibili, privati, che diventano riferimenti collettivi, per ricordarmi gli assi cartesiani del segno della croce proiettati sul mio petto ogni volta che mi sento, di nuovo, parte di quel popolo. Di quel mondo. Di una storia e di una città.

ARTICOLO n. 46 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANDREA MORO

Che cosa può fare una lingua?

Sin da Breve storia del verbo essere leggo i libri di Andrea Moro. Professore ordinario di linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia. Sia linguista sia neuroscienziato, e anche romanziere, i suoi libri non sono mai solo tecnici: indagano in vario modo la natura di questa strana specie, quella umana, cui apparteniamo. Ho incontrato Andrea per la prima volta tempo fa in una lunga chiacchierata Zoom, nel pieno della pandemia. In quell’occasione abbiamo discusso di quel grande organismo vivente che è il linguaggio, e non solo. Questo dialogo scritto è la sintesi di quell’incontro. 

Andrea Gentile: Andrea, anche se continuiamo a credere che sia un problema, o addirittura a negarlo, ogni istante della nostra vita è fatto per sorgere e svanire. La valanga di informazioni e algoritmi del digitale sposa questa dimenticanza: anzi, ne è forse la più grande alleata, in tutta la storia umana. L’incanto dell’essere vivi, dunque presenti, è molto lontano da noi. Come percepisco una sensazione avendo di fronte lo scroll infinito dello smartphone?

Andrea Moro: Una volta commentai il linguaggio di papa Francesco e nell’analisi del suo discorso trovai, tra le dieci parole più frequenti, la parola «odore»: diceva che bisognava amare le persone di cui si riusciva a sentire l’odore. Qui e ora ci troviamo a parlare attraverso uno schermo in videochiamata: sentiamo le nostre voci, vediamo i nostri visi ma dobbiamo immaginarci il resto, primo tra questi l’odore che emaniamo. Ma ci siamo abituati a questa anestesia tecnologica dei sensi. Basta pensare a tutte le rubriche e le foto di cibo che ci circondano: anch’esse esprimono sensazioni monche. Fotografare il cibo è un ossimoro cognitivo, non appare nulla di ciò che vale la pena di rappresentare: né la consistenza né l’odore né il sapore. 

A.G. Sì, è pura narrazione. Penso al peso della parola, che è complementare al peso dell’empatia. Penso all’«altro», che è un territorio ignoto che continuamente deve essere scoperto, e per essere scoperto c’è bisogno innanzitutto di un dissolvimento di una parte di «io»; altrimenti l’altro nemmeno riesco a sentirlo. Come in questa conversazione, se continuo a pensare a me stesso, Andrea Moro non posso sentirlo. Ma se è vero che «sento dunque sono», mi chiedevo, che cosa c’è tra la nostra percezione del sentire e il modo in cui utilizziamo le parole? Come le parole restituiscono certe percezioni? Come la mia parola è in grado di restituire la percezione che io sto sentendo adesso? Adesso, per esempio, sono contento di avere questo dialogo con te. E allora, se guardo bene, se medito, questa emozione restituisce una sensazione all’altezza dello stomaco. Come traduco questa sensazione in parole?

A.M. Devi tenere conto che le parole non esistono isolate, sono sempre immerse in strutture sintattiche, però noi esseri umani le vediamo. Ora ammettendo come premessa che la parola da sola non c’è, posso comunque provare a restituire una mia impressione.

A.G. Sono curioso di ascoltarti.

A.M La questione dell’empatia secondo me è decisiva; hai fatto bene a sottolinearla. Ci sono delle parole sulle quali non c’è ambiguità e sono parole funzionali come i pronomi o la negazione, ad esempio. A te non è simpatica la parola «io», perché ti pare che il contenuto associato ad «io» offuschi l’altro. Ma dal punto di vista linguistico, i pronomi come io non possono far sparire l’altro, perché la definizione di io implica necessariamente un tu

A.G. Certo. 

A.M.  È come tentare di dare la definizione assoluta di un colore qualsiasi, come il bianco: il bianco non può essere definito in assoluto ma solo come opposto ad altri colori. Allo stesso modo non si può definire il soggetto se non si ha il predicato. Molte parole del linguaggio non sono ancorate a sensazioni o percezioni di proprietà fisiche o di relazioni tra oggetti o persone ma alla logica. I morfemi possono aiutarci a capire meglio. Sono quei mattoni che costruiscono le parole: in tavolo è presente il morfema lessicale tavol- e il morfema funzionale –o. In prima approssimazione, possiamo dire che i morfemi funzionali sono quelli che non appartengono alle sensazioni e percezioni. Per esempio, non non può essere una sensazione. Se dico «se piove o non piove»: in un caso si è bagnati e nell’altro no, però il ruolo logico della parola «non» in una frase non è legato direttamente a una sensazione: il suo ruolo è di capovolgere le condizioni nelle quali la frase è vera. 

A.G. Sono molto d’accordo. Questo è il fulcro centrale della letteratura e intendo proprio letteratura, non narrativa. Nella narrativa tutto è quello che viene detto. Nella letteratura tutto è quello che non viene detto.

A.M. Sì, hai ragione: pensa alla parola casa. Tra me e te potrebbe avere significati e connotazioni diversi. Io potrei aver «perso la mia casa» oppure dovermi «trasferire di casa» o aver «ereditato una casa» bellissima. Io casa lo pronuncio in modo diverso da te che per casa intendi aver pagato l’affitto stamattina. Come facciamo a stabilire che condividiamo entrambi lo stesso significato di casa? Non si sa, è un patto che facciamo io e te. Io credo nel famoso problema della vaghezza, il tipico esempio della vaghezza si fa con il termine calvo: immaginiamo una persona completamente pelata e domandiamoci «è calva?», «sì», aggiungiamo un capello e chiediamo «è ancora calva?». La risposta molto probabilmente sarà sì. Ancora ne aggiungeremo due, «è ancora calva?», e vedremo che non si capirà bene quanti capelli dovremo aggiungere ad un calvo per dire che non lo è. Ecco io credo che tutti i significati siano in qualche misura vaghi. Le parole indicano solo dei «limiti»: forse per questo un sinonimo di «parola» è proprio «termine».

A.G. Come facciamo ad aderire entrambi allo stesso significato della parola? 

A.M Nessuno può rispondere in modo completo ma ci sono molte osservazioni interessanti a propositoTi farà piacere sapere che esiste una tecnica linguistica con la quale cerchiamo di spurgare i significati aggiunti e scegliamo quello all’interno della polisemia più condiviso possibile: la re-duplicazione. Supponiamo che io abbia uno studente che risiede a Pavia e abbia una casa in questa stessa città, lo studente però è molisano e ha una casa anche in Molise. Viene da me e mi dice: «Professore, io torno a casa» e io gli dico «Ma casa-casa?» dicendogli casa-casa, cioè con la reduplicazione, io lo obbligo a scegliere tra i due significati quello che contiene meno informazioni accidentali, cioè la sua «vera» casa. È un trucco con cui facciamo precipitare, come se fosse una reazione chimica, il significato meno ambiguo di tutti: e vale con tutte le parole, praticamente, meno quelle funzionali. È chiaro che non si può trattare di una questione soltanto intuitiva o aneddotica; deve essere un fatto sistematico, linguistico: per poter parlare dobbiamo fare un patto con chi ci ascolta sulla condivisione minima di significato tra le parole, sapendo tutti e due, coscienti o meno, che è un patto fragile perché le parole sono quasi tutti polisemiche; tranne appunto quelle che abbiamo definito logiche. Infatti, è difficilissimo immaginare nelle parole logiche una re-duplicazione, perché quando diciamo «non piove» non diciamo «non-non». Funziona solo dove c’è una polisemia. La reduplicazione “stana” la polisemia.

A.G. Oltre alle parole logiche e a quelle polisemiche possiamo individuarne altre? 

A.M. Sì. Ci sono molte parole per così dire “astratte” e anche con esse è interessante chiedersi se passano attraverso le sensazioni. Io questo concetto l’ho dovuto affrontare sulla questione del verbo essere. Sostengo che avesse ragione Aristotele: il verbo essere è soltanto un verbo che esprime il tempo e tutte le proprietà delle frasi del verbo essere non derivano da una polisemia del verbo essere ma dalle diverse strutture sintattiche nelle quali si trova. 

A.G. Spesso mi chiedo fin dove arrivano le parole. Tu in qualche modo lo dici, «dove non arriva la parola arriva il cervello», che è un sistema talmente complesso che mi permette di elaborare delle metafore molto forti. Ma qual è il luogo in cui le parole non sono in grado di restituire le mie emozioni, le mie sensazioni, il mio essere? Le parole in alcuni luoghi, in alcuni momenti sembrano non arrivare a restituire la sensazione vera che io sto provando. Come il ti amo. Quante polisemie ci sono dietro a questa espressione? Può essere molto meccanico, persino kafkiano. Ti amo vuol dire tutto e nulla, proprio perché si sedimenta su un immaginario.

A.M. Ci sono, secondo me, due livelli. Tu ora stai trasferendo il percorso della comunicazione da quando la strategia di comunicazione è efficace a quando invece la strategia con sé stessi e con gli altri non funziona. Si può riconoscere in due modi: uno, che è più semplice, è rendersi conto che quello che si sta dicendo, come si dice in italiano, «non rende l’idea». Questa è un’espressione “magica” che più di altre fa esattamente capire quello che sta dietro. «Non rendere l’idea» vuol dire che si ha una netta percezione di qualcosa ma non si è capaci di trasmetterla, cioè le parole scelte non soddisfano la nostra intuizione. Ti faccio un esempio. Da ragazzo andavo a Brooklyn a veder calare il sole, e telefonavo a casa, alle persone a cui volevo bene per cercare di descriverlo e alla fine dicevo sempre «Non ce l’ho fatta, devi venire qui!». Perché c’è un livello della parola che sono consapevole non renda l’idea.

A.G. Mentre il secondo livello a cui accennavi?

A.M. Il livello di non-corrispondenza. Questo secondo livello l’ho riscoperto in modo prepotente perché è l’unica cosa buona che ha partorito in me il Covid. Non come malattia ma come condizione. Quando è iniziato mi sono promesso che avrei letto un canto a sera della Divina Commedia, e a fine quarantena l’avrei finalmente letta tutta intera. Sono rimasto folgorato e tra le tante scoperte quella dell’incapacità di dire. Dante capisce molto bene che c’è qualcosa che non si può dire ma noi esseri umani siamo anche fortunati perché, accanto a questa sensazione, abbiamo anche una parola precisa, o un termine almeno, per identificare proprio ciò che non si può dire, cioè l’ineffabile. Se ci pensi, questo è un “miracolo” lessicale: è una parola che esprime esattamente l’incapacità di esprimersi a parole; questo è stupefacente, perché significa che c’è un limite intrinseco nel linguaggio. Torna ancora la riflessione sulla parola termine. Perché se ci pensi in realtà è una derivazione della logica medievale, il termine esprime esattamente il confine ma non il contenuto. Qui entro in una terza accezione discussa anche con Chomsky: non accettare l’idea di una traduzione automatica da una lingua all’altra, salvo casi banali. Questa idea la condividiamo sia io che te! Una macchina non traduce: trasferisce automaticamente e approssima senza capire.

A.G. In quanto una macchina non ha sensazioni con cui elaborare le parole. 

A.M. Si, ma non solo. Ammettiamo che possano esserci delle sensazioni artificiali, che istruiamo la macchina per avere freddo, aver fame ecc… Il punto sostanziale è che la macchina non può avere la sensazione di non avere detto delle cose che invece provava: per la macchina il termine «ineffabile» non ha senso, perché non può avere la sensazione di non aver reso l’idea. Il luogo tutto umano della comunicazione è forse proprio lo scarto tra quello che vogliamo dire e quello che riusciamo a dire. 

A.G. Sì, la macchina è senza pelle. 

A.M. Questo vuol dire che nella visione del linguista c’è l’idea che il non-detto, quello che sfugge, esattamente come tu dici, è una parte integrante del nostro sistema. Non può essere escluso, non è un difetto. È una parte costitutiva, se no saremmo delle macchine! In questo difetto sta il proprium della questione. Infine, c’è un ultimo punto: quando il linguaggio viene usato come copertura. Noi diamo per scontato che il linguaggio serva per comunicare. Ci sono però dei problemi di efficacia ovvero quando il linguaggio copre. Lo possiamo facilmente riscontrare nella medicina contemporanea, è emerso in La razza e la lingua.  Fino agli anni Quaranta tutte le patologie venivano comunemente descritte dalla comunità scientifica prendendo delle radici greche, e formando dei neologismi come ad esempio «gastroenterologia», «emicrania» ecc; allo stesso modo le parole di altre discipline o della tecnologia, come altri termini scientifici per esempio «telefono», «bicicletta» ecc. Il linguaggio era fatto per comunicare il più possibile, formando sempre più spesso parole nuove: una persona di cultura anche non specialista sapeva intuire cosa volessero dire questi neologismi ed erano anche facili da memorizzare. Negli anni Cinquanta, la medicina soprattutto ma non solo ha cambiato comunità di riferimento spostandosi negli Stati Uniti dove la cultura classica era ed è molto meno frequentata. Le nuove patologie sono tipicamente espresse in acronimi: HIV/AIDS, GERD, DHD; e così anche i termini tecnici: modem, laser, ecc. Ma gli acronimi hanno un effetto preciso e valutabile sulla comunicazione e anche sulla comunità stessa: un acronimo per essere compreso deve avere qualcuno che lo sciolga, non basta la cultura: deve esserci, per così dire, un sacerdote depositario della verità che li scioglie, quindi tu che non ne sei a conoscenza diventi un suddito ignorante. 

A.G. Affascinante questo: la medicina genera sigle esoteriche. Il paziente è sempre più escluso. Ha di fronte sacerdoti, non medici.

A.M. L’acronimo è il linguaggio usato come copertura, qualcuno detiene la chiave per il significato: tipicamente, gli altri no. Quindi questo è il tentativo opposto a quello che sono invece la divulgazione e la condivisione. Anche questo secondo me è un fatto notevole del linguaggio: la copertura. 

A.G. Mi ha colpito molto un’immagine che segna i tuoi libri: vedere il pensiero.

A.M. Ecco: ancora una volta c’è la parola vedere nell’idea. Io penso che la storia dell’umanità, stia tutta nel passaggio tra Erodoto e Tucidide. Lui, Erodoto, inizia con le storie, e sappiamo che l’etimologia di storia deriva dal verbo «vedere». Erodoto per primo racconta quello che vede non il mito. Poi Tucidide non usa più la parola storia ma usa la parola autopsia che è un’altra radice del verbo «vedere»: è vero che vedo ma vedo io stesso, quindi sono io il protagonista della visione. Il punto più alto della metafora del vedere come conoscere sta per la mia sensibilità personale nel Vangelo di Giovanni dove a quel punto lì è tutto visibile anche quello che non dovresti vedere, quello che non c’è, la prova apparentium.  

A.G. Sì, perché oltre che vedere il pensiero c’è anche la constatazione, utilizzando un sintagma poetico, che dietro la parola si nascondono delle altre parole. Bisognerebbe vedere anche cosa c’è dietro una parola. Robert Walser in La passeggiata ad un certo punto scrive, «basta con la vita dei pensieri», che vuol dire anche basta con la vita delle parole. Quindi, anche: ciò che c’è dietro le parole. Ma c’è un altro stimolo che tu affronti nei tuoi lavori: la questione delle lingue impossibili. Cosa spinge un essere vivente a generare un sistema di questo tipo? Per quanto riguarda una persona che non ne fa una professione come me è veramente un grosso mistero. Qual è l’impulso neuroscientifico, sentimentale, umano per elaborare una lingua artificiale, per esempio? 

A.M. Sei il primo che mi fa questa domanda, ed è quella che mi sta più a cuore perché tocca un punto centrale: chiunque l’abbia fatto ha voglia di immaginare una cosa impossibile. Ci sono due risposte alla tua domanda. Una razionale e scientifica, che ho utilizzato negli esperimenti di neuroscienze: per capire quello che c’è si può anche capire come mai non c’è quello che non c’è. Questo però non esaurisce la risposta a quello che tu hai posto e si riconosce una risposta emotiva, forse generata dalla paura: quando si ha paura di qualcosa, spesso si desidera che quel qualcosa arrivi perché l’attesa è troppo lunga e spesso più dolorosa della realtà. La paura dell’invenzione di una lingua che ti domini è una delle mie paure, certo non solo mia. Questa paura è stata certamente una delle spinte che mi hanno “costretto” a scrivere un romanzo (Il segreto di Pietramala) che avesse come protagonista una lingua capace di uccidere: la paura e la consapevolezza della complessità di questo codice straordinario che abbiamo solo noi esseri umani inscritto nella carne. Quello che ci fa dire oggi che la carne si è fatta logos, capovolgendo una visione che dura da duemila anni.

A.G. È sempre quello, Andrea, è sempre per quello, viviamo sempre per quello. La paura è la più grande compagna della nostra specie, persino più della morte.

ARTICOLO n. 45 / 2022

SUPERFICI TRASPARENTI

Ho sentito un rumore intermittente.

Come se qualcosa di piuttosto aggressivo continuasse a sbattere contro le pareti della stanza attigua.

Un rumore cupo e simile a un ronzio.

Non poteva essere un moscone: troppo incazzato.

Neanche una locusta: troppo veloce.

Mi affaccio nel mio studiolo e improvvisamente comprendo la natura di questo rumore contro il vetro della finestra che si affaccia sul giardino, un grosso calabrone dal corpo lungo e le ali spiegate si dimena tentando di uscire. 

Sbatte ostinato per cercare la fuga, deve essere entrato questa mattina, quando ho spalancato le finestre come faccio ogni giorno, appena sveglia.

Si divincola dalle tende, ogni tanto fa dei voli più larghi ma poi finisce sempre per tornare sulla superficie trasparente del vetro della finestra, convinto che a forza di sbatterci contro potrà liberarsi.

Si ferma, recupera le forze e poi ricomincia, ronzando ogni volta più forte, sbattendo ogni volta con più violenza.

Mi immobilizzo all’istante.

Ne ho paura, io, di quell’animale.

Ne sono terrorizzata perché sono allergica. Una puntura di quell’insetto bellissimo quanto pericoloso porterebbe me a uno shock anafilattico. E lui a morte sicura, in un do ut des al ribasso.

Si ferma di nuovo sul vetro, abbassa le ali, sosta per qualche interminabile secondo sul bordo di legno della finestra e poi non so se percepisca me o lo spazio libero alle mie spalle, fatto sta che inizia a venirmi contro con il suo volo nervoso e impaurito.

Con un automatismo rapido mi sblocco dalla mia immobilità, indietreggio di scatto. E chiudo alle mie spalle la porta dello studio con un colpo secco, imprigionandolo al suo interno.

Lo sento sbattere contro la porta, adesso. Mi fermo, sono scalza. Le dita nude dei mi piedi arpionate al parquet. Ascolto il suo ronzare dall’altra parte della porta: ora più vicino, ora nuovamente più lontano, verso l’illusoria promessa di libertà della finestra che si affaccia sul giardino.

Non so cosa fare e rimango in attesa qualche minuto, chiedendomi quanto tempo ci vorrà affinché lui prenda confidenza con la nuova realtà in cui si è momentaneamente infilato. Fino all’arrivo di un vicino che lo possa liberare.

Mando dunque un messaggio a G, che vive dall’altro lato del giardino, comunicandogli un perentorio “Sos, calabrone in casa, imprigionato nello studio. Salvaci”. 

Il plurale sta per me e per il mio prigioniero alato.

Mi risponde che è fuori casa ma tornerà a breve, intimando a entrambi – me e il mio prigioniero, di cui in realtà sono a mia volta prigioniera – di resistere.

In cuor mio spero che il calabrone resista all’attesa: lo sento determinato nello sbattersi contro le pareti e temo che possa farsi a pezzi da solo.

Scendo le scale per farmi un caffè senza mai smettere di pensare al mio prigioniero con le ali e il pungiglione e mi soffermo un po’ troppo a lungo su un’immagine, quella del vetro da cui lui osserva l’esterno, una visione parziale dello spazio che pensa invece di essere totale. La cortina trasparente che lo separa dall’esterno è infatti il suo unico punto di osservazione sul mondo, al momento. E quella a quanto pare, gli basta per capire tutto su ciò che vi è contenuto al suo esterno.

Pensa che il mondo, nella sua interezza, sia ciò che vede dal vetro. E viceversa, ha pensato che quella finestra che lo ha portato fin dentro al mio studiolo fosse innocua e priva di inghippi. Il filtro con cui comprende il mondo è parziale, privo di approfondimento, privo di imprevisti. Avrà pensato che la casa fosse vuota? Che fosse solo un riflesso? Che sarebbe uscito subito? 

Mi viene in mente Sottsass e la sua domanda su di chi siano le case vuote e per un attimo sorrido realizzando quanto in realtà il sistema che abito, ovvero quello della impalpabile e apparente notorietà – che mi fa strano chiamare così – , sia incredibilmente simile alla visione che ha delle cose il mio povero calabrone, così sicuro della monodimensionalità di ciò che osserva da restarne incastrato dentro.

Cosa vedono le persone quando mi osservano attraverso quella grossa lente trasparente che sono i social?

Me lo chiedo mentre bevo il caffè e controllo le mail, apro le richieste di connessione, amicizia e guardo i nuovi messaggi che lampeggiano sul mio telefono.

Tra le richieste più svariate che mi giungono coglie subito la mia attenzione quella più selettiva e decisamente auto-sabotante. Come mai ci interessano più le critiche che le lusinghe? Semplice, perché nella realtà sappiamo di essere molto più vicini alle prime che alle seconde. Con un movimento veloce e preciso del pollice destro, apro il messaggio e leggo.

È di un profilo fake – termine con cui noi ex giovani abbiamo iniziato a indicare account anonimi – e privato che si dice incredibilmente deluso da me – uso il maschile perché deumanizzo la persona riducendola al suo stesso profilo, termine che ormai è divenuto sineddoche di uso comune per indicare un essere umano con una connessione a internet. Mi rimprovera del fatto che non avrei parlato di un tal evento mediatico su cui avrei – non so per quale obbligo – dovuto espormi. Scrive che non sono più quella di un tempo e che dovrei prestare più attenzione alle cause, tanto più io. E aggiunge, proprio io, che sono una vittima e che quindi dovrei capire.

Nella mia testa inizio subito a smembrare questo messaggio per analizzarlo chirurgicamente in ogni sua parte.

La delusione, che è l’emozione soggettiva e personale di questa persona nei miei confronti, partirebbe da una non aderenza alle condizioni contrattuali monolaterali iniziali. Ovvero quelle del mio esordio sulla pubblica piazza dei social, battesimo di una popolarità – a suffragio universale – fragile quanto il vetro di Murano durante un terremoto.

Sorrido ancora pensando ai Club Dogo che accusati dalla loro stessa fan base di non essere più quelli di Mi fist (il loro primo album datato 2003, ndr), nel 2014 lanciano a bomba in modalità kamikaze un album titolato Non siamo più quelli di Mi fist. Oggi comprendo perfettamente lo spirito dissacrante del trio di rapper meneghino.

Mi scappa da sorridere, poi, ripensando a questi fantomatici miei esordi: te credo che avevo tempo, eravamo in lockdown, io ero disoccupata da tre mesi e avevo 24 ore al giorno da spendere “alla causa” dedicandomi a tempo pieno alle persone che abitano lo spazio del digitale.

Riecco dunque il paradosso del calabrone: lui vede me in una stanza illudendosi che io sia da sempre nella medesima posizione, e pensando che io non mi muova ne è rassicurato. 

Ma per quanto il vetro della finestra come dello schermo illuda del contrario, noi, anche solo per fisiologia, nasciamo cresciamo corriamo evolviamo e poi schiattiamo, quindi l’immobilità non è certamente tra le peculiarità della nostra specie. L’apparente cristallizzazione di tempo e spazio è frutto di uno sguardo soggettivo che pretende di trasformare le persone in immobili simulacri.

Che io ora sia in un tour promozionale del libro appena uscito, debba far quadrare sei scadenze, abbia da presentare altri libri, gestire semplicemente la vita che è ripartita in questa fase di convivenza con il virus, non conta. Non viene recepito, perché il calabrone dal vetro vede ciò che vuole vedere, in un tempo e in uno spazio limitatissimi, a portata del movimento delle dita.

Chiedo via WhatsApp a due colleghe se anche per loro funzioni così, se anche a loro non sia perdonata (compresa?) l’assenza. Mi accendo la prima sigaretta della giornata tendendo l’orecchio verso la porta dello studiolo sperando di sentir ancora ronzare.

Mi rispondono subito entrambe, come sospetto, è un sì unanime: nessun perdono, solo delusione, siamo colpevoli di poca cura.

Eppure – penso mentre sbircio dal buco della serratura per controllare il mio quasi amico alato – io le “cause” continuo a portarle avanti, ho solo cambiato lo spazio in cui lo faccio.

Come mai non si è compreso?

Appurato empiricamente che no, non sono più quella di Mi fist e che il cambiamento è fisiologico in quanto essere umano, mi chiedo cosa sia successo. Come abbia fatto a non comprendere la fregatura della monodimensionalità social. Io, che sono pure claustrofobica, come ho fatto a rinchiudere la mia immagine in un solo, eterno, irreale e soffocante fotogramma distorto?

Ed è proprio qui, seduta sul pavimento del corridoio mentre aspetto che G venga a liberarci, che comprendo di essere io stessa a mia volta un gigantesco calabrone, attirato da una stanza che vista da fuori mi sembrava sconfinata.

Così mentre chiudevo altri calabroni in altrettante stanze per immobilizzarli e tenermeli a debita distanza, anche a me toccava la medesima sorte.

Vittima pure io, accusata dai miei simili (calabroni loro, calabroni tutti) di essermi venduta perché scrivo «per le major» (!). Ehi, proprio come i rapper! Assente e deludente infine perché non vivendo attaccata al telefono risulto incapace di instaurare un vero e approfondito dialogo. Come se bastasse un telefono e come se la mia vita fosse sempre a disposizione di ogni singolo spettatore pronto a illuminare di avvisi il mio schermo.

A tal proposito, ho letto qualche settimana fa che sarei una ricca privilegiata, che scriverei libri sui nobili e su mia nonna, presunta miliardaria. Non serve che io ribadisca che niente di questo corrisponde al vero, oltre tutto basterebbe aprirlo, uno dei miei libri, per scoprire quanto queste notizie siano totalmente prive di fondamento. 

E allora mi chiedo: il reale dove si è fermato? Cosa lo ha fermato? Cosa ha provocato il collasso di spazio, tempo e narrazione su questo orizzonte degli eventi fatto di vetro trasparente che sono i nostri smartphone?

Quando siamo diventati pezzi componibili ma soprattutto scomponibili da poter montare come se fossimo bambole o pezzi del Meccano?

Oggetti di consumo e digestione, siamo diventati il bolo alimentare da divorare e poi cagare fuori.

Pezzi scomponibili di una catena di montaggio postmoderna, veniamo venduti di volta in volta al miglior sguardo. Esseri disanimati agli ordini del turbocapitalismo contemporaneo, mettiamo a disposizione la nostra immagine, la nostra arte e perfino le nostre stronzate. Non mancano nel catalogo le persone che ci scopiamo così come i luoghi da cui veniamo, le nostre idee migliori come quelle peggiori. Ma la critica (o meglio la lamentela) è subito pronta e vibra contro vetri trasparenti: non siamo più quelli di Mi fist!

Non siamo più quelli di Mi fist, ma è altrettanto vero che non avevamo firmato alcun contratto che garantisse la nostra reperibilità 24/7, il nostro dover essere obbligatoriamente sante o puttane in base al trending topic del giorno, il nostro addio al mondo tangibile per il mondo impalpabile.

Non capisco, mentre cammino avanti e indietro sempre nel corridoio, quando io abbia concesso agli altri di prendersi pezzi di me e divorarli e strumentalizzarli e modificarli o addirittura, come nel caso del libro e della biografia a me attribuita, inventarli dal nulla: chi sono io?

Dove sono in questa storia?

Sono il calabrone o la mano che chiude bruscamente la porta?

Non capisco i confini, non mi riconosco nel mio stesso volto riflesso nelle superfici trasparenti e a mia volta non riconosco la stanza in cui sono entrata e nella quale sbatto contro le pareti cercando di trovare una via di uscita che forse, forse sono stata io stessa a sbarrare.

Vorrei urlare che oltre i vetri c’è molto di più, che quello che fanno gli scrittori è raccontare. È fuori dalle stanze chiuse che il mio riflesso si compone di miriadi di immagini diverse. La mia storia è frammentata da infiniti momenti anche meravigliosamente dissonanti tra loro. Il mio desiderio era solo quello di essere libera di fare un volo sereno, di mattina, da un giardino, attraversando le pareti di una casa.

Mi chiedo se qualcuno aprirà mai questa porta, se i vetri trasparenti si incrineranno un po’ ogni volta che ci sbatto contro e se costringerò questa stanza alla resa. Oppure se mi farò solo male. Mi manca il fiato mentre penso al calabrone che continua a ronzare arrabbiato e mi viene da urlare perché non sono io la persona giusta per poterlo liberare.

Mi vibra il telefono tra le mani. È G.

«Sto arrivando a salvarti», scrive.

Muovo veloce le dita sul vetro trasparente del mio telefono e digito nervosa: 

«Il calabrone: salva lui, non me».

ARTICOLO n. 44 / 2022

CHE COS’È LA FEDE COMUNISTA?

Qualche impressione sulla Russia

È difficilissimo pensare alla Russia senza pregiudizi. E anche nel caso ci si riesca, come farsi un’impressione chiara di qualcosa di tanto diverso, mutevole e contraddittorio, di cui nessuno in Inghilterra ha alcuna conoscenza o esperienza? Nessun quotidiano inglese ha un corrispondente fisso dalla Russia. Giustamente crediamo poco a quel che le autorità sovietiche dicono di sé stesse. 

Gran parte delle notizie che ci arrivano provengono da delegazioni laburiste o da émigrés altrettanto pieni di pregiudizi. Per questo una cortina di nebbia ci separa dal mondo dove l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche mette in atto, sperimenta e fa evolvere un certo tipo di ordine. 

La Russia paga anni di “propaganda” che, togliendo credibilità alle parole, finisce per distruggere il senso stesso di comunicare a distanza. Il leninismo mescola due cose che per secoli gli europei hanno custodito in due diversi scompartimenti dell’anima: religione e affari. Siamo scioccati perché si tratta di una religione nuova, e sussiegosi perché il suo modo di condurre gli affari, subordinati alla religione al contrario di quanto dovrebbe accadere, è gravemente inefficiente. 

Come altre nuove religioni, il leninismo non prende la sua forza dalla moltitudine, ma da una piccola minoranza di convertiti entusiasti; per zelo e intolleranza ognuno di loro ha la forza di cento agnostici. Come altre nuove religioni, il leninismo è guidato da chi riesce a mescolare il nuovo spirito, in modo forse sincero, con una lungimiranza superiore a quella dei propri seguaci, da politici con una buona dose di cinismo, in grado di sorridere come di corrucciarsi, sperimentatori effimeri che la religione ha svincolato dalla verità e dalla pietà, ma che non ha accecato al punto di non vedere fatti e occasioni, esposti pertanto all’accusa (superficiale e inutile, per quanto si confaccia ai politici, laici o ecclesiastici che siano) di ipocrisia. Come altre nuove religioni, il leninismo sembra sottrarre alla vita quotidiana gioia, colore e libertà, proponendo come tetro sostituto il rigore dei volti lignei dei suoi devoti. Come altre nuove religioni, perseguita senza giustizia o pietà chi prova a opporsi. Come altre nuove religioni, è stracolmo di ardore missionario e ambizioni ecumeniche.

Tuttavia, dire che il leninismo è la fede di una minoranza persecutrice e ambiziosa guidata da ipocriti equivale a dire che è una religione, e non solo un partito, e che Lenin è un Maometto, non un Bismarck. Se vogliamo spaventarci sulle nostre poltroncine capitaliste, possiamo dipingere i comunisti russi come dei paleocristiani guidati da Attila che usano gli strumenti della Santa Inquisizione e delle missioni gesuite per attuare alla lettera i dettami economici del Nuovo Testamento; se invece su quelle medesime poltroncine volessimo tranquillizzarci, non potremmo forse dire col cuore colmo di speranza che si tratta di un’economia tanto contraria alla natura umana da non poter mantenere né missionari né eserciti, e che pertanto andrà incontro a un’inevitabile sconfitta? Dobbiamo rispondere a tre domande. 

Questa nuova religione, almeno in parte, riesce a esprimere o a capire l’anima dell’uomo moderno? Il suo aspetto materiale è tanto inefficiente che le impedirà di sopravvivere? Nel corso del tempo, diluendosi a sufficienza e assorbendo qualche impurità, riuscirà ad affermarsi?

Riguardo alla prima domanda, chi è completamente soddisfatto del capitalismo cristiano o di un capitalismo egotistico che non perde tempo in trucchetti non esiterà a rispondere; sono persone che o già hanno una religione o non ne hanno alcun bisogno. In quest’epoca senza religione, molti provano però una forte curiosità emotiva verso qualunque religione che sia davvero nuova, e non sia solo la recrudescenza di quelle vecchie, e che abbia dispiegato la propria forza motrice; ancor di più quando la novità arriva dalla Russia, lo splendido e sciocco figlio minore della famiglia europea, coi capelli sulla fronte, più vicino alla terra e al paradiso dei suoi fratelli calvi d’occidente; un figlio nato due secoli dopo, che è stato in grado di raccogliere la disillusione medievale del resto della famiglia prima di perdere il genio della gioventù o di diventare dipendente da comodità e abitudini. 

Riesco a simpatizzare con chi cerca qualcosa di buono nella Russia sovietica. Ma una volta arrivati alla realtà dei fatti, cosa dire? Per me, cresciuto all’aria aperta, dove la luce non era oscurata dagli orrori della religione, dove non c’era nulla da temere, la Russia rossa ha troppi aspetti deplorevoli. 

Le comodità e le abitudini possono renderci più indulgenti, ma non sono pronto a un credo che non si fa problemi a eliminare la libertà e la sicurezza dalla vita di tutti i giorni, e che usa in modo deliberato le armi della persecuzione, della distruzione e del conflitto internazionale.

Come posso ammirare un governo che spende milioni a casa propria per subornare spie in ogni gruppo e famiglia, e all’estero per seminare scompiglio? Forse non è un comportamento peggiore di quello avido, guerrafondaio e imperialista di altri governi, e potrebbe perfino essere più motivato; dovrebbe però essere di gran lunga superiore per farmi cambiare idea. Come posso accettare una dottrina che come sua bibbia, al di sopra e al di là di ogni critica, sceglie un manuale di economia obsoleto, che non solo è scientificamente sbagliato, ma che è anche privo di alcun interesse o applicazione nel mondo moderno? Come posso adottare un credo che, preferendo il loglio al grano, esalta lo zotico proletariato ai danni dei borghesi e dell’intellighenzia, che pur con tutti i loro difetti rappresentano il meglio della società e di certo portano avanti il progresso umano? Se anche ci servisse una religione, come trovarla nella confusionaria spazzatura delle librerie rosse?

Per un figlio dell’Europa occidentale che sia educato, decoroso e intelligente, è difficile ritrovarci i propri ideali, a meno di non aver subito qualche strano e orribile processo di conversione in grado di cambiare tutti i suoi valori. Se ci fermassimo qui, ci sfuggirebbe però l’essenza di questa nuova religione. 

Un comunista potrebbe risponderci semplicemente che tutte queste cose non appartengono alla sua vera fede, ma sono solo tattiche della rivoluzione. Lui crede infatti in due cose: l’introduzione di un nuovo ordine sulla terra, e il metodo della rivoluzione come solo mezzo per ottenerlo. Il nuovo ordine non dev’essere giudicato né dagli orrori della rivoluzione né dalle privazioni del periodo di transizione. La rivoluzione dev’essere l’esempio supremo del fine che giustifica i mezzi. Il soldato della rivoluzione dev’essere pronto a crocifiggere la propria natura umana, a diventare spietato e amorale, a sottoporsi a una vita priva di felicità o certezze, perché questi non saranno il suo obiettivo, ma i mezzi per perseguirlo.

Uso il termine “comunismo” per riferirmi al nuovo ordine, e non, come sono soliti fare i laburisti britannici, per indicare la rivoluzione come mezzo per ottenerlo. E dunque qual è l’essenza della nuova religione come nuovo ordine sulla terra?Guardando dall’esterno, non lo so per certo. A volte i suoi portavoce sembrano voler dire che tale essenza è puramente materialista e tecnica, proprio come il capitalismo moderno, come se il comunismo volesse solo essere uno strumento tecnico superiore nel lungo periodo, finalizzato a ottenere gli stessi benefici economici materiali offerti dal capitalismo, permettendo col tempo di ottenere raccolti migliori e di placare meglio le forze della natura. 

In tal caso, non si tratterebbe certo di una religione, ma solo di un bluff per agevolare un cambiamento che potrebbe o meno rivelarsi una migliore tecnica economica. Sospetto però che discorsi del genere siano soprattutto una reazione alle accuse di inefficienza economica che gli sono state scagliate contro dalla nostra fazione, e che al cuore del comunismo russo ci sia qualcosa di molto più importante per l’umanità. Da un certo punto di vista il comunismo non fa che seguire le altre religioni celebri.

Nessuna novità. Contiene però un fattore che non solo è nuovo, ma che potrebbe anche, in una forma diversa e in un nuovo contesto, dare un contributo alla vera religione del futuro, se mai ci sarà una vera religione. Il leninismo è assolutamente e provocatoriamente non-sovrannaturale, e la sua essenza etica ed emotiva è incentrata sull’atteggiamento dell’individuo e della comunità nei confronti del denaro. 

Non intendo affermare che il comunismo russo alteri, o anche solo cerchi di alterare, la natura umana, rendendo gli ebrei meno avari o i russi meno prodighi. Non intendo affermare che stabilisca un nuovo ideale. Intendo dire che vuol costruire un contesto sociale nel quale i motivi pecuniari influenzeranno di meno il comportamento delle persone, nel quale l’approvazione sociale sarà assegnata in modo diverso, e dove comportamenti in precedenza normali e rispettabili smetteranno di essere entrambe le cose. 

Oggi in Inghilterra un giovane dotato di talento e virtù, prima di fare il suo ingresso nel mondo, soppesa i vantaggi del mettersi al servizio della società con quelli del cercare fortuna negli affari; l’opinione pubblica non lo stimerà di meno se preferirà la seconda ipotesi. Cercare di guadagnare il più possibile non è meno rispettabile socialmente, e forse lo è perfino di più, di una vita al servizio dello Stato oppure della religione, dell’istruzione, dell’apprendimento o dell’arte.

In Russia vogliono invece che in futuro per un giovane rispettabile la carriera da affarista non sia un’opzione possibile, non più di una carriera da ladro gentiluomo, da falsario o truffatore. Anche gli aspetti più ammirevoli dell’amore per il denaro, come la parsimonia e il risparmio, o la sicurezza e l’indipendenza finanziaria per sé stessi e la propria famiglia, per quanto non verranno ritenuti moralmente sbagliati, saranno resi tanto ardui e impraticabili che non varrà più la pena perseguirli. Tutti dovranno lavorare per la comunità – così sancisce il nuovo credo – e se faranno il loro dovere, la comunità li sosterrà. […]

Estratto da Qualche impressione sulla Russia di John Maynard Keynes (Traduzione di Paolo Bassotti) © 2022 Luiss University Press – LuissX srl. Tutti i diritti riservati.

ARTICOLO n. 43 / 2022

STORIA DEL VINO AMBRATO CHE MI FECE INNAMORARE

Mondo naturale: il vino

Una sera d’estate di dieci anni fa mi trovavo seduta in un locale a Milano con davanti a me un calice di vino di colore ambrato, che mi era stato presentato come un vino naturale. Allora le mie cognizioni sul vino erano basilari, possiamo dire che il vino mi interessava solo per le sue proprietà di sciogliere la conversazione, per il resto mi risultava piuttosto indifferente e con un contorno rituale noioso. Ero insomma molto ignorante in materia, e proprio in virtù di quella ignoranza mi scopro spesso a citare quella serata nel locale di Milano come una specie di illuminazione. Quel vino ambrato e molti altri che seguirono toccarono nuove corde della mia attenzione, e mi dico che è stato per via delle loro qualità tangibili: i colori, gli odori, i sapori non somigliavano a quelli dei vini già registrati dal mio cervello. Forse avranno contribuito le circostanze felici di quella sera o l’atmosfera di quel locale spartano, che in realtà era un negozio alimentari, trasformato dopo la chiusura in un posto dove si beveva, e riconoscibile solo da una piccola scritta al neon rossa. Fatto sta che per la prima volta il vino mi sembrò non solo buono, ma interessante. È difficile dire adesso quanto contribuì la parola naturale, ma da quella sera il vino ha guadagnato sempre più spazio nella mia vita; e per una concatenazione di fatti che faccio fatica a definire casuale, il produttore di quel vino ambrato, che allora conoscevo a malapena di nome, è stato lo stesso che mi ha assistito e consigliato quando mi sono cimentata a fare il vino anch’io. 

Scherzo spesso sul fatto che il vino naturale è una specie di religione, per via della combinazione tra la parola naturale, col suo bagaglio mistico, e il più affidabile fomentatore di entusiasmi, l’alcol. Ad ogni modo, se così fosse io stessa avrei percorso tutte le varie tappe del cammino spirituale, con nel mezzo un discreto repertorio di viaggi, articoli, bevute, ritualità. Dico di me, perché credo sia un percorso condiviso da molti, che a partire da età, luoghi e mestieri diversi, finiscono nella rete dei vini naturali. E quando vanno in giro si ritrovano a sbirciare i tavoli degli altri, in cerca di alcuni segni di riconoscimento, un’etichetta più vivace, un calice più torbido, sapendo che sarà abbastanza per attaccare bottone. Una persona mi ha ricordato che qualcosa di simile succede ai lettori del Manifesto, quando scorgono sotto il braccio di qualcun altro il titolo dell’adorato giornale, e si scambiano quegli sguardi di ammirazione solidale che gli esponenti di una minoranza riservano ai propri simili.

Una delle prime cose che si imparano del vino naturale è che non c’è accordo su cosa si intenda per vino naturale. Come sappiamo il linguaggio è arbitrario per definizione, le parole ritagliano sul mondo dei contorni sfumati, eppure, nel caso nel vino, l’aggettivo naturale è carico di un’urgenza, una perentorietà, che rende i diversi intendimenti motivo di baruffa. Senza addentrarmi in dettagli tecnici, posso dire che tutto gira intorno all’ideale di un vino fatto usando l’uva come unico ingrediente, e un approccio agricolo almeno biologico, che evita i trattamenti sistemici o altra chimica di sintesi, e si occupa della salute del suolo e della biodiversità nella vigna. A partire da questi elementi incontestabili, la coperta resta abbastanza elastica da farsi tirare dove fa più comodo, e di fatto tiene insieme una varietà di produttori e bevitori che sarebbero disposti a definirsi a vicenda come «finti naturali» e «talebani naturali» – epiteti che fra l’altro incoraggiano la mia metafora religiosa. 

Con tutti i suoi limiti, il termine naturale ha espresso in qualche modo una sintesi felice e si è depositato, di fatto traghettando una nicchia frammentaria e disorganizzata fino all’affermazione commerciale. Così oggi esistono, in tutto il mondo, locali, fiere, e-commerce dedicati ai soli vini naturali, che non esistevano vent’anni fa. E, per quanto minoranza, è stata abbastanza rumorosa da innescare una riflessione più ampia sulle prassi di produzione, di valutazione e in fin dei conti di potere che hanno retto il settore del vino negli ultimi cinquant’anni o giù di lì. C’è il merito indiscutibile di aver riavvicinato, anche a livello simbolico, il vino all’agricoltura, da cui l’industria lo aveva alienato. E c’è il fatto che il vino naturale ha rotto un canone, o almeno lo ha ammaccato, rendendo praticabili ampie zone sensoriali che prima erano relegate nel repertorio dei difetti; non a caso il contrario del naturale è detto vino convenzionale, una scelta che indica dove – almeno semanticamente – stia la stranezza.

Il vino ambrato che mi fece innamorare nella serata milanese di dieci anni fa mi appariva strano per molti versi, a cominciare dal colore. Solo in seguito avrei scoperto che la gamma degli arancioni è una sorta di segno di riconoscimento del vino naturale, se non addirittura un elemento di provocazione; ma si tratta di un errore di prospettiva. In realtà, un vino arancione non è altro che un vino da uve bianche tenuto a fermentare sulle bucce, proprio come si fa coi rossi. Non ha niente di stravagante, bensì delle precise ragioni produttive: mantenere le bucce col mosto aiuta a proteggere le fasi iniziali della fermentazione. Prima dell’avvento dell’enologia industriale i vini bianchi si facevano soprattutto così, è la nostra memoria corta che lo fa sembrare una novità.

Per recuperare prospettiva, in questi anni sono andata spesso a trovare il produttore di quel vino ambrato, che si chiama Giulio Armani e abita in Val Trebbia, nel piacentino. Tempo fa scrissi anche un lungo ritratto su di lui per una rivista anglofona, un pezzo faticosissimo, perché Giulio parla quel poco che gli basta a sopravvivere e affida il resto della sua comunicazione alla mimica facciale. Cavare dalla sua reticenza delle frasi articolate è stato un supplizio, e solo in seguito, col passare degli anni e l’approfondirsi della nostra conoscenza, sono riuscita a mettere insieme i pezzi della sua biografia, che funziona bene anche come lezione sulla storia dei vini naturali. Giulio ha sessant’anni e ha iniziato a lavorare in cantina a diciotto, risalendo tutta la catena dei mestieri possibili fino a essere la mente enologica di una delle cantine più prestigiose d’Italia, naturali e non, che si chiama La Stoppa. Ha vissuto dunque il moltiplicarsi di prodotti e di consulenti che vendevano l’ideale di un vino «performante», soprattutto in termini commerciali, e che, soprattutto nei territori meno noti come il piacentino, spingevano i produttori a emulare i vini di zone più prestigiose, per lo più francesi, visto che la tecnica lo rendeva possibile. Per lo stesso principio di progresso, tra gli anni Settanta e Novanta in Italia si sono piantanti tanti vitigni internazionali (chardonnay, pinot nero, sauvignon blanc, merlot, cabernet sauvignon…) sostituendo le varietà locali. Negli anni Novanta, ormai trentenne, Armani ha iniziato a mettere in discussione i suoi stessi vini e, con la proprietaria dell’azienda, Elena Pantaleoni, hanno cominciato a togliere: lieviti industriali, filtrazione, conservanti (cioè solfiti); a cambiare metodo agricolo ed espiantare buona parte delle uve internazionali per rimettere le più bistrattate barbera e bonarda e malvasia. Oggi la loro inversione appare come una cosa di buon senso, ma allora queste scelte potevano tradursi in un suicidio commerciale, oltre che nell’essere emarginati e derisi da tutta la comunità di esperti. Benché nessuno dei due protagonisti ne parli volentieri, credo che siano stati anni difficili.

Vent’anni dopo, la parola naturale si è depositata e ha dato ai loro vini un senso nuovo, fresco, non conservatore ma semmai innovativo, o almeno lungimirante. La natura, come concetto, aveva nel frattempo raggiunto il punto più alto di idealizzazione, capace di alludere a cose vaghe ma sempre auspicabili, di aprire scenari bucolici e ammiccare in modi diversi all’idea di purezza. In Italia, ma anche in Francia, i produttori che facevano vino naturale prima che si chiamasse così, e che negli anni precedenti erano stati bocciati dalle DOC e rifiutati dai ristoranti, iniziano a essere celebrati dai locali più chic del pianeta e sono in grado di vendere le loro bottiglie a un prezzo molto più alto di quello delle DOC che li avevano rifiutati, tutto questo senza aver cambiato praticamente nulla nel loro modo di fare il vino. Infine, la nuova onda celebra i produttori naturali come dei divi: a Montreal c’è un ristorante molto in, che si chiama Elena in onore proprio di Elena Pantaleoni; in Corea, dei miei amici vignaioli abruzzesi hanno firmato autografi sulle magliette, sulle braccia, sulle schiene degli avventori di una fiera.

Siamo esseri volubili e le mode ci tengono svegli. La popolarità del vino naturale si inserisce però in un riassestamento più ampio, legato in parte all’oggettiva necessità di ripensare tutte le filiere agricole in modo meno devastante per l’ambiente, e in parte al fatto che l’argomento natura è diventato seducente, un buon modo per venderci le cose. Tre generazioni di benessere hanno cioè sovrascritto la memoria di chi vedeva nella natura soprattutto la terra, dura bassa e faticosa, vi associava povertà e sporcizia, e in ogni caso niente di desiderabile. Allo stesso tempo, rubricare i vini naturali a fenomeno hipster o radical chic, qualsiasi cosa voglia dire, è una prerogativa di chi ne conosce solo la superficie, le etichette colorate e poco più.Il vino ambrato di quella sera estiva milanese era fatto con uve miste, soprattutto malvasia di Candia aromatica e ortrugo, le due varietà bianche più radicate in Val Trebbia, proveniente da una vigna scoscesa a 400 metri di altitudine, un punto nel paesaggio che cercavo spesso con lo sguardo quando, un paio di anni fa, mi sono trovata a gestire un piccolo vigneto non troppo distante, cioè quando io e il mio compagno, più per gioco che per progetto di vita, abbiamo provato a fare il vino anche noi. Per una di quelle coincidenze che rendono le nostre vite più facili da raccontare, l’abbiamo fatto con le stesse varietà di quello di Giulio Armani scoperto dieci anni prima, e col privilegio dei suoi consigli. Gli amici che lo hanno bevuto mi chiedono se quindi questo è un vino naturale, e io rispondo che è più che altro un vino corporale, perché da principianti improvvisati, avevamo come unici strumenti le mani, i piedi, un paio di tini e qualche secchio, e ce li siamo fatti bastare. E che la parte naturale di fare il vino è stata invece la più difficile, poiché ha comportato un rapporto ravvicinato e prolungato con ragni, zecche, vespe, caprioli e cinghiali, muffe e parassiti dai nomi esotici, la paura della grandine, un giugno piovosissimo e un luglio bollente che mi ha bruciato la pelle e compromesso parte dell’uva. Se c’è una cosa che distingue il vino naturale da quello convenzionale, per me, è forse la capacità di tradurre tutte queste cose nella lingua misteriosa e universale del vino, di portare in giro per il mondo vicende umane altrimenti marginali, raccontarne la vulnerabilità e la fatica, senza coprirle o correggerle sotto una facciata rassicurante, o cercare di farle somigliare a un’altra storia di successo.

ARTICOLO n. 42 / 2022

ORIZZONTI DENTRO E FUORI

In una via stretta e buia cammino sola. La strada, deserta e lunga, fatta di muri di palazzi, alti e lisci. Privi di finestre, di porte, di forme. Fa nero dappertutto. Da dietro mi si avvicina un rumoroso gruppo di ragazzi. Giungono veloci, uno di loro mi rivolge due parole. Forse ho risposto, forse no. Mi mette un braccio intorno alle spalle, come se fossimo amici, la mano destra sulla mia spalla destra. Sembra condurmi. In fondo alla strada adesso ne appare un’altra, anche essa nera, perpendicolare al nostro canyon urbano. Formano una T di muri senza occhi. Il ragazzo sta svoltando verso la strada che si trova dalla sua parte, io mi sottraggo al suo consolante abbraccio e prendo la via nella direzione opposta. La riconosco, è qui che una volta si trovava la casa del vecchio saggio. Anche questi edifici sono ormai mutati in muri ciechi. L’angoscia ha murato ogni apertura. 

L’ambiente nero scompare, di fronte a me si estende un prato verde, luminoso sotto il sole. In lontananza vedo persone che sembrano allegre. Danzano? Mangiano? Semplicemente stanno insieme? Mi sveglio.

L’idea di orizzonte mi turbò nel momento preciso in cui un amico mi propose di pensarci sopra per scrivere un racconto. Invece di immaginare orizzonti nuovi, reali o comunque raggiungibili, provai angustia. La scacciai, ma tornò e prese a occuparmi, a irritarmi, a tormentarmi, fino a farmi scrivere un piccolo trattato su orizzonti chiari, scuri, auspicabili o terrificanti. Il trattato terminava con l’esclamazione: «Mutate mente!» 

Da anni, da decenni, da una vita non ho pronunciato quella parola. Ne sono sicura. Non mi è mancata, la consideravo improponibile. Salvo in una vecchia barzelletta che circolava una sessantina d’anni fa nella mia terra, e anche in quelle vicine. Era una barzelletta rivelatrice, anzi, era una rivoluzione in forma di barzelletta perché l’orizzonte lo cambiava.

Nel paese dove vivevo all’epoca, l’orizzonte svolgeva un ruolo molto importante e per giunta doppio: storico e magico.Quello storico derivava dal fatto che il nostro territorio era scrupolosamente delimitato e severamente sorvegliato. I confini, non li si oltrepassa, diceva il codice penale. Nella zona della frontiera poi si sparava direttamente. Di cambiare la vista, la vita o solo l’orizzonte, era meglio non parlare. Il ruolo storico e quello magico erano complementari, inscindibili, legati da una precisa logica. Solo un orizzonte fisso e immutabile poteva esibire le qualità che manifestava il nostro.

Solidamente sistemato tra il cielo e la terra, faceva concorrenza persino al paradiso. Lo poteva vedere chiunque, tranne qualche carcerato in isolamento. Era pieno di cose utili e buone, ma purtroppo inarrivabili per i cittadini provati da penurie di vario genere. Facevano venire l’acquolina in bocca, quei beni da paradiso, anzi, facevano montare la saliva in bocca come fosse crème Chantilly. Il nostro era uno dei paesi migliori del mondo proprio per la qualità dell’orizzonte. Lo asserivano uomini politici, ufficiali dell’esercito, professori e poeti laureati. Che mai ebbero un benché minimo sospetto che il paese nostro (come quelli vicini) potesse un giorno essere definito totalitario. La strana schiuma che ci si condensava in bocca non aveva il gusto di panna montata, sembrava piuttosto di plastica e abbiamo imparato a sputarla. Già che mandarla giù faceva venire la nausea. 

La fonte principale di informazioni eversive era costituita da “Radio Jerevan”. La quale probabilmente non esisteva, in compenso diffondeva barzellette che facevano scintille: «Ho letto sul giornale del Partito», confessava un ascoltatore modello, «che il benessere è all’orizzonte. Potreste spiegarmi gentilmente, l’orizzonte, che cos’è?» Gentilmente e correttamente, la Radio Jerevan rispondeva: «L’orizzonte, compagno, è la linea a forma circolare, lungo la quale il cielo sembra toccare la terra o il mare. Nella misura in cui cerchiamo di avvicinarla essa si allontana.»

Avevo diciassette anni a quei tempi, e affrontavo ardue questioni teoriche alla stregua dei piccoli rompicapo quotidiani, in modo pratico. Avevo anche due amici pronti a partire con me, Lubos e Zeno. Andremo a conoscere un altro orizzonte sui Monti Tatra, e più lontano ancora. Dalla montagna più alta della catena dei Carpazi avremmo potuto vedere non solo la Slovacchia, che faceva parte del nostro paese, ma anche la Polonia, la quale non solo costituiva un paese straniero, provvisto di un orizzonte diverso dal nostro, ma era anche il primo che nella nostra vita avremmo visitato.

Partimmo muniti di piccoli zaini. Per arrivare dal capolinea del tram fino a Poprad ci vollero due giorni sulle strade, a salire su un camion, a scendere e ad aspettarne un altro. Più una brevissima notte che passammo in un campo falciato di fresco, su covoni odorosi, sotto una volta celeste che reclamava preghiere. I Monti Tatra, visti per la prima volta dal Nord polacco, riempivano monumentali il cielo e la terra, ma per vedere un orizzonte davvero diverso dal nostro ci voleva ben altro. 

Il momento era propizio, nascevano barzellette, motti di spirito, risate, ironia e persino qualche libertà. Quella che ci aveva portati fino ai Tatra, l’aveva introdotta un accordo bilaterale firmato tra i due paesi confinanti e denominato “piccoli contatti frontalieri”. Concedeva ai cittadini cecoslovacchi di penetrare nel territorio polacco fino a una trentina di chilometri. 

«Non partiamo per scalare picchi montuosi e nemmeno per contrabbandare Wodka Wyborowa. Dei trenta chilometri di libertà di movimento non ci accontentiamo!» Su questo punto eravamo d’accordo prima ancora di trovarci sul capolinea del tram a Brno.  

L’ontologia dell’orizzonte presuppone l’esistenza di un centro. A occhio e croce, il centro dell’orizzonte polacco si trovava a metà strada tra Poznan e Varsavia.

L’autostop polacco si rivelò un mezzo di trasporto naturale, più animato e svelto di quello cecoslovacco. Sui cassoni dei furgoni salivano giovani e vecchi, a volte in compagnia di due, tre capre, o pecore, le quali venivano issate sopra con l’aiuto di autostoppisti compagni di strada. Noi tre, finalmente stranieri in una terra sconosciuta, decidemmo di recitare il più spesso possibile la parte di muti, per ridurre ragionevolmente il pericolo di dover tirare fuori i documenti. E di farci giustamente arrestare. La linea di confine, che avevamo attraversata sui Tatra ridendo e scherzando, sulla strada per Varsavia riprese a esercitare la sua autorità di frontiera di Stato. Più ci si allontanava, più seria si faceva. 

L’importanza della scoperta che Varsavia mi aveva riservato, non la poté sminuire la paura di venire arrestati da qualche pattuglia, e nemmeno la fame dovuta alla scarsità delle nostre riserve finanziarie. Nelle strade, nelle piazze e nei parchi, gli uomini e le donne camminavano come signori, a passo leggero, agili, veloci e come privi di peso. La testa alta, lo sguardo attento. Come se si aspettassero di incontrare una persona amata o come attraversando il palco di un giardino pubblico per unirsi all’orchestra e mettersi a suonare. I loro occhi incontravano i nostri. Si muovevano liberi! 

Eppure, anche loro, vivevano in un paese totalitario. E io, trovandomi dopo tanta fatica in un parco di Varsavia, capii che l’orizzonte può cambiare in qualsiasi luogo. E che ero cambiata anche io. 

Il vero perché di un viaggio, lo si capisce solo quando lo si compie. Il mio triangolo avventuroso e temerario non ha mai smesso di esistere, né di essere equilatero. Nemmeno quando abbiamo smesso di fare l’autostop e di vivere nella stessa città. E nemmeno quando abbiamo abbandonato, ognuno per conto suo, anche la verginità. Lubos visse per molti anni a Toronto, io a Roma e Zeno, pur abitando sempre a Brno, fece migliaia chilometri in bici girando prima l’intero nostro paese e poi tutta l’Europa. L’ho incontrato sotto la casa di mia madre il giorno del mio ritorno nella città natale mentre rientrava con la sua bici da un tour per l’Europa. Di noi tre, la prigione se l’era fatta solo lui, non in Polonia, bensì nel nostro paese, prima della caduta del Muro. Per qualche parola di troppo. 

Ogni racconto potrebbe continuare all’infinito. Però, dato che la nostra vita infinita non è, ogni racconto deve restituire un orizzonte e una fine. E presto l’avranno anche le nostre vite. Lubos era un mimo di grande talento, in Canada faceva spettacoli per bambini, guadagnandosi da vivere come assistente in un istituto di ricerca. Era il più preciso di tutti a preparare campioni da esaminare con microscopi elettronici. Come mimo era molto di più, ma l’arte non paga. Zeno ha studiato canto, ma più della sua bella voce di tenore l’appassionava la storia. Le dedicò tutta la sua vita di studioso e di docente. Da ricercatore faceva scoperte intriganti, rischiando a volte di farne racconti troppo lunghi. Io mi ero esercitata in diversi mestieri, rimanendo sempre e comunque fedele a uno solo. L’ultima volta che ci incontrammo tutti e tre insieme fu nel giardino del vecchio signore saggio. 

Sul tavolo di legno poggiava una riproduzione della famosa incisione Oltre il firmamento di Flammarion. Osservai l’uomo raffigurato mentre fa uscire la sua testa coperta da un cappuccio fuori dal firmamento, appena sopra l’orizzonte. Anche la sua mano destra fuoriesce, salutando chi si trova dall’altra parte, che noi però non vediamo. Appoggiato sulle ginocchia il suo corpo esprime un moto energico, come se avesse usato notevoli forze fisiche per infrangere con la testa la cupola contenente la terra, il sole, la luna e le stelle. 

«Non basta perforare la volta del nostro mondo con la sola testa», disse il saggio. Per gli iniziati, l’orizzonte vuol dire la soglia del mondo spirituale. La si raggiunge solo mutando la mente. «Metanoia» in greco, disse ancora, a voce bassa.

Il sogno sulle strade buie a forma di T, l’ho fatto molti anni dopo la sua morte. All’inizio del periodo di angoscia. 

Estratto dall’ultimo numero di The Florence Review Horizon / Orizzonte Copyright © 2022, Editoriale Le Lettere – Firenze

ARTICOLO n. 41 / 2022

UN FILM SULLA GUERRA CHE SENZA LA GUERRA NON AVREI CONOSCIUTO

L’ascesa di Larisa Shepitko

Voskhozhdenie (L’Ascesa) è un film sulla guerra che senza la guerra non avrei conosciuto. Ne ho scoperta l’esistenza per due ragioni tristemente attuali: il tema del film e la nazionalità della regista.

Fino al 24 febbraio l’Ucraina, oggi centro del mondo, ci riguardava marginalmente. Era un paese distante dai nostri pensieri, dalle nostre prospettive. Quanti di noi sono stati a Kiev, a Leopoli, o nella mitica Odessa? L’Ucraina non faceva parte delle mete ideali né rientrava nel nostro immaginario, era semmai l’Italia a rappresentare un ideale per uomini, e soprattutto donne, ucraini, alcuni dei quali entrati a far parte delle nostre famiglie (nel mio caso, Olga, di Leopoli, che da oltre vent’anni è presenza costante nella mia vita). L’Ucraina esisteva attraverso i loro ricordi, i loro racconti, le loro fotografie. 

E dunque confesso che quando i miei occhi hanno deciso di soffermarsi su una soltanto fra le centinaia di immagini che quotidianamente sorvolano, non è stato tanto per la bellezza indiscutibile della fotografia in bianco e nero, quanto per la didascalia che l’accompagnava: «Immagine dal film L’Ascesa, ambientato durante la seconda guerra mondiale, diretto dalla regista ucraina Larisa Shepitko nel 1977.»

Si trattava del primo piano di un uomo disteso nella neve, il volto semi nascosto dal bavero sollevato del cappotto, gli occhi sbarrati rivolti al cielo. Era vivo? Morto? Chi era quell’uomo? E soprattutto chi era la regista di cui non conoscevo nulla?

Tempo pochi secondi e Larisa Shepitko era entrata nel mio motore di ricerca.

A impressionare è innanzitutto la sua avvenenza. È una donna davvero bellissima Larisa, il viso dai tratti spigolosi e raffinati ricorda Anouk Aimée. Gli occhi scuri, profondi, dal taglio orientale. Leggo alcune note della sua biografia: nata nel 1938 ad Artemovsk, nella regione del Donetsk (oggi nota enclave filorussa, territorio di scontri dal 2014) in Ucraina orientale. Figlia di un ufficiale persiano (ecco da dove vengono quegli occhi…) che ha presto abbandonato la famiglia per seguire l’esercito, Larisa è cresciuta insieme alla madre e ai fratelli. La guerra, subita da bambina e causa di un’infanzia infelice, sarà il tema centrale della sua vita di donna e di artista. Lo affronta sin dal primo film, Krylya (Ali), nel quale mette in scena il conflitto interiore di una pilota pluridecorata per le sue imprese durante la Seconda guerra mondiale, che una volta cessato il conflitto non riesce ad adattarsi al tempo di pace. Le sfumature della vita reale le sono aliene, spiega la regista: «La guerra rende tutto brutale, definitivo ed elementare: un nemico è un nemico, un codardo è un codardo.» L’esperienza drammatica della guerra ha trasformato inesorabilmente gli individui che mai più torneranno a essere ciò che erano prima. Nella filmografia di Shepitko (breve, ahimè, formata solo da cinque film) i personaggi devono sempre superare una prova, sia fisica sia spirituale, e affinché ciò venga onestamente rappresentato, la regista accetta di sottoporre se stessa e la sua troupe a condizioni estreme. Durante le riprese del lungometraggio Znoy (Calore), realizzato per ottenere il diploma di regista dalla prestigiosa università statale pan-russa di cinematografia VGIK (la stessa che laureò Ejzenštejn, Dovzhenko, Tarkovskij, Michalkov, alla quale si era iscritta all’età di sedici anni nonostante le fosse stato suggerito, in quanto donna e bella, di orientarsi verso la recitazione), Shepitko mette in serio pericolo la propria salute fisica. Ambientato nelle steppe arroventate del Kirghizistan, il film inscena il conflitto tra due personalità (e dunque tra due opposte civiltà): un tiranno legato al passato e un idealista proiettato verso il futuro. Le temperature sul set raggiungono i 50°, i tecnici devono “raffreddare” la macchina da presa, la pellicola si squaglia letteralmente. La regista si ammala, sviene diverse volte fino a collassare, le viene diagnosticata un’epatite. Ma non ha nessuna intenzione di fermarsi: pur di portare a termine le riprese dirige il film distesa su una barella. «Se non lavoro, muoio»: per Larisa Shepitko il lavoro di cineasta è anzitutto una missione, e in quanto tale deve essere condotta con spirito di abnegazione e sacrificio. L’Ascesa ne è l’apoteosi.

È davvero un film straordinarioLo si intuisce sin dalla prima immagine: un’inquadratura in campo lungo su una distesa di neve abbagliante che trasmette un senso di vastità, di solennità. 

Il paesaggio pare deserto, qua e là spuntano sghembi pali della luce inclinati dal vento, sembrano croci piantate nel bianco (il colore predominante del film). Ed ecco che dai cumuli di neve emerge una figura solitaria, è ripresa da lontano, la macchina da presa non si avvicina, rimane distante per tutta la sequenza. Dal nulla bianco spuntano altre sagome come burattini in un teatrino. Si guardano intorno, poi cominciano ad avanzare nella nebbia. Ora la macchina da presa si avvicina e li inquadra: è un gruppo di uomini donne e bambini. Affondano i piedi nella neve trascinando slitte, valigie, suppellettili. Per tutta la durata dei titoli di testa seguiamo la loro sfibrante avanzata. «Tedeschi!» urla una voce. Capiamo così che si tratta di gente in fuga, partigiani che cercano di mettersi al riparo dal fuoco dei nazisti. La rappresentazione del loro patimento, della fatica, del freddo è quasi insostenibile. Shepitko ci mette subito in guardia: quel che stiamo per vedere è molto più di un film; non soltanto per noi spettatori, ma anche per la troupe che lo ha realizzato. Il freddo, la neve, la fatica: è tutto vero. Davanti e dietro la macchina da presa si soffre allo stesso modo, la temperatura scende a -40° gradi, e per buona parte del film le riprese si svolgono in esterno. Anche in questo caso Larisa sottopone il suo corpo a prove difficilissime, e di nuovo la sua salute ne risente. Lo spirito sacrificale che contraddistingue le opere di Shepitko, nel L’Ascesa, si acutizza. Larisa sembra aver introiettato come un dogma imprescindibile la lezione del suo mentore Aleksandr Dovzhenko, il grande cineasta ucraino, che alla scuola di cinematografia le aveva detto: «Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo». Un monito che ha il sapore della profezia. 

L’Ascesa è stato concepito durante un periodo molto doloroso: una lesione alla colonna vertebrale, a seguito di una caduta, costringe Larisa Shepitko a sette mesi di immobilità in un letto di ospedale. Durante la convalescenza, «un lungo viaggio dentro me stessa», la trentacinquenne cineasta legge molto, soprattutto Dostoevskij, poi si imbatte in un romanzo di Vasil Bykau, intitolato Sotnikov e decide che quello sarà il suo «testamento artistico». Il suo prossimo film deve «appartenerle totalmente», e non subire dunque l’influenza di nessuno, come era accaduto in passato. La censura politica è una costante minaccia per i cineasti sovietici, i due film precedenti hanno dovuto subire tagli e interventi.  

L’incidente le lascia addosso un senso di morte insieme alla terribile consapevolezza, malgrado la giovane età, di una fine imminente. Si dedica meticolosamente alla sceneggiatura e sebbene non abbia ancora recuperato le forze necessarie, non si risparmia durante l’impegnativa realizzazione del film. L’afflato religioso che ammanta L’Ascesa è tangibile. A cominciare dal titolo, che allude alla Passione di Cristo. La vicenda che unisce i due protagonisti Sotnikov e Rybak, il loro rapporto, le prove che sono chiamati a superare, i dialoghi, richiamano la parabola cristiana.

Sotnikov, uomo schivo, di poche parole, è un insegnante di matematica. Tossisce spesso, respira male. L’altro, Rybac, è un chiacchierone, energico e ottimista. I due sono stati mandati a cercare del cibo: i loro compagni, braccati dai nazisti, sono rimasti bloccati nella neve. Comincia così la loro peregrinazione in un paesaggio ostile e desolato, attraverso villaggi depredati e fattorie distrutte. Intercettati dai tedeschi riescono a mettersi in fuga, ma Sotnikov viene colpito a una gamba e resta indietro. La solitudine dell’uomo, ferito e accasciato nella neve, le grida minacciose dei tedeschi in lontananza, la decisone di uccidersi pur di non cedere al nemico, il primo piano di Sotnikov, che mentre sta per premere il grilletto verso se stesso osserva il cielo, il globo solare offuscato dalla foschia, ed esita quel tanto che basta al compagno per tornare a soccorrerlo, sono descritti attraverso un utilizzo  magistrale delle  inquadrature, dei primi piani e della musica (la colonna sonora è di Alfred Schnittke). Da questo momento in poi, il film cambia registro e vira verso una messa in scena dell’esperienza cristologica. La sofferenza di Sotnikov, incarnata da un attore formidabile, Boris Plotnikov (qui al suo debutto), diventa metafora del martirio. 

Quando i due uomini saranno catturati dai tedeschi le loro personalità si rivelano: se Sotnikov dimostra lealtà, integrità morale e altissimo spirito di sacrificio, Rybak svela la propria debolezza, il desiderio di sopravvivere a ogni costo. Il primo resiste alle torture e rifiuta di collaborare, l’altro cede al nemico in cambio della salvezza. «Ci sono cose più importanti della propria pelle» dice Sotnikov dopo essere stato marchiato a fuoco sulla carne viva. Non vorrei raccontare il finale che per quanto prevedibile nel suo esito si rivela imprevedibile nella mise en scène. Shepitko, reduce dall’aver visto «la morte molto da vicino» restituisce questa prossimità, ne evoca la forza spirituale, il potere purificatorio. Le sequenze finali del film sono straordinarie, chi di voi lo vedrà (me lo auguro) difficilmente dimenticherà la forza di certe immagini (una su tutte: lo scambio di sguardi fra un bambino e Sotnikov, più eloquente di qualsivoglia dialogo). Difficilmente dimenticherà i primi piani, le inquadrature asimmetriche, il sonoro, i paesaggi, la fotografia in bianco e nero, i simbolismi di questo capolavoro del cinema sovietico. 

«Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo»

Due anni dopo l’uscita de L’Ascesa (che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 1977), Larisa è pronta per un nuovo film. Si è aggiudicata i diritti del romanzo Addio a Matyora di Valentin Rasputin, che inizialmente si era opposto a una riduzione cinematografica del libro. «Dopo averla conosciuta, non ho potuto dirle di no» dichiarerà lo scrittore, «era così appassionata, così convincente, così sorprendentemente seria…». La toccante storia di una piccola comunità costretta ad abbandonare il proprio villaggio per consentire la costruzione di una diga idroelettrica accende l’entusiasmo di Larisa, sarà quello il film della consacrazione. È tutto pronto, mancano solo gli ultimi sopralluoghi per le location. Insieme ai suoi più stretti collaboratori, parte in automobile per San Pietroburgo. Non arriveranno mai. Un incidente metterà fine al loro viaggio e alla loro esistenza. All’apice della sua carriera e della sua vita, Larisa Shepitko se ne va, a soli quarant’anni.

Le riprese del film saranno portate a termine dal marito di Larisa, Elem Klimov, regista, sul quale sarebbe giusto inaugurare un altro capitolo, cominciando magari dal suo nome, acronimo di Engels, Lenin e Marx. Non mi dilungherò su di lui salvo citare due suoi film: Va’ e vedi, del 1985, forse l’opera più allucinata, devastante e potente mai realizzata sulla guerra e le sue conseguenze, e Larisa, una struggente dichiarazione d’amore alla moglie scomparsa.

PS: vi invito a cercare (e vedere) i film di Larisa Shepitko. Su YouTube esiste una versione de L’Ascesa con una qualità sorprendentemente buona…

ARTICOLO n. 40 / 2022

MEDITAZIONE

Breve guida per occidentali

La meditazione è arrivata in Occidente. Nei quartieri delle principali metropoli i centri yoga sono frequenti come supermercati, la mindfulness si è infiltrata negli studi medici, nelle start-up, nei corsi di aggiornamento aziendali, gli ospedali, le pratiche psicologiche, i corsi online – e ancora, le app, centinaia di app, con corsi, timer, campane tibetane. I social rigurgitano foto di donne e uomini snelli, in forma, felici, in più o meno corrette posizioni del loto – e le dirette Instagram, i profili di mindful-tizio-e-caio, le tisane dedicate a specifiche pratiche, gli articoli «sono stato dieci giorni in un ritiro Vipassana ed ecco cosa mi è successo», i libri, manuali, albi illustrati, saggi, articoli accademici, ricerche scientifiche, corsi di laurea, poster, tappetini, tazze, magneti. Non posso dire di esserne stufo, perché ho contribuito anch’io all’invasione, con seminari e articoli come questo – mi limito dunque a prenderne atto, in accordo con il tema in oggetto. Osservo il fenomeno e come consigliano alcune tecniche proprie alla meditazione buddista («Tu che tipo di meditazione pratichi?» Tutto a suo tempo) cerco di non giudicarlo. Osservo, ma il pensiero della meditazione in occidente è ormai scomparso; sono in un bar, all’aperto, sento le mie gambe inclinate sul lato destro, la schiena appesantita da una stortura innaturale (mi raddrizzo), ora sento la fronte, è ovattata dalla prima afa primaverile, le dita, picchetto sulla tastiera del portatile, l’odore di ossido di carbonio, è passata un’automobile. Scrivo, e mentre lo faccio non posso nascondermi dietro l’equanimità, perché chiunque usa il linguaggio accetta implicitamente di dividere il mondo con le parole. Posso dunque esprimere un’opinione sull’arrivo (anzi il ritorno) della meditazione: è un bene o un male? Come spesso capita, entrambe le cose.

È stato più volte fatto notare che la società neoliberale ha un modo tutto suo di assimilare gli elementi che meno si adattano al suo impianto ideologico; qualunque cosa passi attraverso il suo filtro risulta inevitabilmente contaminata. A volte il messaggio riesce a sopravvivere senza eccessive distorsioni, mentre in alcuni casi viene snaturato fino agli estremi più grotteschi, come nel caso della «cabina della meditazione» per i magazzini degli sfruttatissimi dipendenti Amazon: un congegno così simile – anche moralmente – alle cabine per il suicidio di Futurama da essere stato subito ritirato e insabbiato. Ciononostante il ritorno della meditazione in Occidente continua a sembrarmi una buona notizia, perché considero queste pratiche così preziose per la liberazione individuale e collettiva da continuare a credere (o sperare) che i vantaggi sopravanzino i difetti.

Uno dei contraccolpi della rapida commercializzazione di queste prassi è l’appiattimento delle loro differenze e dei contesti culturali di appartenenza, che ha sancito un’apparente vittoria della filosofia perenne di Huxley – e non solo sua, dato che solo nel ventesimo secolo era promossa da autori quali René Guénon, Ananda Coomaraswamy ed Elémire Zolla. La tesi in sostanza è che esista il medesimo nucleo di verità in tutta la storia della filosofia e delle religioni, associabile all’incirca al misticismo, ovvero l’idea che la massima tendenza spirituale dell’uomo sia l’unione con l’assoluto, mediante il superamento dei limiti dell’esperienza sensibile e l’annullamento della personalità individuale. In effetti le somiglianze di alcune idee di mistici e mistiche delle epoche e tradizioni più disparate – compreso il comune sentire che queste «idee» siano inesprimibili attraverso il linguaggio – suggeriscono che la filosofia perenne abbia colto nel segno, come sembrano avvalorare anche le vistose analogie delle tecniche meditative di tutto il mondo. Col tempo però l’interesse verso questa materia ha portato a studi più approfonditi, il cui esito è che le somiglianze non giustificano l’assimilazione, date le notevoli divergenze anche solo all’interno della sola «esperienza mistica».

Così come formiche che giudichiamo identiche risultano diverse allo sguardo di un entomologo, più si osservano le differenti tecniche e tradizioni meditative più si scoprirà una varietà a prima vista poco evidente. Questo ci riporta alla domanda che si rivolge spesso a chi medita: che tipo di meditazione pratichi? Rispondere non è facile, perché a fare la differenza non è tanto la tecnica, quanto il contesto culturale e filosofico in cui questa si inserisce. In Occidente ad esempio è molto diffusa la mindfulness, una pratica ideata dal biologo e scrittore Jon Kabat-Zinn attorno agli anni novanta e da allora adottata in vari contesti terapeutici; questo metodo ha molti punti in comune col buddismo da cui si ispira, ma se ne allontana nel contenuto filosofico, che viene per così dire diluito e adattato per trasformare la meditazione in un dispositivo medico. Un percorso simile è accaduto alla meditazione trascendentale, fondata e divulgata da Maharishi Mahesh Yogi; anche questa prassi ha perso gran parte del messaggio del contesto culturale da cui trae le origini, quello del filosofo indiano Śaṃkara (788? – 820?), fondatore della celebre scuola dell’Advaita Vedānta. Queste semplificazioni sono state utili a rendere più digeribili agli occidentali delle prassi erroneamente considerate aliene dalla nostra cultura, ma il contrappasso è stato spesso l’impoverimento dell’impianto filosofico in cui chi medita andrà a inscrivere le proprie esperienze – con questo non intendo dire che esista una giusta filosofia della meditazione, ma che quest’ultima non possa prescindere da un contesto culturale. Persino in esperienze in apparenza esclusivamente farmacologiche come l’uso di sostanze psichedeliche si sottolinea l’importanza del setting e al netto della natura non duale di alcune profonde esperienze meditative e psichedeliche, al momento del ritorno al mondo ordinario queste vengono sempre affrontate con gli strumenti culturali di chi le ha vissute. L’idea che la meditazione possa distaccarsi dalla sua tradizione di riferimento è stata più volte oggetto di critica e Carl Gustav Jung ammoniva già nel 1932: «Dico a quanti più posso: “Studiate lo yoga; vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?». Il secolo trascorso sembra avergli dato torto, ma ancora oggi molte persone considerano rischioso scollegare queste prassi dalla loro tradizione di riferimento. Scrive Raffaella Arrobbio in La meditazione tra essere e benessere: «Alcuni sperano di risolvere difficoltà emotive e psicologiche percorrendo la strada della meditazione laica di derivazione buddhista, ma questo è impossibile: alla pratica della meditazione (che sia tradizionale o moderna) si può accedere proficuamente soltanto a partire da una base di maturazione psicologica sufficiente a impedire il sorgere di ostacoli, talora anche gravi, che bloccherebbero o devierebbero il percorso conducendo la mente del praticante a sperimentare condizioni di insopportabili sofferenze». L’importanza del contesto culturale ed epistemologico nel caratterizzare la natura di un’esperienza meditativa col tempo ha visto studi approfonditi, come ad esempio Philosophy of Mysticism di Richard H. Jones, ma possiamo permetterci una concessione alla filosofia perenne per quel che riguarda le tecniche meditative. Se è infatti azzardato assimilare una mistica cristiana del Cinquecento a un bodhisattva tibetano, è possibile tracciare alcune somiglianze di famiglia tra le principali tecniche meditative utilizzate in Oriente e in Occidente. A tale proposito ha svolto un lavoro prezioso Claudio Lamparelli nel suo Tecniche della meditazione Orientale, così come nel complementare ma purtroppo fuori commercio Tecniche della meditazione Occidentale. Anche il filosofo della scienza Michel Bitbol, in Cambiare stato di coscienza, traduzione italiana di parte del ponderoso La conscience a-t-elle une origine?, ha proposto un’interessante tassonomia delle tecniche meditative, ed è anche attraverso il loro lavoro che ne propongo una mia versione – eternamente provvisoria, dati i limiti della mia ignoranza e l’impossibilità di avere una visione d’insieme di tutte le principali tradizioni filosofiche e religiose del mondo.

Dividiamo dunque le principali tecniche meditative in tre gruppi, da non intendersi come mutualmente escludenti ma che si alternano nella medesima tradizione come anche all’interno di una singola sessione, in base allo stato psicofisico di chi medita. Questi tre insiemi sono le tecniche basate sulla concentrazione e la ripetizione, quelle basate sulla contemplazione e l’osservazione equanime e quelle basate sulla riflessione.

Per concentrazione e ripetizione intendo tutte quelle tecniche il cui asse è essenzialmente la concentrazione su un atto ripetitivo – il più celebre è il respiro, in quanto naturale e incessante, che sia l’aria che entra ed esce dalle narici, il lieve movimento dello stomaco, la pausa vuota tra inspirazione ed espirazione. La concentrazione sulla respirazione è quasi una costante in tutta la meditazione di matrice induista e buddista, ma si ritrova anche nella preghiera del cuore ortodossa, in cui il respiro viene sincronizzato alla recitazione mentale di una preghiera, fino a renderla virtualmente incessante. Ho parlato di preghiera, ma può ben trattarsi dei più o meno complessi mantra tipici del buddismo tibetano, che possono essere vocali o (più spesso) mentali, legati alle fasi della respirazione (come ham-inspiro sa-espiro) o autonomi, come nel caso del «nam myōhō renge kyō» della scuola buddista giapponese Soka Gakkai. Altri oggetti di concentrazione possono essere le sensazioni corporee legate alla posizione che si assume per meditare, o parti specifiche del corpo, come un punto in mezzo alle sopracciglia. Si può anche usare uno o più chakra, i sette (ma arrivano fino a undici) snodi mistici situati in vari punti del corpo, come il plesso sacrale, l’ombelico, il diaframma, il cuore, la gola, tra le sopracciglia e sopra la testa. I chakra vengono spesso percorsi in moto ascendente e discendente e sono uno strumento utile anche per sistemare la propria posizione e calibrare il respiro. Inoltre hanno un forte impatto simbolico e aiutano a tenere presente le varie tappe del processo meditativo. Questi glifi possono essere visualizzati come semplici punti luminosi o come diagrammi più o meno complessi, il che ci porta a un altro tipico oggetto della concentrazione, le visualizzazioni, che possono rappresentare un po’ qualunque cosa, come mandala, chakra o divinità, e che in base alla tradizione di riferimento possono essere anche estremamente complesse, come i mandala propri dell’induismo e del buddismo – densi cosmogrammi la cui decompressione presenta a chi medita una variegata mole di elementi dottrinali e filosofici.

Come scrive Michel Bitbol, «la pratica meditativa di base, quella per stabilizzare l’attenzione, ha come principio cardine la concentrazione su un singolo oggetto costante. Può trattarsi di qualcosa di visibile, di un oggetto immaginario o di un ricordo i cui dettagli si delineano gradualmente, di una frase ripetuta a oltranza, ma più spesso un tema corporeo propriocettivo, come le auto-sensazioni che si accompagnano agli equilibri muscolo-scheletrici della posizione seduta o il flusso alterno del respiro. Quest’ultimo metodo risale (come minimo) al Buddha storico, Siddhārtha Gautama, il quale lo descrive ai suoi più stretti discepoli in modo semplice: «Richiamando tutta la propria vigilanza, egli inspira sapendo che inspira, ed espira sapendo che espira». Tale metodo è stato anticipato o integrato dai sofisticati metodi di controllo del respiro utilizzati dallo Yoga (detti Prānāyāma in sanscrito), ed è stato scoperto, o riscoperto, da molte altre tradizioni spirituali, in particolare cristiane. Così, la preghiera del cuore ortodossa si fonda sul ritmo del respiro, accuratamente sincronizzato alla recitazione cadenzata di una formula sacra. La recitazione è, in questo caso, uno strumento complementare di raccoglimento, simile ai metodi di ripetizione dei mantra cui ricorrono l’induismo e il buddismo per costringere la mente discorsiva alla concentrazione estrema, fino a deviare la sua naturale tendenza, incline alla significazione». Un altro oggetto di concentrazione, comune alla tradizione musulmana Sufi e al metodo di Gurdjieff, che l’ha mutuata proprio dai Sufi, è la danza o alcuni movimenti ripetitivi del corpo – penso qui anche alla tradizione del kundalini yoga.

Il gruppo che ho definito contemplazione e osservazione equanime è molto comune nel buddismo e consiste essenzialmente nel prestare una continua attenzione al flusso di coscienza di sensazioni e pensieri che contraddistingue lo stato di veglia: emozioni, propriocezioni, percezioni, pensieri più o meno verbali. Questi vengono osservati nel loro veloce emergere alla coscienza per poi inabissarsi ed essere sostituiti da altri, senza che chi medita forzi in alcun modo il processo, limitandosi a osservare, e, in una fase successiva, cercando di astenersi da ogni giudizio di valore su di essi. In questa pratica si percepisce il martellante frazionamento della coscienza fino a infiltrarsi negli spazi sempre meno brevi tra un elemento cosciente e l’altro. È una tecnica anche nota come Vipassana e viene introdotta o intrecciata ai metodi citati in precedenza. Come si legge in The Cambridge handbook of counsciousness a cura di Philip David Zelazo, Morris Moscovitch e Evan Thompson, «per quel che riguarda la sonnolenza, i metodi per contrastarla sono spesso legati a quelli che contrastano la sovreccitazione. Per esempio, così come si può contrastare l’eccitazione meditando in una stanza poco illuminata, si può contrastare l’apatia meditando in un ambiente luminoso. Allo stesso modo aggiungere tensione al corpo o intensità a un oggetto visualizzato può contrastare la sonnolenza. Per i meditatori avanzati, molti degli “antidoti” menzionati qui sono troppo grossolani, e porterebbero ad una correzione eccessiva nella meditazione. Per questi praticanti, il livello di sonnolenza o di sovreccitazione che incontrano viene corretto da aggiustamenti altrettanto lievi alla chiarezza (per la sonnolenza) o alla stabilità (per l’eccitazione)». I due principali nemici della meditazione sono infatti stanchezza e ansia: lavorare sulla concentrazione aiuta a combattere il sonno, mentre la contemplazione aiuta a contrastare l’iperattività mentale, di conseguenza capita alternarli in base al proprio stato psicofisico. Come scrive Bitbol, questa pratica serve a sviluppare una «capacità di dimorare in modo così preciso nell’esperienza presente da riuscire a discernere la sua fine granularità prima che inneschi l’impulso di desiderio-repulsione tipico della percezione, e prima che venga elaborata dalle generalizzazioni e dalle antinomie dell’intelletto». Ultimo passaggio, più complesso, la pura consapevolezza della propria consapevolezza: un ulteriore salto di meta- rispetto alla meta-percezione descritta in precedenza.

Infine, la riflessione è una macrocategoria che include in sé elementi molto vari, poiché in base alla tradizione di riferimento si richiede di meditare (qui la parola assume il suo senso occidentale) su idee molto diverse. Chi pratica una meditazione buddista si dedicherà a concetti diversi da chi, poniamo, pratica una meditazione cristiana o chi riflette su un koan zen; cionostante si può trovare alcuni elementi ricorrenti, come la meditazione sulla morte, che nella tradizione tibetana si spinge letteralmente all’immaginarsi come un cadavere, mentre in quella cristiana si limita a interrogarsi sulla vanità dell’esistenza mondana. Un tratto comune è che, come il respiro nella meditazione da concentrazione, anche queste riflessioni sono solo un supporto, da abbandonare una volta raggiunto il loro intento di destabilizzare le abitudini mentali e rallentare fino a svuotare il proprio flusso di coscienza.

A questi tre filoni andrebbe aggiunto un paragrafo – se non un articolo – relativo alla posizioni da adottare durante la meditazione. A dire il vero si può meditare in qualunque postura e momento, seduti sulla poltrona del dentista come nella posizione del loto in un tempio induista, ma per le sessioni quotidiane si preferisce adottare una posizione specifica. Sempre nel The Cambridge handbook of counsciousness si legge che «I vari stili di meditazione tibetana prevedono posture diverse, ma nel contesto dello sviluppo dell’attenzione Focalizzata [la nostra concentrazione], la regola generale è che la spina dorsale deve essere mantenuta dritta e che il resto del corpo non deve essere né troppo teso né troppo rilassato». In effetti l’ingrediente per la giusta posizione è semplice: non deve essere né scomoda, o il dolore distrae chi medita (e crea danni fisici), né troppo comoda, o ci si addormenta. È per questo che è sconsigliata la meditazione da sdraiati, per lo meno per chi non ha molta esperienza, e in genere si preferisce una posizione comoda che mantenga la schiena dritta, come il loto, il mezzo loto, la posizione birmana, lo sgabello giapponese o anche una banale sedia senza schienale.

Mi accorgo in ritardo di aver dato per scontato qualcosa che non lo è affatto, ovvero cosa dovrebbe spingerci a meditare; dopotutto anche per chi ha un approccio laico si tratta di un impegno non indifferente. Un orecchio materialista vorrà una lista di vantaggi concreti, che in effetti non mancano, dal miglioramento della reazione immunitaria ai benefici alla circolazione sanguigna, fino alla migliore gestione delle emozioni, dell’ansia, degli stress e delle delusioni quotidiane, una maggiore plasticità cerebrale e capacità nel gestire il dolore e gli imprevisti. A leggere alcuni trattati tradizionali come lo Yoga Sutra, questo è ben poca roba rispetto ai superpoteri che garantisce la giusta prassi – come volare, leggere nella mente, diventare invisibile eccetera, ma anche queste capacità (siddhi) sono solo effetti collaterali dell’unica cosa che conta, la liberazione. Anzi, anche quest’ultima deve smettere di essere una meta, se vogliamo raggiungerla – il che offre una curiosa risposta alla domanda perché meditare: per nessun motivo. La meditazione è un percorso complesso, faticoso, pieno di incomparabili doni ma anche di prove e inciampi talvolta molto dolorosi. Sperare che un mezzo verso la liberazione da qualunque cosa sia privo di effetti collaterali sarebbe ingenuo e in questo è bene ascoltare Buddha, o anche Gesù: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».


Classificazione delle principali tecniche meditative:

1. Concentrazione / ripetizione
(Rintracciabili soprattutto nell’Induismo, Vedanta, Tantra, Buddismo, Zen, Cristianesimo, Islam, Ebraismo)

Mantra
Preghiera
Respiro / sensazione corporea
Visualizzazioni (più o meno devozionali)
Gesti/danze
Chakra

2. Contemplazione aperta / Osservazione senza giudizio
(Rintracciabili soprattutto nel Buddismo, Zen, Taoismo)

Sensazioni fisiche
Emozioni
Pensieri
Atti (camminare, mangiare, lavoro artigianale e artistico, ecc.)
Focalizzazione sull’io percipiente

3. Riflessione
(Proprio a tutte le tradizioni)

Contenuti devozionali (meditazioni o preghiere verso divinità o santi, ecc.)
Meditazione sulla morte
Compassione
Meditazione su contenuti filosofici/dottrinali

(Queste fasi si possono alternare anche all’interno della medesima sessione, non hanno una cadenza progressiva.)

ARTICOLO n. 39 / 2022

CONOSCERE DI VISTA

Quando vado nel luogo in cui sono nato e cresciuto, il quartiere in cui sono stato bambino e ragazzo, incontro persone che non vedevo da dieci, vent’anni, in alcuni casi da trenta, quarant’anni. Queste persone mi erano così familiari eppure non riesco ad associarle ai volti che pensavo di ricordare. Ma sono davvero loro? Quello è davvero il macellaio dell’infanzia? Quello è davvero il panettiere dell’infanzia? Quella è davvero l’insegnante di matematica delle scuole medie? Oppure è qualcuno di somigliante? È cambiata la persona o è cambiato il mio sguardo? Se cerco un altro indizio, nella postura o nell’andatura, è inutile, poiché gli anni e l’invecchiamento hanno mutato la postura e l’andatura di queste persone, gli anni e l’invecchiamento hanno cambiato il mio sguardo in generale, e nello specifico, il mio sguardo in rapporto alle aspettative nei confronti della postura e dell’andatura di queste persone. 

Quando vado al cimitero, mi fermo davanti alle tombe, ogni giorno che passa mi fermo sempre di più davanti alle fotografie dei defunti, persone che avevo incontrato o conosciuto, come si diceva un tempo, di vista;guardo le fotografie sulle tombe e penso, è davvero lui, è davvero lei? È davvero la persona che – sigaretta in bocca, incolonnata in una domenica pomeriggio di primavera, la mano destra sul volante – aveva sventolato, con la mano sinistra, la bandiera dell’Inter fuori dal finestrino di una Fiat Uno 45 S grigia metallizzata, durante i festeggiamenti per lo scudetto 1988-1989, quando, quella persona, aveva ventidue anni? In teoria, il nome e il cognome dovrebbero saldare l’immagine funebre all’essere vivente che ha attraversato il mondo per alcuni decenni, saldare il mio ricordo in un unico processo con quell’immagine semovente, saldare la persona all’istante nel quale è accaduto un piccolo, irripetibile fatto; e invece, anche davanti al nome e cognome, davanti alla fissità dell’immagine funebre, si crea uno slittamento inaspettato: mi sembra di dubitare di quasi tutto ciò che è stato, guardo e non sono così sicuro di ricordare davvero quella persona alla guida di una Fiat Uno 45 S, forse era una Fiat Uno 55 S, e non era grigia metallizzata ma canna di fucile, però almeno sul fatto che fosse interista sono sicuro; non ero in auto, ma fermo su un marciapiede, e avevo visto il braccio di questa persona spuntare dal finestrino abbassato, avevo visto la bandiera in parte accartocciata agitarsi a seguito del movimento della mano sinistra, e poiché l’auto era ferma, intrappolata nella gioia del festeggiamento, la persona alla guida, ora defunta, aveva lasciato il volante e approfittato della mano destra per fare un tiro di sigaretta; infine, aveva stretto il mozzicone tra i denti, per suonare il clacson in segno di gioia, senza smettere di agitare la bandiera.

Forse non sono un vero tifoso, o sono un tifoso anomalo, poiché ciò che ricordo meglio di quel campionato è questa immagine e non un traversone di Andreas Brehme.

Da alcuni anni, una direttiva europea ha introdotto, per le aziende del tabacco, l’obbligo di stampare, su ogni pacchetto di sigarette, una fotografia che, unita a un breve slogan, dovrebbe scoraggiare i fumatori dal continuare a fumare o i potenziali fumatori dall’iniziare. Le immagini sono state scelte secondo parametri stabiliti dall’Unione Europea e occupano il 65% della superficie di ogni pacchetto. 

Chissà perché proprio il 65% e non il 60% o il 70%.

La commissione che si occupa di selezionare le immagini ha scelto vari filoni narrativi.

Il filone con bambino prevede alcune fotografie con il bambino e alcune senza bambino qualora il bambino non sia mai nato o sia appena morto, insomma, qualora il mancato bambino sia comunque protagonista. 

La fotografia di un bambino. Il bambino avrà circa quattro anni e una notevole somiglianza con Vladimir Putin. Indossa una polo azzurra e stringe tra le mani una sigaretta rivolta verso l’alto.

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di una giovane donna, seduta su un divano bianco. La donna sta accendendo una sigaretta. Ha un accendino in mano, lo sguardo abbassato, concentrato sull’accensione. Al suo fianco, un bambino di un paio d’anni fissa la sigaretta, allunga il braccio, mette la mano appena al di sotto della sigaretta spenta. 

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di un bambino. Sembra lo stesso bambino. È in braccio a una giovane donna. Sembra la stessa donna. La donna è in piedi e fissa il pavimento. Il bambino scruta un punto imprecisato, opposto. E tuttavia, né la madre né il bambino guardano il cadavere di un uomo in una cassa da morto.

Smetti di fumare. Vivi per i tuoi cari.

La fotografia di due giovani donne e di una bambina. Sono sedute, entrambe. Una abbraccia la figlia, una bambina di un paio d’anni. L’altra donna, la non mamma, con una sigaretta stretta tra le dita, assiste alla scena, ha un’espressione a metà tra invidia e tristezza.

Il fumo riduce la fertilità.

La fotografia di un giovane uomo. L’uomo ha in braccio un bambino. Il bambino avrà poco più di un anno. L’uomo, che si dà per scontato sia il padre – ma potrebbe essere anche uno zio o il nuovo compagno della madre del bambino – stringe tra le dita una sigaretta e, al tempo stesso, tiene in braccio il bambino. L’uomo espira il fumo in faccia al bambino. Il bambino strizza gli occhi, fa una smorfia schifata e sofferente, appoggia la mano sinistra sulla gola dell’uomo, ma la pressione della mano infantile, per quanto minima, pare addirittura stimolare, più che bloccare, l’emissione del fumo. A differenza di altre fotografie ambientate in casa o in un obitorio, lo sfondo è nero, l’ambientazione è da agenzia fotografica. Ma l’aspetto più significativo è la scomodità alla quale l’uomo si sottopone pur di tirare. Infatti, poiché sorregge il bambino, deve avvicinare la bocca alla sigaretta, e la sigaretta, al bambino. Il bambino rischia di essere bruciacchiato a ogni tiro, e se l’abitino acrilico, infiammabile, prendesse fuoco, il bambino rischierebbe di morire bruciato.

Il tuo fumo può nuocere ai tuoi figli, alla tua famiglia e ai tuoi amici.

È l’unica didascalia nella quale il fumo non è un fumo generico, ma è il tuo.

La fotografia di una giovane coppia accanto a una piccola bara bianca. L’uomo stringe la donna. Sono in piedi. Lui le appoggia una mano in testa. Lei gli appoggia la testa tra il braccio e il petto, come a farsi consolare. È la tipica postura ereditata dal cinema, dalla rappresentazione dei media, dall’immaginario scolpito nei secoli. È il cliché della donna da consolare e dell’uomo che è lì per quel motivo. 

Anche l’uomo è triste, eppure, per la commissione dell’Unione Europea che ha scelto l’immagine, l’opposto è impensabile, è impensabile l’uomo che, alle soglie delle lacrime, si lascia consolare dalla donna.

Il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno. 

I bambini hanno i capelli chiari, biondi o castani, come impone la logica pubblicitaria basata sulla supremazia bianca, di derivazione o aspirazione anglosassone, anche qualora il bianco si comporti in modo negativo.

La fotografia più grottesca del filone con bambino è l’immagine di una mano che spegne un mozzicone di sigaretta in un posacenere bianco; la cenere si è raggruppata e ha formato un disegno, un feto composto da cenere. 

Il fumo riduce la fertilità. 

Poi c’è il filone dell’uomo solo.

La fotografia di un uomo di cui si vede soltanto il busto, di profilo. L’uomo ha lo sguardo rivolto verso il basso. Sembra la tipica espressione di chi, ossessionato dalla propria forma fisica, fissa, con sgomento, i chili sulla bilancia dopo un eccesso alimentare. 

E invece la didascalia ci invita a pensare che l’uomo stia guardando il proprio cazzo. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Ecco allora che il filone dell’uomo solo ha un sottogenere: L’uomo e il proprio cazzo.

La fotografia di un uomo nudo, ritratto dall’alto, in un letto matrimoniale. L’uomo è accovacciato in posizione fetale; le lenzuola, in parte stropicciate, danno l’idea di un utilizzo, o meglio, di un parziale utilizzo cui è seguito un abbandono; forse, fino a pochi minuti prima c’era una donna, ma adesso l’uomo abbandonato è davvero l’essere umano più solo al mondo, e siccome non è mai stato così solo e affranto, appoggia una mano sulla propria testa.

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Nella terza fotografia del sottogenere L’uomo e il proprio cazzo, è come se l’uomo del pacchetto di sigarette diventasse L’uomo vitruviano di Leonardo ma senza alcuna necessità del cerchio e delle due figure: basta uno zoom sul ventre e, al posto del cazzo, un buco bianco. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Analizziamo ora il filone dei moribondi e il filone dei morti, così torniamo alla prima parte di questo testo. Da alcuni anni, infatti, una fotografia presente su un pacchetto di sigarette è diventata un’ossessione europea. Il fumo causa ictus e disabilità.

Vi è ritratto un uomo di circa 70 anni, sdraiato in un letto d’ospedale. Il degente, intubato, ha gli occhi chiusi. L’uomo è stato riconosciuto da un 48enne di Orbassano che sostiene di essere il figlio dell’uomo ritratto e ricoverato in ospedale, deceduto diciotto mesi dopo l’ictus; l’uomo della fotografia è stato riconosciuto da un altro uomo come se stesso, un uomo di Ischia che era stato ricoverato in Colombia a seguito di un’insufficienza respiratoria; l’uomo del pacchetto di sigarette è stato riconosciuto come il parente di un belga, di un tedesco, di uno spagnolo, e come il padre di una cittadina britannica. 

Possibile che un uomo non riconosca il proprio padre?

Possibile che una donna non riconosca il proprio padre?

Possibile che un uomo non riconosca se stesso?

Sì, è possibile. Dobbiamo chiederci fino a che punto la malattia, il dolore e il tempo devastino il corpo di chi ci è vicino, o meglio, devastino il modo in cui guardiamo, a tal punto da renderlo irriconoscibile a noi stessi, a tal punto da renderci irriconoscibili anche ai nostri occhi.  

Non è interessante sapere chi fosse davvero quell’uomo. 

Secondo The Guardian, un uomo, per recitare la propria morte da imprimere su milioni di pacchetti di sigarette, ha guadagnato 300 euro. Sarebbe utile chiedere all’anonima comparsa-protagonista: ti riconosci? 

Quanto abbiamo bisogno del falso per essere veri?

E infine, mi scuso per l’autocitazione.

A un certo punto de La gemella Huna delle due gemelle protagoniste, dice: «Avrò la tua stessa faccia anche da cadavere?»

Se lo chiede Helga, all’obitorio, davanti al corpo della gemella Hilde. È come se Helga vedesse, per la prima volta, il volto di Hilde; ma al tempo stesso, è come se Helga si allontanasse dal volto abituale per ricomporsi, unita alla gemella, nell’imminente eternità. 

La morte è liberazione, la morte è prigionia.

E l’immagine, che sta a metà tra vita e morte, presenta questa contraddizione.

Non a caso, davanti allo specchio, è come se scattassimo fotografie immaginarie, una breve sequenza di istantanee che contengono l’immediatezza di qualcosa di perduto. 

In quei frangenti, l’atto di presenza è guardarsi dubbiosi, come qualcuno che conosciamo di vista, qualcuno che abbiamo conosciuto di vista.

ARTICOLO n. 38 / 2022

PALERMO CAPACI, NOI CHE FUMMO VINTI

La Palermo dei giovani, di Falcone e di Borsellino

«Nel racconto del Bene c’è spesso più imbarazzo che nella narrazione del Male», scrive Wlodek Goldkorn evocando la reticenza e la vergogna di chi, durante la Shoah, aveva fatto del bene in un mondo dove il male la faceva da padrone. Forse per questo quanti di noi in quegli anni Ottanta e Novanta si trovarono a scegliere, senza mezzi termini ma in un terreno minato di veleni e trappole, da che parte stare, dopo una fiammata di insurrezione, di lenzuoli bianchi, di comitati seguita alle stragi del ’92, scelsero un silenzio dolente. Memorie ripiegate su se stesse. «È finito tutto» furono le parole di Caponnetto all’uscita dall’obitorio dove si trovava il corpo di Borsellino. Ancora oggi questa fetta trasversale di generazioni, la cosiddetta «società civile» (come fu genericamente chiamata allora), fatica a pronunciare discorsi o evocare memorie non senza un senso di pudore. Tanto più che tra gli anni Ottanta e Novanta, nella Palermo infuocata tra la preparazione del Maxi processo e poi le Stragi, prevalsero spesso verità lacunose, frammentarie, equivoci e conflitti (anche interiori) destinati a suscitare piuttosto sentimenti contrastanti e una paura sempre in agguato: da spaesamento. Credo che serpeggiasse proprio una paura simile, tra le altre, durante l’incontro alla biblioteca Comunale del 25 giugno 1992, a poco più di un mese dalla strage di Capaci. L’ultimo incontro pubblico del giudice Borsellino. Eravamo tutti lì, una massa silenziosa, plumbea, consapevole di poter saltare in aria da un momento all’altro insieme all’unica istituzione in cui ormai credevamo, il corpo e il sangue di Paolo Borsellino. Stavamo pietrificati in ascolto di atti d’accusa che erano pietre tombali. Contro il Consiglio superiore della magistratura, il disegno di distruggere Falcone e, con Falcone, il pool antimafia. E in quel discorso amaro e durissimo il giudice, per il quale eravamo pronti a dare la vita, giunse a pronunciare parole che chiamavano in causa tutti noi, disse che nella caldissima estate del 1988, quando si stava facendo morire il pool, l’«opinione pubblica fece il miracolo»: mobilitandosi e costringendo il Csm a rimangiarsi la decisione. Così «seppur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi», concluse. 

Noi che facciamo miracoli… Noi che respiriamo un’aria mortifera in quella biblioteca, ma abbiamo il potere di fare miracoli… Quelle parole ci galvanizzarono. Toccava a noi, dunque, una qualche salvezza in quei giorni estremi e squinternati… Per questo l’epilogo fu ancora più amaro, infelice, disperato. Non ne fummo capaci.

Noi non avevamo potuto fare nulla perché Borsellino non soccombesse trascinando con sé quel che era rimasto dei nostri ideali. Falcone stesso non aveva potuto fare nulla per salvarsi nonostante, o forse proprio a causa del suo senso altissimo delle istituzioni. Nemmeno Borsellino aveva potuto fare nulla, nonostante noi fossimo lì, accanto a lui, e lui aveva chiesto urgentemente di essere ascoltato come persona informata dei fatti. Avevano vinto loro, dove quel «loro» suonava come un atto d’accusa contro tutte le istituzioni colluse, conniventi, impastate di mafia o più semplicemente di quieto vivere, e quieto convivere. Rifletteteci! Quanti scrittori siciliani hanno scritto memorie di quegli anni? Memorie, ripeto, non rappresentazioni o ricostruzioni più o meno storicamente fondate. Nessuno o quasi. Quanti hanno scelto di lasciare la Sicilia dopo le Stragi o di ripiegarsi nel disincanto, in una sorta di esilio interiore? Moltissimi. Quasi tutti quelli della mia generazione che, insieme al resto della società civile siciliana, ha scontato il più disperato disincanto dinanzi alle stragi del ’92: stragi di Stato e di mafia. Bastava trovarsi sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo (ed io ero lì) quel 23 maggio appena subito dopo l’esplosione per avere una visione lucida su come stavano veramente le cose.

Eravamo asserragliati dentro una frenesia spasmodica, forze dell’ordine, esercito appostati ovunque, lungo l’autostrada, agli svincoli, sui ponti. C’erano elicotteri che giravano vorticosi. Tutti i collegamenti saltati.Non si riusciva a capire niente, ad ascoltare una radio, a telefonare, a tirarsi fuori dalle macchine imbottigliate in un traffico in cui non ricordo qualcuno che suonasse il clacson. Un colpo di Stato. Questo fu il pensiero che passò nella testa di molti, quando ancora non si sapeva nulla. Ce n’erano tutti i segni. Una sospensione radicale del Paese legale. E proprio contro «la strage di Stato» avremmo urlato durante i funerali di Falcone, della moglie e della scorta spingendo contro le transenne, «Adesso basta!», con la furia di chi vuole assaltare il Palazzo, i rappresentati delle istituzioni, nessuno escluso. Non fu una contestazione. Fu una rivolta, che soltanto il senso di fraternità con i poliziotti che ci trattenevano piangendo non trasformò in qualcosa di devastante. È terribile non credere più nello Stato. Confidare solo in due o tre figure solitarie minacciate proprio dalle istituzioni che intendono servire. È un nonsenso. Questa era la follia disperante di quei giorni, in cui fummo vinti, dopo aver pensato di poter farcela, anche a costo di grandissimi sacrifici.

Ci sono pezzi di memoria che, chissà perché, sono andati perduti. Risalgono agli anni Ottanta e, senza di essi, risulta quasi incomprensibile capire quali fermenti si agitavano nella città allora, quali speranze o illusioni, quali lacerazioni, quali ragioni potevano persino animare la fiducia del giudice Falcone, quando diceva la «gente è con noi».

Protagonisti di quegli anni drammatici in cui tutto non era ancora finito, anzi, tutto era ancora possibile, furono soprattutto i giovani.

Basta ricordare, tra i tanti, alcuni avvenimenti accaduti tra 1982 e il 1985.

Così rispondeva a un’intervista il giudice Rocco Chinnici prima che venisse ucciso il 23 luglio 1983: «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi… fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».

Ecco, questa idea di una nuova coscienza da trasmettere e condividere con i giovani Chinnici la mise in atto facendo uscire i magistrati impegnati nella lotta alla mafia dalla separatezza delle Procure. Mio padre fu tra i presidi che compresero l’importanza di quella collaborazione tra Procure e Scuole con cui si inaugurava un nuovo tempo contro la sottocultura mafiosa.

Il coinvolgimento dei ragazzi fu determinante, ad esempio, nel sostegno a Pio La Torre che, da un lato, in quei primissimi anni Ottanta riusciva a raccogliere un milione di firme in calce a una petizione al governo italiano contro la costruzione della base missilistica Nato a Comiso (me li ricordo ancora i viaggi in pullman pullulanti di studenti, l’allegria di chi si sente di fare la Storia), dall’altro portava avanti la lotta contro la speculazione edilizia, presentava il disegno di legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso e il sequestro dei patrimoni.

Si lottava insieme. Questa era la sensazione. Il suo assassinio il 30 aprile 1982 fu un colpo mortale anche contro quei giovani che si erano battuti al suo fianco, credendo davvero di poter cambiare le sorti della propria terra, e non solo. Pure in quella occasione si temette il peggio. Cronisti dell’«Ora» ricordano la Sezione centrale del Partito Comunista affollata di gente, alcuni con armi in pugno, pronti a farsi giustizia da soli in un’esasperazione e in un caos generali. «Adesso basta!».

«Ci dovevamo incontrare domani», con queste parole amare e laconiche ricordo che mio padre il 3 settembre 1982 commentò l’assassinio del Generale Dalla Chiesa, senza aggiungere altro.

Uno dei primi atti del Prefetto Dalla Chiesa, non appena arrivato in città, era stato infatti convocare alcuni presidi più intraprendenti per trovare sostegno nella lotta alla mafia che anche lui sapeva essere una battaglia non solo investigativa e giudiziaria, ma anche e soprattutto culturale. Non fummo vinti, però, quella volta. Fummo traumatizzati sì, ma ancora più determinati nel non cedere alla violenza mafiosa, al clima di intimidazione che si voleva instaurare colpendo una delle cariche più alte dello Stato a 100 giorni dal suo insediamento a Palermo. «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», diceva un cartello lasciato sul luogo dell’agguato. Invece nessuna speranza fu morta. Proprio i ragazzi (nello specifico gli studenti e le studentesse del liceo scientifico Galileo Galilei, dove era preside mio padre) si diedero da fare per non darla vinta alla disperazione con la combattività di chi è tutt’altro che arreso. Inviarono telegrammi alle scuole di tutta Italia, alle massime cariche dello Stato, con grande scetticismo dell’addetto alle poste, e ricevettero risposta: dal Presidente Pertini, dal nuovo prefetto appena nominato De Francesco. Ogni speranza in quei giorni era riposta nei giovani, nelle «loro onestà», precisò il Presidente della Repubblica. L’esito fu la prima assise nazionale antimafia tenutasi al Teatro Biondo il 9 ottobre 1982. Più di 2000 giovani, arrivati da tutta Italia, per discutere di droga, traffico d’armi, speculazione edilizia e delle lotte di un giovane di cui si era perduta memoria, Peppino Impastato: per la prima volta sottratto all’oblio. 

Da lì cominciò tutto quello che venne dopo: la Primavera di Palermo, i comitati antimafia, le associazioni antiracket, le continue manifestazioni gioiose, il movimento la Rete che voleva cambiare la classe dirigente di questo Paese…

«Senza un clima favorevole non è possibile fare certe cose», mi ha detto qualche tempo fa Sergio Lari, ex procuratore di Caltanissetta. Il giudice che ha riaperto le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Per questo credo sia molto importante restituire le lotte e le conquiste di quegli anni Ottanta per capire la città in cui viene preparato dal pool antimafia il maxi processo del 1986. Una città che marciava, lottava, credeva nel riscatto da un destino che si viveva come un’ignominia. E lo dico per esperienza personale. Scrivere per il giornale «L’Ora», in un periodo della mia vita giovanile, non era solo collaborare con una testata che vantava una grande tradizione giornalistica, era un modo di rivendicare la propria dignità contro le accuse di omertà, gli stereotipi, i giudizi supponenti di chi non aveva idea di come andavano davvero le cose in una città in cui erano caduti, vittime della mafia, esponenti delle massime cariche giudiziarie, investigative, politiche, istituzionali, per non dire dei giornalisti… Una città in cui i morti carbonizzati si potevano trovare vicino alla propria scuola, in un vicolo.

E questa città il 25 novembre del 1985 si trovò ad attraversare uno dei momenti più laceranti della sua Storia e della lotta alla mafia. Due ragazzi, due studenti del Meli, Giuditta 17 anni e Biagio 14 anni, erano insieme ai loro compagni alla fermata dell’autobus, un giorno come un altro. Una delle macchine di scorta dei giudici Borsellino e Guarnotta nella corsa forsennata a sirene spiegate sbanda e li travolge, uccidendoli sul colpo. Questa era la Palermo infernale dei tempi che precedono il maxi processo… Una morte collaterale che si è cercato di dimenticare. Una macchia troppo sporca. Solo Borsellino, ogni anniversario, ha portato i suoi fiori a quei ragazzi, sino alla propria morte. Fu allora che successe un nuovo pandemonio, perché la rabbia era tanta, ed era cieca. C’era chi voleva assaltare la Questura, chi voleva mettere a ferro e fuoco la città. C’era chi urlava contro le scorte che uccidono. Ma, alla fine, prevalse la lucidità e il senso delle istituzioni: una marcia muta con un fiore in mano. Era il giorno in cui Feltrinelli coraggiosamente inaugurava la sua prima libreria nel cuore di quella Palermo infernale. Peccato che anche la Feltrinelli, nel timore di un assalto da parte dei giovani, abbassò le saracinesche, tenendo al sicuro gli intellettuali asserragliati dentro…

Ecco, come fai a restituire una memoria condivisa ed esaustiva dinanzi a un passato così, pieno di storie dimenticate, di moti insurrezionali non raccontati o minimizzati, di vite devastate nell’oblio, come quella di Natale Mondo, l’autista del vice questore Ninni Cassarà (ucciso il 6 agosto 1985) salvatosi per miracolo nell’attentato di via Croce Rossa e poi costretto a scontare accuse infamanti, veleni, fino a trovarsi dinanzi al colpo di grazia della mafia che salda sempre i suoi conti.

Come fai a dare la misura dello sconcerto, dello spaesamento, della tensione vissuti durante quella famosa staffetta tv «Samarcanda-Costanzo show» tenutasi tra il teatro Biondo di Palermo e gli studi Mediaset dove era ospite, tra gli altri, anche Giovanni Falcone quel 26 settembre del 1991 in cui esplose tutto: preoccupazioni, rabbie, incomprensioni, la paura di essere abbandonati, il senso di tradimento sulla scelta di Falcone di lasciare Palermo per trasferirsi a Roma, in mezzo a fraintendimenti, sospetti, veleni, conclusioni azzardate, convinzioni giuste su pericoli che si rivelarono veri (la maggiore vulnerabilità di Falcone a Roma) ma che finirono per accanirsi proprio su chi avrebbero voluto o dovuto difendere, facendo il gioco di chi da sempre non aspetta altro, in quel caso, un allora oscuro politico democristiano di nome Totò Cuffaro che parlò di «giornalismo mafioso».

Non è un caso se quella sera lasciammo quel teatro con l’amaro in bocca e un generale presentimento di catastrofe. Ci eravamo divisi, dilaniati: travolti da sentimenti violenti, dalla paura di essere abbandonati… vittime tutti del caos delle opinioni. Quella trasmissione contribuì ad alimentare non poco il senso di colpa che ci piombò addosso dopo che i presentimenti presero corpo, fisionomia e si fecero realtà il 23 maggio del 1992.

Ci sono voluti dodici anni perché una nuova generazione riprendesse pian piano in mano il proprio destino e il 29 giugno 2004 si rivelasse tappezzando Palermo con piccoli adesivi listati a lutto. «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità» c’era scritto. Fu così che noi che, in un modo o nell’altro, eravamo andati via in un qualche esilio capimmo che forse non era tutto perduto.

ARTICOLO n. 37 / 2022

A PROPOSITO DI THE DROPOUT

Fortuna e menzogna nella Silicon Valley

Nel 2003 una prodigiosa diciannovenne americana lascia i suoi studi a Stanford e fonda una startup biomedica nella Silicon Valley che ha come ambiziosa missione quella di produrre analizzatori di sangue portatili che con una singola goccia di sangue permettano di diagnosticare precocemente numerose malattie, salvando molte vite e abbattendo drasticamente i costi delle spese sanitarie. L’azienda si chiama Theranos, dall’unione delle due parole therapy e diagnosis, l’analizzatore portatile viene battezzato Edison, e la ragazza è Elizabeth Holmes. In una dozzina di anni la sua fondatrice finisce sulla copertina della rivista Forbes che la nomina la più giovane miliardaria self-made del paese, fa raggiungere alla Theranos un valore di mercato di 9 miliardi di dollari e un capitale stimato di circa 4,5 miliardi di dollari, conquista una impeccabile galleria di nomi tra sostenitori, dipendenti, investitori e membri del consiglio di amministrazione della startup che includono gli ex segretari di Stato Henry Kissinger e George P. Shultz, e strappa un accordo con la catena di farmacie Walgreens e uno con la catena di supermercati Safeway per aprire nei loro punti vendita postazioni Theranos dove effettuare analisi del sangue a soli 2 dollari e 99 centesimi (di fatto ne verranno attivate una quarantina nelle farmacie Walgreens). Poi nell’ottobre del 2015 entra in scena John Carreyrou, ottimo giornalista investigativo del Wall Street Journal, che con un articolo fa crollare il castello di carte rivelando al mondo quello che molti ex dipendenti della Theranos sanno già: gli esami effettuati dalla Theranos vengono per la più parte fatti utilizzando macchine Siemens, una singola goccia di sangue non è sufficiente e dunque il sangue viene diluito con acqua compromettendo i risultati, la macchina Edison sembra il progetto di scienze di uno studente di terza media e soprattutto: non funziona. I laboratori della Theranos vengono ispezionati, le accuse di Carreyrou vengono confermate, l’azienda viene messa sotto indagine, Holmes e il suo socio e compagno di vita, Ramesh “Sunny” Balwani (anche ex direttore generale e operativo della Theranos), finiscono sotto processo. 

Sulla vicenda John Carreyrou scrive e pubblica un libro (Una sola goccia di sangue. Segreti e bugie di una startup nella Silicon Valley, Mondadori 2019) i cui diritti vengono opzionati per farne un film prodotto da Apple TV, diretto da Adam McKay  (il regista di Don’t Look Up) e interpretato da Jennifer Lawrence (il film si chiamerà Bad Blood e attualmente è in preproduzione), il regista Alex Gibney realizza un documentario per HBO (The Inventor: Out for Blood in Silicon Valley), ABC produce il podcast creato e diretto dalla giornalista Rebecca Jarvis The Dropout, da cui viene tratta l’omonima miniserie creata da Elizabeth Meriwether e interpreta da Amanda Seyfried. La miniserie è in otto episodi ed è in streaming in Italia su Disney+ dallo scorso 20 aprile, quasi in contemporanea con la chiusura del processo a Elizabeth Holmes che a marzo l’ha condannata per quattro degli undici capi di imputazione (in sostanza è stata condannata per i reati di frode nei confronti degli investitori, mentre è stata assolta per quelli di frode nei confronti dei pazienti). 

Nel frattempo, fuori e dentro la Silicon Valley, c’è chi continua ad attaccarla (alcune imprenditrici della Silicon Valley hanno dichiarato recentemente di avere cambiato colore di capelli passando dal biondo a qualunque altra cosa per prendere distanza da Elizabeth Holmes), c’è chi la difende a oltranza (tra questi c’è il regista Errol Morris, che nel 2015 su propria iniziativa e affascinato da Holmes e dalla sua impresa ha girato alcuni spot promozionali della Theranos – sono visionabili su YouTube – e da allora non ha mai cambiato idea), e c’è chi semplicemente non capisce come una vicenda del genere sia potuta succedere. 

La cosa più immediata che verrebbe da dire è che dopo avere avviato la sua startup a diciannove anni,Holmes è rimasta in qualche modo intrappolata in quell’età, in quella post-adolescenza in cui non si è ancora persa l’abitudine di mentire agli adulti, genitori o insegnanti che siano. In cui le probabilità di farla franca con una menzogna sono così alte che vale sempre e comunque la pena di correre il rischio.In cui mentire in sé è eccitante, ti fa sentire potente, forse migliore degli altri, sicuramente speciale perché, anche se omologato in tutto, hai un segreto che gli altri non sanno. In cui non possiamo darle torto quando dice che, considerato il costo delle università in America (e la prassi delle stesse università di fare indebitare i propri studenti in cambio di una carriera scolastica che non garantisce un lavoro sicuro), preferisce investire quei soldi in una start-up e fare qualcosa per il bene dell’umanità. Non è un caso che uno dei momenti più riusciti dell’interpretazione che fa Amanda Seyfried di Elizabeth Holmes nella miniserie The Dropout è un remake di un’intervista video fatta da Errol Morris a Elizabeth Holmes in cui le viene domandato se può rivelarci un segreto. Holmes (e Seyfried dopo di lei) guarda dritto in camera, gli occhi spalancati e di un azzurro quasi marziano, il dolcevita nero indossato come una divisa per imitare il suo eroe inarrivabile Steve Jobs, ci pensa un po’ e alla fine dice: non ho molti segreti. Va da sé che non sapremo mai cosa le passa in quel momento per la testa. 

Nel frattempo Holmes si è sposata con un certo Billy Evans, di una decina di anni più giovane di lei ed erede del gruppo Evans Hotel (una catena di alberghi nella California del Sud), i due hanno avuto un figlio (è nato nel luglio del 2021 e si chiama William come il padre), abitano tutti nella Silicon Valley, in una tenuta di una trentina di ettari e del valore di 135 milioni di dollari a Woodside, in California. Concluso il processo aspetta la sentenza definitiva e la conseguente pena, che arriverà il prossimo 26 settembre e che prevede un massimo di vent’anni di prigione. 

Una teoria interessante che, seppur non giustificando, spiegherebbe almeno in parte le azioni di Holmes, ce la fornisce Dan Ariely, psicologo ed economista comportamentale israeliano-americano (insegna alla Duke University) che Alex Gibney ha intervistato nel suo documentario. Autore del libro The (Honest) Truth About Dishonesty: How We Lie To Everyone – Especially Ourselves (Harper 2012), a un certo punto del documentario Ariely cita un esperimento condotto da lui e dai suoi colleghi con un dado. Ai partecipanti veniva chiesto di scegliere mentalmente tra il lato basso e quello alto del dado, tirare il dado e a quel punto dichiarare la scelta ottenendo una ricompensa in denaro corrispondente al numero corrispondente al lato scelto (alto o basso). Per esempio: se il dado cadeva con il 4 in alto e il partecipante dichiarava di avere scelto l’alto, riceveva 4 dollari. A fine esperimento quasi tutti partecipanti risultavano avere scelto il lato più remunerativo. Fortuna o menzogna: impossibile a dirsi. Ripetendo lo stesso esperimento con l’aggiunta di una macchina della verità, si era capito che mentivano. Ripetendo una terza volta lo stesso esperimento con la macchina della verità e informando i partecipanti che la somma ricevuta sarebbe andata in beneficenza, la macchina della verità non era più in grado di intercettare quell’esitazione che di solito accompagna la bugia. Di fatto quanto succedeva era questo: i partecipanti erano talmente convinti che il fine giustificasse il mezzo da mentire con più determinazione, impedendo così alla macchina della verità di funzionare. A detta di Ariely qualcosa del genere deve essere scattato nella mente di Holmes, facendo scomparire del tutto il mezzo a beneficio del fine. E oltre che nella sua testa, deve essere successo anche in quella di dipendenti, investitori, membri del consiglio, e varia umanità coinvolta nella startup a un certo punto dei suoi dodici anni di vita. 

Un’altra teoria vuole Holmes tra le fila degli inventori che nei secoli hanno fallito, e anche mentito, prima di arrivare alla scoperta che avrebbe cambiato non solo la vita ma anche il futuro dell’umanità. Facendo proprio lo slogan «Fake it until you make it» (fingi fino a quando non ci riesci), Holmes avrebbe semplicemente continuato a sperare che la magica macchina in grado di fare le analisi del sangue a partire da una sola goccia di sangue funzionasse. E insieme a lei dipendenti, finanziatori, membri del consiglio di amministrazione, tutti uniti in una sorta di tacito patto dal quale ci si poteva sottrarre dimettendosi previa firma di un accordo di non divulgazione. Se le ragioni dei quindici anni di menzogne di Holmes si fermano allo stato di ipotesi, le decide e decine di accordi di non divulgazione firmati da ex dipendenti licenziati o andati via di propria volontà è sicuramente il motivo per cui il sistema non sia imploso prima: nessuno ha parlato perché legalmente nessuno era nelle condizioni di farlo. 

Uno degli aspetti più interessanti della vicenda è che la popolarità di Holmes sembra non essere stata minimamente scalfita dalle vicende giudiziarie, al punto che fan e seguaci dell’imprenditrice acquistano su eBay pezzi dell’azienda come fosse merchandising di una qualunque celebrità. Il valore di mercato degli oggetti va dai 150 dollari per un set di cinque penne con marchio Theranos ai 1500 dollari per una bottiglia d’acqua sempre con marchio Theranos (di quelle di plastica distribuite durante le conferenze per pubblicizzare l’azienda) agli 11mila dollari per un camice da laboratorio Theranos autentico e mai indossato. A venderli sono gli stessi ex dipendenti (per arrotondare si presume) che nel crollo dell’azienda hanno perso il lavoro e i guadagni generati dalle stock options. «La ragazza dal dolcevita nero che ha mollato il college e ha ingannato Henry Kissinger è diventata un’ossessione culturale», dice uno di loro. Ed è vero.

Ma ecco cosa succede a questo punto: sei lì che continui a digitare su Google Elizabeth Holmes, in cerca di qualcosa che non sai, culturalmente ossessionata anche tu. Ed ecco che prima uno, poi due, poi una discreta serie di articoli su giornali autorevoli ti spingono a guardare Inventing Anna, la miniserie sulla falsa ereditiera Anna Delvey Sorokin che ha ingannato dirigenti di banca, investitori e quant’altro, e WeCrashed, l’altra miniserie su ascesa e caduta della startup WeWork e l’improbabile coppia che l’ha inventata, e Bad Vegan, e così via fino all’unica conclusione possibile: nessuno è un caso isolato.

ARTICOLO n. 36 / 2022

CONVERSAZIONE CON ALESSANDRO GALLENZI

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. 

A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

A. GALLENZI: Entrambi rientrano nella mia filosofia editoriale. Da un lato concordo con chi, come Giangiacomo Feltrinelli e il suo amico John Calder, di cui abbiamo ereditato le pubblicazioni, sostiene che l’editore sia un canale non solo tra autori ed editori, ma anche tra passato, presente e futuro. A volte un editore serve a mantenere viva un’eredità che altrimenti verrebbe dimenticata. Qualche tempo fa abbiamo pubblicato una traduzione inglese di Costantinopoli di Edmondo De Amicis, volume che era fuori catalogo da anni anche in Italia, ed Einaudi è rimasto talmente colpito dalla nostra idea da farlo ristampare anche in italiano. Questo genere di contaminazioni è fondamentale per l’editoria. D’altra parte, è anche vero che mi sento più vicino all’approccio di Roberto Calasso e mi piace pensare che il nostro catalogo, nel suo complesso (con qualche rara eccezione), sia in grado sia di rispecchiare i nostri gusti, sia di presentarsi come il tentativo di creare un’opera d’arte a sé. Un’immagine che mi piace utilizzare per descrivere un editore è quella del curatore di una galleria d’arte, che seleziona una serie di opere e trova un tema che le accomuni, comunicando con i visitatori in toni semplici e dimessi. Calasso era un maestro in questo, perché è molto importante che il messaggio non sia troppo appariscente o importuno e che gli editori sappiano fare un passo indietro e lasciar andare le proprie creazioni.

A. GENTILE: Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A. GALLENZI: Credo di essere molto fortunato, per non dire privilegiato, perché la mia esperienza di traduttore e i miei interessi in campo linguistico mi hanno aiutato a vedere i testi in maniera diversa e a riconoscerne la bellezza e la complessità, con tutte le loro sfaccettature. Sono sempre stato un lettore lento, analitico, e ci sono una serie di libri su cui continuo a tornare come metro di misura del mio lavoro di editore. La Divina commedia, la Vita nuova e le Rime di Dante sono tra le opere più importanti del mio sviluppo sia come lettore sia come editore. Poi citerei le opere di Dostoevskij, Bulgakov, Gogol, le poesie di Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. In più, ho una vera passione per Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. Ma potrei andare avanti a lungo, perché il problema è che, quando si scopre la bellezza della letteratura, ci si sente quasi obbligati a condividere la propria passione con gli altri.

A. GENTILE: Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A. GALLENZI: I libri sono strumenti estremamente duttili e versatili, capaci di adattarsi ai tempi. È un formato che è rimasto (perlopiù) inalterato nei secoli, sebbene i contenuti continuino a mutare per rivolgersi a generazioni di lettori sempre nuove. Come casa editrice, noi non siamo contrari al cambiamento e ci siamo adeguati alla rivoluzione dell’ebook, ma tendiamo a opporre più resistenza alle ultime mode o alle tendenze passeggere, come i libri scritti da influencer o i romanzi epistolari informa di email, messaggio di testo o tweet. Non abbiamo niente in contrario a nuove idee capaci di coinvolgerci ed emozionarci, ma i nostri sono gusti abbastanza tradizionali e non ci piacciono i libri zeppi di trovate ad effetto. In breve, il nostro programma non include molti titoli “multimediali”.

A. GENTILE: Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A. GALLENZI: I libri sono strumenti versatili ad ampissimo raggio, capaci di intrattenere, mettere in discussione idee, regalare momenti di evasione, suscitare emozioni, favorire scoperte, generare dibattiti e via dicendo. I lettori possono ricavarne quello che vogliono. Lo stesso libro, poi, è in grado di suscitare reazioni diverse in persone diverse. Un libro può innescare o sedare una rivoluzione. Un libro può cambiarti la vita. Credo sia la forma di comunicazione più sofisticata al mondo, perché riesce a impegnare le nostre menti in maniera assai più profonda del cinema, delle arti visive, della musica o dei media digitali, che si basano perlopiù su vista e udito. Dal momento che la nostra essenza si costruisce sul pensiero e sul linguaggio, i libri riescono ad assorbire la nostra mente, offrendo una maniera più complessa di interrogare la realtà fuori e dentro di noi. Keats ha paragonato la sua prima lettura di Omero alla scoperta di un nuovo mondo, mentre Borges ha equiparato il primo incontro con Dostoevskij alla scoperta dell’amore o dell’oceano: un momento indimenticabile della propria vita. In poche parole, un libro consente di accedere a un mondo fisico e spirituale del tutto nuovo, da esplorare e riscoprire tutte le volte che si vuole nel corso della propria vita. In più, sì, anch’io sono convinto che i libri siano in grado di offrire emozioni uniche, ragion per cui hanno avuto tanto successo nella storia dell’umanità.

A. GENTILE: A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A. GALLENZI: Il mio “cortese spettatore” (per citare il prologo del Troilo e Cressida shakespeariano)[CP1]  è curioso, intelligente, indagatore e comprensivo, ama le sfide ma non è mai petulante né pedante. Voglio poter condividere i miei gusti e i interessi con i miei lettori, voglio che possano provare un po’ della gioia e dell’allegria che mi hanno spinto a pubblicare i libri che porto alla loro attenzione. Ogni libro è un invito aperto, ma, siccome so che è impossibile accontentare tutti, per me è questione di spargere dei semi che possano crescere, più che di sperare che qualcuno abbocchi alla mia esca.

A. GENTILE: A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per i lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A. GALLENZI: Ci hanno già provato in molti, ma senza successo. C’è stato un periodo in cui, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, un gruppo di editori accomunati dalla stessa mentalità e visione politica (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, le case editrici olandesi Bezige Bij e Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois e altri) ha creduto che sarebbe stato possibile pubblicare i libri migliori d’Europa in tutte le lingue principali. A far naufragare il progetto sono state le forti individualità dei partecipanti e l’enorme divario nei gusti e nelle aspettative dei lettori da un paese all’altro. L’editoria è un’attività caratterizzata da una forte idiosincrasia. Forse è proprio questo a rendercela così affascinante: la cosiddetta “bibliodiversità”, un concetto che in realtà sarebbe importante coltivare e salvaguardare. Credo che oggi realizzare un progetto come quello sarebbe ancora più difficile (soprattutto per ragioni legate alla complessità del mercato e al passaggio a un’editoria più commerciale), eccetto forse per operazioni molto commerciali come quelle relative alle saghe di Harry Potter ed Elena Ferrante, sebbene il recente passato ci abbia dimostrato che non esistono formule garantite, nemmeno per i best seller: ciò che ha successo in Francia non piace in Gran Bretagna, quel che fa impazzire Italia e Spagna in Germania viene considerato noioso e così via.

A. GENTILE: Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A. GALLENZI: Poco dopo aver iniziato la mia carriera editoriale in Gran Bretagna ho scoperto che, per avere successo lì, avrei dovuto ritarare la mia bussola di editore e produttore. Se avessi potuto seguire il mio istinto e il mio gusto personale avrei aderito al modello francese di Fayard e Gallimard, o il modello italiano di Adelphi e Sellerio. Alcune case editrici inglesi ci hanno provato (la prima Pushkin Press, Maia, Peirene, ecc.), ma non sono mai riuscite a liberarsi dalla percezione di essere editori “di nicchia”, difficili e inaccessibili. Per quanto mi riguarda, con Hesperus come con Alma, ho cercato di dare particolare enfasi alla cura editoriale, alla qualità della traduzione e all’aspetto estetico del libro, facendo ricorso a copertine con immagini o illustrazioni fuori dall’ordinario, in grado di far risaltare ogni volume a sé e non come parte di una serie. Abbiamo utilizzato carta sottile Arctic Paper e alette molto ampie, ma i nostri libri sono sempre stati considerati accessibili e hanno riscosso grande successo tra vecchi e giovani. Il motto di Hesperus era “Et remotissima prope”, cioè “avvicinare ciò che ci è lontano” (in termini sia di spazio che di tempo), e siamo riusciti a fare esattamente quello, anche dove altri avevano fallito: siamo riusciti a trovare la giusta formula commerciale senza dover rinunciare alla nostra integrità di editori. Il mercato britannico è in continua evoluzione e per avere successo noi dobbiamo evolvere con lui, senza fossilizzarci su un unico approccio.

A. GENTILE: Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A. GALLENZI: Sono completamente d’accordo con Umberto Eco, anzi, il paragone tra un libro e una forchetta e un cucchiaio ricorre molto spesso nei miei interventi sull’editoria, a dimostrazione che ci sono oggetti perfetti così come sono, senza bisogno di migliorie. I PDF da leggere online o su tablet e gli ebook per Kindle non sono altro che una versione scadente e meno valida dell’originale cartaceo. Voglio credere (e il recente revival dei libri stampati in tutti i mercati ne è testimone) che i libri rimarranno immutati, sempre pronti ad adattarsi nel contenuto e nell’estetica per poter parlare alle nuove generazioni, ma senza perdere il seducente piacere che ci trasmettono da secoli.

A. GENTILE: Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A. GALLENZI: Non vedo l’ora di pubblicare le ritraduzioni inglesi[CP2]  di Delitto e castigo e di Pinocchio, oltre che di portare alla luce a una perla letteraria assai poco conosciuta di Charles Dickens, Pictures from Italy, in cui l’autore descrive le proprie impressioni nell’anno in cui ha vissuto nel nostro paese, tra il 1844-45. Inoltre sono molto contento perché, dopo l’uscita di una traduzione a mio nome delle lettere di John Keats per Adelphi, La valle dell’anima, a settembre Alma pubblicherà il mio primo volume di saggistica, Written in Water, sugli ultimi mesi trascorsi dal poeta in Italia fino alla sua morte.

A. GENTILE: Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato che, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a mandare alle stampe, quale sarebbe?

A. GALLENZI: Ce ne sono tantissimi, ma uno che continuo a riprendere in mano e poi a rimettere sullo scaffale è Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan, forse troppo denso e dal ritmo troppo lento per un’epoca con una curva dell’attenzione ridotta come la nostra.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 35 / 2022

FACING HIM

Un ritratto di Keith Jarrett

Siamo così abituati a vedere Keith Jarrett con i capelli grigi, perfettamente tagliati, che è bene ricordare il tempo in cui aveva una delle più lussureggianti chiome di chiunque, bianco o nero, abbia mai suonato jazz. La sua capigliatura ebbe la massima estensione negli anni ’70, quando era a capo di due band telluriche: il Quartetto Americano con Charlie Haden, Paul Motian e Dewey Redman, e il più lirico Quartetto Europeo con Palle Danielsson, John Christensen e Jan Garbarek. Dal 1980 in poi, i suoi stretti collaboratori furono il batterista Jack DeJohnette e il bassista Gary Peacock (scomparso nel Settembre 2020). Questa band era conosciuta come Trio Standards, sebbene per me la loro versione di I Fall in Love Too Easily o altre, risultano meno rapinose di quando hanno lasciato queste riconoscibili e molto amate pietre miliari nella loro scia. Celebrato come pianista, Jarrett è in realtà un polistrumentista.

Al Deer Head Inn jazz club, alla fine degli anni ’60, Stan Getz gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se sarebbe andato in tour con lui, dopo che lo stesso Jarrett ebbe finito un assolo con la chitarra elettrica. Eyes of the Heart, un sottovalutato album live del 1979, comincia con un lungo assolo di sassofono soprano. In Spirits e No End Jarrett suona ogni genere di percussione. I suoi lavori solistici al piano includono sia le proverbiali improvvisazioni, che registrazioni del repertorio classico. 

In confronto, pochi musicisti jazz hanno deviato in quest’ultima categoria. Si può pensare a Wynton Marsalis, ma il ruolo della tromba nel repertorio classico è piuttosto marginale. La tromba non ha raggiunto il suo potenziale espressivo come strumento solista fino a quando non ha trovato la via fra le mani di Louis Armstrong. 

Il piano, invece, è il centro della tradizione classica occidentale. Se i critici buttafuori all’entrata del Pantheon dei pianisti classici hanno esitato ad ammettere Jarrett, è in parte dovuto al fatto che lui non ha dedicato se stesso al canone con la risolutezza e l’esigenza dovute. Mentre le sue registrazioni de Il clavicembalo ben temperato sono spersonalizzate fino all’austerità – «questa musica non ha bisogno del mio aiuto» –, Jarrett sottolinea sempre che Bach era un improvvisatore. E Beethoven non poteva essere più felice di quando annientava potenziali rivali in quello che il lessico del jazz avrebbe definito cutting contests (battaglie musicali NdT). 

Per certi versi, quindi, il genio dell’improvvisazione di Jarrett, lo porta vicino allo spirito di questi, più che verso una devota aderenza ai loro spartiti. Paragonato ai maggiori concertisti di sempre, Jarrett ha coperto solo una minima frazione del repertorio. Non ha mai registrato una sonata per pianoforte di Beethoven. Perché Beethoven lo avrebbe messo alla prova e imposto un tributo in modo diverso da Bach o Shostakovich? Non importa, ci sono così tante registrazioni di Beethoven, ma esiste solamente un Köln Concert.

Se, in seguito a un cortocircuito cosmico, fossero cancellate dagli archivi tutte le interpretazioni di Beethoven eseguite da Alfred Brendel, sarebbe una perdita, ma avremmo comunque le versioni di Kempff o di altri. E anche se perdessimo tutte le registrazioni di Beethoven mai fatte, avremmo comunque gli spartiti: i documenti fondamentali su cui poggia la conoscenza. Ma se perdessimo Jarrett, avremmo perso la musica che lui soltanto era capace di creare, comporre e suonare.

Il Köln Concert è sia occasione che esempio iconico; molte delle sue registrazioni soliste successive sono più forti, anche se meno seducenti melodicamente. Le meravigliose melodie di Jarrett sono inseparabili dalla sua duttile potenza ritmica.

Ora, il ritmo è terreno di molti confronti, basta pensare a McCoy Tyner, alla sua devastante mano sinistra, ma Jarrett ha il talento di scatenare impennate ritmiche radicalmente eccessive in rapporto a ciò che sta facendo. Un elemento cruciale delle performance soliste, che diventa ancor più evidente con il trio – basta ascoltare i primi due accordi di Flying, Part 2 in Changes – dove lui, DeJohnette e Peacock rimbalzano da uno all’altro con effetto estatico. Sebbene sia un leggero peccato che Jarrett negli ultimi decenni non abbia collaborato maggiormente con altri, si è rassicurati da come il suo trio fosse infintamente flessibile. Sono stati funky, hanno suonato calypso, e addirittura il ragtime (purtroppo). Suonavano liberi, danzavano. 

Alla costante qualità di Jarrett su tutta la gamma di stili, corrisponde una longeva creatività. Chiaramente, il contributo di Ornette Coleman è storicamente più importante. Anche se Coleman non avesse registrato niente dopo il 1960, il suo lascito sarebbe stato al sicuro. Il rovescio della medaglia è che, nonostante l’attività frenetica, molto di ciò che Coleman ha fatto da allora somigliava ad un postscriptum. Per quanto riguarda la costante e variegata qualità di produzione nel tempo, nessuno potrà competere con Miles Davis, con cui Jarrett e DeJohnette hanno suonato nei primi anni ‘70. Tranne la pausa iniziata nel 1996, quando Jarrett fu frenato dalla ME (Myalgic Encephalomyelitis, in italiano Encefalomielite Mialgica, NdT) – i primi tentativi di recupero sono documentati in modo struggente in The Melody at Night, with You del 1999 – non ci sono stati altri momenti di aridità nella sua carriera. 

Ogni anno ECM pubblica materiale stupefacente dagli immensi archivi storici di Jarrett. Non è mai esistito un periodo in cui si andava a sentire Jarrett suonare solo perché era Jarrett, nello stesso modo in cui, in molti momenti, uno sarebbe potuto andare a sentire Bob Dylan (la cui My Back Pages, Jarrett, Haden e Motian registrarono nel 1968). Ci si andava consapevoli di avere buone probabilità di sentire qualcosa di irripetibilmente memorabile. È possibile che quei giorni siano davvero passati? C’è una traccia su Belonging del 1974 chiamata The Windup ma alcuni dei miei passaggi preferiti avvengono in quello che verrebbe chiamato il wind-down, la calma dopo i momenti di climax. In realtà, spesso è difficile essere esattamente sicuri di quando il picco sia stato raggiunto. La musica è sempre capace di scuotersi ancora, anche dopo molti climax. Il vocabolario sfortunatamente sessualizzato che si è intrufolato qui, almeno ci permette di affrontare il tema dei contorcimenti e dei gemiti di Jarrett. A volte i gemiti coincidono con i momenti di estasi. In altri momenti non sembra che stia facendo finta, giusto, ma che sia più l’irrefrenabile espressione di rapimento, le urla potrebbero essere il supremo sforzo di raggiungere una trascendenza che si dimostra sfuggente.

Si consideri Somewhere/Everywhere dall’album del 2013, Somewhere. Il trio comincia con il brano di Bernstein e poi scivola nella trance collettiva di un originale di Jarrett. Cresce, cresce e poi, avendo raggiunto la massima intensità e complessità, comincia la sua discesa finale intorno al quindicesimo minuto. Ma nei rimanenti quattro minuti, che avrebbero potuto felicemente estendersi a quattordici, come quaranta, il meglio deve ancora venire. Anche mentre scivola e si affievolisce nel silenzio, la musica contiene sempre la possibilità che potrebbe riprendere, di nuovo. Ecco perché l’applauso, il nostro apprezzamento, dovrebbe sempre essere ritardato.

Facing him di Geoff Dyer è tratto da Keith Jarrett, a portrait di Roberto Masotti. Prima edizione 2021 – Ristampa 2022 © Seipersei Books.

ARTICOLO n. 34 / 2022

LICORICE PIZZA & LA MIA BEATA GIOVINEZZA

«Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi» rivela con forza epigrammatica una poesia di Sandro Penna.Quando un paio di settimane fa sono uscito dalla sala del cinema Arcobaleno in viale Tunisia dopo aver visto Licorice Pizza, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, mi sono venute in mente quelle parole. Eccitato e commosso assieme, ho dovuto camminare un po’, prendere aria, respirare e guardare la realtà extra-cinematografica pian piano rigenerare la propria forma, prima di riprendermi completamente e riportare alla regolarità il battito cardiaco.

Ho guardato il manifesto del film appeso in strada all’entrata del cinema: un fotogramma che sintetizza bene lo spirito del film, con l’attrice protagonista in primo piano. L’ho toccato, per sentire quanto fosse di carta, quanto fosse per l’appunto finzione, fiction, frammento di sogno di celluloide, quanto la vita che stavo riprendendo a vivere fosse cosa altra rispetto alla messinscena per immagini a cui avevo appena assistito.

Il film è la storia di un amore fra due ragazzi nella Los Angeles del 1973. Lui, Gary Valentine, ha quindici anni, è grassottello ma per niente impacciato e goffo, anzi, è un lanciato iper-promotore di sé stesso, un imprenditore in miniatura, una baby incarnazione del mito americano del self-made man; lei si chiama Alana Kane, ha 25 anni, lavora senza troppa passione come assistente di un fotografo, vive insieme al padre, alla madre e alle sorelle (famiglia ebraica) e sembra non essere in sintonia con niente e con nessuno. Si sente fuori posto, rispetto ai coetanei, rispetto agli adulti, rispetto a chi è più giovane di lei. Se non, per l’appunto, e sorprendentemente, con questo quindicenne smargiasso brufoloso che le fa la corte in modo spudorato e che lei non può (non deve, non dovrebbe!) assolutamente filare, secondo la regola volgare ed aurea insieme che sancisce che le ragazze vanno dietro soltanto ai maschi più grandi di loro.

Una parte superficiale ma per niente banale del film è in fin dei conti la descrizione romanzata della trasgressione di questa regola: ovvero il ragazzino anti-eroe che da rospo poco attraente si rivela pian piano principe azzurro e riesce a conquistare la preda impossibile e grande, a lui culturalmente e proverbialmente proibita.

Ma questa lettura è riduttiva: tutto il cinema di Paul Thomas Anderson è denso e stratificato, impossibile da leggere in maniera univoca. Io l’ho visto in una sorta di trance, tutto d’un fiato, piangendo a dirotto a più riprese e anche scoppiando a ridere in parecchi momenti. Non mi capita più così spesso di essere rapito da qualcosa. Rapito è la parola adatta. Sono stato trascinato con violenza da uno stato a un altro. Artigliato (etimologicamente sembra che raptus abbia una radice comune con «Arpìa») e portato da una dimensione di realtà a una dimensione altra ma altrettanto densa di significato proprio perché verosimile, compatibile con il mio personale vissuto.

Ci sono momenti nel film che sono puro cinema, dal mio punto di vista, in quanto monadi in cui i vari segni che compongono il codice filmico sono così fusi assieme da risultare irriconoscibili. Quando Gary Valentine viene arrestato, portato alla stazione di polizia e poi rilasciato, dopo un breve dialogo con Alana, viene scagliata una di queste frecce di cinema assoluto: una scena in apparenza molto semplice in cui viene filmata la corsa di un adolescente. Niente di più di Gary che, riacquistata la libertà, corre col suo fisico imperfetto su una strada della San Fernando Valley degli anni Settanta, nel sole. È una scena senza dialoghi, ed è solo, per l’appunto, un ragazzo che corre. È cinema puro perché non scritto o meglio così scritto da risultare muto e potente come un’esplosione stellare. È come la corsa del piccolo Antoine Doinel ne I 400 colpi di Truffaut, come i pistoleri che si dispongono a «triello» nel balletto finale de Il buon, il brutto, il cattivo, come il giro a Ostia in Caro Diario, come l’inizio di Persona di Bergman e come centinaia di altre scene o inquadrature che non sto ovviamente qui ad elencare. Ciò che mi interessa è questa capacità che a volte il cinema ha di far perdere le tracce dei segni di cui è fabbricato: perciò segui il dialogo – se c’è – come fossero le parole della tua reale esistenza quotidiana, la musica – se è presente – non la senti o la senti così forte come se l’avessi scritta tu e coincidesse con il battito del tuo cuore o con la paura e l’emozione che stai vivendo in un momento della tua vita; la tua vita, quella cosiddetta «vera», non cinematografica. Il cinema che scorrendo passa senza lasciar intravedere traccia di sé è il più subdolo e pericoloso: lo adoro, certo, perché grazie al cielo non mi fa incagliare nella saccenza di certe sceneggiature che fanno finta di essere intelligenti e fanno sfoggio di sé, ipercinetiche, ultra-brillanti, cariche di quell’ansia da prestazione da battuta perfetta che molti moderni scrittori per il cinema e la TV tendono ormai ad avere sempre, ma allo stesso tempo lo temo perché proprio perché somiglia alla vita, e nella sua perfetta manifattura tende a fondersi con essa, sostituirvisi. E così amore si aggiunge ad amore, ma anche dolore a dolore.

Nella San Fernando Valley del 1973 tutto sembra assolato e favoloso, e anche possibile: la musica è fantastica, puoi incontrare John H. Peters, ex-parrucchiere poi playboy poi produttore poi marito di Barbara Streisand, puoi fondare un’azienda di materassi ad acqua, puoi essere una baby star del cinema; eppure tutto è anche già marcio, sembra voler dire Paul Thomas Anderson. Impercettibilmente, con misura ed eleganza, questo meraviglioso film è la storia della contrapposizione fra la purezza dei ragazzi protagonisti, della loro innocenza (sono innocenti anche quando provano a fare i grandi, sono puliti anche se sognano il mondo sporco dei soldi e del business) e lo schifo senza possibilità di salvezza del mondo degli adulti. L’America nel 1973 è diventata adulta e compromessa rispetto a quella giovane e piena di speranze degli anni Sessanta. Il sogno è finito. «It’s on America’s tortured brow / that Mickey Mouse has grown up a cow», canta David Bowie in Life on Mars sparata non a caso a tutto volume in una scena del film. La Storia, possiamo azzardare, uccide i sogni. I sogni rimangono sempre immutabili, irrealizzati e bellissimi, nel cuore dei bambini e dei ragazzini. Prima che qualcosa li sporchi. Da una parte sta il fuoco della giovinezza e dall’altra tutto ciò che può servire a spegnerlo: nel film, nello specifico, la crisi petrolifera del 1973, le manovre politiche, gli abusi di potere e le megalomanie dell’industria del cinema. Ho pianto vedendo questo film perché inevitabilmente ho pensato a me, ho pensato a mia figlia, a mia moglie e ai miei cari, ho pensato ai sogni che a volte la Storia ruba ai ragazzi prima del previsto. Ho pensato che la giovinezza, a poterla congelare in eterno, sarebbe antitetica alla corruzione, fermerebbe le cause della colpa e ogni senso di colpa assieme, coinciderebbe col Bene.

Quando sono uscito dal cinema ho guardato il cellulare e scrollando sull’homepage del New York Times ho visto foto terrificanti dell’invasione dell’Ucraina e letto titoli di stragi di civili, fra cui bambini. 

E pensare che neanche mezz’ora prima, in un’altra scena del film, guidata da un amico di Gary, ho invece rivisto la mia bicicletta di ragazzino.

Credo fosse il mio compleanno. I miei genitori, intorno al 1978 (avevo cinque anni), mi regalarono una bicicletta blu, col manubrio piegato e un sellino con lo schienale altissimo. Un chopper a pedali. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Uno dei miei primi ricordi di essere umano sono le pedalate con quella bicicletta nelle strade sterrate intorno a casa. La sensazione del vento in faccia e fra i capelli. Ecco cosa intendo quando sostengo che Licorice Pizza in alcuni momenti si sostituisce pericolosamente alla tua vita, ai tuoi ricordi, al tuo bagaglio esperienziale. Con quella bici facevo gare di velocità coi miei amici, ovviamente, ma accompagnavo anche mio nonno a fare escursioni in campagna. Durante questi percorsi mio nonno mi raccontava la storia dei posti a cui passavamo accanto, mi mostrava le case, le località, certi alberi e certe cose che ai suoi tempi c’erano e che al nostro passaggio già non c’erano più. Mi raccontava che in quelle strade e in quei campi di grano, prima che ci venisse costruito un villaggio sopra, lui, sopra un carretto trainato da un somaro percorreva il tragitto quotidiano per andare a scuola. Io ascoltavo le storie del suo mondo perduto, come si ascolta una fiaba, bella e lontanissima. Ogni tanto raccontava le storie della guerra, della sofferenza patita, dell’aver sposato mia nonna un mattino ed essere partito per il fronte il giorno dopo. Storie che mi parevano antiche, meravigliose e distanti anni luce da me. Avevo solo sei anni, il mondo del cinema (il cinema neorealista dei racconti di mio nonno, in questo caso) con quello della mia vita non potevano ancora combaciare. 

Mio nonno era un uomo alto ed elegante, me lo ricordo un giorno fermarsi davanti a certe lamiere vicino alla Casa del Popolo dove venivano affisse le pagine de l’Unità. Si fermava sempre a leggere quei giornali appesi, e anche io diligente parcheggiavo la mia mini-Harley Davidson e aspettavo. Quel giorno invece di stare in silenzio lesse e disse: «Farabutti!», a voce alta. Il rapimento Moro, io l’ho vissuto così.

Un giorno d’estate ci fermammo sotto un olmo a fare colazione. Avevamo comprato un panino con la mortadella, l’acqua e l’aranciata in un Bar Tabacchi da qualche parte vicino al Canale Maestro della Chiana, che lui conosceva bene perché ci andava a comprare le sigarette quando nel dopoguerra prese a lavorare come stradino. Non so perché quel mattino, non so perché proprio in quel posto; chissà perché, ma mi piace pensare, nel mio rimembrare distorto, che ci fosse a quell’ora lo stesso sole di un mattino californiano.

Però successe. Fu il mattino in cui mi raccontò della morte di suo figlio. Il fratello maggiore di mio padre morì a quindici anni per un’infezione cardiaca che al giorno d’oggi sarebbe stato una sciocchezza curare. Mi raccontò di come i dottori avessero consigliato di farlo curare da uno specialista a Roma, solo così si poteva avere la speranza di salvarlo. Bisognava però raccomandarsi a certe persone e al vescovo. Io non capivo cosa significasse raccomandarsi al vescovo e chi fosse questa congrega di persone del paese così potenti da poter decidere chi va dentro gli ospedali buoni di Roma e chi invece ci resta fuori. Mio nonno piangeva mentre raccontava e io mi preoccupai. Mi raccontò che lo convocarono in un imprecisato ufficio e quelle certe persone gli dissero che, insomma, si sapeva bene come lui la pensasse politicamente, e che quindi l’unico modo per accedere a questa via medica di alta categoria era quello di abbandonare la tessera di un certo partito e prendere quella di un altro. Mio nonno sotto l’olmo si asciugava gli occhi col fazzoletto e piangeva come un vitello, per la prima volta incurante del fatto che questo piangere così a dirotto e senza difese mi potesse turbare. Non si dimentica, un vecchio che piange. «La mia risposta fu no», mi disse, me lo ricordo, «dissi a quelle persone spinto da non so cosa che la tessera non la prendevo mica, e un mese dopo Alcide morì». 

Ho capito tutto con più precisione molti anni più tardi. E ho capito che il mondo è instabile e tende inevitabilmente alla corruzione. La giovinezza, che non si può fermare con un tasto freeze, è un’età mitica in cui ancora questa nozione è ignota, e di conseguenza si è generalmente beati. Ma questa ignoranza è poi la stessa che ci sbatte in faccia con ancora più forza la rivelazione dei virulenti processi di decomposizione. E può far molto male. 

Dobbiamo proteggere i nostri figli dalla moltiplicazione forsennata delle immagini del sangue, proteggerli dal video-massacro mediatico che la Storia quotidianamente ci offre; è compito nostro occuparci di questa nuova forma di difesa dei cuccioli dal pericolo, ed è nostro dovere addestrarli a nuove modalità di sopravvivenza. Eppure, in ugual modo sono sempre più convinto, in un una maniera nuova che ancora non sappiamo e che filosofi e psicologi dovranno cominciare a indicarci, che potremmo cominciare a togliere i ragazzi dalla campana di vetro e lasciarli vivere in un universo un po’ meno bambino-centrico. E nei limiti del possibile, insegnare loro il perdono, la pietà, il logos di Eraclito che tutto trasforma, la fisica di Aristotele e le leggi del movimento; insegnare loro quanto inevitabile sia in tutto la fine, celebrando da subito, con adeguato rito, il matrimonio della vita con la morte.

ARTICOLO n. 33 / 2022

IL COGNOME DI MIA MADRE

Un dialogo

M.T. Il cognome di mia madre è piuttosto raro: l’ultima volta che ho controllato era presente soltanto in dieci comuni, nove dei quali in provincia di Cuneo. Dopotutto è da là che vengono, anche se mia nonna materna mi raccontava sempre che il suo, di nonno, parlava di una casata francese a cui sarebbe appartenuto. Non era vero, ovviamente: ho risalito lungo quella linea di sangue fino a fine Seicento, e non ho trovato nessuna traccia di nobiltà. Non se ne trovano quasi mai. Da ragazzino avevo pensato di prenderlo, ma la lungaggine burocratica e i costi mi avevano intimorito. Oggi mi pare che ci siano due verità in quella voglia di appartenenza: volevo farlo perché si tramandasse in me una parte della famiglia di mia madre e perché pensavo che solo nei nomi le cose vivono davvero. Oggi ho capito che non è così importante: forse non lo prenderei perché anche se non ce l’ho nel cognome, quella linea di sangue non è qualcosa che semplicemente fa parte di me, ma letteralmente quello che io sono. Non dovrei fermarmi a quel cognome: dovrei possedere anche quello delle mie nonne, e quello dei loro padri, e quello delle loro ave. La decisione della Corte è senza dubbio una buona notizia: sarà più semplice scegliere, dare alla madre il sacrosanto diritto di perpetuare anche il suo cognome. Ma se il lignaggio è nominale e dunque simbolico, basta questo a conchiudere la complessità di ciò che rimane, delle famiglie?

M.P. Nel cognome di mia madre è annidato un indizio storico, di cui nessuno ha tenuto traccia e nessuno ha mai raccontato e probabilmente appartiene ai mori cacciati dalla Spagna, che hanno trovato accoglienza prima fra le coste sarde e infine fra quelle sicule, da cui provengo. Io, il mio cognome, l’ho spesso dimenticato e anzi, pubblicamente, non l’ho proprio avuto per più di un decennio. Tutto ciò che avrei voluto sapere della mia famiglia riguarda una storia recente, che è quella della mia bisnonna, la nonna di mia madre, che il cognome non lo aveva perché era un’orfana, adottata da bambina da una famiglia di nobili catanesi che l’hanno tenuta in casa come sguattera. La mia grande storia famigliare si ferma ai primi decenni del novecento, quando una bambina è stata abbandonata diventando la numero 0 di una nuova stirpe di donne. È a lei che mi sono sempre sentita appartenere, a quella ragazzina non voluta due volte, di fronte a lei il cognome di mio padre e quello di mia madre non esistono, troppo pallidi, troppo diluiti con il sangue di tutti. È quello il mio cognome: quello che non è mai esistito. E se potessimo scegliere a chi appartenere? Se da adulti potessimo dirci liberi di assumere i cognomi di chi ci assomiglia, che non sempre è una cosa che ha a che vedere con il sangue, non saremmo protagonisti di una storia molto più onesta? 

M.T. Una parte di me ti direbbe: troppo comodo. Noi siamo anche quello che non vogliamo essere, e questo è un fatto che secondo me non può essere messo troppo in discussione in maniera sensata: molto del lavoro che uno può fare nella vita ha a che fare col vedere chiaramente questa distanza da se stesso. Il fatto che siamo generati da qualcuno, il fatto che generiamo. Però è ovvio: non è solo il sangue ciò che lega una famiglia. Nel retaggio patrilineare del cognome c’è l’idea del lascito, di qualcosa che viene tramandato solo da una parte, quando l’unica cosa a essere indubitabile in una nascita è la madre. Mi viene da pensare che il cognome del padre risponda a questo complesso di inferiorità: una certezza simbolica contro una certezza reale. È vero anche che il cognome di quella ragazzina che abbiamo cercato invano dopotutto era il cognome di suo padre e poi di suo nonno, penseresti a loro se un giorno lo trovassimo? Io tendo a considerarmi la somma delle persone che hanno contribuito a generarmi, conosco i loro cognomi e me li rammento spesso, ma oggi non vedo più il fatto di avere un solo cognome, quello di mio padre, un limite: ho imparato che la famiglia è molto più grande di questo. È giusto che oggi le persone venga dato in automatico il cognome di entrambi i genitori, in modo che essi in possano scegliere per i propri figli. Dopotutto aggiungere il cognome del lato materno della famiglia non è mai stato un problema per i grandi casati che si univano: anche nell’araldica, che è la rappresentazione grafica degli stemmi di famiglia (che spesso parlano dei loro cognomi) i quarti sono ben delineati e il cognome stesso prima del 1300 era una cosa diversa da quella che intendiamo oggi. Lo stesso cognome Windsor è una scelta relativamente nuova e in qualche modo eterodossa. Perché dovrebbe essere un problema per noi? Però abbiamo chiamato nostro figlio con un solo cognome, il mio, se avesse un fratello o una sorella come ci comporteremmo? Mi spaventa che due fratelli di sangue possano avere cognomi diversi.

M.P. Il giorno in cui abbiamo deciso di dargli solo un cognome, il tuo, e quando è stato scelto il suo nome, ricordo di aver pensato che il cognome è quello che sei stato, e il nome è quello che sarai. Per questo, per scherzo ma forse no, ti ho proposto che avremmo dato solo il tuo cognome se a me fosse rimasta libera scelta sul nome: se tu determinavi il passato, spettava a me lanciare uno sguardo verso il futuro. Quel che è chiaro è che Cosmo Trevisani sarà quello che deciderà di essere e che noi gli abbiamo dato solo una casa da cui partire. Suo fratello o sua sorella seguiranno lo stesso percorso, che è quello di un figlio o di una figlia frutto della mescolanza dei nostri geni e ai quali daremo il dono del tempo, come abbiamo fatto con il primogenito. Se sarà automatico il doppio cognome, allora chiederemo di rimuovere il mio, al quale non sono legata e non certo per disaffezione nei confronti del mio amato padre, ma proprio perché ho più fiducia in quel che saremo che in quel che siamo stati e perché, certo, due bambini nati con gli stessi genitori non possono avere cognomi diversi, sarebbe come metterli in un campo di battaglia con le nostre mani e invitarli allo scontro. 

M.T. In un ramo della mia famiglia a un certo punto ho trovato un documento di battesimo di inizio Ottocento dove sotto la riga in cui prendeva posto il nome del padre c’era scritto: incerto. Quella bambina, Maddalena, venne riconosciuta soltanto dalla madre e quindi prese il suo cognome: Ragni. Anche questo è un passato sul quale edificare. Tolta finalmente la potestà che partiva dal matrimonio ogni cognome è in realtà sia materno che paterno ed è giusto fare in modo che le trame non si perdano, che le linee di sangue possano essere ricostruite. Nel Concilio di Trento fu dato ordine ai parroci di tenere traccia dei cognomi al fine di evitare le consanguineità e quel cognome fu quello del padre. Una scelta sbagliata ha prodotto una consuetudine così radicata nei secoli che ha permesso ai genealogisti di tracciare con certezza linee antichissime: il compito di chi fa genealogia oggi è quello di tenere in mente la sostanziale patrilinearità dell’approccio tenuto finora e provare a cambiarlo. Ogni albero genealogico dovrebbe essere una tavola per quarti. Col doppio cognome automatico, come nei paesi ispanofoni, se verrà mantenuto un rigore nella scelta in cui essi appaiono (quale che sia), i genealogisti che lavoreranno tra trecento anni avranno vita più facile della mia, che per scovare i cognomi delle madri devo scandagliare sempre più a fondo. Fantasia e stato civile non vanno molto d’accordo, forse giustamente.

M.P. A me pare che le madri abbiano bisogno di vedere riconosciuti i propri sforzi, costruire un essere umano dentro di sé, partorirlo e accudirlo intensamente per i primi mesi e i primi anni, non è qualcosa che può risolversi con un semplice ringraziamento a mo’ di letterina per la festa della mamma. Quello che ricordi tu, ovvero che tenere traccia dei cognomi avrebbe evitato la consanguineità, poteva avere una funzione e un senso fino a non molto tempo fa, ma oggi le cose sono diverse e le leggi si cambiano di pari passo all’evoluzione umana e culturale. Per i primi tempi sarà più difficile tenere il computo degli avi, di chi c’è stato prima di noi. Ma il nostro compito è lavorare sul presente, fare in modo che ci sia equità e riconoscere a entrambi i genitori pari dignità. Il cognome paterno, conferito alla nascita, ha tutta l’aria di essere un premio: se la donna ha il privilegio di dare la vita, l’uomo deve avere il privilegio di apporre un’etichetta a quella vita e di renderla propria, simile a quella dei suoi padri. C’è una forma di appropriazione, in questo, che non credo faccia molto piacere alle donne. Il marchio sul figlio è una cosa ancestrale, che ricorda i clan, le lotte per il fuoco, le divisioni di territori e il tracciamento dei confini. Con la storia che la madre è sempre certa si è tolto di fatto alle madri il diritto a riverberarsi negli anni a venire, un sasso che lanciato nell’acqua non produce piccole onde ma solo un rumore sordo per finire negli abissi. Credo sia importante riaffiorare, ora, da quelle profondità e far sentire che ci siamo state anche, e forse soprattutto, noi. 

ARTICOLO n. 32 / 2022

A CONVERSATION WITH ALESSANDRO GALLENZI

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future?
These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry.

A.GENTILE What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

A.GALLENZI Both of these approaches are part of my publishing ethos. On the one hand I agree with the likes of Giangiacomo Feltrinelli and his friend John Calder, whose list we inherited, that a publisher is a conduit – not just between authors and readers, but also between past, present and future. Sometimes a publisher is necessary in order to keep alive a legacy that would otherwise be forgotten. Once we published an English translation of Edmondo De Amicis’s Costantinopoli, a book which had been long out of print even in Italy, and Einaudi was intrigued by our idea and reissued it there. This kind of cross-pollination is very important in publishing. I do, however, feel closer to Roberto Calasso’s approach, and like to think that our list, on the whole (with some exceptions), is a reflection both of our taste and an attempt to create a work of art in itself. The image I like to use to describe a publisher is that of a gallery curator, who selects a number of works and creates a narrative that links them, speaking to the viewer in simple, understated terms. It is essential, and Calasso was a master at this, that the message is not too loud or obtrusive, and that publishers know how to take a step back and let go of their own creations.

A.GENTILE Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

A.GALLENZI I feel very lucky and privileged, because my experience as a translator and my interest in linguistics helped me to look at texts in a different way, and to recognize their beauties and complexities in all their multifaceted aspects. I have always been an extremely slow and “dissecting” reader, and there are a number of books I keep going back to as a kind of measuring rod for my work as a publisher. Dante’s Divina commediaVita nuova and Rime are among the most important works in my own development both as a reader and as a publisher. Then I would say the works of Dostoevsky, Bulgakov, Gogol, the poetry of Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. I am very passionate about Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. The list could go on – the trouble is that once you discover the beauties of literature, you almost feel compelled to share your passion with others.

A.GENTILE Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising equation of content. From movies and tv shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

A.GALLENZI Books are a very supple and versatile communication tool, and they continue to adapt with the times. It is their format that has remained (in most cases) more or less the same over the centuries, but their content keeps morphing in order to speak to new generations of readers. As a book publisher we are not averse to change, and we have embraced the eBook revolution, but tend to resist the latest fads or fashions, such as books by influencers, epistolary novels written as emails, text messages or tweets. We are not closed to any new idea that speaks to us and excites us, but our taste is fairly traditional, and we don’t like gimmicky books. In short, you won’t find many “multimedia” titles in our programme.

A.GENTILE But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought about as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this? 

A.GALLENZI Books are extremely wide-ranging and eclectic: they can entertain, challenge ideas, grant a little escapism, kindle emotions, lead to a discovery, create a debate and so on. Readers can take what they want from a book. Even the same book can elicit different reactions from different readers. A book can spark or quell a revolution. A book can change one’s life. It is perhaps the most sophisticated form of communication, because it can engage our minds in a more profound way than, say, cinema, visual arts, music or online media, which are mostly based on vision and hearing. Since what we are is clearly defined by thought and language, a book absorbs all our mind and offers a much more complex way to interrogate our internal and external reality. Keats compared his first reading of Homer to the discovery of a new world; Borges likened the discovery of Dostoevsky to that of love or the ocean – a memorable event in our lives. In short, a book gives access to an entire new physical and spiritual world, which can be explored and rediscovered many times during one’s life. And yes, I believe books can offer a unique kind of emotional experience: this is what has made them so successful throughout human history.

A.GENTILE A follow-up question would have to do with readers. What’s the ideal reader you have in mind as you work? And how this ideal reader, if present at all, comes to you: do you search for them, trying then to find the best possible reading experience for them; or do you invent them, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

A.GALLENZI My «eternall reader» (to quote from the prologue to Shakespeare’s Troilus and Cressida) is curious, intelligent, questioning, understanding, happy to be challenged and never petulant or pedantic. I want to share my interests and my tastes with my readers, and I want them to feel some of the joy and good humour that inspired me to publish the books I bring to their attention. Each book is an open invitation, but since I am fully aware that it is impossible to make everyone happy, for me it’s more like scattering seeds than casting a baited hook.

A.GENTILE However, a publisher thinks about the readers who the books she publishes are going to meet, books are often thought of as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is consistently challenged by political, societal and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, that can make a book available in multiple languages at the same time, for readers across the Continent. Is it utopia, or is it something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

A.GALLENZI Many have tried and failed. There was a time when, during the late Sixties and early Seventies, when a group of likeminded and politically aligned publishers (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, the Dutch firms Bezige Bij and Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois and others) thought it possible to publish the best books from Europe in every major language. But what made their project unrealizable was their own strong individuality and the gulf in readers’ tastes and expectations across the borders. Publishing is a very idiosyncratic pursuit. Perhaps this is the beauty of it – what we call «bibliodiversity», something that in fact should be fostered and safeguarded. I think that, today, making this happen would be more difficult than ever (mainly for reasons which have to do with the complexity of our market and a shift towards corporate publishing), extremely commercial publishing operations such as Harry Potter and Elena Ferrante aside. Nonetheless, and as we have seen recently, there is no guaranteed formula of success even for best-sellers: what France adores, Britain dislikes – what Italy and Spain rave about, Germany finds boring, and so on.

A.GENTILE Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways of working together, of being together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers and European ones. Generally speaking, and on the one hand, every book is different in the UK and the US, thus, a publisher’s identity is less perceivable that the identity of the editor building a particular list. On the other hand, and in the European landscape, a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colours on a bookshelf. What do you think the respective merits of the two approaches are? And which one do you feel closer to?

A.GALLENZI Soon after starting my career in publishing in Britain, I discovered that I would have to adapt my editorial and production compass in order to be successful. If I had followed my instincts and personal taste, I would have conformed to the French model of Fayard and Gallimard, or the Italian model of Adelphi and Sellerio. Other British publishers have done that (the first Pushkin Press, Maia, Peirene, etc.), however, they have never been able to shake off the perception of being «niche», difficult and inaccessible. My approach, first at Hesperus and later at Alma, was to put an emphasis on the editorial care, the quality of the translation and the physical appearance of the book, using striking images or illustrations for our covers and making every single volume stand out on its own, rather than becoming part of a series. We used fine Arctic paper and «French» flaps, but our books were perceived as accessible and were a hit among younger and the older generations alike. Our motto at Hesperus was «Et remotissima prope» – «bringing near what is far» (both in terms of space and time) – and we managed to do what others had failed to do before: finding the right commercial formula without having to sacrifice our editorial integrity. As the British market evolves, we need to keep changing too if we want to remain successful, so we can’t adopt a one-layered approach to publishing.

A.GENTILE Publishing, as our readers may have gathered from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are «eternal objects»; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of their invention that they don’t need changes. Do you think this is true for books? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – through the next years? And if, on the contrary, you think they will change, how will they do it?

A.GALLENZI I totally agree with Umberto Eco, and, in fact, the comparison of a book to a fork or a spoon is one I have used many times in the past during my talks about publishing to illustrate that some objects are perfect as they are and need no improvement. Both PDFs – which are meant to be read online or on tablets – and eBooks for Kindle devices are in fact a substandard, diminished version of the original paper artefact. I want to believe (and the recent resurgence of the printed book in all markets bears testimony to this) that books will remain the same – always adapting in content and presentation. And I do believe they will speak to new generations, remaining the lusciously pleasurable objects they are to our senses today, as they have been for centuries.

A.GENTILE As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so, perhaps, now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into the next six months. What are you most excited for in publishing?

A.GALLENZI I am particularly looking forward to brand-new translations of Crime and Punishment and Pinocchio, and to the publication of a lesser-known literary gem by Charles Dickens, Pictures from Italy, detailing his impressions of our country during his one-year stay in 1844–45. Having recently published a translation of John Keats’s letters for Adelphi, La valle dell’anima, I am thrilled to be publishing in September, under our Alma imprint, my first non-fiction book, Written in Water, about the poet’s final months and death in Italy.

A.GENTILE Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

A.GALLENZI Too many to mention, but one that keeps coming into my hands and is swiftly put back onto the shelves is John Bunyan’s The Pilgrim’s Progress – possibly too dense and slow-paced for our times of short attention spans.

ARTICOLO n. 31 / 2022

IL LAVORO CULTURALE

The Italian Review inaugura un ciclo sul lavoro culturale, con questa immersione nel linguaggio a opera di Luciano Bianciardi, a cento anni dalla sua nascita. Molti decenni dopo contempliamo un mondo radicalmente diverso, dove alcuni di questi lemmi hanno assunto conformazioni diverse e sono state oggetto di semplificazione e polarizzazione: molto si è detto sul significato della parola dibattito, che nell’epoca social ha assunto forme del tutto imprevedibili, se è vero che nel 55esimo rapporto sulla società italiana del Censis uno dei capitoli era intitolato La società irrazionale: il Censis parla della nostra epoca come l’epoca del «sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà» e aggiungendo che «l’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale (…) e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei ‘trending topic’ nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive».
Sull’obsolescenza e lo slittamento di significato di un termine qui evocato con grande naturalezza come intellettuale si è già discusso ma non abbastanza. Questo termine identitario, divenuto in un certo qual modo grottesco, sarà in varia natura presente in questo ciclo, anche quando non enunciato. Seguiranno a questo intervento bianciardiano molti dialoghi con editori e editor internazionali, allo scopo di indagare il lavoro culturale, più precisamente editoriale, in varie forme. Se «ogni linguaggio è schema e astrazione» si cercherà di entrare dentro quell’astrazione, e non solo: dentro lo sguardo dei «lavoratori culturali»: che spesso coincide con una visione del mondo.

Andrea Gentile, Direttore responsabile The Italian Review

Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni emerse dalle pagine che precedono, indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.

Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.

Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con dopo.

Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia. Dal dibattito scaturiscono, oppure emergono o anche, più semplicemente, escono, alcune indicazioni.

Le indicazioni sono anch’esse utili. Se possono esprimersi in una breve frase, allora si chiamano parole d’ordine. Per esempio: Per un/per una (cinema, teatro, romanzo, arte, cultura, scuola, pittura, scultura, architettura, poesia) nazionale e popolare. In caso contrario, quando cioè le indicazioni non abbiano questo potere di contrazione espressiva, si parlerà di tutta una serie di iniziative, utili, naturalmente, e concrete, ma di massima, suscettibili cioè di elaborazione.

Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro.

La scelta dei problemi si chiama problematica, quella dei temi tematica. Ricordo che una volta, a Firenze, discussero tre ore su questo problema concreto; se fosse necessario porsi prima il problema della problematica oppure quello della tematica. Un problema è anche, spesso, di fondo. Esso si adeguerà alle prospettive, nuove e concrete, di lottaper contro.

Lotta, anzi lotte, è l’azione quando incontra un ostacolo, altrimenti l’azione è pura e semplice attività. Ma tanto per le lotte che per l’attività si mobilitano tutte le forze, si toccano larghi strati, o larghe masse, si estende l’influenza, ci si pone alla testa e ci si lega anche strettamenteAl servizio della lotta si pongono le proprie capacità.

A volte le cose non sono così semplici; ma il dibattito ha appunto l’ufficio di indicare gli inevitabili difetti, determinati dalla situazione. I difetti consistono quasi sempre nel non aver sufficientemente utilizzato, elaborato, applicato le indicazioni emerse da. I difetti, in ogni caso, sono stati indicati da un esame autocritico. Ogni dibattito assolve anche a questa funzione.

Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.

Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali. Gli intellettuali possono essere: illuminatidemocraticiavanzatimolto vicini a noial servizio della classe operaia; la serie è in crescendo. Pseudo-intellettuali sono invece gli altri, quelli che si sono posti al servizio del padronato, della reazione, del grande capitale, dell’imperialismo.

Al problema del linguaggio va connesso quello della gesticolazione, un problema peraltro più complesso e meno facilmente definibile; ci limiteremo a darne qualche cenno.

Ampio: si accompagna con un gesto circolare delle due mani, palme rivolte in alto.

Concreto: si strofinano i due pollici contro le altre dita.

Prospettive (e anche indicazioni): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita debbono essere unite.

Nella misura in cui: la mano – sempre sinistra – piegata a spatola, scava in un mucchietto di sabbia immaginaria posta di fronte a chi parla.

Sul terreno del: col dorso della mano si sfiora il tavolo, con un gesto orizzontale.

Va subito detto che il problema del linguaggio non viene qui posto per la prima volta nella storia: illustri teorici e critici, da Giorgio Dimitrov a Carlo Salinari, lo hanno già fatto in passato, e molto più profondamente che qui. Ci fu anzi, sul problema del linguaggio, cinque o sei anni or sono, un dibattito largo e approfondito, con numerosi utili interventi, che portarono un contributo sostanziale alla soluzione del problema stesso. Un problema, si disse allora, che si era maturato per un’ampia discussione su di un piano collettivo e concreto. Un problema interessante per migliorare la capacità di lotta; relativo al linguaggio usato all’interno delle organizzazioni democratiche, e relativo al linguaggio usato rivolgendoci agli alleati e ad un pubblico più largo. Si denunciavano alcuni inevitabili errori, di linguaggio appunto, determinatisi in conseguenza della situazione creatasi con.

Fra i numerosi interventi se ne ebbe uno che riconosceva come l’intervento precedente aprisse la possibilità di un ampio dibattito, tanto più necessario quanto più era vicino l’inizio della campagna per le elezioni politiche. «Io penso», diceva a conclusione l’intervento, «che le questioni poste vadano approfondite per meglio specificare le cause che determinano i nostri difetti di linguaggio e, di conseguenza, gli accorgimenti da seguire per superare i difetti stessi.»

Qualcuno, più autorevole, disse che lo schematismo del linguaggio dei responsabili del lavoro culturale – e di tutti gli altri – aveva peraltro un pregio; quello di garantire una maggiore precisione scientifica, un maggior rigore espressivo, e quello di far uscire dall’approssimazione e dal genericismo del tradizionale linguaggio ottocentesco.

Altri diranno che in fondo ogni linguaggio è schema e astrazione. Che anche quando io dico «pane» uso una parola che è nata prima di me, e che significa qualcosa per pura convenzione. Che quando dico «lavoro» adopero un’iperbole. Che «idea» è solo una metafora, una metafora visiva, per la precisione. Ogni lingua, insomma, è convenzione, e come tale è legittima, anche quella dei responsabili del lavoro culturale.

A costoro occorre rispondere citando un’autorità che fu ritenuta altissima nel campo della linguistica, ed in molti altri campi ancora:

«I dialetti di classe, che sarebbe più esatto chiamare gerghi, servono non le masse del popolo, ma un ristretto gruppo sociale superiore».

© Il Saggiatore, 2018.

ARTICOLO n. 30 / 2022

MODE CULTURALI

Trave e fuscello. Le male azioni che compio, le sciocchezze che dico non diventano più veniali se me le rinfaccia uno più mascalzone o più sciocco di me. «Togli la trave dal tuo occhio» dice il Maestro di Giustizia. E forse potrebbe dirlo anche l’uomo del fuscello, a patto però di riconoscere che quel fuscello ce l’ha, e che deve toglierselo, per quante travi veda negli occhi altrui. Occorre sì, a volte, contestare i «pulpiti» da cui viene la predica, ma il «da che pulpito» non dev’essere mai un’esimente, un modo di sottrarsi alle proprie responsabilità, di sfuggire l’argomento.

Nella mia famiglia ritrovo quasi tutti i vizi caratteristici della piccola e media borghesia, tranne l’arrivismo, il culto del successo, la ruffianeria. Riconosco, in altre parole, i vizi passivi (conformismo, moderazione, temperanza, avarizia…), ben poco di quelli attivi. È stata l’esperienza precoce della sventura a eliminare quasi alla radice quel tipo di aggressività, desiderio di contare e comandare e salire economicamente e socialmente. L’esperienza della sventura ha tolto ogni sapore a quel tipo di ambizione.

Hai un bel volerti legare alla comunità, 
quando la comunità non c’è più.

Una certa amabilità, allegria e leggerezza è propria solo degli imbroglioni, di chi vive d’espedienti. È il loro strumento di lavoro, e questo abito viene mantenuto anche nei rapporti, come dire?, disinteressati. Sono quasi sempre persone dotate di un buon grado di autocoscienza, abbastanza oneste e serie per vietarsi, quasi per principio, la serietà: il loro stile ignora i toni gravi, solenni e soprattutto moralistici (parlo dei piccoli imbroglioni, non dei grossi, che invece spesso si ammantano di gravità).

Il forte, colui che può esercitare il potere senza ricorrere a sotterfugi, a mezzucci, non è allegro né amabile. Colui poi che è onesto per paura, perché la disonestà è troppo rischiosa, è l’uomo più tetro che ci sia: il moralismo è la sua vendetta. Ci sarebbe infine la superiore amabilità e allegria dei buoni, ma non ci sono i buoni.

Leggendo una pagina di Eco m’è tornato il ricordo di un amico di gioventù. Avevamo vent’anni e s’organizzavano festine da ballo. Chi portava i dischi, chi pasticcini, chi vini e liquori. Lui, con occhio brillante, prometteva di portare tre bellissime ragazze. Poi ne portava solo una e bruttina, che abbandonava subito, con l’aria di mettercela a disposizione, sicché toccava a noi farla ballare perché non si sentisse di troppo. Oppure si trattava di una cena. Uno provvedeva la casa e le stoviglie, un altro i salumi, un altro l’arrosto, un altro i dolci, un altro i vini. Lui prometteva «le salse», ma con un’aria così d’importanza, così misteriosa e maliziosa che tutti s’aspettavano qualcosa di estremamente raffinato, il tocco di classe che avrebbe promosso il nostro cenone studentesco a livelli ristorante con tre stelle. Giunto il momento, quando la tavola era apparecchiata e tutto era pronto, lui con mossa elegante estraeva dalla tasca e posava sul tavolo un tubetto di maionese Calvé.

La preoccupazione del caposervizio culturale: 
«Attenzione a come si scrive Hitchcock, ricordarsi le tre c.»

Intorno ai primi anni settanta (1972? ’73?), un giovane ex gruppettaro operaista con la fissa del cinema e del giornalismo, approdato alla tv, mi aveva contattato e assediato con visite e telefonate per convincermi a partecipare a un programma in più puntate sulle riviste di sinistra degli anni sessanta, che doveva culminare in una serie di dibattiti o tavole rotonde (quali riviste, oltre a Quaderni piacentiniIl manifestoClasse operaiaQuaderni rossi? QuindiciClasse e stato…? Non mi ricordo più).

Per educazione non gli avevo detto subito di no, anche se la cosa mi disturbava: già allora ero estremamente critico sui mass-media, e perfino più di adesso, nel senso che lo ero attivamente, praticamente, convinto che il ruolo politico della Nuova sinistra e le prospettive fossero molto maggiori di quel che in realtà non erano, e tanto più convinto che avesse tutto da perdere a mescolarsi con il bla blaistituzionale, con l’inevitabile risultato di stingere e banalizzare la sua immagine. 

Ma questo giovane mi faceva un po’ pena, e poi non mollava la presa. Vantava idee e sentimenti come i nostri (ciò che, secondo lui, avrebbe dovuto garantire a sufficienza sulla serietà del programma), e poi presentava la cosa come la sua grande occasione per affermarsi professionalmente e fare un po’ di strada in Rai. Non avevo cuore di dirgli un no secco. Cercai di tergiversare, di stancarlo, senza risultato. Cedetti: posi come unica condizione di non essere il solo a rappresentare Quaderni piacentini, dato che non ne ero (e meno ancora me ne sentivo) il leader: avrebbero dovuto partecipare – con me – almeno un altro paio di redattori (Stame o Ciafaloni o Grazia Cherchi o Salvati…). Si diede molto da fare, come già aveva fatto con me, con i compagni da me indicati per ottenerne la partecipazione. Ma anche questi compagni la pensavano più o meno come me e risposero con obiezioni, svogliatezza, pretesti di altri impegni. (Se c’era una cosa che unificava il gruppo dei Quaderni piacentini era proprio la mancanza di vanità di tutti i suoi redattori, il disprezzo per l’auto-pubblicità). Le trattative si trascinarono per qualche tempo, con alti e bassi, finché si arenarono su un nostro no conclusivo (non ricordo più come, per quali ragioni o pretesti).

Disperazione del giovane (intanto il programma era partito, con la fervida partecipazione – manco a dirlo – delle altre testate); estremi tentativi di smuoverci dal no (gli scocciava molto che nella rassegna mancasse proprio la testata che era allora la più autorevole e anche diffusa); appelli all’amicizia (che non c’era), alla comune fede politica (tutta da verificare), alla sua posizione imbarazzante o addirittura in pericolo nei confronti del suo capo, responsabile del programma (un grosso personaggio televisivo, un big, suppongo democristiano). È vero che era venuta meno la conditio sine qua non da me posta subito (la partecipazione di altri della rivista oltre a me), ma il giovane aveva il sospetto, più che fondato, che non avessi fatto nulla per convincerli, in realtà sabotando la cosa. 

Per non pregiudicare la sua posizione, disse al suo capo che la colpa era solo mia, che prima avevo accettato e poi m’ero negato, venendo meno alla parola data. Ricevetti una telefonata del boss, che aveva il tono onnipotente di un Darryl Zanuck o Howard Hughes. Gli spiegai com’erano andate le cose: il programma non m’aveva mai interessato, anzi; comunque avevo accettato a certe condizioni, venute meno le quali indipendentemente da me, non mi sentivo vincolato a nessuna promessa. Non avevo mancato di parola. Ma il boss era soprattutto incredulo che un nessuno come me rinunciasse a un’opportunità così ghiotta come quella di farsi pubblicità apparendo sui teleschermi; chiaramente, non si capacitava della cosa, pensava che scherzassi o fossi totalmente stupido, o facessi il difficile, per mercanteggiare o magari solo per civetteria.

Né poteva accettare che un nessuno come me, per un capriccio, potesse danneggiare un programma che era costato soldi e lavoro… Ma presto dovette prendere atto, benché il rifiuto non cessasse di apparirgli inconcepibile e scandaloso, che il mio «no» significava proprio «no». Allora, accantonato il tono «logico» e «pratico» cui s’era attenuto, passò alle minacce. Mi disse chiaro e tondo che io con la tv «avevo chiuso»; che se mai avessi avuto bisogno di lui «me l’avrebbe fatta pagare…». Mancava solo che promettesse di «rovinarmi», come il padrone col sottoposto, il produttore con il regista o l’attore… Non era il caso, dato che non c’erano rapporti di alcun genere, e poi ero troppo poca cosa per lui.

Ma anche nel momento in cui doveva accettare che non ero come lui (ciò che lui riteneva oltremodo importante non aveva per me nessun valore), non poteva fare a meno di trattarmi come uno della sua razza (a parte il lato grottesco, l’episodio è anche indicativo del costume verso i media di una certa Nuova sinistra, che non solo non si negò a nessuna offerta o occasione, ma anzi le ricercò, fu sensibilissima alle seduzioni del potere, ben presto a caccia di posti, carriere, pubblicità…).

Io credo di essere sostanzialmente rimasto quello di allora, anche se la Nuova sinistra non c’è più da un bel pezzo. Ma non io solo. Quasi tutti gli amici e compagni dei Quaderni piacentini hanno continuato a distinguersi per riserbo, decenza, hanno resistito assai meglio di ogni altro gruppo e formazione d’allora alla volgarità e all’opportunismo trionfanti. Non lo dico a scopo apologetico: può darsi che dopotutto la maggiore decenza nostra rispetto ad altri sia solo un fatto di classe: tra noi prevaleva l’elemento borghese, di buona famiglia, rispetto all’estrazione più piccolo-borghese o plebea di altri gruppuscoli; eravamo meno affamati, meno voraci, avevamo già il necessario e il superfluo, non avevamo bisogno di guadagnarci un posto al sole.

Tratto da Diario del Novecento, a cura di Gianni D’Amo, in libreria dal 26.05.22.

ARTICOLO n. 29 / 2022

FORD ESCORT

Ricordo con precisione la prima volta in cui ho desiderato morire.

Avevo sette anni ed ero in vacanza con i miei genitori, sui Pirenei.

A loro piaceva molto girare l’Europa in macchina e tenda da campeggio e la Francia del Nord è stata una delle mete preferite di quegli anni d’infanzia.

Entrambi i miei genitori parlavano fluentemente il francese e si erano appassionati alle zone meno turistiche del paese. In più, la qualità dei campeggi d’oltralpe era innegabilmente migliore rispetto a quella italiana: le piazzole erano immerse nel verde, enormi, i servizi igienici erano puliti, il silenzio era quasi assordante. 

In Italia ricordo invece dei bagni pubblici che più che toilette erano armi batteriologiche con notevoli esempi di quella di dripping su tutti i muri e a discapito delle leggi della gravità, piazzole talmente piccole da poter sentire i vicini copulare o russare, autostrade sopraelevate passare sopra agli spiazzi dei campeggiatori.

Una volta, in un camping del centro Italia, andò a fuoco la tenda di un nostro vicino ed eravamo così appiccicati gli uni agli altri in quel minuscolo spiazzo che abbandonammo in fretta e furia la vecchia canadese, convinti che avremmo preso fuoco anche noi. Per fortuna non successe: il vento girava a favore, perciò andò a fuoco l’altro vicino, quello che si trovava sventuratamente dal lato opposto al nostro.

La vecchia tenda canadese comprata dai miei genitori nel lontano 1983 diventava per un mese la nostra dimora itinerante. Il rituale di montaggio e smontaggio di pali, tiranti e stoffa impermeabile pesantissima, era un gioco familiare che mi emozionava sempre.

Ognuno aveva un compito: mio padre picchettava, mia madre che da sempre ha una mente logica e pragmatica metteva i pali nel posto giusto, io sistemavo le stuoie e i materassini nell’interno. 

Era un esercizio di convivenza, una sorta di propedeutica alla cooperazione sociale: montando quella tenda imparavamo a darci dei ruoli diversi, quasi paritari, tutti egualmente essenziali nella catena di montaggio e che esulavano per qualche ora dalla gerarchia che la struttura familiare spesso impone.

La notte mi sembrava di essere di nuovo piccolissima. Dormivamo tutti e tre nella tenda, che era uno spazio molto grande. Io sul lato sinistro e, separati di qualche spanna, mia madre e mio padre con il loro materassino.

Ho imparato la sopportazione, in quei viaggi. Mio padre russa come un trattore ingolfato e mia madre è talmente precisa da far saltare i nervi. Io, che ho il sonno da sempre leggero e soffro molto la precisione, vivevo quelle giornate come se fossero delle sfide intense e al tempo stesso dei divertenti giochi a premi per capire come poter essere meno confusionaria e imparare ad addormentarmi seguendo il ritmo cadenzato del russare del mio babbo.

Con questo peculiare allenamento sviluppai un discreto senso del ritmo e una metodologia paramilitare di impacchettamento e spacchettamento delle valigie che mi sarebbe poi tornata utile (molti anni più tardi, davanti all’inevitabile tournée di promozione del primo libro, mi sarei ricordata di quell’insegnamento sull’arrotolare i vestiti per poter ottenere più spazio nello zaino).

Ma il vero nucleo del viaggio, la sua anima, si svolgeva nelle tratte in macchina.

La vecchia Ford Escort a diesel azzurrina, immatricolata nel 1986, era un concentrato di lamiere, interni in plastica nera e sedili di un tessuto che sotto al sole sapeva raggiungere la temperatura di fusione del piombo. Ai miei occhi però, sulle strade di montagna e quelle parallele al Mare del Nord, diventava un rifugio accogliente in cui il tempo si cristallizzava per ore e ore e tutto perdeva la sua contestualizzazione: che anno era? E noi, eravamo davvero mortali?

Si potevano fare un sacco di cose nell’abitacolo del vecchio motore dal design simil-sovietico.

Leggere, mangiare, distendersi nel baule spazioso come un divano, dormire, fare giochi di società e perfino fare i compiti per le vacanze che mi dava la maestra.

Nei sedili sul retro avevo creato uno spazio perfetto in cui ogni mia richiesta era a portata di mano, mia o di mia madre, a cui bastava passarmi ciò di cui avevo bisogno senza neanche girarsi.

Grazie al mio stoico sistema vestibolare, non ho mai sofferto il mal di macchina – o di mare o d’aereo.

Perciò ho imparato presto che potevo leggere i miei libri anche mentre la vecchia Ford si arrampicava su per i tornanti più impervi e le strade più tortuose dei Pirenei.

Ero – sono tutt’ora – impressionante, non ho mai avuto un solo momento di esitazione gastrica.

Questa abilità mi permetteva di leggere ad alta voce i libri che divoravo nel tempo libero, cosicché potessero sentirli anche i miei genitori, come se fossi una sorta di antesignano audiolibro da ascoltare mentre loro erano concentrati sul viaggio.

Non ero fan della fiction per bambini, perciò spaziavo da Calvino ad Agatha Christie, da Buzzati alle poesie del Pascoli. 

Decantavo versi o pagine di narrativa distesa con le gambe all’insù e la testa penzoloni dal sedile, i piedi nudi, nessuna preoccupazione.

Davanti avevo mamma e babbo che pensavano a tutto il resto. Tutto quanto. E il tempo per me cessava di esistere.

Spesso non mi interessava neanche la meta finale della tappa.

Un microcosmo perfetto per una bambina, un luogo in movimento in cui fare conoscenza in modo filtrato (dai vetri del finestrino) di ciò che avevo intorno e diretto (con i libri) per ciò che invece contribuiva alla mia emotività.

Il punto fisso, ciò che rendeva unica questa esperienza, era ovviamente la presenza dei miei genitori sui sedili davanti, in una simbolica posizione di guida, del veicolo ma anche della mia stessa esistenza.

Osservavo con amore infinito le gestualità di mia madre che apriva il finestrino a manovella della Ford, che scricchiolava furiosamente con il sole ma che scorreva agile e senza rumore con la pioggia. O il suo sfogliare le mappe cartacee che a me erano indecifrabili e che lei invece sapeva decodificare così bene che non ci siamo mai persi, in tutti quei viaggi, per tutti quegli anni.

Ero incantata dall’accendisigari – questo cimelio automobilistico mi manca tantissimo nelle nuove macchine, era un capolavoro per noi tabagisti – che mio padre azionava premendolo per poi accendersi una delle sue sigarette che in Italia erano le MS e in Francia diventavano le Gitanes Papier Maïs: dopo che bruciava la punta della sigaretta, il mio babbo mi permetteva di tenere in mano quell’aggeggio misterioso e io guardavo il filamento di metallo diventare incandescente e luminoso per poi pian piano spegnersi. 

Ricordo il mangianastri.

Era un rito nel rito.

Cassette con su inciso Battiato (credo di sapere a memoria tutto La voce del padrone proprio grazie a uno di quei viaggi lì) o De André (Non al denaro non all’amore né al cielo lo imparai come se fosse un’unica preghiera). Cassette che spesso si incastravano nel mangianastri e dovevano essere riavvolte nella bobina con una penna, facendole girare su loro stesse.

Perfino gli impedimenti più noiosi del quotidiano, come dover fare pipì o riavvolgere una cassetta, diventavano speciali.

Avevamo tutto: i nostri luoghi, la nostra velocità, la nostra colonna sonora, la nostra casa su ruote e quella con stoffa e pali, su terra.

Fu netto, il pensiero.

Arrivò intrusivo e lucido, tagliente come un foglio di carta preso di striscio con il polpastrello. 

«Io non voglio che finisca mai».

Subito dopo successe una cosa che capitava di rado, vista la prudenza alla guida dei miei genitori: mio padre dovette sterzare di colpo per evitare un’altra auto che stava uscendo dalla sua corsia.

Fu rapido, velocissimo, come il rush di adrenalina che dai polsi mi prese il viso e poi i piedi.

Dicono che quando hai paura il sangue confluisca tutto alle estremità per garantire la fuga.

Eppure io non avevo avuto nessun istinto, nessun movimento involontario che facesse intendere il mio desiderio di ripararmi da un eventuale impatto frontale.

Io rimasi ferma, seduta nel mezzo, sui sedili posteriori, con lo sguardo fisso a quella macchina che veniva dritta verso di noi. Ero calma. Ero pronta.

Fu allora che arrivò a farmi visita quel pensiero.

Fu allora che desiderai di morire per la prima, primissima volta in vita mia.

Pensai, lo ricordo con chiarezza, che sarebbe stato bellissimo morire in un incidente, tutti e tre insieme, sul colpo, nella nostra Ford Escort azzurrina dal design simil-sovietico e con Battiato in sottofondo che cantava Summer On a Solitary Beach.

Sarebbe stato bellissimo perché in quel modo la nostra vacanza perfetta, il nostro limbo di amore familiare, sarebbe durato in eterno e privato dall’inevitabile sofferenza di chi invece è, per come va la vita, costretto a rimanere.

Non sapevo da dove arrivasse quell’immagine, non pensavo di essere capace di saper pensare alla morte, che allora io non conoscevo: nessuno era ancora venuto a mancare nella mia famiglia e io non ero sicuramente quella che si può definire una bambina cupa. Ero estremamente silenziosa, questo sì, ma non triste o quantomeno non così pragmatica da pensare alla fine della vita. Soprattutto a quella degli altri.

Pensai però che sarebbe stato bello finire felice, con un bonus sorrisi per chi rimaneva: una famiglia che se ne va in coro alla fine è meno triste e dolorosa di una famiglia che si estingue man mano.

Pensai che se fossimo morti in quel preciso momento nessuno di noi avrebbe dovuto affrontare il lutto per la morte degli altri due. E io sapevo, sapevo già precisamente che se tutto fosse andato come previsto dalla vita che riteniamo «lineare», quella persona che avrebbe dovuto affrontare la perdita sarei stata prima o poi io.

Fui talmente folgorata da quella che credevo essere una rivelazione geniale che, poco dopo il frontale evitato da mio padre, sottoposi ai miei genitori quel bizzarro finale di stagione che avevo previsto per la nostra vacanza: perché, dissi, non moriamo tutti e tre insieme?

E lì accadde una cosa che non avevo previsto minimamente e che avrei capito soltanto molti anni dopo: i miei genitori, senza neanche girarsi, scoppiarono a ridere.

Una risata unanime e di pancia, irrefrenabile, pura, che mi sconvolse perché davvero, davvero non riuscivo a comprendere cosa ci fosse di assurdo in quella mia richiesta così seria e apparentemente così lucida.

Loro ridevano di quella che per me era la via più semplice per tutti, quella che avrebbe comportato il famoso lieto fine.

Sono passati ventotto anni da quell’estate in cui per la prima volta pensai alla morte.

Nel frattempo ho sperimentato tante volte il lutto sulla mia pelle.

Ho imparato cosa voglia dire sopravvivere al dolore, al tempo e allo spazio che divide i corpi di chi va e di chi rimane.

Ripenso spesso a quell’estate sui Pirenei, alla nostra Ford azzurrina a diesel dal design simil-sovietico, ai miei libri letti a testa in giù e al rituale della tenda canadese.

E penso ancora, quasi quotidianamente, al momento in cui, se tutto andrà come ahimè deve, rimarrò io quella che deve sedersi al posto di guida. 

Adesso ho capito il senso di quella risata.

Gianna e Valerio ridevano perché loro erano già grandi.

Io, quel giorno, sui Pirenei ho urlato chiaramente che non ero pronta a diventare grande. Che io, il dolore, non lo volevo proprio considerare come alternativa, che la mia sopravvivenza era legata a doppio nodo con la loro.

E che a me andava benissimo così.

Anche se non è così che la natura opera.

Ci sono momenti, poco prima di dormire, in cui il pensiero di sopravvivere ai miei genitori mi rende impossibile il sonno.

E di nuovo sento quel rush di adrenalina che parte dai polsi e si dirige veloce alle estremità del mio corpo, preparandomi alla fuga.

Eppure mi trovo a dover rimanere in quella posizione senza vie di fuga, stavolta neanche immaginarie.

Il passaggio all’età adulta è smettere di cercare scappatoie dallo spazio ma soprattutto dall’andamento lineare del tempo, da cui non possiamo evadere, anche se a volte ci sembra possibile grazie a quei momenti di incredula bellezza che sappiamo vivere soprattutto nella prima, primissima infanzia.

Ricordo chiaramente la prima volta in cui ho desiderato di morire. 

E quando adesso ci ripenso mi viene da ridere. 

Di gusto, in modo cristallino e puro, proprio come Gianna e Valerio fecero ventotto anni fa in quella Ford Escort.

E capisco, tra una risata e un nodo alla gola, di essere diventata, finalmente e mio malgrado, un’adulta anche io.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.

ARTICOLO n. 28 / 2022

L’ENERGIA DI UNA MONETA

L’11 marzo 2022, alle 10.06, su un treno Tilo, tra la stazione di Lugano e Lugano Paradiso, ho pensato a Franco Cordelli. Premetto che non ho mai incontrato Franco Cordelli e tantomeno Franco Cordelli attraversa, di solito, i miei pensieri. Quante volte avrò pensato a Franco Cordelli, nella mia vita? Quattro, forse cinque. Ho cercato di leggere un paio di libri e di articoli. E tuttavia, guardando uno spicchio di lago la mattina dell’11 marzo 2022, ho pensato a Franco Cordelli. 

Franco Cordelli, il 25 maggio 2014, sul numero 131 de la Lettura, in un articolo intitolato La palude degli scrittori aveva evidenziato alcune frasi scritte da me e da Giorgio Vasta, additandole come esempi di cattiva scrittura; Franco Cordelli non riusciva a capacitarsi, «a me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati», aveva scritto; poi, partendo da lì, aveva diviso la letteratura italiana in varie tribù e recitato il declino della narrativa e della critica.

Un tipico articolo da chiacchiericcio domenicale, la domenica di un’altra epoca unita alla domenica contemporanea, come se la parodia della critica novecentesca si innestasse in lungo post di Facebook. Nel 2014 avevo preferito non replicare. Ma otto anni dopo, davanti all’invitante grigiore dell’acqua alla fine di un inverno afoso, ho pensato a un’abitudine della mia infanzia correlata a una delle frasi stigmatizzate da Franco Cordelli: l’abitudine di guardare, assieme a mio padre, il Lago di Lugano utilizzando un cannocchiale a gettone.

La frase evidenziata da Franco Cordelli era l’energia di una moneta, estratta da un capitolo-racconto intitolato Un altro ancora, contenuto in un mio libro uscito per Einaudi nel 2009: L’ubicazione del bene.

L’energia di una moneta si riferisce al tempo concesso se inseriamo una moneta in un cannocchiale a gettone. Volevo scrivere una storia su un cannocchiale a gettone, evitando di citare quell’abitudine tra me e mio padre. Allora per scrivere quella storia ero partito da una fotografia che non mi convince, di Luigi Ghirri, per giungere a una fotografia che amo molto di più, una fotografia di Allan Sekula: insomma, dalla fotografia del cannocchiale posizionato sul belvedere italiano alla fotografia del cannocchiale che, dietro una vetrata, inquadra un cargo nell’oceano.

Nella celebre fotografia di Ghirri siamo immersi in una intenzionale cartolina. La divulgazione della visione è tutto. C’è una sensazione di benessere nel guardare quell’immagine, come accade quasi sempre con le fotografie di Ghirri. Davvero non abbiamo bisogno d’altro?

Nella fotografia di Sekula, oltre a un cannocchiale, c’è anche una vetrata, uno schermo tra noi e il mare. E al posto del Mediterraneo blu idilliaco di Ghirri, l’acqua è grigiastra, come il cielo, e c’è un cargo. Grazie alla presenza della vetrata, una parte del cannocchiale si riflette nel mare, proprio in direzione del cargo. Inoltre, il cannocchiale, con i suoi due occhietti meccanici, non sta soltanto puntando il cargo, ma sembra fissare noi, che stiamo per avvicinarci a quella che immaginiamo sia la sorgente della visione. Insomma, il nostro sguardo soggiace alle stesse leggi dell’economia. Perfino quando guardiamo da un cannocchiale a gettone, soprattutto in una zona turistica, dobbiamo porci alcune domande. E sono quelle del testo Un altro ancora. Perché un ente, un’azienda del turismo o un’istituzione hanno deciso dove posizionare il cannocchiale a gettone. Quindi noi paghiamo, pensiamo di avere la libertà derivante dal denaro ma qualcuno ha scelto per noi cosa farci vedere.

Ho studiato sia Ghirri che Sekula, ma Sekula mi interessa di più, mi pone dubbi, il punto è proprio quella vetrata tra il cannocchiale e il cargo.

Un altro ancora è un testo diviso in due parti. La seconda parte narra di una coppia di sposi, Monica e Michele. Sembrano felici durante il banchetto nuziale, il fotografo li ritrae nel giardino del ristorante ma la pioggia interrompe il lavoro del fotografo. I due sposi devono partire per il viaggio di nozze proprio l’indomani, allora concordano con il fotografo un appuntamento al loro ritorno, per scattare le fotografie che mancano al completamento dell’album. Indosseranno gli abiti della cerimonia nel giardinetto della loro casa di Cortesforza. Certo, saranno abbronzati, avranno i capelli un po’ più lunghi rispetto al giorno del matrimonio, forse nel loro viaggio di nozze sarà accaduto qualche screzio rivelatore di traumi più profondi. 

Riuscirà la fotografia a mentire – e a dire la verità – come al solito?

È una domenica mattina, a Cortesforza, il luogo immaginario ubicato lungo il Naviglio Grande, diciotto chilometri a sud-ovest di Milano, il luogo nel quale ho ambientato le storie di quel libro. Monica, in abito bianco, è nervosa, cammina avanti e indietro dal soggiorno alla finestra della cucina, in attesa del fotografo. Michele, vestito come il giorno delle nozze, è stravaccato sul divano di casa. Ha acceso il televisore, guarda una partita di rugby, in diretta dalla Nuova Zelanda.

Ho usato questo espediente narrativo per creare l’ulteriore sfasamento tra spazio e tempo. Ecco perché ho scelto la Nuova Zelanda; è una questione di fusi orari, poiché quando in Italia sono le otto di mattina, lì, in estate, è già passato il tramonto, e volevo che la partita fosse in diretta.

La Nuova Zelanda ha una grande tradizione nel rugby, volevo che Michele guardasse una mischia nella quale il pallone scompare sotto i corpi degli atleti, così come le immagini ipotetiche del suo matrimonio erano scomparse due settimane prima.

La Nuova Zelanda è proprio dall’altra parte del pianeta rispetto all’Italia.

E infine, in Nuova Zelanda piove spesso, desideravo ricreare le condizioni climatiche che avevano impedito le fotografie durante il giorno delle nozze, quindici giorni prima, in Italia, così che la pioggia televisiva e satellitare live stridesse con il presente dell’inutile sole italiano, creando un ulteriore cortocircuito psichico.

Insomma, tutto in ordine per allestire la finzione: ma il fotografo utile al falso documentario arriverà davvero?

Questi elementi sono visibili sottotraccia. Un lettore attento o una lettrice attenta dovrebbero percepirli. Certo, da molti anni, leggere davvero, con attenzione, ed effettuare i collegamenti tra le varie parti di un testo e i riferimenti ad altre arti, senza fermarsi gongolando all’effetto immediato, eroico sentimentale, è più faticoso.

Il Metodo Franco Cordelli consiste, almeno per ciò che concerne quell’articolo, nell’isolare una frase e additarla, oppure citare un aggettivo, alla sesta riga di un libro di 350 pagine e chiuderlo, senza parlare dell’opera, senza analizzare gli intrecci, i richiami da un libro all’altro, dalla fotografia alla letteratura, dimenticando una ovvietà: un libro è qualcosa di più delle frasi che lo compongono. Ma per gli amici e le amiche di Franco Cordelli, per i simpatizzanti e le simpatizzanti di Franco Cordelli, quello di Franco Cordelli era «un atto di libertà», «un esempio di rigore», «un gesto etico», perché Franco Cordelli è «magistrale».

La prima parte del mio testo Un altro ancora, è un breve saggio narrativo. Parto dal cannocchiale del belvedere che funziona con una moneta. Dopo aver inserito la moneta abbiamo tre minuti di tempo. 

«Cosa posso vedere in tre minuti? Tre minuti, in molti processi produttivi, è ciò che distingue una cosa buona, utile, che ha senso, da una cosa cattiva, inutile, priva di senso. Ci interessa la produttività del nostro guardare, raggiungere un obiettivo qualsiasi…»

Quindi, dopo aver inserito la moneta, dobbiamo catturare un pezzo di paesaggio che giustifichi l’investimento. In tre minuti cerchiamo di catturare qualcosa, non importa cosa. Siamo clienti, abbiamo pagato, in teoria abbiamo diritto a qualcosa, di utile o inutile, qualcosa che a volte non dura nemmeno tre minuti, poiché, già dopo un minuto e mezzo, siamo stanchi, annoiati dal guardare e non siamo nelle condizioni fisiche né di guardare né tantomeno di vedere. Ignoriamo che quel pezzo di mondo è concesso non soltanto dalle scelte dell’azienda produttrice, ma anche dalla Pro Loco e dall’Azienda del Turismo che hanno deciso di posizionare il cannocchiale in un punto e non in un altro. 

Il cannocchiale – la base esagonale, la sua lente – è prodotto dai lavoratori di un’azienda. Altri lavoratori, con le sembianze momentanee da turisti, inseriranno una moneta per acquistare la quantità di tempo necessaria a vedere qualcosa. Infine, un altro lavoratore ritirerà il denaro.

L’energia di una moneta: ecco cosa ne pensava Franco Cordelli.

«Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa».  

Se utilizzassi il Metodo Franco Cordelli, dovrei prendere una frase scritta da Franco Cordelli, una frase a caso. Per esempio, «alzare i tacchi». Ah, non la sentivo dalle cattive traduzioni dei noir americani anni Quaranta o dai doppiaggi dei film western della stessa epoca: ehi, Frank, bevi questo cicchetto, alza i tacchi e smamma. Ma sarebbe ingeneroso demolire la scrittura di Franco Cordelli per una frase, sebbene, alzare i tacchi, non sia ripetuto dal personaggio di un libro di Franco Cordelli, ma proprio da Franco Cordelli in un suo testo. Eppure, Franco Cordelli ha adoperato con l’energia di una moneta il Metodo Franco Cordelli sottolineando, «non è un bello scrivere». Eh, sì, siamo ancora a «non è un bello scrivere». Quando ho letto la sottolineatura di Franco Cordelli, mi sono immaginato a otto anni, in pantaloncini corti, mentre scrivevo alla lavagna, per punizione.

Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere…

Sono stato fortunato, ho avuto una ottima insegnante alle elementari e non il magistrale maestro Franco Cordelli. Non è un bello scrivere. Più si ripete e più diventa una frase ridicola, eppure perde presto il suo aspetto ridicolo e diventa soltanto straniante. Non è un bello scrivere. Un bello scrivere. 

Io amo un bello scrivere. Tu ami un bello scrivere. Noi amiamo un bello scrivere.

La letteratura è tutta lì, secondo Franco Cordelli. Ma la sua critica – ininfluente dal punto di vista letterario e poetico – è deludente dal punto di vista visivo e politico, e quindi, dal punto di vista di un artista. È ciò che ho pensato guardando lo spicchio del Lago di Lugano, la mattina dell’11 marzo 2022. Significa negare il fatto che per guardare una fetta di mondo con il cannocchiale occorra pagare. Significa esaltare l’ideologia dell’evento, l’evento avulso da un qualsiasi contesto che non sia quello turistico e commerciale, per evidenziare la centralità del belvedere da magazine, l’ideologia del paesaggio privo di conflitto, la visione ripulita, a pagamento. Significa negare che per guardare e avere l’illusione di guardare, serva introdurre una moneta, e quella moneta è guadagnata con il lavoro, un qualsiasi lavoro, come quello di mio padre quando ero bambino, o quello di Franco Cordelli, che scrive un articolo per la Lettura. Nel mio caso, l’energia di una moneta è un omaggio all’energia profusa (profusa la utilizza anche Bufalino, forse non sarò sanzionato per questo) da mio padre nel lavoro, la vita che passa, la morte; e ciò che resta, a volte, è anche qualche immagine guardata e vista, vista assieme: e quindi, resta moltissimo. E nulla quanto alcuni oggetti analogici mi sembrano adatti al passaggio dal Novecento al capitalismo dell’attenzione, o meglio, al capitalismo della disattenzione, e al meccanismo grazie al quale le persone non leggono davvero, non guardano davvero, e non vedono, mai.

Quando ero bambino, andavo con i miei genitori e mia sorella su un belvedere in provincia di Como. Questo luogo era a metà strada tra la sponda occidentale del Lago di Como e il Lago di Lugano: Vetta Sighignola, ribattezzata dal Comune di Lanzo d’Intelvi, Balcone dItalia. Era un piazzale, un parcheggio balconato dal quale, a 1300 metri d’altezza, si vedeva il confine, la vicinissima Svizzera, il Lago di Lugano. C’era un cannocchiale a gettone, chiedevo a mio padre una moneta. Ero sempre emozionato e ansioso, non appena la moneta precipitava nell’oggetto di ferro; ero anche triste, mi sentivo in colpa, stavo utilizzando una porzione del tempo di mio padre, l’energia di mio padre per guadagnare denaro, l’energia trasferita dal corpo al denaro: l’energia di una moneta

E così la mattina dell’11 marzo 2022, più che a Franco Cordelli e ai suoi tacchi, ho pensato a mio padre, alla fine degli anni Settanta, a quando guardavamo assieme il Lago di Lugano alternandoci al cannocchiale, ma in fretta, per non consumare il poco tempo che ci era concesso. Sprecavo una moneta, avevo l’illusione di guardare un pezzo di Svizzera, l’illusione di fuggire, o meglio, di evadere per qualche secondo, almeno con lo sguardo, dall’Italia. 

(«Allora ritorniamo alla nostra utilitaria. Siamo già altrove. Immaginiamo l’uomo che passa ogni lunedì mattina, apre la pancia del cannocchiale per raccogliere le monete. Se fossimo diversi da come siamo, ci piacerebbe pensare che, oltre ai soldi, l’uomo possa raccogliere anche i nostri minuti di immagini guardate, per metterle nel retro del furgone e portarle nel mondo. Ma noi non siamo così. Ci basta vedere l’uomo fermo, al semaforo, mentre impreca, dice qualcosa, un’invocazione o una bestemmia che non udiamo, l’uomo ha i finestrini chiusi, serrato nell’aria condizionata del furgone, e allora sentiamo una voce che nemmeno ci parla, è precedente alla parola, all’immagine: strano essere qui, adesso»).

ARTICOLO n. 27 / 2022

UN VIDEO DI MIA NONNA CHE BALLA

Traduzione di Camilla Pieretti

Un video di mia nonna che balla

Da qualche anno, filmo e fotografo mia nonna ogni volta che la vedo. Un giorno le ho chiesto se potevo farle un videomentre ballava. Adora danzare, ma non ha mai voluto seguire un corso.

Non parlo inglese, si è giustificata. Non capirei cosa dicono. Ai tempi, tuo nonno ha commentato: Hai sei figli, a che ti serve imparare l’inglese?

Così, preferisce accendere MTV, piazzarsi davanti al televisore ed esercitarsi nel cha cha cha.

Quando le ho chiesto se potevo filmarla ha accettato, a condizione che non le si vedesse la faccia.

Sono brutta, ha detto.

Ho attivato la fotocamera del telefono e lei si è girata, dandomi la schiena. Ha cominciato a contare, battendo i piedi sul pavimento.

D’un tratto, si è fermata.

Mi sono dimenticata tutto, ha detto, uscendo dall’inquadratura.

Stavi andando bene, nonna! Le ho risposto. Pensi di poterlo rifare?

Si è coperta la bocca con entrambe le mani, ridacchiando, è tornata davanti alla fotocamera con un lento strascichio di piedi e si è girata di nuovo di schiena.

Faccio una cosa diversa, però, ha detto. L’ho imparata dalla TV.

È rimasta ferma per qualche istante.

Poi si è messa in punta di piedi, come se avesse indossato un paio di scarpette da ballo. Mormorando piano, ha portato le mani vicine al petto e sollevato i gomiti verso l’alto.

Ha cominciato a librarsi per la stanza in piccoli cerchi.

Aveva le piante dei piedi pallide e fessurate, i pantaloni del pigiama tutti storti, che ondeggiavano seguendo i suoi movimenti.

Ho stretto forte il telefono.

Con i gomiti in precario equilibrio sulle ginocchia, ho affondato i talloni nel divano, trattenendo il fiato.

Lei continuava a danzare.

Potrebbe aver detto qualcosa, ma l’ho scordato.

Ricordo solo che, di tanto in tanto, quando si girava, scorgevo sul suo visto tondo un’espressione raggiante, gli occhi socchiusi come due mezzelune.

L’oceano

Alla fine dell’anno, io e mamma siamo andate da una chiromante.

Ho detto: La nonna ha chiesto che le sue ceneri vengano sparse nell’oceano quando non ci sarà più.

Ma fa freddo! Ha detto la chiromante, senza neanche guardare le carte. Ditele che nell’oceano fa troppo freddo.

Oh, non ci ascolterà, ha risposto mamma. Dice che da morta vuole essere libera.

© 2022 by PIk-Shuen Fung

ARTICOLO n. 26 / 2022

FARLA FINITA CON SÉ STESSI

Sarà dolcissimo distruggerci vedrai
E come i cieli amore nitido sarà
Baustelle, I Mistici dell’Occidente

C’è stato un momento della vita in cui ho dovuto constatare che molti dei miei artisti e intellettuali preferiti sono morti suicidi. Kurt Cobain, Pavese, Hemingway, Virginia Woolf, Philip Seymour Hoffman, Ren Hang, Walter Benjamin, Rothko, Mark Fisher – solo per citarne alcuni nell’ordine con cui sono apparsi nella mia storia personale. Quelli che non si sono uccisi, come Sartre, Leopardi o Thomas Bernhard, hanno messo la possibilità del suicidio al centro della propria opera. Altri ancora, come Kafka o Baudelaire, hanno fatto della malattia e del disagio una chiave per interpretare la vita. Dovevo preoccuparmi? Stavo sviluppando un’ossessione morbosa per l’annientamento di sé? Sarei finito anch’io con le vene tagliate, o con un’overdose di barbiturici?

Ogni volta che mi chiedevo cosa mi attraesse dell’idea del suicidio finivo per tornare a un’immagine: quella del quarto maestro della Montagna sacra di Jodorowsky, l’unico che non può essere sconfitto dal protagonista perché prima del duello si toglie la vita. L’immagine mi faceva tornare a Kafka, ai suoi digiunatori e trapezisti che non accettando mai di essere veramente vivi si rendono immortali, ma anche al grande rifiuto della musica punk con cui ero cresciuto. Si trattava di un’attitudine nei confronti della vita che avrei potuto definire solo mistica, la morte come forma estrema di ricerca spirituale o elaborazione del sé. Era anche una forma di romanticismo: la morte come ingresso nell’Assoluto, o quantomeno come tentativo di raggiungere un’autenticità totale. «Il contatto, finalmente, con le cose», per dirla con le parole che chiudono Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, pronunciate prima che Alain Leroy si spari in testa come avrebbe fatto il suo creatore quindici anni più tardi, schiacciato dal peso della sua scelta collaborazionista.

Riflettendoci meglio, però, mi sono reso conto che la questione del suicidio è spesso malposta, almeno nei termini in cui la vita umana, come ogni altra narrazione, richiede un finale per essere interpretata (e in questo caso Kafka è davvero il contrario del suicidio, con i suoi romanzi che si interrompono a metà e le storie che rifuggono ogni epilogo). Il problema con la morte autoinflitta, quello che la rende un oggetto tanto scottante, è proprio il fatto che porti a leggere retrospettivamente tutto ciò che l’ha preceduta alla luce di quell’unico, ultimo atto. È una tentazione forse inevitabile, ma pericolosa, perché ci porta a interpretare la parabola di una vita come predeterminata: il caso più eclatante di una profezia che si autoavvera. Esempio emblematico è quello di un suicido che ci appare gratuito, immotivato o non annunciato da alcun segnale. Per due ragioni: la prima è che apre lo spazio alla questione filosofica dell’assurdo; e la seconda è che ci sprofonda in un mistero forse ancora più grande, quello della persona e delle zone di inaccessibilità nella sua mente. Ci costringe a confrontarci con un doppio vuoto, quello al di fuori di noi (la vita e la morte come condizioni arbitrarie) e quello dentro di noi (il punto cieco al centro della personalità). Anche per questo il suicidio rimane ancora oggi un argomento tabù.

Ho tratto l’esempio dell’autodistruzione apparentemente gratuita da Note sul suicidio, un breve libro di Simon Critchley da poco portato in Italia da Carbonio nella traduzione di Alberto Cristofori. Critchley, insieme al suo sodale della International Necronautical Society, lo scrittore Tom McCarthy (un’altra delle mie liaisons dangereuses), si occupa da sempre del ruolo della morte nelle nostre società e del concetto di «buona morte», e dunque è forse tra i filosofi più preparati per parlare dell’argomento.

In Note sul suicidio fa subito notare un’evidenza spesso dimenticata dalla macchina obliteratrice che riscrive le vite a partire dalla loro fine, e cioè che non tutti i suicidi sono uguali. C’è una differenza abissale tra chi si uccide per sfuggire a una depressione grave o a una malattia incurabile del corpo, chi lo fa perché si trova in una situazione senza via d’uscita (Walter Benjamin a Portbou nel 1940, in fuga disperata da un’Europa sempre più nazista) e chi è costretto dal potere politico (come Socrate), chi lo fa come dimostrazione politica o scelta religiosa (lo stesso sacrificio di Gesù, fa notare Critchley, può paradossalmente essere letto come un suicidio) e un attentatore suicida, tra chi si toglie la vita per affermarne i valori e chi per disprezzo nei suoi confronti. Le sfumature sono infinite e come tali andrebbero trattate – moralmente e legalmente: pensiamo all’eutanasia –, affrontate caso per caso. Senza contare che nella lettura del suicidio che diamo in Occidente pesa tanto la matrice cristiana secondo la quale la vita è un dono di Dio che solo Dio ha il diritto di toglierci, argomento di cui Critchley esamina le falle logiche, quanto l’idea illuministica (non meno fallata) di una totale autodeterminazione razionale e cosciente. 

Critchley circoscrive la sua analisi all’Occidente, ma nemmeno le filosofie orientali vedono di buon occhio il suicidio: penso ad esempio al fatto che per il Buddhismo è altrettanto errato aggrapparsi alla vita quanto rifiutarla. Eppure la possibilità di decidere di morire esiste sempre dentro di noi, in ogni momento: una forma di libertà forse non assoluta (quanto ci apparteniamo veramente? Quanto possiamo fare di noi ciò che vogliamo?) ma comunque presente nel ventaglio di opzioni a nostra disposizione. Laddove c’è libero arbitrio si entra sempre in un territorio moralmente complesso. Come sanno bene i soldati in guerra, ma anche gli amanti, siamo tutti buoni finché non ci viene data la reale possibilità di fare il male. Il suicidio, o quantomeno il pensiero del suicidio, è quindi anche uno specchio che riflette ciò che siamo davvero sotto la patina della vita quotidiana.

Il suicida si trova sempre in uno stato mentale estremo, nel quale la morte sembra l’unica via d’uscita da una situazione impossibile. Tutt’altro che assurdo, togliersi la vita appare come l’unico atto veramente sensato. Critchley ci conduce in questa zona oscura dell’anima portando a esempio i biglietti e lettere lasciate dai suicidi, vere e proprie istantanee di una mente ai confini dell’abisso. Entrare nel territorio del suicidio significa già essere passati dall’altra parte, che l’atto venga compiuto o meno. Qualche anno fa è uscita su Netflix una serie intitolata Tredici, nella quale la protagonista-narratrice adolescente, Hannah Baker, spiegava in tredici audiocassette le ragioni che l’avevano portata a togliersi la vita. Se da un lato la serie intendeva mostrare come sia impossibile trovare la fantomatica ragione unica alla base di un gesto tanto estremo, dall’altra metteva lo spettatore dentro un meccanismo (anche narrativo) che lo portava a identificarsi con la posizione di Hannah, arrivando a comprendere la logica ineluttabile del suo atto. Per Hannah, uccidersi era semplicemente l’unica scelta possibile, addirittura la più razionale.

Dall’esterno possiamo obiettare contro questa posizione, che può apparire addirittura nichilistica, ma il punto è proprio questo: non possiamo comprendere il suicidio se non dall’interno, e a quel punto è troppo tardi, perché la macchina narrativa ha già messo in moto i suoi ingranaggi e potrebbe non esserci più via d’uscita. Certo, quelle persone non siamo noi. Ma chi può dire che non lo saremo, un giorno? Hannah viene trascinata nella spirale da una serie di eventi che presi singolarmente non giustificherebbero la decisione di togliersi la vita, ma che sommati producono un meccanismo dal quale diventa impossibile sfuggire. Non stupisce che la serie abbia sollevato tante polemiche, attirandosi le accuse di rendere attraente o quantomeno di giustificare il suicidio tra gli adolescenti. Eppure è anche una lettura terribilmente realistica delle ragioni dietro un atto che spesso da fuori ci appare inspiegabile.

Nonostante ci siano tante forme di suicidio quanti sono i suicidi, scrive Critchley, ciò che le accomuna tutte è l’impressione che ha il suicida di ritrovarsi in una situazione senza via d’uscita. Che le costrizioni siano interne o esterne, di natura emotiva o politica, fisica o psichica, rimane il fatto che il suicida si trova sempre in una posizione in cui togliersi la vita sembra  l’unica soluzione a una contraddizione irrisolvibile. Il suicida ricorda quindi gli uomini di Kierkegaard o di Camus: si trova sempre, nei mesi o nei momenti che precedono l’atto, a guardare in faccia l’assurdo.

Giungere a questa constatazione mi ha fatto pensare a un altro libro pubblicato recentemente, L’assurda evidenza di Francesco D’Isa, uscito per le Edizioni Tlon. In questo breve «diario filosofico», D’Isa parte da una situazione personale (una grave malattia che l’ha costretto in ospedale da ragazzo) per riflettere sull’interrogativo al centro di ogni filosofia che si rispetti: perché vivere è meglio che morire? Da cui deriva, naturalmente, la domanda: qual è il senso del dolore? È il dilemma di Amleto, ma anche il questito fondamentale del pensiero, quella da cui discendono le filosofie e le religioni, perché non c’è ragione di elaborare complesse teorie sulla natura o sulla storia se la vita da cui queste teorie dipendono non ha senso di essere vissuta. Interrogarsi sulla morte significa riflettere sull’assurdo: sull’assurdità della nostra condizione di mortali, prima di tutto (di «creature di un sol giorno», come i Greci chiamavano gli umani: riprendo la formulazione dal titolo di un bel libro di Mauro Bonazzi pubblicato da Einaudi un paio di anni fa), e di conseguenza anche sulla miriade di forme in cui l’assurdo e il nonsenso si annidano nelle nostre esistenze, scavandovi tunnel come tarli nel legno e rifrangendo da prospettive sempre diverse la realtà ineluttabile della morte.

Il libro di D’Isa è interessante anche perché muovendo dalla contingenza dell’autobiografia riesce a esplorare, in una maniera tanto poetica quanto filosofica, le conseguenze di quell’assurdità originaria nella vita di tutti i giorni. Anche se abbiamo deciso che vivere sia meglio di morire, come facciamo a rapportarci alla mancanza di senso intrinseco che domina le nostre vite? Come facciamo, in altre parole, a guardare nell’abisso in cui guarda il suicida senza diventare suicidi noi stessi? Tra il libro di D’Isa e quello di Critchley ci sono evidenti similitudini, tanto formali (in entrambi i casi si tratta di testi brevi che partono da esperienze personali per interrogarsi su temi filosofici affini) quanto di contenuto. Quindi non mi sono stupito quando ho visto che il primo ha intervistato il secondo per la rivista L’Indiscreto, in un’interessante conversazione in cui gli autori sembrano duettare sullo spartito di una melodia comune.

Anche perché, curiosamente, persino le conclusioni a cui i due libri giungono sono simili. Negli anni D’Isa si è occupato spesso di filosofie e religioni orientali, facendo della capacità di mettere in dialogo Oriente e Occidente un tratto caratteristico del suo lavoro filosofico; molto meno invece Critchley, più radicato nella tradizione della filosofia continentale. Ma Note sul suicidio si conclude con un’immagine, quella del mare dell’East Anglia in inverno nel quale il filosofo decide di non affogarsi, e la constatazione che di fronte al limite estremo della vita ciò che rimane è la bellezza impermanente delle cose: «le nuvole grigie, i gabbiani, le raffiche di vento, una vasta oscurità che scende. Questa è la gioia. Qui è possibile tirarsi fuori dalla propria solitudine, smuovere quel nocciolo buio a forma di cuneo che è l’io e aprirsi agli altri… con amore».

D’Isa si spinge molto più in là in questo percorso, addentrandosi con più decisione nei territori del pensiero orientale, soprattutto quello Buddhista, ma arriva a una prospettiva molto simile a quel «qui e ora» invocato da Critchley quando scrive che «è qui, al di là di ogni giudizio di valore, che si dissotterra la neutra e abbacinante bellezza di ogni cosa»; o invoca «una specie d’innamorata meraviglia per uno spettacolo di cui si è attori e spettatori, la cui bellezza include e giustifica il male, cullandolo con amore nella perdita di ogni significato».

Mi sembra interessante notare che entrambi gli autori concludano la loro disamina dell’assurdo parlando di amore (anche perché cosa c’è di più assurdo dell’amore, soprattutto di fronte all’ineluttabilità della morte?). Ma ancora più interessante mi pare la fonte da cui sgorga questo amore, che è la perdita di sé, la distruzione di «quel nocciolo buio a forma di cuneo che è l’io». Quando ci si pone di fronte alla prospettiva del suicidio qualcosa deve davvero morire. Quel qualcosa non è necessariamente «io» nella mia totalità, ma è il mio «io», quella cosa che mi fa dire di essere qualcuno, che dà sostanza filosofica e psicologica alla mia persona. Il modo per non uccidermi è uccidermi, soltanto in una maniera diversa.

Questa mi sembra una conclusione molto importante, capace di illuminare tutto il problema del suicidio di una luce diversa. Torno alle ragioni che da sempre mi attraggono verso i suicidi, al quarto maestro di Jodorowsky e a quella che ho definito una «mistica dell’estremo», alla morte come ricerca di realizzazione personale e conoscenza di sé. Alla base di ogni ricerca spirituale c’è la necessità di spogliarsi dei propri averi (il Buddha che lascia il palazzo dorato in cui è cresciuto, San Francesco che dona le proprie ricchezze), ma forse più di tutto è necessario liberarsi della cosa che crediamo di possedere più intimamente (anche se ovviamente non la «possediamo» veramente mai) e che ci radica alla vita: vale a dire noi stessi. 

È significativo che questa sia anche la proposta al centro di un altro libro in cui sono inciampato in queste settimane, sempre pubblicato da Tlon: Per farla finita con se stessi di Laurent De Sutter (traduzione di Marco Carassai). Questo breve «antimanuale di crescita personale», com’è sottotitolato, ci accompagna lungo un percorso secolare di definizione dell’idea del Sé, partendo dalle radici greche del termine «persona» e arrivando ai manuali di self-help, passando per la definizione del «sé» giuridico nel pensiero di Locke e all’autosuggestione come cura della psiche teorizzata dal farmacista francese Émile Coué nel XIX secolo. Il libro è più ostico dei precedenti lavori di De Sutter, anche se ne conserva l’approccio interdisciplinare, la capacità di mischiare cultura alta e bassa, la prospettiva storica ampia e lo stile conciso che hanno fatto di Narcocapitalismo (Ombre Corte 2018, traduzione di Gianfranco Morosato) uno dei migliori testi di critica culturale pubblicati negli ultimi anni. Per farla finita con se stessi ha un duplice pregio: quello di mostrarci come l’idea di sé sia una conquista storica, e non un datum neurologico; e come il sé sia sempre un costrutto politico se non addirittura poliziesco, l’«essere sé stessi» sempre un «dover essere», un uniformarsi alle richieste di un esterno (caso particolarmente evidente proprio nei manuali di autoaiuto, nei quali noi stessi diventiamo la polizia morale di un’evoluzione del nostro sé che si conforma a ciò che la società ritiene «buono», «giusto» o «desiderabile»). Conclude dunque De Sutter che «dobbiamo farla finita con noi stessi, perché dobbiamo farla finita con tutto ciò che poggia sull’idea che saremo qualcosa per garantire che non saremo qualcos’altro, che non cominceremo a vagare fuori dai cardini ontologici che formano le frontiere politiche del possibile». E arriva a proporre una politica della non-identità, in cui «non ci interessa essere un sé, essere qualcuno» perché «quello che vogliamo è scomparire», «non essere niente».

De Sutter non parla mai di suicidio, e il suo discorso è sostanzialmente politico (sottrarsi alla cura del sé per smarcarsi dalla politicizzazione e militarizzazione dell’identità), ma il fatto che nella lingua comune «farla finita con sé stessi» significhi togliersi la vita mi pare abbia un signficato che va oltre la scelta di un titolo accattivante per fini commerciali. Se è vero quanto abbiamo detto sopra, «farla finita con sé stessi» è insieme la necessità primaria del suicida e la via d’uscita dalla prospettiva del suicidio, quella via d’uscita che il suicida per definizione non riesce a vedere. 

E non la vede perché, come nei Koan Zen, questa via d’uscita non esiste, a meno che non si metta in conto una vera morte, seppure simbolica. Solo se posti di fronte alla domanda impossibile sollevata dal suicidio, e solo constatando che una soluzione non è possibile, ci si apre alla possibilità di una via di fuga: l’assurdo come apertura di uno spazio, come opportunità di sottrarsi alla gabbia nella quale ci rinchiude la vita di tutti i giorni. Anche qui Kafka, che non per niente continua a tornare in questo saggio, ha moltissimo da insegnarci.

È la conclusione a cui arrivano sia Critchley che D’Isa, e che De Sutter sembra riecheggiare con le sue parole: la necessità di evadere dalla prigione del nostro io per entrare in un territorio di possibilità infinita. Aprirsi al nulla, esistere nell’impossibile. Che è poi, in fondo, il punto di partenza di ogni ricerca spirituale, di ogni percorso mistico. Solo quando vivere non è più possibile diventa ipotizzabile tollerare di vivere davvero.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.

ARTICOLO n. 25 / 2022

VITA DI UNO SCRITTORE

Traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda

24 marzo (5 aprile) 1870, Dresda

Mi affretto a informarvi, stimatissimo Nikolaj Nikolaevič, prima di tutto su di me. Ve lo dico con sincerità e senza possibilità di replica che, avendo fatto tutti i conti, non riesco proprio e non oso promettere un romanzo per i fascicoli di quest’autunno. Mi sa che è davvero impossibile; e chiederei anche alla redazione di non mettermi pressione con il lavoro, che voglio fare con tutti i crismi e mettendocela tutta – proprio come fanno i signori (quelli importanti). Al contempo rispondo che ce la farò per gennaio dell’anno prossimo. Questo mio lavoro mi è più caro di qualsiasi cosa. È una delle idee a cui tengo di più e vorrei dare il meglio.Ora, in questo frangente, sto facendo una cosa per Russkij vestnik, finirò presto. Ho ancora debiti considerevoli con loro. Se, trovandomi in estrema necessità, dovessi rivolgermi ora a Katkov, descrivendogli ogni cosa, va da sé che anche il mio prossimo lavoro dovrà essere suo. Vi spiego tutto con la massima sincerità (ripongo buone speranze sull’opera che sto scrivendo ora per Russkij vestnik, non dal lato artistico, ma per la tendenza; voglio esprimere certe idee, a rischio di uccidere il mio valore artistico. Ma quanto ho raccolto nella mente e nel cuore mi appassiona; se anche ne verrà fuori un pamphlet voglio comunque dire la mia. Spero che abbia successo. In fondo, chi mai si mette a scrivere senza sperare di avere successo?).

Ora Vi ripeto quello che dicevo anche prima: sempre, per tutta la vita, ho lavorato per chi mi dava soldi in anticipo. È sempre successo così e mai altrimenti. Dal punto di vista economico va male, ma che ci posso fare! In compenso, quando ricevevo un anticipo vendevo sempre qualcosa che avevo per le mani, cioè la vendevo soltanto quando l’idea poetica era già nata e per quanto possibile maturata. Non ho mai preso soldi in anticipo partendo da zero, sperando cioè entro un termine stabilito di inventarmi scrivere un romanzo. C’è una bella differenza, io penso. Ora anche con il lavoro voglio stare tranquillo. Presto finirò con Russkij vestnik e mi dedicherò con passione al romanzo. L’idea di questo romanzo esiste già da tre anni, ma prima avevo paura di metterci mano stando all’estero, volevo essere in Russia per farlo. Ma in tre anni tante cose sono maturate, il piano intero del romanzo, e per la prima sezione (cioè quella che riservo a Zarja) penso di poter cominciare anche qui, visto che l’azione inizia molti anni fa. Non Vi preoccupate se parlo della «prima sezione». È un’idea che esige grandi dimensioni, almeno della stessa lunghezza del romanzo di Tolstoj.[2] Ma sarà composto da 5 romanzi a se stanti, a tal punto indipendenti che alcuni di essi (esclusi i due centrali) potranno comparire persino in riviste diverse, come fossero racconti slegati o pubblicati separatamente, come opere in sé compiute. Il titolo indicativo intanto è: Vita di un grande peccatore, ogni sezione invece avrà un titolo specifico. Ciascuna sezione (cioè romanzo) non sarà più lunga di 15 fogli. Per il secondo romanzo devo essere in Russia; l’azione nel secondo si svolgerà in un monastero e anche se conosco alla perfezione i monasteri russi, voglio comunque essere in Russia. Ho una voglia incredibile di parlarne in modo approfondito con Voi; che cosa si riesce a esprimere per lettera? Lo ripeto ancora: non posso fare promesse per quest’anno; se non mi mettete fretta riceverete una cosa fatta con giudizio, forse anche bella. (Perlomeno, di questa idea ho fatto lo scopo della mia futura carriera letteraria, non potendo contare di vivere e scrivere per più di 6 o 7 anni.) Zarja non se la deve prendere perché mi dà i soldi con nove mesi di anticipo: in qualche caso li ho ricevuti anche due anni in avanti. Chi non semina non raccoglie e Voi sapete con esattezza, Nikolaj Nikolaevič, che non lo dico per fare polemica, ma perché queste sono sempre state le circostanze. E in fondo non si tratta di grandi somme. Se invece mi rivolgo ad altri, anche il mio lavoro, naturalmente, deve appartenere a loro. Sono sempre stato un letterato onesto. Sono io ad aver sempre desiderato di lavorare per Zarja perché la loro linea editoriale mi va a genio. È tutto, per quanto mi riguarda. Vi chiedo soltanto una cosa seriamente, Nikolaj Nikolaevič: se la cosa è fattibile, fatemelo sapere subito, come fareste con un vecchio conoscente e collaboratore. Le mie necessità aumentano a tal punto che non ho tempo da perdere; devo saperlo con certezza. Ho una moglie e una bambina che dipendono da me e in più ho bisogno di tranquillità e assistenza. Kašpirëv dovrà pure decidersi, per un sì o per un no; almeno per saperlo, il tempo per me è prezioso. In questo caso anche un no sarebbe più utile di un  in sospeso, almeno non perderei tempo.

Ho letto con enorme piacere il fascicolo di marzo di Zarja. Aspetto con ansia il seguito del Vostro articolo, per capirlo fino in fondo. Ho il sentore che vogliate presentare Herzen come un occidentalista e parlare dell’Occidente in contrapposizione alla Russia, è così? Avete centrato il punto con Herzen: il pessimismo. Giudicate però realmente i suoi dubbi (Chi è colpevoleKrupovecc.) irrisolvibili? Qui sembra che ci giriate intorno e, sembra a me, lo fate apposta per esprimere il Vostro pensiero principale. In ogni caso aspetto con terribile impazienza il seguito dell’articolo; l’argomento è così provocatorio e attuale. E che succederà quando dimostrerete che Herzen, prima di molti altri, aveva detto che l’Occidente sta marcendo? Cosa diranno gli occidentalisti dei tempi di Granovskij? Non so se ne parlerete, è soltanto una mia ipotesi. Tra l’altro (anche se non rientra nell’argomento del Vostro articolo), non è forse vero che c’è un altro punto nel definire e mettere in luce il nucleo essenziale dell’intera opera di Herzen – ovverosia, che egli è stato, sempre e comunque, in prevalenza un poeta? Il poeta in lui prende il sopravvento, dappertutto e in ogni cosa, in tutta la sua attività. Quando fa propaganda è poeta, quando è figura politica è poeta, quando è socialista è poeta in sommo grado, e quando fa il filosofo! Questo tratto del suo essere, a mio avviso, può spiegare molto del suo fare artistico, persino la sua leggerezza e la tendenza al calembour nelle più alte questioni morali e filosofiche (che, per inciso, è una cosa molto antipatica).

Avete trattato la questione femminile (di febbraio), a mio parere, in maniera eccellente. Rispondo però alla Vostra domanda: perché ho riscontrato in Zarja il difetto della presunzione? Forse non mi sono espresso bene, ma il punto è: siete troppo, troppo morbido. Per loro bisogna scrivere con la frusta in mano. In molti casi siete troppo intelligente per loro. Se li aveste attaccati con più veemenza e maleducazione sarebbe stato meglio. I nichilisti e gli occidentalisti esigono la frustata definitiva. Nei primi articoli su Tolstoj è come se li pregaste di darvi ragione, mentre negli ultimi sembrate cadere preda dello sconforto e della delusione proprio nel momento in cui, secondo me, il tono dovrebbe essere solenne e festante fino a sfiorare l’insolenza: ma che cosa credete, che capiscano davvero la Vostra sottile e brillante ironia nelle lettere di Kosica? Quando ho letto della signora Konradi che imita Pisarev o quando pregate il Vostro corrispondente dopo che, con Vostra grande sorpresa, sentite di non potervi ritenere né uno scemo né una carogna e in quel preciso istante mettete le mani avanti quasi aveste paura: «Vi prego di non fraintendermi», be’ io lì ho riso, ma davvero pensate che loro comprendano un tono simile? Per farla breve – non scrivere in quel modo per Voi è impossibile; è serietà, amore e deferenza alla causa. Ora la rivista ha un suo tono ed è un tono elevato, il che va benissimo e costituisce l’essenza di Zarja; ma, a volte, secondo me, bisogna abbassare il tono, prendere la frusta in mano e non stare sulla difensiva, ma attaccare, in modo molto più smaccato. Ecco che cosa intendevo con «presunzione». D’altro canto, può essere che giudichi in modo errato perché mi scaldo.

Ci sono due frasi su Tolstoj su cui non sono affatto d’accordo: quando dite che è pari a tutto ciò che c’è di sommo nella nostra letteratura. È inammissibile dire una cosa del genere! Puškin, Lomonosov sono dei geni. Entrare in scena con Il negro di Pietro il Grande e con Belkin significa comparire decisamente con una parola nuova geniale, che fino a quel momento non era stata detta mai e in nessun luogo. Arrivare invece con Guerra e pace significa comparire dopo quella parola nuova, già detta da Puškin, ed è così e basta, al di là di quanto sia andato lontano e in alto Tolstoj a sviluppare quella parola nuova, già detta la prima volta, prima di lui, da un genio. Secondo me è molto importante. Ma del resto non riesco a spiegare tutto in poche righe. 

Possibile che Miljukov si stia spingendo così in là? E che cosa sta facendo adesso?

Perdonatemi, il romanzo di Čaev, Forze nascoste, mi è piaciuto molto; c’è molta poesia e per ora è scritto bene. Perché ve lo siete lasciato scappare? La suocera è un’opera più severa, però non è un romanzo, né tantomeno poesia (io comunque giudico dall’ottica della piazza, che è essenziale quando si parla di abbonati).

Anna Gregor’evna Vi porge i suoi omaggi. Ah, se tornassimo presto a casa, Nikolaj Nikolaevič, se capitasse presto!

Tutto Vostro F. Dostoevskij.

P.S. Ripeto, attendo da Voi il prima possibile, come da un buon vecchio conoscente, notizie sul mio conto. I soldi mi servono come non mai; sarebbe buona cosa che Kašpirëv non tardasse a mandarli se dice di . Continuo a dimenticarmi di chiedervi: davvero il libro di Danilevskij La Russia e l’Europa non uscirà in volume? Ma com’è possibile? Santo cielo, non dimenticatevi di informarmi a riguardo.

© il Saggiatore, 2020

ARTICOLO n. 24 / 2022

SIAMO ANCORA ESSERI UMANI?

C’è un momento, nel tragitto che compio ogni settimana per raggiungere il carcere, in cui alzo lo sguardo e mi accorgo che la città si è persa, ha diradato i palazzi e esaurito i negozi, ha spento le voci, taciuto il trambusto, si è data più che poteva dal centro alla periferia in quella sua ansia perenne di dominio sul mondo e infine ha capitolato: è finita. Non c’è un confine netto, è un vago esserci e poi non esserci più. 

Quando la città finisce la prima cosa che diventa chiara è il silenzio. La seconda è l’appiattirsi dei colori in un grigio che dei colori del mondo è la sintesi tetra. La terza è la scomparsa del tempo per come lo conosco. Quello che separa la mia stanza dalla cella di un detenuto è un’ora e diciotto minuti con i mezzi pubblici. L’ultimo è un autobus, che è già l’intercapedine in cui il carcere si preannuncia. Sembra mosso dall’irrequietezza che irradiano i piedi nervosi e le borse strette a sé e gli occhi impazienti di chi inizia a tirare fuori il documento dalla tasca come fosse una chiave. 

Al contrario della città, che tenta ostinatamente di perpetuarsi, il carcere ha margini chiari, alte mura di cemento a delimitarne il dominio, e di ciò che c’è oltre se ne infischia. Si entra nel suo cuore come si aprono le matrioske: è una questione di strati. Alla prima porta lascio il documento, alla seconda il cellulare e con lui il ticchettio del tempo. Alla terza non ho più lo zaino con i libri. Alla quarta sono solo corpo e voce, corpo che deve camminare dritto, voce che deve suonare ferma.

La matrioska ha lunghi corridoi che si diramano in tutte le direzioni e io li percorro con lo sguardo inerme che ha una donna in un mondo di soli uomini e intanto gli occhi si posano sulle pareti addobbate di volantini e corsi di teatro, laboratori di pittura, lezioni di musica e promesse vane: vane perché il presente qui è finzione. I carcerati vivono indietro o avanti, nel passato o nel futuro, e a orientare la bussola è la lunghezza della pena. In carcere pena significa angoscia e essere arrestati significa passare dal moto allo stallo.  Gli uomini contenuti da queste mura sono solo brevemente il presente dei laboratori di pittura, e raramente indossano l’ottimismo della rieducazione, ma portano addosso sempre il tempo della loro pena – quattordici anni e otto mesi, dieci anni e nove mesi, ergastolo, ergastolo ostativo, fine pena mai. Ce l’hanno sulla punta della lingua, senza pudori: lo dicono come io dico il mio cognome, questione identitaria. 

Mentre io, De Silvestro, tutor universitaria, spingo una porta per un riflesso incondizionato di cittadina, una guardia mi dice che non serve a niente, che devo aspettare, che qui è tutto un’attesa. Qualcuno che non vedo mi vede e aprirà la porta per me, è un meccanismo che funziona come per chi crede in Dio. Mentre mi insegna i codici del posto la guardia mi sorride e io di riflesso sorrido, provando, in quella complicità, uno strano disagio.

Vengo in carcere per incontrare un detenuto. Uno studente. Uno studente detenuto. L’ho visto di sfuggita la settimana prima per consegnargli un libro. Non ricordo il suo viso. Lo ricordo giovane e un poco diffidente. Lo aspetti lì, mi dice un’altra guardia indicandomi uno stanzino, e allora io varco la soglia. L’ambiente è lugubre. Pareti rosa pastello, calorifero azzurro cielo. È il pallore tipico dell’edilizia pubblica quando finge cordialità. Assomiglia alle stanze degli ospedali che tentano di ingannare i bambini malati con un po’ di tinteggio giallo alle pareti dimenticando che anche i bambini malati hanno memoria del mondo e sanno bene che il giallo alle pareti a far le veci del sole non è calore ma presagio di morte.

Ho freddo, sarà il pallore.  Sarà quell’orto trasandato che sbircio oltre le sbarre della finestra. Pare che ci siano delle anatre. Si dice migrino in inverno e tornino in primavera. Le mura del carcere accolgono, indolenti ed eterne. Non importa nemmeno che sia vero, è una bella storia. 

Fisso gli oggetti intorno a me: un vecchio armadio dall’aria sovietica, scotch di carta con la scritta «da spostare», sedie diverse, raffazzonate, forse scarti della scuola. Lui tarda e io in questo stanzino fremo e allora mi alzo in piedi e apro la porta affacciandomi al corridoio perché mi prende una paura che mi dimentichino, che lui non arrivi, che dovrò ripercorrere i corridoi a ritroso, le sbarre, i campi, le case sparse, poi la città che inizia e con lei i rumori e il tempo di nuovo scandito ad ogni angolo e tutto di nuovo fra parentesi, attutito, perché da quando sono entrata nel carcere ho saltato un respiro e passo il tempo a cercare rimedi all’apnea, e vorrei curarla come fosse un attacco di singhiozzo, con uno spavento indolore. Dal corridoio lo sguardo raggiunge un cortile e lì in cerchio vecchi camminano con i loro bastoni e i loro fisici abbruttiti e mentre camminano parlano. Chissà di cosa parlano ormai, chissà se ripescano ancora dai giorni in cui facevano l’amore e andavano al mare e chissà anzi se saprebbero ancora nuotare, se saprebbero ancora camminare dritti, dopo una vita a girare intorno all’ora d’aria. Chissà se viene un momento in cui non si è più nostalgia ma solo disfatta.

Il fatto è, penso ipnotizzata dai bastoni che girano in tondo, che c’è qualcosa di profondamente innaturale nel sapere come andrà la propria vita ogni giorno e per sempre. La rimozione dell’imprevedibile è uno degli aspetti più micidiali della vita carceraria. Perso il dubbio del come andrà, resta fra le mani un oggi vuoto e inafferrabile nel suo replicarsi all’infinito, senza stupori. E se pare poca cosa, vorrei dire che per quanto mi riguarda, in certi giorni stanchi, l’unico mio appiglio è qualche stupore incrociato per caso nelle vie. Un uomo con il suo bambino aggrovigliati l’uno all’altro i corpi, al centro un libro di Topolino, il padre legge facendo le voci, il figlio ascolta guardando le figure. 

Più tardi scoprirò che i veterani del carcere senza futuro hanno grande dimestichezza con l’introspezione. Uno di loro – bastone, mani inquiete, voce tremula, occhi quasi orbi – leggerà un suo testo sul palco del teatro. Io gli farò i complimenti per le parole e lui dirà che ha parlato male, si è emozionato. In lui vedrò tutte le mie insicurezze invecchiate in una scatola di cemento, gli dirò che è stato bello, ringraziando. Lui dirà buongiorno e tante buone cose, e tornerà in cella. 

Mentre penso e aspetto nel lugubre stanzino, sembra alzarsi dalle pareti, come un inno sommesso, la voce di Lucio Dalla in quella sua lunga canzone pigramente ritmata, con un sax inquieto a svirgolare, un piano sinistro che gioca a nascondino: «Quante sono le ore per arrivare a domani/Madonna disperazione/Mentre esce dal portone/Si frega le mani». E qui, con questo sottofondo che mi inonda la testa, in quest’aria greve, entra nello stanzino insieme a Madonna disperazione il detenuto che sto aspettando. Mi saluta stringendomi la mano e io lo guardo. Ha braccia definite, guance rasate, indumenti sportivi che aderiscono al corpo e un nitore assoluto lo avvolge. Lo guardo e mentre si scusa per il ritardo, io vedo uno spartiata forgiato dall’agoghé. Separato dagli affetti, obbligato alla vita collettiva in nome dell’addestramento del corpo perché dal corpo emani la morale. Sebbene tutto intorno parli di costrizione e abbruttimento, lui irradia un’insolita pulizia ordinata e tiepida e una certa disciplina dell’atteggiamento, e ancor più che disciplina è verecondia, una forma di gentilezza accorta. Avrà, nel tempo, un modo di fidarsi e affidarsi prima cauto e lineare, poi torrenziale e sempre pulito. 

La prima forma di fiducia sarà una lettera. Una lettera vera, e come ogni vera lettera terrà conto dei tempi in cui dovrà esistere: quello in cui viene scritta («mi trovo ora nell’aula informatica e sto studiando»), quello immaginato in cui verrà aperta («ti chiedo, se riceverai queste parole in tempo, di cercare e portarmi un saggio su Giorgio Strehler»), quello poco prima di essere chiusa dove alla memoria affiorano precisazioni essenziali («p.s: si tratta di un saggio scritto in occasione del centenario dalla sua nascita, come introduzione a una conferenza tenuta al Piccolo Teatro di Milano»), e infine il tempo della gratitudine, che tiene insieme tutti gli altri («nel frattempo ti ringrazio»). Il saggio su Strehler si rivelerà introvabile, ma io gli porterò una novella di Pirandello, senza troppe spiegazioni. Si intitola La Carriola e la rileggo spesso. Parla della forma:

«Ci sono i fatti. Come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi più liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita?»

La leggerà, ne parleremo, e mi accorgerò che non siamo più timidi, che ci viene bene pensare ad alta voce, ridere, indignarci. Un giorno mi chiede cosa sia per me il potere. Io rispondo che credo sia la capacità di tradurre i propositi in fatti, a dispetto degli impedimenti. Lui invece mi intesse un bel discorso degno delle aule universitarie in cui appaiono i briganti e il meridione dei Borbone e ancora le guardie e i ladri e un senso ancestrale e terrestre dei mali eterni dell’uomo, una concretezza tutta ancorata alla vita minuta che mi ricorda gli uomini e le donne che si dimenano nel più bel libro di Elsa Morante. E allora, da quando ci fidiamo l’uno dell’altro, io ascolto tutto ciò che mi dice con attenzione, assentendo e contraddicendolo come faccio con gli interlocutori di cui ho massimo rispetto e ne traggo grande ricchezza ma tutto il tempo mi chiedo, con aria vagamente colpevole, se le mie parole e miei racconti abbiano per lui la sostanza dell’aria fresca o assomiglino piuttosto al ricordo dolente di qualcosa che da tempo non ha più, e cioè la libertà di frequentare il mondo e farne parte. E forse per dissimulare questa mia libertà mi attengo a parole e racconti generici, che non dicano troppo di ciò che lui rimpiange, e mi dedico in prevalenza all’ascolto. Più avanti capirò che con la libertà non c’è da avere remore. Fa bene anche di riflesso, respirata per interposta persona.

Un’altra delle mattine in cui io attraverso la città per raggiungere il lugubre stanzino lui è un fiume di parole, un fiume senza dighe che dice di sé e dei motivi che lo hanno portato nella prigione. Io rispondo che non mi interessano i suoi reati, ma a lui preme avere l’ultima parola, sottrarre alle narrazioni degli altri il giudizio definitivo sulla sua persona. Io non emetto sentenze, gli dico. Vorrei aggiungere che più di tutto io non penso, come chi entra in carcere sapendo di poter fare del bene, che il suo passato non sia importante. Educatori, psicologi, maestri, del tutto capaci di trattare i detenuti come persone senza passato. Io no, non ne sono capace. Penso che lui abbia un passato e lo penso come chi entra qui e ha il dubbio, e poi il timore, e infine l’angoscia che fare del bene agli uomini reclusi in un modo che non sia del tutto precario e marginale sia probabilità remota. E non perché il suo passato lo determini irrimediabilmente, come crede lo Stato che infligge l’interdizione perpetua, ma perché sono convinta che le persone nuove, in quel senso fittizio che rinnega la storia in nome di un futuro luminoso e senza ombre, non esistano. E allora promettere a lui che i libri lo salveranno mi sembra presuntuoso e stupido. Fingere di vederlo come nient’altro che uno studente sarebbe mancare di rispetto alla sofferenza che provocano le sbarre della cella con tutta la loro ruggine asfittica. E sarebbe oltretutto falso, perché nessuno studente universitario è solo uno studente universitario. E allora io, in quello stanzino, se per un momento sento incombere il giudizio, devio il pensiero. Penso al telegiornale che guarderemo tra qualche ora, lui nella cella, io in casa mia, uguali. Penso all’acqua che faremo bollire. Ci butteremo la pasta insieme, nell’ordine dei gesti consueti. E saremo pari. E penso a suo figlio, che è bravo in matematica, e chissà cosa farà. A quello di Antonio Gramsci a cui piaceva aggiustare le cose guaste, e ci si poteva leggere un indizio di costruttività, di carattere positivo. E poi penso a mio padre che legge i miei temi in seconda media, orgoglioso. Li penso pari. 

Non sono stata in grado di dirgli questo. Non sono stata in grado di dire nulla nemmeno il giorno che pioveva a dirotto e io sono arrivata infreddolita e fradicia e lui si è sorpreso di vedermi arrivare comunque. Gliela leggevo negli occhi la domanda. Perché vieni? Non lo so, avrei dovuto dire. Tre crediti formativi, avrei farfugliato. Ma lui avrebbe capito che non è vero e a me sarebbe stato evidente che non so rispondere. Forse un giorno gli dirò che lo so, l’ho capito: vengo per quella sensazione essenziale che sento emergere dalle pareti dei luoghi come questo, un certo indizio su cosa sono gli uomini. Sulla loro presunta disuguaglianza e la loro sostanziale parità. Quel giorno, dopo aver abitato lo stanzino lugubre per l’ennesima volta senza poterne espandere i confini, attraverserò i corridoi mossa da uno strano tremito e mi lascerò alle spalle il rumore delle sbarre e il rosa innaturale alle pareti. Nell’uscire, una bambina mi darà il cambio, varcando le sbarre con un risolino sul viso, e io mi augurerò che sia il modo giocoso con cui i bambini sanno rendere castelli le case di reclusione e primavera le anatre che ritornano dalle migrazioni. Lei forse a breve abbraccerà suo padre, e il suo tempo verrà cristallizzato in quell’abbraccio, mentre il mio riprenderà a scorrere, insieme al riaffiorare della città.

ARTICOLO n. 23 / 2022

CONTRO L’OSCURITÀ

Traduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini e Marco Piazza

«Appartenete alla nuova scuola?» domanda a ogni studente di vent’anni che si occupi di letteratura ogni signore di cinquanta che non se ne occupa. «Per conto mio, confesso che non ne capisco un gran che, bisogna esser iniziati… Del resto, non c’è mai stato tanto talento come oggi: quasi tutti ne hanno.»

Sforzandomi di cavar fuori dalla letteratura d’oggi alcune verità estetiche di cui mi sento tanto più sicuro in quanto lei stessa le segnala, col negarle, rischio di espormi all’accusa di voler sostenere prima del tempo la parte del signore cinquantenne. Tuttavia, non parlerò come lui. Sono infatti convinto che, come tutti i misteri, la Poesia non ha mai potuto esser interamente intesa senza iniziazione, e nemmeno senza vocazione. Quanto al talento, che non è mai stato molto comune, sembra che solo di rado ce ne sia stato meno di oggi. Certo, se esso consiste in una certa retorica comune che insegni a fare «versi liberi», allo stesso modo che un’altra retorica insegnava a comporre «versi latini», e che renda accessibili a tutti le «principesse», le «malinconie», «pensose» o «sorridenti», i «berilli», si può ben dire che oggi tutti ne son dotati. Ma codeste non sono che vane conchiglie, vuote e sonore, pezzi di legno infracidito o rottami di ferro arrugginito, gettati sulla riva dai flutti e di cui può impossessarsi anche il primo venuto, se gli garba, finché la generazione, ritirandosi come la marea, non li porti via. Ma che cosa si può fare con pezzi di legno imputridito, spesso rottami duna bella armata antica, immagini mal riconoscibili di Chateaubriand o di Hugo?

Ma è tempo di venire all’errore di estetica che ho voluto segnalare qui e che mi sembra renda privi di talento tanti giovani originali, se il talento è qualcosa di più dell’originalità del temperamento: vale a dire, il potere di ridurre un temperamento originale alle leggi generali dell’arte, al genio permanente della lingua. Tale potere manca certamente a molti; ma altri, abbastanza dotati da acquisirlo, sembra che vi rinunzino in maniera sistematica. La duplice oscurità che ne deriva nella loro opera – oscurità delle idee e delle immagini, da un lato, oscurità grammaticale, dall’altro – è, nella letteratura, giustificabile? Cercherò di esaminarlo qui.

I giovani poeti, in versi o in prosa, potrebbero far valere, per eludere la mia domanda, un argomento preliminare.

«La nostra oscurità» potrebbero dire «è la stessa oscurità che veniva rimproverata a Hugo, che veniva rimproverata a Racine. Nel linguaggio, tutto quel che è nuovo è oscuro. E come potrebbe non esser nuovo il linguaggio, quando il pensiero e il sentimento non sono più i medesimi di ieri? Per restar viva, la lingua deve mutare insieme col pensiero, prestarsi ai suoi nuovi bisogni, come le zampe che, negli uccelli destinati ad andare sull’acqua, diventano palmate. Grosso scandalo per chi non abbia visto gli uccelli che camminare o volare; ma, una volta compiutasi l’evoluzione, si sorride che essa abbia potuto suscitare scandalo. Un giorno, lo stupore che noi vi causiamo vi stupirà, come oggi ci stupiscono le ingiurie con le quali il classicismo morente salutò gli esordi del Romanticismo.»

Ecco quanto potrebbero dirci i giovani poeti. Ma, dopo esserci rallegrati con loro per queste ingegnose parole, diremmo loro: «Non volendo certamente alludere alle tradizioni del preziosismo, voi avete giocato con la parola “oscurità”, facendo risalire tanto in alto la nobiltà della vostra scuola. Codesta oscurità è, invece, nella storia delle lettere, molto recente. È tutt’altra cosa dalle prime tragedie di Racine o dalle prime odi di Hugo. Ora, il sentimento della medesima necessità, della medesima costanza delle leggi dell’universo e del pensiero, mi vieta di immaginare, a guisa dei bambini, che il mondo possa cambiare a seconda dei miei desideri; m’impedisce di credere che, essendosi improvvisamente modificate le condizioni dell’arte, i capolavori debbano essere, da ora in poi, quel che nel corso dei secoli non sono mai stati: pressoché inintelligibili».

Ma i giovani poeti potrebbero replicare: «Vi stupite che il maestro sia obbligato a spiegare ai discepoli le proprie idee. Ma un fatto simile non è sempre avvenuto nella storia della filosofia: in cui gli Spinoza, i Kant, gli Hegel, i quali sono altrettanto oscuri che profondi, non si possono comprendere senza gravissime difficoltà? Avete frainteso il carattere delle nostre poesie: non sono fantasie, sono sistemi».

Il romanziere che imbottisca di filosofia un romanzo, il quale sarà senza pregio agli occhi del filosofo altrettanto che a quelli del letterato, non commette un errore più pericoloso di quello da me attribuito ai giovani poeti, e che essi non si sono limitati a mettere in pratica, ma hanno eretto anche in teoria.

Essi dimenticano, come quel romanziere, che il letterato e il poeta possono bensì spingersi nella realtà profonda delle cose tanto lontano quanto il metafisico, ma per una strada diversa; e che il sussidio del ragionamento, anziché rafforzare, paralizza lo slancio del sentimento, che solo può condurli sino al cuore del mondo. Il Macbeth è, a sua guisa, una filosofia non in virtù di un metodo filosofico, ma di una sorta di potenza istintiva. Il fondo d’un’opera simile, come il fondo della vita, di cui essa è l’immagine, resta indubbiamente oscuro, anche per la mente che lo vada via via chiarendo. Ma si tratta di un’oscurità di tutt’altro genere, feconda da approfondire e di cui sarebbe spregevole render impossibile l’azione con l’oscurità della lingua e dello stile.

Il poeta, non rivolgendosi alle nostre facoltà logiche, non può usufruire del diritto che ha qualsiasi filosofo profondo di sembrare, da principio, oscuro. Se poi si volge a esse, cessa di far poesia, senza però innalzarsi sino al piano della metafisica, la quale esige un linguaggio ben altrimenti rigoroso e preciso.

Poiché ci vien detto che il linguaggio e il pensiero sono inseparabili, ne approfitteremo per far rilevare che, se la filosofia, in cui le parole hanno un valore quasi scientifico, deve parlare una lingua speciale, la poesia non può fare altrettanto. Per il poeta, le parole non sono mai semplici segni. I Simbolisti saranno senza dubbio i primi ad ammettere che quel che ogni parola serba, nella sua figura o nella sua armonia, dell’incanto della sua origine o della grandezza del suo passato, possiede, nei confronti della nostra sensibilità e della nostra fantasia, un potere evocativo pari almeno al suo potere strettamente semantico. Si tratta di quelle antiche e misteriose affinità tra la nostra lingua materna e la nostra sensibilità, che ne fanno, anziché un linguaggio convenzionale qual è per noi una lingua straniera, una sorta di musica segreta che il poeta può far risonare in noi con incomparabile dolcezza. Il poeta ringiovanisce una parola usandola in una vecchia accezione; oscilla tra due immagini disgiunte di armonie dimenticate; e ci fa respirare con delizia, in ogni momento, il profumo della terra natale. Qui sta per noi l’incanto nativo della lingua di Francia: che sembra significare oggi la lingua di Anatole France, dacché egli è uno dei pochissimi che vogliano o sappiano servirsene ancora. Il poeta rinunzia a tale potere irresistibile di ridestare in noi tante Belle addormentate nel bosco, se si mette a parlare un linguaggio a noi ignoto, nel quale certi aggettivi, se non incomprensibili, per lo meno troppo recenti per non restare muti per noi, tengon dietro, in proposizioni che sembrano tradotte, ad avverbi intraducibili. Con l’aiuto delle vostre glosse, riuscirò forse a comprendere il vostro componimento, come un teorema o un rebus. Ma la poesia vuole un po’ più di mistero: altrimenti, l’impressione poetica, la quale è affatto istintiva e spontanea, non si produrrà.

Passerò quasi sotto silenzio il terzo argomento cui potrebbero ricorrere i poeti della nuova scuola: e cioè, l’interesse delle idee o delle sensazioni oscure, più difficili da esprimere, ma anche più rare, delle idee più chiare e più comuni.

Checché ne sia di tale teoria, è evidente che, se le sensazioni oscure presentano maggior interesse per il poeta, è solo a condizione di renderle chiare. Se il poeta percorre la notte, deve farlo come l’Angelo delle tenebre: portandovi la luce.

Giungo finalmente all’argomento invocato più di frequente dai poeti oscuri a favore della loro oscurità: il desiderio di proteggere la loro opera contro gli attentati del volgo. Ora, mi sembra che qui il volgo non sia dove si pensa. Chi d’una poesia si fa un concetto abbastanza ingenuamente materiale da credere che esso possa esser attinto altrimenti che con il pensiero e il sentimento (e se il volgo potesse attingerlo così non sarebbe più tale) ha della poesia l’idea puerile e grossolana che si può precisamente rimproverare al volgo. Tale precauzione contro gli attentati del volgo è, dunque, inutile. Ogni sguardo volto verso il volgo, sia che miri a lusingarlo con un modo di esprimersi facile sia che miri a sconcertarlo con un modo di esprimersi oscuro, fa sempre mancare il bersaglio all’arciere divino. La sua opera serberà implacabilmente la traccia del suo desiderio di piacere o di dispiacere alla folla, desideri parimenti mediocri, i quali conquisteranno, ahimè, soltanto lettori di secondo ordine…

Mi sia permesso di osservare inoltre, a proposito del simbolismo, cui mi riferisco soprattutto in queste pagine, che, pretendendo di trascurare gli «accidenti temporali e spaziali» per mostrarci solo verità eterne, esso disconosce un’altra legge della vita: che è di attuare l’universale o l’eterno, ma solo in individui. Nelle opere d’arte come nella vita, gli uomini, per generali che siano, debbono essere fortemente individuali (si pensi a Guerra e pace o a The Mill on the Floss); e di essi si può dire, come di ciascuno di noi, che attuano tanto più largamente l’universale quanto più sono se stessi. Le opere puramente simboliche rischiano perciò di mancare di vita e, quindi, di profondità. Se, per giunta, le loro «principesse» e i loro «cavalieri», anziché interessare il nostro spirito, propongono alla sua perspicacia un senso difficile e impreciso, le poesie, che dovrebbero essere simboli viventi, si riducono a fredde allegorie.

I poeti debbono ispirarsi maggiormente alla natura, nella quale, se il fondo di tutto è uno e oscuro, la forma di tutto è individuale e chiara. Essa insegnerà loro, oltre al segreto della vita, lo sdegno dell’oscurità. Forse che la natura ci nasconde il sole o le migliaia di stelle che brillano senza veli, splendide e indecifrabili, agli occhi di quasi tutti? Forse che non ci fa toccare, in modo rude e a nudo, la potenza del mare o del vento occidentale? Essa dona a ogni uomo il potere di esprimere con chiarezza, durante il suo passaggio sulla terra, i più profondi misteri della vita e della morte. Vengon essi tuttavia intesi dal volgo, nonostante il vigoroso ed espressivo linguaggio dei desideri e dei muscoli, della sofferenza, della carne putrescente o fiorente? Dovrei citare soprattutto, perché esso è la vera «ora artistica» della natura, il chiaro di luna, col quale, sebbene esso riluca con tanta dolcezza per tutti, la natura, senza nemmeno un neologismo pur dopo tanti secoli, crea luce con l’oscurità e suona il flauto col silenzio.

Tali le osservazioni che ho stimato utile di fare a proposito della poesia e della prosa contemporanee. La loro severità nei confronti dei giovani le avrebbe rese più adatte nella bocca d’un vecchio. Si perdoni alla loro franchezza, forse più meritoria nella bocca d’un giovine.

© il Saggiatore, 2015

ARTICOLO n. 22 / 2022

LO STILE DELL’ABUSO

Intervista a Raffaella Scarpa

Parlare di violenza psicologica è tanto arduo quanto inafferrabile sembra il concetto stesso di violenza psicologica. La violenza fisica possiamo vederla, è tangibile, lascia dei segni spesso molto chiari, ma da dove iniziare invece a parlare di qualcosa che, come la violenza psicologica, non si vede, non si tocca? Come riconoscerla, come dimostrarla, come, inoltre, essere sicuri di averla subita? Sono queste domande apparentemente senza risposta che spingono la protagonista della serie Maid (Netflix) a dire alla prima assistente sociale con cui si interfaccia che lei, a differenza di altre donne, non è vittima di violenza e quindi non ha diritto ad usufruire del loro aiuto, semplicemente perché il suo compagno non l’ha mai picchiata. La consuetudine di identificare l’intero fenomeno della violenza domestica con la violenza fisica è uno dei motivi per cui il concetto di violenza psicologica ci appare così sconosciuto: è qualcosa che non abbiamo mai studiato, che non abbiamo mai imparato a riconoscere e a nominare. Eppure, in un contesto di violenza domestica, è proprio il linguaggio lo strumento fondamentale attraverso cui l’abusante riduce e mantiene la vittima in uno stato di soggezione e subordinazione.

Per vent’anni Raffaella Scarpa, docente di Linguistica italiana e Linguistica medica e clinica presso l’Università di Torino, ha raccolto testimonianze dirette sia da parte di donne abusate che da parte di uomini abusanti, e ha messo al centro dell’analisi proprio il linguaggio. Il risultato di questa grande ricerca è Lo stile dell’abusoViolenza domestica e linguaggio, edito da Treccani nel settembre del 2021. Un lavoro acuto e potente, in cui Scarpa ridefinisce il concetto di violenza domestica elaborando nuove categorie interpretative, ne illustra i meccanismi, e descrive per la prima volta in modo approfondito il complesso sistema linguistico che ne sta alla base. Perché in questo caso l’analisi linguistica, dato che «nello stile si deposita ciò che il soggetto non sa di voler esprimere o che non vuole che si sappia che sta esprimendo»altro non è che una vera e propria macchina della verità. 

Per anni ho cercato un libro che parlasse di dinamiche di potere all’interno della coppia e mettesse al centro il linguaggio: non l’ho mai trovato, non esisteva ancora, né in Italia né fuori dall’Italia. Oltre che per l’ingegno, la precisione e la ricchezza del lavoro di analisi svolto da Scarpa, credo che anche per questa sua assoluta novità Lo stile dell’abuso sia un libro fondamentale e un vero evento nel nostro panorama editoriale.

A.U. Per introdurre Lo stile dell’abuso vorrei partire dalla dedica che si trova alla fine della premessa: «Dedico questo libro a chi non sa riconoscere l’intollerabile».

R.S. È la frase che mi è costata più impegno nella formulazione. La percezione del limite della tollerabilità, della giustezza del tollerabile. Non di quello che ciascuno di noi può sopportare, perché lì l’asticella si alza all’infinito: noi abbiamo una soglia altissima, se non esponenzialmente infinita di sopportazione e di «normalizzazione» di ciò che ci accade, nel senso che il male non viene riconosciuto come tale. 

Viene spesso ribadito come aiutare le donne a denunciare, come seguirle nel percorso di riabilitazione, ma questi sono problemi secondari in ordine cronologico, la questione che va affrontata prima di tutte con la vittima è: portare alla luce ciò che è vero. Il primo problema della violenza domestica è la cosidetta «egosintonia»: chi subisce questa condizione spesso non riesce, anche se si è esposti a violenze che non sono soltanto psicologiche, ma a vere e proprie torture fisiche quotidiane, ad autopercepirsi come vittima di violenza domestica, etichetta attraverso la quale ci parliamo. E lo strumento che disarticola la nostra capacità di percepire uno stato di volenza subìta è proprio la lingua.

Per me è una questione di militanza attiva rispetto a questo tema denunciare a chiare lettere e sempre che se una persona non è in grado di distinguere ciò che sta subendo è il linguaggio che crea le condizioni di induzione alla dispercezione, induzione all’incapacità di giudizio, induzione all’incapacità d’azione, induzione all’incapacità di parola, che sono le condizioni tipiche della violenza domestica. 

Quante volte abbiamo sentito dire: «ma se sei stata in una condizione del genere in qualche modo ti andava bene», oppure: «allora sei masochista»? Ecco, no: non c’entra il masochismo, non c’entra il rapporto diabolico tra persecutore e vittima, non c’entra nulla: tu vittima non ti rendi conto di ritrovarti in quella situazione, e proprio il linguaggio genera le precondizioni che consentono a una persona di stare nella più innaturale delle condizioni possibili. 

A.U. È molto arduo far capire che quando si denuncia un comportamento abusivo a distanza di tempo ciò non è dovuto al fatto che fino a quel momento «ti andava bene così», ma perché quel tempo trascorso è servito alla vittima per rendersi conto della condizione di assoggettamento psicologico in cui si trovava. Una delle caratteristiche della manipolazione, appunto, è proprio il fatto che la vittima non riesca a rendersi conto di essere manipolata. E in una condizione del genere è molto facile non riuscire più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Penso al romanzo che citi ne Lo stile dell’abusoIl quinto angolo, in cui la protagonista in una cella della Lubjanka veniva costretta dai suoi persecutori a trovare fino alla morte il quinto angolo di una stanza quadrangolare. 

R.S. Non sono mai stata troppo convinta che la definizione «violenza domestica» veicoli i giusti contenuti, perché la violenza è un fenomeno sovraevidente: te ne accorgi, la vedi. Come dice René Girard, l’espressione di un uomo arrabbiato e di un gatto arrabbiato si somigliano, non c’è niente di più evidente di una postura aggressiva o di un’azione violenta. La violenza domestica invece non è violenza nella maniera in cui siamo culturalmente abituati a concepirla e a percepirla, ma è molto più vicina a mio parere a quello che è un protocollo di tortura. L’esempio che citavi è una delle classiche procedure di tortura che avvenivano nella Lubjanka, questo cercare il quinto angolo di una stanza quadrangolare è effettivamente una coercizione alla dispercezione: da un certo punto in poi si innesta e tu non puoi più risalire la china. L’altro fenomeno molto vicino e che spiega i meccanismi della violenza domestica è proprio lo stadio d’assedio. La violenza domestica a mio parere è una forma speciale di tortura innestata in una sorta di stato d’assedio, cioè essere perimetrati e circondati ed essere torturati in uno spazio chiuso. 

A.U. Come citato nel tuo libro, il potere consiste nel fondare una realtà – che poi questa realtà non corrisponda alla verità dei fatti poco importa. Voglio partire da qui per parlare di una questione fondamentale che tu discuti all’inizio del tuo lavoro, e che fa da base a tutta l’analisi stilistica successiva: la differenza tra violenza e potere. Scrivi che si possono individuare due motivi principali per cui non si parla di violenza psicologica: il primo è la consuetudine di identificare l’intero fenomeno della violenza domestica con la violenza fisica, il secondo è la sottostima del potere del linguaggio all’interno di una relazione abusante. Ma violenza e potere sono due cose molto diverse. Come dice Hannah Arendt in una frase da te citata: «La violenza può distruggere il potere, è assolutamente incapace di crearlo». 

R.S. Questo è uno studio che in qualche modo ha avuto bisogno di rifondare i concetti, perché culturalmente quello che noi autorappresentiamo come violenza domestica non corrisponde al fenomeno, se non in maniera limitata, riduttiva e deviante. Mentre la categoria del potere, che di per sé ha una natura più sottotraccia, meno sovraevidente, per una serie di ragioni ne spiega meglio le dinamiche: in primo luogo perché può non essere scoperto, può essere agito e allo stesso tempo può non essere chiaramente interpretabile come tale, a differenza del gesto violento, che all’unanimità viene riconosciuto come tale. In secondo luogo perché, come diceva Foucault, il potere fonda sistemi di verità, non è detto che governi o assoggetti apertamente. Quindi dire che una cosa è vera, è accaduta e capiterà, è esercitare una forma di potere. Quando questo raggiunge dimensioni ipertrofiche, e nel linguaggio si decriptano tutti questi meccanismi formali che mirano a creare verità fittizie e decostruzioni delle stesse realtà, si capisce perfettamente che potere, linguaggio e violenza sono strettamente collegati. Il primo concetto fondamentale è quindi quello di potere come costruzione di verità, il secondo invece deriva da Deleuze, e forse ed è una delle affermazioni segnavia che stanno all’origine di questo libro, e dice: «il potere è ciò che divide una persona da ciò che può». La violenza domestica non vuole fare altro che dividere la donna, visto che parliamo di questo tipo di violenza domestica, da ciò che può fare, cioè da tutta la potenzialità del suo agire, del suo pensare, del suo essere, della sua identità. Questo vuol dire annientare, far sparire: uccidere, né più né meno. Ecco perché almeno per queste due ragioni la categoria di potere mi sembrava molto più adatta e produttiva rispetto a quella di violenza. 

A.U. L’analisi linguistica da te svolta parte da testimonianze dirette raccolte nell’arco di ben 20 anni. Hai seguito 27 persone tra uomini maltrattanti e donne maltrattate, tutti all’interno dello statuto del matrimonio o della convivenza, tutti quindi accomunati dalla condivisione di uno stesso luogo fisico – la casa – alcuni avevano figli, altri no. Hai voluto seguirli in una veste extraistituzionale, perché le loro testimonianze venissero alterate il meno possibile dal filtro formale, perché ti parlassero come a una confidente. Com’è nato questo lavoro e come si è svolto?

R.S. La raccolta dei dati è stata complessa. Questa ricerca è nata quando anni fa ho conosciuto una coppia. In quel periodo studiavo metrica, il ritmo della poesia e il valore delle pause e dei silenzi nel testo poetico, quindi avevo un orecchio ben allenato, e la relazione verbale di questa coppia aveva qualche cosa che non mi tornava. Nulla di atipico, semplicemente c’era qualcosa che all’orecchio stonava. Poi da lì la frequentazione è andata avanti, e io ho capito che con tutta evidenza ci trovavamo in un contesto di violenza domestica, poi questo è stato evidente a tutti. Da lì è iniziata la mia ricerca su questo fenomeno così sui generis proprio rispetto al linguaggio, e sono passata al secondo caso, poi al terzo caso e così via. Il lavoro è stato molto lento, sono andata per tentativi, a volte un avvocato mi suggeriva dei casi interessanti, e io entravo in contatto con la coppia in veste di persona interessata a comprendere il fenomeno, anche gli uomini e le donne che hanno scelto di collaborare con me lo hanno fatto come persone che pensavano fosse importante guardare più da vicino il fenomeno. C’è voluto tanto tempo anche perché ogni persona aveva bisogno di un settingspecifico: c’era chi parlava bene in un bar, chi in una stanza chiusa e così via. Inutile dirlo: sono le persone che hanno fatto essere questo libro quello che è, donando materiale come registrazioni, email e messaggi nel contesto della violenza e non a denuncia avvenuta e a storia finita. Prima che una donna spaventata accenda un registratore durante una lite, prima che validi il suo uso per l’analisi linguistica e prima che il compagno lo validi a sua volta, perché devono essere in due a pensare che quello che stanno facendo sia una buona causa, il tempo passa.

A.U. Mi ha colpito notare come non tutte le donne che hanno scelto di collaborare alla tua ricerca fossero a un livello di comprensione profonda di quello che stava succedendo. A volte sembrano ancora in una fase di negazione, e nonostante questo hanno scelto di testimoniare.

R.S. Sì, molte si trovavano ancora nella situazione della violenza, altre ne erano fuori, alcune lavoravano alla raccolta dei testi con il compagno, altre invece no, altre ancora avevano denunciato e poi si erano ricongiunte al compagno. Perché, e questo per me è molto importante dirlo, come non bisogna mai parlare di amore quando si parla di violenza domestica, allo stesso modo non bisogna mai parlare di patologia quando si parla di violenza domestica. Patologizzare significa relegare un fenomeno nell’eccezionalità e accettare che possa essere non completamente compreso proprio perché è una malattia.  Non c’è nulla di patologico nell’incastro tra abusante e abusato, e soprattutto le dinamiche devono essere comprese a fondo, spiegate, illustrate senza trascurare che il legame tra queste due persone è un legame comunque molto forte e non si può ridurre tutto a «uno è un mostro e un altro è una vittima», se procediamo in quella direzione non si va da nessuna parte, non si comprende nulla, e se non si comprende non si può neanche combattere.

A.U. Nonostante questo fenomeno ci appaia inafferrabile, sembra che ci siano delle tappe obbligatorie e comuni in queste relazioni, sia dal punto di vista della storia della coppia che dal punto di vista linguistico. Tutte queste relazioni, ad esempio, iniziano con una fase di love bombing. E quando finiscono sembrano sempre lasciare alla vittima un senso di smarrimento: «come è possibile che sia successa questa cosa?», direi che è questa la domanda che si pongono tutte le donne vittime di violenza psicologica. Segue poi un fortissimo senso di spersonalizzazione, una crisi d’identità, il non sapere più chi si è. Una testimonianza presente ne Lo stile dell’abuso dice: «Per prima cosa sono andata al supermercato. Per mesi, mentre spingevo quel carrello che solo lui poteva decidere come riempire ho fantasticato su tutto ciò che avrei comprato io, nella mia nuova vita. Ma oggi non sapevo più cosa volevo».

R.S. L’opera di riabilitazione alla fine di una storia in cui c’è stata violenza psicologica è un processo molto lento, è come riacquisire la mappa del reale, iniziare a distinguere il vero dal falso, il giusto da ciò che è sbagliato. In un contesto del genere il concetto di: «io posso ancora comprare un vestito e sapere quello che voglio» non è affatto scontato. Non è affatto scontato se fino a poco tempo fa il silenzio è stata la mia dimensione, ma non il silenzio del segreto, il silenzio di chi non ha più una lingua, come diceva Michel de Certeau. Perché l’obiettivo del torturatore è proprio quello di espropriare la vittima dalla propria lingua. E poi c’è il senso di colpa, ciò che si pensa è: se io non sono stata in grado di riconoscere la natura di quella persona che diceva di amarmi e di cui io mi fidavo ciecamente, in che cosa io posso ancora avere fiducia rispetto alle mie capacità di lettura del mondo? Una delle testimonianze ne Lo stile dell’abuso dice: «Se incontri animali simili, se incontri un mostro non puoi più fidarti neppure della tua ombra perché tutti possono trasformarsi da un momento all’altro in qualcosa che non ti aspetteresti mai». E questo tipo di spaesamento è difficile da compensare. Un’altra donna nel libro dice: «Una sera […] l’uomo che ora mi sta a fianco, ha usato un’espressione del mio ex marito. Ho rimosso quelle parole. Non sono riuscita più a portare avanti la conversazione, lì sul divano sono diventata di nuovo di pietra. I fantasmi sono usciti dai muri. Mi si è stretto un groppo in gola e non sono più riuscita a spiccicare una parola».

A.U. Tu scrivi: «Lo stile dell’abuso può essere descritto come un sistema linguistico a più direttrici che operano di concerto, in sinergia». E ne individui sei: Costruzione del soggetto, Decostruzione del soggetto; Creazione di realtà, Interdizione del soggetto; Accerchiamento, Autorappresentazione. Vuoi provare a sintetizzarle?

R.S. L’analisi stilistica è uno strumento di forte decriptazione, di svelamento, come si diceva, è una macchina della verità. Le direttrici stilistiche attraverso le quali ho provato a descrivere il sistema del discorso abusante rendono sovraevidente che il presupposto in funzione del quale tutta questa mostruosità può avvenire è di tipo linguistico. Lo stile dell’abuso è un sistema linguistico stilistico complesso perché organizzato su sei direttrici. Importate è comprendere il meccanismo alla base. Le prime due sono, dal punto di vista stilistico, straordinariamente interessanti. Dico stilisticamente perché lo stile è appunto ciò che lega l’istanza profonda del soggetto all’epifenomeno linguistico, perché nello stile si deposita ciò che il soggetto non sa di voler esprimere o che non vuole che si sappia che sta esprimendo, quindi è in questo senso che l’analisi linguistica è una mappa della verità. 

Le prime due sono appunto la Costruzione del soggetto e la Decostruzione del soggetto. Immaginate dal punto di vista strettamente linguistico uno spettro di fenomeni, di stilemi: l’uso di determinate parti verbali, l’uso di determinati aggettivi, l’uso dei superlativi, l’uso delle parti pronominali. È interessante notare quanto l’abusante usi i pronomi «io» e «tu» ma non usi «noi». È strano, perché in una dimensione fusionale si immaginerebbe un uso predominante del noi, ma il noi è anche fortemente depotenziante, perché le due unità per essere l’una al servizio dell’altra devono rimanere divise. E poi ricorre l’uso di «loro», che incarna il resto del mondo che non può comprendere, che è nemico, che è ostile ed estraneo.

Nella fase di costruzione l’abusante come un demiurgo dice all’abusata chi è. Frasi tipiche di questa fase sono: «Te lo dico io chi sei tu», «Solo io ti conosco veramente», «Solo io so chi sei». A latere, voglio dire che l’attribuzione di un’identità all’abusata da parte dell’abusante è tipica delle prima fasi, ma se vogliamo è tipica delle prime fasi dell’innamoramento in generale, ecco perché bisogna fare molta attenzione: lo stile del discorso abusante è da leggere nella complessità di tutte queste direttrici che agiscono di concerto. 

Dopo che l’abusante ha fidelizzato la vittima e si è garantito pienamente la sua fiducia, ecco che subentra la seconda fase, quella di decostruzione. In cui, ad esempio, l’uomo che ti ha detto che sei la persona più capace di questo mondo ti dice che allo stesso tempo sei anche la più impacciata e la più inadeguata, l’uomo che ti ha detto che sei la cuoca più straordinaria ti dice anche che fa veramente schifo quello che hai fatto stasera, e così via. Rispetto a questo «sei» e «non sei» le capacità di autopercezione di sé iniziano a traballare, ed è un meccanismo molto semplice da innestare – ripeto, basti leggere i manuali desecretati dei protocolli di addestramento dei torturatori: uno dei primi indirizzi è quello di dire e disdire, in questo modo si abbassa straordinariamente la soglia di capacità di lettura dei dati reali del torturato.

Il terzo movimento è quello della creazione di realtà: l’abusante inizia a raccontare cose non vere che sono accadute o a raccontare cose riformulate in una direzione diversa, rispetto al passato, al presente e al futuro (gaslighting), e con una dovizia di particolari che soltanto una menzogna consente, perché le grandi costruzioni fittizie sono sempre straordinariamente precise nel dettaglio, sempre.

Il quarto movimento è l’interdizione del soggetto attraverso dei confronti verbali che altro non sono che trappole, perché, se decriptato linguisticamente, il discorso dell’abusante si rivela costruito esclusivamente su fallacie argomentative, cioè quelle cose che da Aristotele in avanti ci è stato detto essere argomentazioni mendaci, finte argomentazioni. Difatti non c’è nulla di più impermeabile alla dialettica del linguaggio abusante, con il discorso di abuso non si può entrare in rapporto di dialogo. È tipico dell’abusante trascinare la donna abusata in discussioni infinite ed estenuanti, una mossa che in realtà non ha altro scopo se non quello di rendere completamente inutile e frustrante il rapporto dialettico stesso: non esiste un progetto di scambio, non esiste il «noi» come pronome personale, e l’impossibilità dello scambio dialettico è garantito dal fatto che tutto il discorso è semplicemente fallace. «Io ero chiusa in quel labirinto di parole», dice una delle vittime.

Il quinto movimento è l’accerchiamento: si dice spesso che la violenza domestica sia una gigantesca strategia di controllo. Io penso che sia invece più vicina all’accerchiamento, ovvero che la lingua si comporti in modo che la donna abusata viva nella continua sensazione non di essere semplicemente controllata, ma di essere circondata e chiusa in un perimetro da cui non può scappare, con la perenne minaccia di irruzione, resa da espressioni come «sono sempre lì», «sto per arrivare», «è come se fossi lì».

Il sesto movimento è l’autorappresentazione, una modalità di autonarrazione dell’abusante che si rappresenta invariabilmente come la vittima nella relazione. La strategia linguistica che media questa resa di immagine è più sottile della semplice autovittimizzazione, è piuttosto una dismissione totale di qualsiasi responsabilità nella relazione d’abuso accompagnata da una minimizzazione dei gesti e dei fatti.

ARTICOLO n. 21 / 2022

GIOVANE DONNA CON LA MANO SOTTO IL MENTO

Traduzione di Maria Nadotti

Quando entrava in una stanza piena di gente, aveva un’arroganza quasi bizantina, tipo quella dell’imperatrice Teodora di Ravenna. Lo sapeva benissimo perché, per una come lei, l’autodifesa cominciava dall’escludere che ci si potesse prendere qualche libertà. E a rendere chiara e inequivocabile tale esclusione erano tanto la sua espressione quanto il suo portamento.

Dico «una come lei» perché era una musicista e un’émigrée, e perché il modo in cui la gonna lunga e pesante le pendeva dai fianchi quando danzava era biblico – ti faceva pensare a infinite generazioni di donne.

Era stata cresciuta dalla nonna, una contadina ucraina. Da lei aveva imparato ad ammazzare i polli, a dar da mangiare alle oche e a prendersi cura degli esaltati genitori – il padre era un violoncellista solista, la madre una pianista.

Sotto la tutela della nonna a dodici anni aveva già acquisito la sicurezza di una donna matura. Il suo primo amante era comparso quando aveva tredici anni.

Avrebbe potuto raccontare storie per un mese. Oltre al proprio fondo, aveva quello della nonna cui attingere. Buffe, vere, immaginarie, tutte le sue storie rivelavano come il mondo sia fatto di persone che, come gli uccelli durante un inverno rigido, hanno bisogno in un modo o nell’altro di essere nutrite. C’erano i corvi e c’erano i fringuelli. Quando le raccontava, si curvava su se stessa come una vecchia che pela le patate da mettere a cuocere nella minestra. La sua risata – e rideva solo quando lo facevi tu – era lieve e argentina.

Concentrata sulla penultima sonata per piano di Beethoven, quando suonava diventava rossa e sudava come una ragazza di campagna. Non riuscirò mai più a separare il pathos di quella sonata dall’odore d’erba che sta seccando del suo sudore.

Una volta mi sono messo a farle un disegno subito dopo che aveva finito di esercitarsi. Il piano era ancora aperto e lei era seduta lì accanto. Ho socchiuso gli occhi e ho aspettato. L’impulso a fare un certo disegno viene dalla mano piuttosto che dagli occhi. Forse dal braccio destro, come capita ai tiratori scelti. Certe volte penso che sia tutta questione di mira. Anche suonare l’Opus 110

Il suo occhio sinistro a volte vaga, fino a dislocarsi impercettibilmente. In quel momento tale lieve asimmetria era quanto di più prezioso riuscivo a vedere. Se solo potessi toccarla, situarla, con il mio mozzicone di carboncino, senza darle un nome…

Lei naturalmente sapeva che le stavo facendo un disegno ed emanava qualcosa che avrebbe incontrato la mia mira. Se ciò che si sprigionava da lei non avesse mancato la mia mira, ma l’avesse toccata, c’era la possibilità che ne venisse fuori un buon disegno.

Non ho mai saputo in che cosa consista la somiglianza in un ritratto. Si può vedere se c’è o se non c’è, ma resta un mistero. Per esempio, le fotografie non hanno mai una «somiglianza». Di una fotografia non ce lo domandiamo neppure. La somiglianza ha ben poco a che fare con i lineamenti o le proporzioni. Forse nasce da ciò che un disegno riceve, se due mire s’incontrano come la punta di due dita.

A poco a poco la testa disegnata sulla carta si è fatta più somigliante alla sua. Eppure ora sapevo che non si sarebbe mai avvicinata abbastanza, perché, come può capitare quando si disegna, avevo finito per amarla, per amare tutto di lei, e nessun disegno, per quanto buono sia, riesce a essere più di una traccia.

Lì seduta, mi ha raccontato una storiella sugli abitanti di un certo paese: gente tanto gretta che, prima di andare a letto, ferma gli orologi di casa per farli durare più a lungo!

Ho cominciato ad avere l’impressione che l’evoluzione del disegno corrispondesse a un’altra evoluzione. Ogni tratto o correzione che facevo sulla carta era come qualcosa che le era stato trasmesso prima che venisse al mondo. Il disegno stava dragando il tempo. E le sue tracce erano, come i cromosomi, ereditarie.

Ti eleggo mio secondo padre, ha detto lei in quel preciso istante.

Ho disegnato la mano su cui teneva appoggiato il mento.

Alla fine c’era una specie di ritratto, in gran parte cancellato, che mi sembrava terminato, così gliel’ho porto.

Dapprima gli ha dato un’occhiata da imperatrice Teodora. Poi, nello studiarlo, è diventata completamente se stessa, una ragazza di ventun anni.

Posso prenderlo? ha chiesto.

Sì, Anjuška.

Due giorni dopo è tornata a Odessa con il suo ritratto, e io ho tenuto questa fotocopia.

Tratto da Fotocopie, © il Saggiatore, Milano 2021, edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti.

ARTICOLO n. 20 / 2022

ADDIO AL CALCIO

Ci allenavamo due volte alla settimana, noi dei Giovanissimi B, per il campionato della stagione 1980/1981. Io avevo sette anni e portavo una frangetta tagliata male. Ero il migliore della classe e masticavo chewing-gum per darmi arie da bullo, ma ero in realtà timido, effeminato e perdente. Tutto questo non impedì che entrassi nella squadra di calcio, non appena la Società Sportiva del paese si organizzò per metterne su una. I miei compagni di scuola, più atletici e fanatici di me, urlarono come scimmie quando si diffuse la notizia che ci avrebbero fornito gratis una muta professionale: maglie rosse fiammanti col numero dietro, pantaloncini immacolati bianchi, parastinchi e copri-parastinchi. Roba mai vista. Nessuno di noi aveva mai fatto parte di una squadra prima di allora. Io mi imbarcai nell’avventura soprattutto perché Marco, Michele, Gianni e gli altri thugs che frequentavo avevano detto sì; e perché all’epoca, in quel contesto di villaggio di provincia, semplicemente non ti potevi rifiutare, pena l’esclusione da tutto, l’isolamento sociale. A Badia si rischiava la derisione, la denuncia, il manicomio, la galera, a non seguire quello che facevano tutti: sia che si trattasse della decisione di non ricevere i sacramenti cristiani sia di quella di astenersi dal calcio. 

Era un misto di desiderio e di terrore; un incrocio fra il sentirsi inadeguati, non dotati, non atleticamente giusti, e l’essere sopraffatti da una irrefrenabile passione, da un raptus. Sentivamo che quella era l’occasione per superare una forma di giovanile vergogna, per dimostrare che non era peccato mettersi in mostra: il campo di calcio, lo avrei capito soltanto dopo, è prima di tutto un palcoscenico. Coi miei amici lo affrontavo a testa alta, e la paura bisognava farla passare. Perché di paura ce n’era eccome: il campo sportivo pareva sterminato e totalmente sproporzionato alle nostre coscine di rana. Il rettangolo di gioco incuteva terrore sempre, perfino il martedì e il giovedì, quando, senza né gli avversari né gli spettatori, a calpestarne l’erba eravamo soltanto noi e il Mister. 

Dante M. accettò con entusiasmo l’incarico di allenare noi ragazzini, perché era un ex calciatore dilettante, ma soprattutto perché quella per lui era una fantastica (e forse ultima) occasione di sogno e di evasione dalla realtà. Alto due metri, pesante cento chili, capello lungo biondo e baffo folto alla Roberto Pruzzo, fumava due pacchetti di Nazionali al giorno e beveva parecchi Campari, anche di mattina. Dante M. era un orango, uno yeti, un visigoto. Sempre sopra le righe, in maniera violenta e disperata cercava qualsiasi cosa che gli impedisse anche temporaneamente di lavorare. Eppure era un bravo cristo, una delle persone più pure e sincere che mi sia mai capitato di incontrare. In paese era un personaggio: gran frequentatore di bar, grande attore, eroe geniale della goliardia, della zingarata, della barzelletta volgare. Molto spesso gli capitava di fare a cazzotti con qualcuno, e noialtri, per questa sua fama di picchiatore, lo temevamo. Comunista, cacciatore, pescatore, tiratore al piattello, politicamente assai scorretto, ci chiamava «finocchi» con gusto sadico, faceva battute volgari sulle nostre mamme quando non ci impegnavamo nella corsa, dava del grassone al mio compagno di banco Bobo che era effettivamente sovrappeso. «Avanti Zeus, Dio della Braciola!» gli urlava. Ma in campo, con quel fischietto e i pantaloncini inamidati, sembrava un danzatore, mentre noi, ammaliati, zitti, lo guardavamo danzare. Come si guarda una divinità. Dante si scrollava di dosso in un colpo solo i cazzotti, il fumo, il bere, le donne, sua moglie, i debiti, i soldi, il governo, Craxi, Andreotti e Fanfani; si scrollava di dosso la fuliggine della vita e danzava per noi in quella pianura d’erba rigata di gesso. Quel pezzetto di terra era il cielo in cui lui, albatro liberato, splendido di bellezza volava. 

Ricordo bene il primo gol segnato in partita, una domenica mattina a Piancastagnaio, e la prima gomitata nelle costole data al centravanti del Pienza. Quanta paura, prima di entrare in campo, e al contempo che determinazione di esserci, di dimostrare. Ma che cosa avremmo mai voluto dimostrare? Me lo chiedo adesso. Forse che anche noi potevamo essere degli eroi. Come Maradona, Paolo Rossi, Platini, Zico, Socrates, Antognoni. Valorosi soldatini dentro qualcosa di più sicuro e più a portata di mano di una guerra. 

Ho visto su Mubi l’altro giorno un bel film di Céline Sciamma che si chiama Tomboy. La storia di una ragazzina che si trasferisce con la famiglia in un nuovo quartiere e decide di fingersi maschio. Il film racconta bene il rapporto tra natura e cultura chiamando in causa l’arbitrarietà della dicotomia maschile/femminile e delle pratiche che ne assicurano la perpetuazione. Il calcio, ad esempio. Nel film la piccola Laure, maschiaccio preadolescente, gioca partite di pallone al campetto insieme ai nuovi compagni; gioca bene, si mette in mostra, e alla fine riesce a segnare un gol. La camera segue i ragazzi da vicino, senza virtuosismi; tutto è semplice e tutto è naturale, sembra volerci dire. Quasi non c’è regia, non c’è spettacolo. È una partita a pallone fra ragazzini, innanzitutto: una faccenda elementare, semplice, naturale come la giovinezza. Ma lo sguardo della Sciamma, lo si capisce solo in un secondo momento, riesce ad aggiunge a questa naturalezza un elemento in più. Non lo si coglie da subito, ma poi arriva, precisa e implacabile, la sensazione che dentro quella innocente partitella di provincia sia contento un sacro rito. Un rito sacro al cui interno c’è un infedele. Un infiltrato, una spia: la femmina che non può (non potrebbe) giocare al gioco dei maschi e che quindi, con uno stratagemma, gioca.

Questa scena della partita mi ha toccato il cuore. Forse proprio perché mi ha ricordato quanto anche io, ai tempi eroici della squadra di calcio, fossi in fondo nient’altro che una maldestra pecora nera dipinta di bianco.

Qualcosa, nell’organizzazione del Mondo, e del calcio nel 1981 per l’appunto, mi costringeva a non essere me stesso. Mi costringeva a essere un me che non volevo essere; per vivere, per sopravvivere. Eppure, proprio non ci riesco a condannare, a imputare di colpevolezza. Non riesco a essere cattivo col calcio. Mi rendo conto di quanto esso sia indifendibile: un classico smoking gun case. Sono convinto, certo, della responsabilità di una certa cultura machista e performativa del gioco del pallone, in un momento storico come questo di giusta presa di coscienza delle tematiche relative al genere e alla sessualità. Eppure, maledizione, la scena di Tomboy non mi ha emozionato soltanto perché mi ha ricordato di tutte le volte che mi sono sentito femmina potenziale inespressa o repressa. No, sarebbe tutto troppo facile.

Dopo aver visto il film, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dallo scaffale Addio al calcio di Valerio Magrelli, e anche la sua ultima raccolta fresca di stampa dal titolo Exfanzia.

I poeti son prodigiosi come i santi: riescono a evocare mondi lontanissimi nel tempo e nello spazio e li fanno collidere con oggetti, segni, tracce, sentimenti più noti e quotidiani. Addio al calcio ordina in novanta brevi capitoletti (il numero dei minuti di una partita) i ricordi calcistici di Magrelli, il suo rapporto col figlio, la sua relazione con il mondo del calcio. C’è un tono ironico, garbato, che permea il continuo flusso di comparazione fra ciò che è stato e ciò che adesso è, fra ciò che eravamo e quello che siamo diventati: è un inventario lirico di ciò che abbiamo perduto, per sempre, nello srotolarsi agonistico dell’esistere. Nell’appena uscito Exfanzia, che guarda caso si apre con una poesia che si chiama Una variazione da Addio al calcio, Magrelli dipana illuminazioni che hanno come scintilla di partenza, come da titolo, l’infanzia e la preadolescenza dell’uomo, viste dalla prospettiva dell’uomo che da quelle fasi biologiche è ormai lontano. L’exfanzia è illuminante per l’exfante proprio perché quadro da contemplare per rendere forse più beata l’attesa della morte; non c’è più niente da capire: a una certa età forse si raggiunge per forza una pace (una inquietante pace, nei casi peggiori) in cui i ricordi di giovinezza non costituiscono più indizi / inizi di autoanalisi. È sicuro: appartengo anch’io alla categoria di chi riesce a guardare il passato remoto rimanendo in questa sorta di pace anti-psicanalitica, proprio perché cosciente che in quel passato non c’è più niente da capire. In quel lontano quadretto di squadra di provincia, c’era un calcio che oggi non c’è più, c’era un ragazzo che oggi non c’è più; eppure, e a maggior ragione, di qual quadro colgo adesso la bellezza. Come fossi al cinema o in un museo, mi godo il suo incanto di mondo perduto (o meglio trasfigurato, divenuto fantastico, irreale).

Ecco perché ho pianto vedendo i ragazzini di Tomboy.

Poi passa il tram fuori dalla finestra, nonostante sia notte fonda qualcuno impreca per strada, e la magia si perde. Cerco di riacciuffarla ma non ci riesco. Mi si inchioda con decisione in testa un altro quadro: quello del presente, ancora non esposto al museo. Il quadro del calcio di oggi.

Viene per forza da chiedersi quanto il gioco del calcio continui a esercitare il suo potere incantatore, quanto continui a essere costruttore di sogni, trasversale e interclassista (com’era il calcio delle origini e com’è il calcio dell’exfanzia). Quanto rimanga oggi di questo suo potere ultraterreno, adesso che – lo sappiamo tutti – il gioco è cambiato, i calciatori son tutti troppo uniformemente muscolosi, la velocità è aumentata, il giro di affari è centuplicato, le partite si giocano tutti i giorni ma in televisione e andarle a vedere allo stadio è superfluo, eccetera eccetera. 

Durante i Mondiali dell’82, ci fabbricammo delle bandiere: oggi nessuno si costruirebbe più, da solo, una bandiera. Nessun ragazzino, né in città né in campagna. Quanto tempo è passato da quell’estinto atto? Quante vite? Quali altri modelli di vita il gioco del calcio ha accompagnato nel corso di questi quarant’anni? 

Tomboy e i due libri di Magrelli mi hanno fatto ricordare che il bastone lo facemmo con una canna di bambù che tagliammo al fosso che scorreva dietro casa di Jimmy, e che alla parte in stoffa ci pensò la nonna di qualcuno che aveva la macchina da cucire da sarta. 

Mi ha fatto pensare all’ultima volta che sono stato a vedere il Milan a San Siro, esattamente dieci anni fa, all’esperienza acustica dei tifosi sugli spalti in coro. E a fine partita, io e quei tifosi, a testa bassa, ancora tutti un po’ in trance, che camminiamo per raggiungere i mezzi, le macchine e i motorini, prima di far ritorno a casa, prima di tornare umani. 

Se non ricordo male dieci anni fa il fuoco sacro, a momenti, pareva ancora acceso.

Braci fioche spuntavano ancora sotto strati densi di cenere.

Dante M. è morto quindici anni fa. Pare di cirrosi epatica, solo e disperato. Alla fine degli anni Ottanta era persino riuscito a partecipare a due puntate del Maurizio Costanzo Show: diceva di avere un superpotere, saper riconoscere gli extraterrestri a fiuto.

A noi ha sempre voluto bene, penso spesso a lui e a tutto quello che ha fatto per noi ragazzini dell’U.S. Abbadia, categoria Giovanissimi B. Penso che sia stata quella una stagione magica, perché per incanto, tramite gioco del calcio, una comunione di felicità ebbe luogo. Come i miracoli, avvenne. Nell’Era dell’Ego, e a maggior ragione in questi terribili giorni di violenza, guerra e separazione, mi sono ricordato del potere che ha avuto il calcio nella mia vita: rendermi per la prima volta felice in mezzo agli altri.

Sì, viviamo giorni duri, eppure bisogna resistere. 

Come dice Magrelli: «non c’è pallone che non si sia perso o forato, e forse tutto questo vorrà dire qualcosa».

ARTICOLO n. 19 / 2022

KEROUAC IN TARDA ETÀ

Traduzione di Sarah Barberis e Leonardo Carra

Il Kerouac degli ultimi anni è considerato politicamente molto reazionario. C’è stata una buffa trasformazione nel suo atteggiamento nel passaggio da giovane a vecchio, perché in un primo momento quando era marinaio era stato un membro del Partito comunista. C’è una frase esilarante che dice: «Posso fare autostop su quella strada e oltre negli anni che mi rimangono da vivere sapendo che a parte un paio di risse da bar cominciate da qualche ubriaco della mia testa non mi è stato torto nemmeno un capello dalla crudeltà del totalitarismo». È la sua visione ottimista. C’era una vecchia tradizione di sinistra o anarchica a San Francisco, negli ambienti che frequentava. Era stato un comunista e poi aveva litigato con un portuale e aveva deciso che i comunisti erano un branco di noiosi. 

Fu un curioso piccolo cambiamento. Ho sempre pensato che una delle ragioni per cui Jack veniva percepito come il più puro dei puri, o in seguito americanista, era che si era reso conto di avere così tanta dinamite nel cuore e anche nella propria arte da catalizzare un grande cambiamento culturale. Non sapeva di cosa si parlasse quando si trattava del governo quindi c’era un piccolo limite, non avrebbe dovuto spingersi troppo in là politicamente né farsi coinvolgere, [meglio] evitare le autorità. Non si lasciò coinvolgere come feci io e il resto degli intellettuali comunisti ebrei. Pensava che stessimo escogitando nuovi motivi per malignare, diceva così, «nuovi motivi per malignare». Penso che fosse vero. Per tutto il tempo Kerouac si oppose all’aggressività, la rabbia, la malignità, il risentimento, l’antiamericanismo della generazione più giovane che stava crescendo. Ne fui davvero scosso perché pensavo che intendesse me e in effetti era così. Con il senno di poi penso che fosse una mente affilata, intelligente, da rozzo americano del Sud ma con un’opinione intelligente.

Quale fu la conclusione politica definitiva di Kerouac al riguardo? Questo potrebbe far emergere la sua posizione culturale e politica. È in ospedale con una flebite causata da un consumo eccessivo di benzedrina. 

«Difatti incominciai in quell’ospedale a riflettere su me stesso. Incominciai a capire che gli intellettuali cittadini del mondo avevano divorziato dalla vera gente della terra ed erano solo dei matti senza radici, i matti ammessi e tollerati, che veramente non sapevano come fare ad andare avanti. Incominciai ad avere una nuova visione illuminatoria mia di una tenebra più vera che sovrastava proprio tutto quel ricoprente-opprimente rifiuto mentale dell’«esistenzialismo» e dello «hipsterismo» e della «decadenza borghese» e tutte le altre definizioni che volete dare. 
Nella purezza del mio lettino d’ospedale, settimane senza fine, una dopo l’altra, io, con lo sguardo fisso sullo stinto soffitto mentre i miei poveri compagni russavano, vidi che la vita era una brutale creazione, bella e crudele naturalmente, che quando si vede un bocciolo primaverile ricoperto di pioggia di rugiada, come si può credere che sia bello e meraviglioso quando si sa che quella delicata umidità è lì solo per incoraggiare il bocciolo alla fioritura, e perché possa in fine ultimo cadere accartocciato e secco nella morte dell’autunno? Tutte le contemporanee teste acide all’lsd (del 1967) vedono forse la crudele bellezza della bruta creazione chiudendo soltanto gli occhi: io l’avevo scorta da allora: un maniaco cerchio di Mandala tutto a mosaico e denso con milioni di cose crudeli e scene meravigliose che si susseguono, come mettiamo, quella rapida visione di una notte, da una parte un maestro del coro in un qualche modo stretto al suo «Paradiso» tropicale che faceva piano con la sua bocca «Ooooo» temendo e sfiorando la bellezza di quello che si stava cantando, ma proprio vicino a lui c’è un porcellino dato in pasto a un alligatore da dei marinai crudeli sul molo e la gente che passeggia noncurante. Solo un esempio del tutto. O quella orrenda Madre Kalí della vecchia India e delle sue sagge eternità con tutte le braccia ingioiellate, le gambe e il ventre anche, ruotante e turbinante follemente per divorare attraverso la sola parte che non è ingioiellata, il suo yoni, o yin, tutto quello a cui ha dato nascita. Ha ha ha ha lei ride mentre danza sui morti a cui ha dato la luce. Madre Natura che ti dà alla luce e che ti rimangia.
E io dico che le guerre e le catastrofi sociali provengono […] non dalla «società», che dopo tutto ha delle buone intenzioni, se no come verrebbe chiamata «società»?»

Potete così constatare il [periodo] inventivo e di scoperta che stava attraversando; e il bisogno di comunicare, che è poi il cuore della questione. Provava a comunicare all’America le ineffabili visioni dell’individuo. Gli schizzi sono cruciali per un’intera scuola di poetica, perché qua abbiamo la teoria, o meglio abbiamo la lunga prosa che precede la teoria; poi abbiamo la teoria, e gli esempi sono nelle pagine di apertura di Visioni di Cody

Sostanzialmente quello che [teneva] insieme tutti questi schizzi era Kerouac che vagava per la Bowery a New York e metteva a confronto quel paesaggio con l’affresco dei barboni di Larimer Street a Denver. Interpretava New York attraverso gli occhi di Neal, predisponendo la scena per le proprie osservazioni sul barbone, sul vagabondo, sul padre perduto, sull’infanzia negata, sull’esperienza di strada di chi si perde, sugli infelici, sui rifiuti senza speranza della terra: quello che rende chiunque riesca a sopravvivere un genio dell’empatia.

C’è una descrizione abbastanza valida di una cena. È il primo schizzo formale che ha introdotto in [Visioni di Cody].

«Questo è un vecchio ristorante come quelli in cui, tanto tempo fa, mangiavano Cody e suo padre: il soffitto uso carrozza ferroviaria vecchiostile, le porte scorrevoli. L’asse dove affettano il pane è consunto e levigato, come a pialla, a furia di briciole. La ghiacciaia («Ohé, Cody, c’è una bella frittura casareccia per stasera!») è un affare enorme, di legno greggio, con le maniglie come s’usava una volta, con oblò, con le pareti di piastrelle, piena di uova fresche e panetti di burro e gran tocchi di pancetta. In questi vecchi ristoranti non manca mai un piatto di cipolle crude bell’e affettate, per guarnire gli hamburgers.»

Sono solo semplici, osservazioni estemporanee e dirette da americano. Gli schizzi di Kerouac sono rilassati, come quando Cézanne usciva con il blocchetto di appunti e si sedeva in strada davanti al Mont Sainte-Victoire. Si accorge di tutto ciò che è necessario, lo butta giù e trova piccole pianure archetipiche e superfici e curvature della montagna. Kerouac fa lo stesso: lo connette emotivamente, nostalgicamente con Cassady e questo gli offre una corrente sotterranea di amore o affetto o empatia a cui ricongiungersi.

In un certo senso, devi avere una visione nobile del mondo quando lo osservi per riportare questa nobiltà negli schizzi. Nessuno ti può dare quella visione nobile del mondo. Possono offrirti dei suggerimenti su come articolarla, ma nessuno può dirti che è questa l’eternità se non lo sai già di tuo. Se non sai che sei nell’eternità e che quello che scrivi è la tua consapevolezza della presenza dell’eternità, non c’è modo di insegnarlo.

Il commento finale nelle ultime pagine [di Vanità di Duluoz] sarà il suo ultimo commento altamente letterario sull’esistenza.

«Dimenticati tutto però, moglie. Va’ a dormire. Domani è un altro giorno, ancora.
Hic Calix!
Leggi queste parole in latino, significano «Ecco qui il calice», e sii sicura che c’è del vino dentro.»

Quella è l’ultima frase e poi ha continuato a bere fino a morirne (quindi siamo nel 1967 o 1968). Secondo il critico letterario del New York Times, Anatole Broyard, Kerouac era ormai uno scrittore finito e rimbecillito. Nella mente di William Buckley era solo un ubriacone. Nella propria mente era stato tutto per nulla, solo ceneri, solo ceneri. Pensava di essere stato il miglior scrittore inglese dopo Shakespeare. Se lo chiedete a me, seppure nella malattia, scriveva opere angeliche. Penso che chiunque fosse interessato a quel tipo di letteratura abbia compreso che ha fatto qualcosa di immenso e indelebile.

© il Saggiatore, 2019

ARTICOLO n. 18 / 2022

UN OTTIMO BILOCALE

All’inizio degli anni Novanta, vivevo in un monolocale soppalcato. Il padrone di casa lo definiva ottimo bilocale: angolo cottura, tavolino da picnic, bagno minuscolo e soppalco, ovvero una piccola nicchia sospesa alla quale accedevo salendo una breve rampa di sei gradini. Il soppalco comprendeva un materasso da una piazza e mezza, un comodino, quattro mensole che schiacciavano ancora di più lo spazio tra il letto e il soffitto. Dovevo spostarmi ricurvo in quell’area angusta flettendo le gambe per raggiungere l’altezza media di un bambino di otto anni: soltanto così quel microcosmo diventava vivibile. Eppure, il padrone di casa considerava il soppalco una stanza. Da qui, la definizione di ottimo bilocale

Il padrone di casa, durante la firma del contratto, mi aveva detto di essere amico di Zvonimir Boban, il calciatore del Milan. A distanza di trent’anni, non ricordo il motivo per cui, forse parlando della caldaia e delle spese condominiali irrisorie – le spese condominiali ancora oggi sono definite irrisorie e non ridicole: benché quasi sinonimi, il ridicolo, più che l’irrisorio, potrebbe svalutare un immobile – aveva detto, sono un amico di Boban. Credo che quella confessione non richiesta mi sia costata almeno 100.000 lire in più d’affitto al mese. Come avrei potuto difendermi? Avrei dovuto replicare con un’affermazione altrettanto roboante. Ma non ero amico di Lothar Matthäus, non ero amico di nessun giocatore dell’Inter e non volevo ribattere con una menzogna. Il padrone di casa aveva vinto, meritavo di pagare 100.000 lire in più di canone.

A volte scendevo al bar per guardare le partite in televisione, erano i primi anni del calcio a pagamento. Il Milan era la squadra migliore in quel periodo, tifavo e tifo Inter ma guardavo volentieri le partite del Milan. Inoltre, il fratello milanista di un amico milanista, si era fidanzato con una ragazza che abitava a quattrocento chilometri di distanza, così programmava i weekend amorosi in rapporto al calendario del Milan, raggiungeva la fidanzata quando il Milan giocava fuori casa, in modo da non perdere le partite casalinghe per le quali aveva pagato l’abbonamento; a volte, capitava che la raggiungesse anche quando il Milan giocava in casa: ah, l’amore. 

Il fratello milanista dell’amico milanista mi lasciava la tessera, regalandomi la possibilità di vedere il Milan a San Siro. Ero a disagio sull’autobus, mi sentivo una mezza spia, un impostore, uno che tifava Milan senza tifare Milan, un abbonato che aveva la tessera in tasca e aveva esultato per le vittorie in Coppa dei Campioni negli anni precedenti.

Si dice che il calcio serva a dimenticare gli affanni della vita quotidiana. Non ci ho mai creduto. Il calcio peggiora la propria condizione esistenziale. Boban giocava nel Milan, il padrone di casa sosteneva di essere un amico di Boban, e quel riferimento a Boban, più che ricondurmi al Milan, al calcio, allo svago, mi riportava alla condizione di giovane poco più che ventenne relegato in un monolocale soppalcato definito ottimo bilocale.

Boban era stato acquistato dal Milan a ventitré anni. In precedenza, aveva giocato nella Dinamo Zagabria. Oltre che per le sue doti tecniche eccellenti, è ricordato per il calcio tirato in pancia a un poliziotto federale jugoslavo – scambiato per un poliziotto serbo, in realtà pare fosse bosniaco – durante gli scontri avvenuti prima della partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado, giocata a Zagabria il 13 maggio 1990. 

Immagino che oggi, il calcio di Boban rifilato al poliziotto federale jugoslavo sarebbe divenuto, come si dice, virale, e il video avrebbe avuto milioni di visualizzazioni, e la sequenza sarebbe stata commentata in milioni di post. Ma era un’epoca analogica, a maggior ragione per ciò che riguarda l’aggettivo jugoslavo, e di quel periodo sono state riversate in digitale poche immagini, nelle quali si vede comunque Boban prendere la rincorsa e colpire il poliziotto che, sorpreso dall’azione del calciatore, chiude gli occhi per attutire il calcio e perde il caschetto protettivo. A volte, mi capita di pensare al fotoreporter nella sua camera oscura a sviluppare il rullino, quando già sapeva come era andata a finire la partita.

La partita, a causa degli incidenti avvenuti sulle tribune e in campo, era stata rinviata, e il calcio tirato da Boban al poliziotto sarà considerato, a posteriori, una premessa della guerra civile jugoslava e del disfacimento di una nazione. 

Boban, ventiduenne, aveva pagato il gesto con la squalifica e la mancata partecipazione ai Mondiali di calcio, in Italia.

Il Milan aveva acquistato Boban nel 1991 e lo aveva prestato al Bari. Poi l’arrivo a Milano e lì, in poco tempo, era diventato, oltre che un giocatore del Milan, amico del mio padrone di casa. Durante la guerra civile jugoslava, Boban era un tesserato del Milan. Giocava poco, il Milan di Berlusconi aveva una squadra di campioni e Boban era ancora abbastanza giovane per restare in panchina. L’abbonamento del fratello milanista dell’amico milanista prevedeva un posto al secondo anello. Visto dall’alto, Boban, quando entrava in campo, pareva un bambino, ma dall’alto tutti i giocatori sembravano bambini, anche Gullit. Se avessi avuto la tessera della tribuna centrale, i calciatori mi sarebbero apparsi come calciatori e forse mi sarei distratto davvero. Il piccolo Boban, invece, mi rispediva dentro il monolocale soppalcato, il piccolo Boban sarebbe stato adatto a muoversi senza sforzo nel microcosmo del soppalco.

Il padre di Boban non ho mai capito se fosse un colonnello o un generale. Ignoro se abbia partecipato o meno alla guerra civile jugoslava, se abbia avuto simpatie per gli ustascia e i loro nipotini fascisti. Leggevo con sgomento le notizie provenienti da quella nazione così prossima a noi, ma come spesso capita, gli affanni della vita quotidiana soverchiavano qualsiasi vera compartecipazione ai drammi dell’umanità. Insomma, pensavo alla mia piccola vita, all’amore, all’arte, alla letteratura, al lavoro e al non lavoro, ai soldi, al monolocale soppalcato e quindi al padrone di casa, al calcio e a Boban: non pensavo alla politica internazionale, o almeno, così credevo.

Ricordo di aver letto qualcosa riguardante il programma edilizio del Terzo Reich pianificato nel 1941, immagino prima di giugno, insomma, qualche settimana antecedente l’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Mi impressionava il fatto che Hitler e i suoi collaboratori pensassero all’edilizia del dopoguerra vittorioso, al benessere dei tedeschi, allo spessore dei muri delle nuove case, e alle, direbbe un agente immobiliare contemporaneo, tipologie di appartamenti, mentre, con le loro scelte, Hitler e i gerarchi sancivano la morte di milioni di persone.

Trilocale über alles & Unternehmen Barbarossa.

Hitler e i gerarchi nazisti erano convinti di costruire centinaia di migliaia di appartamenti e casette suburbane nel corso dei dodici mesi successivi alla fine del conflitto bellico. I morti in guerra sarebbero stati sostituiti dai nuovi nati, e allora sarebbe stato necessario investire nella famiglia tedesca cominciando dalle abitazioni. Se consideriamo una famiglia composta da cinque persone, il piano edilizio hitleriano, in un anno, avrebbe assicurato la casa a un milione e mezzo di persone. In seguito, il Terzo Reich avrebbe espropriato altri campi, pagato indennizzi ai proprietari terrieri e proseguito l’edificazione di nuove case.

In Italia, all’inizio degli anni Novanta, non eravamo in guerra, eppure nessun partito immaginava e tantomeno pianificava qualcosa di significativo per la vita degli italiani. La fine del comunismo nell’Est europeo e la guerra civile jugoslava rafforzavano la fede nell’azione correttiva e spontanea del libero mercato, la finzione con la quale siamo cresciuti. Mi impressionava il fatto che, secondo il programma edilizio del Terzo Reich, l’affitto dell’abitazione tedesca dovesse essere stabilito in rapporto al reddito del cittadino al quale la casa era destinata. Non c’è bisogno di Hitler per capire certe cose, pensavo appollaiato sul soppalco buio del monolocale, mentre sfogliavo la rivista in cui apparivano le graziose case del vittorioso dopoguerra hitleriano. Ciò che guadagnavo serviva, a stento, per pagare l’affitto e comprare il cibo. Nient’altro. Niente cinema. Niente pizzeria. Niente viaggi. Libri soltanto dalla biblioteca. La vecchia Citroen, in vendita. E per fortuna che il fratello milanista dell’amico milanista si era fidanzato con una ragazza che viveva a quattrocento chilometri di distanza, così avevo l’ingresso gratuito allo stadio. Ma il benefit milanista e la visione sfuocata del piccolo Boban mi riconducevano al monolocale soppalcato. 

Ikea aveva appena aperto un punto vendita, a Corsico. Non avevo acquistato nulla – anche perché il monolocale non poteva contenere nient’altro – ma afferrato i gadget gratuiti: un foglio marchiato Ikea, un metro marchiato Ikea, una piccola matita marchiata Ikea. Tornato a casa, avevo misurato il monolocale con quel metro stropicciato e comparato la mia condizione abitativa al progetto edilizio nazista. Secondo Hitler, otto case su dieci avrebbero avuto un soggiorno e tre camere da letto; una casa su dieci avrebbe avuto quattro camere; una casa su dieci avrebbe avuto due camere. Per tutte le varie tipologie di appartamento era previsto un ripostiglio, oltre che una dispensa, un bagno e un gabinetto separato dal bagno. La metratura delle case naziste sarebbe andata da poco più di sessanta metri quadrati a quasi novanta metri quadrati. Il monolocale in cui vivevo aveva una superficie complessiva inferiore alla cucina hitleriana del trilocale più piccolo. D’accordo, non ero un nazista con moglie e figli, ma non potevo credere alle condizioni in cui era considerato normale vivere, nell’Occidente vittorioso, meno di mezzo secolo dopo Hitler. L’unica consolazione era il microcosmo del soppalco, che da emblema di oppressione fisica diventava, se paragonato al periodo nazista, uno spazio di libertà. Hitler, infatti, non aveva pensato alla possibilità di un soppalco in ogni abitazione. Aveva pensato, però, alla costruzione dei rifugi antiaerei anche in tempo di pace.

Dal secondo anello di San Siro ho assistito a molte partite vittoriose del Milan. 

Ma tutte le cose finiscono e, poco prima di lasciare il monolocale soppalcato, e poco prima che il fratello milanista dell’amico milanista si lasciasse con la fidanzata, il Milan aveva perso dopo cinquantotto partite: 1 a 0 per il Parma, gol di Asprilla, su punizione. Quel pomeriggio ero defilato alla destra della curva sud rossonera. Avrei voluto esultare al gol di Asprilla, ma non ero un tifoso del Parma, forse non ero più nemmeno un tifoso interista, non so, già a partire da quel periodo, più passavano i giorni e meno mi sentivo qualcosa. 

Negli ultimi minuti di gioco – sulle note di The Entertainer di Scott Joplin, la colonna sonora de La stangata – i tifosi del Milan avevano cantato perché il Milan è forte alé, perché il Milan è forte alé, perché il Milan è forte, perché il Milan è forte, perché il Milan è forte alé. Un canto durato parecchi minuti, al quale non avevo partecipato. Ero rimasto seduto, mentre intorno a me i milanisti si erano alzati applaudendo e intonando quelle parole. Una bel canto oratoriano, rilassante. Credo fosse un metodo scaramantico, che nascondeva la speranza di segnare un gol negli ultimi istanti della partita e confermare l’imbattibilità, oppure un buon modo per celebrare la forza della propria squadra. Non ricordo se Boban abbia giocato o meno e non voglio sbirciare un file con il tabellino di trent’anni fa.La guerra civile jugoslava era in pieno svolgimento e Boban di lì a poco sarebbe diventato croato o forse era croato fin dalla nascita e il passaporto jugoslavo era stato, per lui, un equivoco, una finzione, un peso insopportabile durato venticinque anni. Il Milan aveva perso e io, di sicuro, non avevo vinto, ero soltanto un ragazzo, e la guerra mondiale, meno di mezzo secolo prima, era finita come tutti sapevamo: in Italia avevano vinti i palazzinari o gli amici di Boban, quale che fosse il loro orientamento politico poco importa. E infatti ancora oggi, soprattutto oggi, nazisti o non nazisti, un trilocale costa caro.

ARTICOLO n. 17 / 2022

NOTTE BOREALE

Traduzione di Katia Bagnoli

Poco tempo dopo il nostro ritorno dallo Utah, a Jessica venne l’ossessione dell’aurora boreale. Ne parlava da qualche anno, ma ora non parlava d’altro, e mi spiegava che per alcuni suoi amici aver visto l’aurora boreale era stata «un’esperienza unica». Altri argomenti erano soltanto il preludio all’argomento dell’aurora boreale e del fatto che moriva dalla voglia di vederla. A un certo punto sostenne che con tutta probabilità eravamo le uniche due persone al mondo a non averla vista, e non capiva perché non la portassi a vederla. Anch’io volevo vederla, dissi. Solo che non riuscivo a immaginare quando avremmo avuto l’occasione di andarci.

«Potremmo andarci in agosto» propose lei.

«Questa dev’essere una delle cose più stupide che siano mai state dette» dissi. Anch’io dico cose stupide. In realtà ci sproniamo a vicenda per vedere chi riesce a dire le cose più stupide, quindi il mio era una specie di complimento. «Bisogna andarci d’inverno» spiegai. «Quando è buio. In estate è il paese del sole di mezzanotte. È il vecchio aut/aut di Kierkegaard. O l’aurora boreale o il sole di mezzanotte. Non puoi averli tutti e due.»

«Ah, capisco. Siccome non possiamo averli tutti e due non avremo nessuno dei due. Questo sì che è stupido, secondo me.»
«Questo è il commento di una persona assolutamente incapace di capire la logica, secondo me» dissi.

Questo succedeva a maggio. Fare l’esperienza del sole di mezzanotte non ci interessava molto, benché ci piacesse sentirne parlare dal nostro amico Sjon, che vive a Reykjavík.

«Da piccolo in estate non riuscivo a dormire» ci disse mentre cenavamo in un ristorante indiano di Londra. «A vent’anni restavo sveglio tutta la notte a fare festa. Adesso ho messo delle tende molto spesse.» 

I mesi passarono in fretta, le giornate si allungarono e poi, appena ebbero raggiunto la loro massima lunghezza, iniziarono ad accorciarsi, fino a quando il giorno durò soltanto mezza giornata, e quest’anno diventò l’anno scorso e il prossimo quest’anno e all’improvviso piombammo nel quinto anno di quello che Jessica aveva definito, a beneficio di Sjon, «un matrimonio senza sole, in buona sostanza». Quanto al clima, era stato il dicembre più rigido che Londra avesse conosciuto negli ultimi cent’anni. Nevicò presto, con il conseguente «collasso del traffico» del sistema stradale e delle reti ferroviarie. Heathrow andò in crisi. I voli venivano cancellati, ma noi ce ne stavamo tranquilli a casa, a mangiare biscotti e a guardare la neve che scendeva al di là delle finestre senza tende o a sentire i notiziari in tv, contenti di non essere accampati come profughi a Heathrow, ad aspettare che il traffico aereo tornasse alla normalità, assillando il personale aereo con richieste di voucher per cibo e bevande ai quali avevamo sicuramente diritto. Poi, in gennaio, dopo che la neve se n’era andata e il paese si era rimesso in sesto, eccoci a Heathrow, in attesa di un aereo che ci portasse a nord, a Oslo, poi ancora più a nord, a Tromsø, e poi nel cuore del Circolo Polare Artico, fino alle Isole Svalbard.

Avendo optato per l’Avventura Aurora Boreale e non per l’Avventura Sole di Mezzanotte, la probabilità di fare l’Esperienza Aurora Boreale era più alta, perché era buio tutto il giorno. Avremmo potuto passare ventiquattro ore al giorno a vedere l’aurora boreale, avendo scelto l’Esperienza Aurora Boreale, ma prima facemmo l’Esperienza Conto Spese a Oslo. Come dev’essere bello vivere lì e viaggiare altrove, arrivare a Londra, Tokyo o persino a Papeete e stupirsi di quanto tutto sia tanto conveniente. Il treno dall’aeroporto al centro città costò una fortuna. Poi raggiungemmo a piedi il nostro costoso albergo attraversando la città ghiacciata, con il laghetto ghiacciato o la pista ghiacciata dove tutti stavano pattinando con grande perizia, e mangiammo al ristorante più caro del mondo anche se, per gli standard di Oslo, aveva prezzi ragionevoli. Il freddo e il salasso ci intontirono, ma non al punto da farci ignorare il primo barlume di rammarico per essere venuti in un aese che era gelido e buio e scelleratamente costoso. 

Al mattino, a un costo esoso, tornammo in aeroporto a prendere il volo per Tromsø e le Svalbard. Era in corso una tempesta di neve che in Inghilterra avrebbe paralizzato il paese per sei mesi, e forse portato alla dichiarazione dello stato di emergenza e all’imposizione della legge marziale. A Oslo i norvegesi la prendevano con grande calma. Parte della ragione per cui la nostra cena era stata così costosa, immaginai mentre sedevamo in aereo, guardando le ali che venivano sghiacciate, dovevano essere le tasse necessarie per far funzionare l’intera rete ferroviaria e stradale anche durante le tormente e con la temperatura sotto zero, eventi così normali da quelle parti che il nostro decollo fu ritardato di soli cinque minuti. 

Quando decollammo era giorno, e quando arrivammo a Longyearbyen, diverse ore dopo, era notte. Se anche fossimo atterrati alla stessa ora del decollo a Longyearbyen sarebbe stata comunque notte; avremmo potuto atterrare a qualsiasi ora nelle sei settimane precedenti e sarebbe stata notte fonda lo stesso e ci sarebbe stato lo stesso gelo, più gelido di qualunque altro posto in cui fossi mai stato, più freddo e più buio di qualsiasi altro posto che una persona sana di mente avrebbe mai visitato. Eravamo appena scesi dall’aereo, diretti al terminal, quando Jessica disse esattamente quello che stavo pensando.

«Perché siamo venuti in questo posto infernale?»
«Perché tu volevi vedere l’aurora boreale» dissi, anche se in quel momento non si vedeva altro che notte boreale, oscurità ovunque, tutto intorno a noi, senza alcuna speranza di luce.

Un autobus tetro ci portò dal terminal fino a un villaggio abbandonato da dio. Da vedere c’erano soltanto le luci che brillavano nell’oscurità, illuminando – per quanto sia difficile da credere – gente che lavorava all’aperto, a costruire edifici in condizioni in cui tutto ciò che serviva per costruirli doveva essere stato reso inservibile da un freddo inconcepibile.

Il Basecamp Trapper’s Hotel era volutamente grezzo, confortevole ma abbastanza improvvisato da conferire un tono da spedizione di Shackleton al soggiorno in quelle lande ghiacciate. Alla parete della sala per la colazione era appesa la pelle di un orso bianco, come una specie di tigre al tempo della dominazione britannica in India, però messa in verticale. Ma la parte migliore era la zona con il soffitto vetrato dove potevi rilassarti e sballare guardando l’aurora boreale. Era un angolino bellissimo, perché dieci minuti a Longyearbyen erano bastati a farci ricredere: nel paese da cui venivamo l’inverno non era stato per niente rigido. In realtà venivamo da un’isoletta con un clima temperato, straordinariamente economica e con miti inverni mediterranei. Ciononostante, facemmo quello che si fa quando si va in una città europea per una breve vacanza: uscimmo per una passeggiata, una delle peggiori passeggiate della nostra vita. La migliore traduzione norvegese per «passeggiatina» è «feroce battaglia per la sopravvivenza»: roba da Base artica Zebra, con alcuni elementi della ritirata napoleonica da Mosca. La temperatura era di mille gradi sotto zero, senza contare il vento gelido, che sospingeva nelle strade buie raffiche di neve che sembravano fuggire da un esercito invasore. Riuscimmo ad arrivare al supermercato illuminato da luci violente, comprammo delle birre, poi tornammo in camera e ci sedemmo sul letto senza parlare. Intuii che le chance di fare sesso durante la nostra permanenza qui erano, come la temperatura, molto al di sotto dello zero. Eravamo arrivati da poco più di un’ora e il morale era già notevolmente più basso rispetto a Oslo, per non parlare di Londra, che ricordavamo con nostalgia, come la-felicità-perfetta-di-quell’alba.

Quella notte, la notte del nostro arrivo, dell’aurora boreale nessuna traccia. Dico «notte», ma eravamo arrivati nella terra della notte perpetua, l’oscura notte dell’anima norvegese che sarebbe durata come minimo ancora un mese. Il problema dell’aurora boreale, spiegò una delle simpatiche giovani addette alla reception che volle chiarirci la situazione prima che andassimo a cena, è che in quel periodo dell’anno poteva apparire in qualsiasi momento, senza preavviso. Richiedeva tuttavia uno stato di allerta continua benché, a dire il vero, su una scala da 1 a 9 le probabilità che apparisse l’indomani arrivavano soltanto a 2. Però il giorno dopo schizzavano a 3. E in fondo l’aurora boreale non era l’unica attrattiva del villaggio. È vero che eravamo arrivati fin lì, fino a quell’«inferno ghiacciato del cazzo», come lo chiamava Jessica, per vedere l’aurora boreale, ma c’erano anche altre cose da fare. La mattina dopo, per esempio, una mattina indistinguibile dalla notte e dal pomeriggio, avremmo potuto guidare una slitta trainata dai cani. 

Dopo la gita al supermercato ci eravamo bardati per andare a cena come se dovessimo affrontare la cima del K2. Per una gita in slitta evidentemente era necessaria un’attrezzatura professionale: tre paia di calzettoni, maglia e mutandoni termici, due magliette, una camicia da taglialegna, un maglione pesante – con una molto appropriata bandiera norvegese sulla manica – un berretto di lana, i guanti e un’enorme giacca a vento. Questa era la biancheria intima, per così dire. Un furgone venne a prenderci all’albergo e ci portò, nell’orribile oscurità, fino al grande quartier generale della spedizione, dove indossammo tute da neve, passamontagna integrali da terroristi, occhialoni da sci, stivali da neve e muffole. Così vestiti e immensamente calzati, a malapena in grado di muoverci, risalimmo sul furgone e partimmo per il recinto dei cani. In tutto eravamo sei: Jessica e io, una coppia romena che viveva in Danimarca e le nostre due guide, Birgitte e Yeti.

«Yeti?» dissi. «Che nome abominevole!»

L’entrata del centro di addestramento dei cani era contrassegnata da pelli di foca appese su forcelle triangolari come una gelida opera d’arte moderna nello stile di un wigwam scheletrico. Nel recinto di ghiaccio macchiato di pipì e imbrattato di cacca c’erano novanta cani, novanta alaskan husky, legati e uggiolanti. Luci, recinzione e neve davano l’impressione che fossimo finiti in una specie di gulag canino. Non che le bestiole fossero infelici o trascurate. Ma erano agitate e impazienti, tiravano i guinzagli. Facevano a turno per le uscite, e ognuna di quelle creature uggiolanti sperava che oggi toccasse a lui, o a lei. E c’era dell’altro. Per quanto sembrasse poco plausibile in un simile gelo, le femmine erano, chissà come, in calore, e i maschi non vedevano l’ora di saltar loro addosso. Con noi erano più amichevoli che arrapati, erano tenerissimi, comunque l’uggiolio sembrava lo stesso la colonna sonora di un incubo canino. Avevano nomi adorabili. Junior, Fifty, Ivory, Mara, Yukon e – ma forse avevo capito male – Tampax, furono tra i fortunati scelti per accompagnarci in quel giorno indistinguibile dalla notte più scura. Sebbene fosse buio, vedevo gli strani occhi degli husky, così chiari e opalescenti da sembrare indipendenti dai corpi che li ospitavano: pianeti in un universo a forma di cane. Presumibilmente questo significava che ci vedevano anche di notte ed erano in grado di vedere per chilometri nella notte più buia. Ero circondato da quegli occhi, freddi e lampeggianti, così chiari da sembrare privi di intelligenza o persino di vita. Parte del nostro compito – cioè del divertimento reclamizzato, anche se, proprio come veniva chiamato giorno quel che in realtà era notte fonda, detto divertimento rappresentava per noi la più assoluta delle infelicità – consisteva nel prendere i cani selezionati, mettergli l’imbragatura e attaccare la linea di traino alla slitta, sei cani per slitta. I guaiti mi facevano impazzire, e il freddo mi aveva già intorpidito le dita dei piedi. Siccome stavo pensando ai piedi insensibili e controllavo costantemente che nemmeno un centimetro della mia pelle rimanesse esposto all’aria, non ascoltai con attenzione le istruzioni su come fissare l’imbragatura, e comunque non era facile sentire qualcosa con il parka e il cappuccio della tuta da neve alzato e nella testa i guaiti di novanta alaskan husky, metà dei quali in calore e tutti disperatamente ansiosi di correre o scopare o tutte e due le cose insieme. I cani alzavano le zampe anteriori per facilitare l’impresa piuttosto complessa di entrare nell’imbragatura. Era come infilare la gamba di un neonato in una tutina, un neonato che aveva alle spalle l’esperienza di una vita passata a prepararsi per le spedizioni in slitta nell’Artico ghiacciato. Per preparare tre mute ci volle un secolo, anche perché con gli strati multipli di indumenti sotto la tuta da neve potevamo muoverci soltanto alla velocità dei palombari in fondo al mare. A ogni modo io sono alto, ma con tutta quella roba addosso incombevo nella notte polare come la morte stessa. Morte, non essere orgogliosa! Mi trovai talmente imbrigliato tra una quantità di imbragature e corde, spesso misteriose, con i cani che si saltavano addosso, che scivolai sulla schiena, atterrando sul duro ghiaccio che, grazie alla mia imbottitura, sembrò morbido come un pan di Spagna striato di urina. Da questo si può trarre una lezione: nella profondità della notte più buia e nell’oscurità del freddo più intenso, il bisogno di ridere dell’uomo non si estinguerà mai del tutto.

Finalmente eravamo pronti. Ogni volta che noleggiamo un’auto, Jessica si mette al volante ed esce dal parcheggio guidando con molta prudenza per i primi chilometri, perché non si è mai sicuri dei comandi e il rischio di un incidente è alto. Adesso invece c’ero io alla guida della slitta. Dissi che avrebbe dovuto guidare lei, ma Jessica rispose che toccava a me, visto che ero un uomo, e si lasciò cadere di peso nella slitta, su un tappetino blu dall’aria comoda. Qualche momento dopo eravamo in viaggio. Nessun mossiere ci aveva dato il via, eppure eravamo partiti. Via la prima muta, via la seconda… e poi noi, in coda, in un inseguimento subito serrato. Gli husky facevano sul serio, nessun dubbio in proposito. Tenevo in mano l’ancora a doppio uncino della slitta e mi sforzavo di agganciarla sul fianco in modo che non trafiggesse la testa di Jessica come un amo nella guancia di un grande pesce umano. D’un tratto la velocità diventò pazzesca, senza nulla che potesse controllarla. Eravamo lanciati in discesa, inclinati, e dovevamo tenderci all’indietro per evitare di capovolgerci. Sentivo l’uggiolio dei cani nonostante il cappuccio, anche se ormai ne avevo la testa talmente piena che avrebbe anche potuto trattarsi dell’eco dell’uggiolio dei cani nel recinto, non l’uggiolio estatico di husky al galoppo nell’oscurità artica. Manovrare la slitta era un lavoro faticoso, abbastanza faticoso da farmi sudare. Era bello sentire un po’ di caldo, ma sudare non era bello per niente, perché – l’avevo letto in Notte senza fine, titolo quanto mai indovinato, di Alistair MacLean – appena finito lo sforzo il sudore si sarebbe congelato. Filavamo a tutta birra giù per il pendio. Persi il controllo della slitta, controllo che peraltro non avevo mai avuto, e caddi di schiena nella neve profonda. La slitta si rovesciò, ma l’ancora – che avrebbe dovuto servire da freno – non si era sganciata e gli husky non si fermarono. Non erano stati liberati dalla cattività perché la loro gita finisse così presto. Attraverso il cappuccio sentivo Jessica urlare «Stop!». Fu trascinata per una cinquantina di metri, aggrovigliata sotto la slitta e, per quel che ne sapevo, con l’ancora conficcata nel cranio. Mentre la rincorrevo, senza pensare ad altro che a salvarla, mormoravo in silenzio «Te l’avevo detto che dovevi guidare tu». Ci volle un’eternità per richiamare l’attenzione delle altre squadre, perché erano partiti a una velocità maggiore della nostra. Alla fine, Birgitte e Yeti tornarono indietro e staccarono la slitta da Jessica. Lei era incolume, ma abbastanza scossa da dichiarare che non voleva proseguire. In realtà a me era piaciuto essere stato buttato giù dalla slitta, così come mi era piaciuto, anni prima, venire lanciato fuori dal gommone mentre facevo rafting sullo Zambesi in condizioni che, dal punto di vista meteorologico, erano agli antipodi di queste, nella notte profonda dell’anima artica. Eravamo tutti in piedi con il fiato che creava piccole tormente alla luce delle lampade frontali, intenti a sbrogliare le linee di traino e i cani dentro un groviglio inestricabile. Dico «noi» ma io mi limitavo a restarmene lì, nullafacente, sudato e con il respiro affannoso, a preoccuparmi del fatto che se mi fossi affaticato di più sarei finito sepolto come il mostro di Frankenstein in un ghiacciaio di sudore congelato. Per la verità ci provai a fare qualcosa: cercai di fare delle foto di quello che definii «il luogo dell’incidente», ma mi si era congelata la macchina fotografica. Non c’era niente in quell’habitat che fosse adatto alla fotografia, all’insediamento umano, al turismo o alla felicità. Anche Jessica non ne poteva più, e venne convinta a proseguire solo a condizione che a guidare fossero Yeti o Birgitte, e non «quell’idiota».

«È sotto shock» precisai. «Non sa quel che dice.» Poiché nemmeno io avevo voglia di guidare, entrambi viaggiammo come passeggeri, ognuno su una slitta, con una guida a testa. In questo modo andò tutto molto meglio.

E mi resi conto che non era buio pesto. C’era un accenno di luce scura intorno ai profili bui delle montagne, o qualunque cosa fossero, e un barlume di stelle, però avevo l’indubbia impressione che non ci fosse altro da vedere. Le dita dei piedi erano ancora insensibili, e nonostante la paura del sudore congelato avevo stranamente caldo, soprattutto quando scoprii che il tappetino blu sul quale sedeva Jessica era in realtà un mini sacco a pelo e potei aggiungere l’ennesimo strato isolante. Così infagottato, simile a una mummia congelata, fu piuttosto divertente attraversare le aride lande a rotta di collo. Non pensavo a niente, se non che sarebbe stato molto meglio farlo in un mistico crepuscolo di febbraio, quando almeno riesci a vedere dove vai, comunque adesso nel cielo c’era una traccia di luce, anche se parlare di luce forse era esagerato, dato che era tuttora nero come la pece. Ah, e ormai mi ero innamorato degli husky. 

A prescindere da ciò che il lavoro implica, io amo chiunque – uomo o animale – sia in grado di svolgerlo bene, e questi husky, chiamati a tirare una slitta, erano nel pieno della loro huskità. Avendo letto della spedizione di Amundsen al Polo Sud sapevo che, quando la situazione si metteva male, gli husky si nutrivano dei loro compagni di muta. Yeti li guidava con la sua bella cantilena di istruzioni e incoraggiamenti, che per quanto ne sapevo magari ricordava costantemente ai cani proprio questo dettaglio, cioè che il debole sarebbe diventato cibo per il meno debole. Così è sempre stato e sempre sarà! Visto che lei cantava, mi misi anch’io a cantare una delle canzoni ritmate di Full Metal Jacket: «I don’t know but I been told… I don’t know but I been told… Eskimo pussy is mighty cold». Poi pensai al film Atanarjuat il corridore che, fra le sue molte virtù, confuta con veemenza questa affermazione. La mia mente vagava, poi tornava alla realtà immediata, cioè che ci trovavamo all’aperto, in un’oscurità assoluta – il breve periodo in cui un barlume di luce scura era comparso all’orizzonte si era concluso ed era diventato ormai soltanto un ricordo –, con un gelo polare, e che dell’aurora boreale non c’era alcuna traccia. 

Impiegammo un’ora per tornare al recinto dei cani, all’infernale ma adorabile abbaiare dei cani, sia di quelli che erano stati fuori, e avevano avuto il loro giorno di gloria, sia di quelli che invece potevano solo sperare che il giorno di gloria arrivasse presto. Era previsto che staccassimo i nostri dalla slitta e li riportassimo al recinto, ma non finsi nemmeno di aiutare. Rimasi nei paraggi, a pensare ai miei piedi congelati, a lasciare che fossero le guide a occuparsi di quel lavoro ingrato, per il quale dopotutto venivano pagate… e pagate bene, se riuscivano a sopravvivere al costo punitivo della vita in Norvegia, anche se prendevano il minimo salariale, che doveva essere sui centomila all’anno. Una volta riportati i cani al recinto arrancammo fino all’accogliente bungalow dei cacciatori di pelli. Nello stesso modo in cui la cosiddetta luce nel cielo era buia, secondo gli standard normali nel bungalow faceva un freddo terribile, ma, relativamente parlando, si crepava di caldo. Bevendo caffè bollente parlammo dei sintomi del congelamento. Se ti si congela una guancia, ci metti sopra una mano ma non devi sfregare, tieni la mano calda sulla guancia e basta, sempre che, naturalmente, anche la tua mano non sia un solido blocco di sangue coagulato. Birgitte e Yeti avevano entrambe poco più di vent’anni e amavano passare l’inverno lassù.

«Perché?» chiesi, e ovviamente quell’unica parola era tacitamente seguita da un’altra: diavolo, nel senso di perché diavolo uno vorrebbe passare del tempo in questo luogo infernale? Be’, ne apprezzavano la vita sociale, e apprezzavano il lento ritorno della luce. E quel giorno per loro era stato un’esperienza gioiosa. Birgitte era tornata da una vacanza di una decina di giorni. L’ultima volta che era stata qui non c’era nessuna luce; oggi c’era stato un barlume. Così la notte polare, per quanto ancora immensa, si stava accorciando. C’era luce alla fine del tunnel. 
«Il che rende inevitabile chiedersi» disse Jessica in seguito «perché mai uno dovrebbe scegliere di vivere in un tunnel.»

Passammo in camera il cosiddetto pomeriggio. Jessica mi parlò del saggio di Annie Dillard che stava leggendo sugli esploratori polari e sul riserbo solenne della prosa con cui venivano narrate le loro avventure. Dillard si chiede se ciò sia dovuto al processo di selezione naturale. «O se per caso qualche eminente vittoriano, esaminando lo stile della propria prosa, si fosse reso conto, magari con sgomento, che dato il risultato sarebbe stato meglio darsi all’esplorazione polare.» Ricordo di essermi fatto un appunto mentale in via precauzionale – Evitare la solennità – dopodiché non so che cosa feci. Forse avevo dei danni da congelamento al cervello o qualcosa del genere, perché rimasi seduto lì a scongelarmi – a scongelarmi dal nulla – fino a quando fu ora di andare a mangiare al bar del Radisson Hotel poco distante. In qualsiasi parte normale del mondo sarebbero bastati dieci minuti a piedi per raggiungerlo, ma ormai l’idea che esistessero luoghi dove il semplice atto di uscire non richiedeva preparativi particolari e un’attenta programmazione mi sembrava stranamente poco plausibile. Era la notte più nera e più fredda del pianeta, forse di tutti i pianeti. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo nel caso si palesasse l’aurora boreale, ma per lo più tenevo gli occhi a terra per paura di scivolare.

Al bar del Radisson circolavano voci e informazioni di ogni tipo sull’aurora boreale. Turisti e residenti avevano tutti la loro storia da raccontare. L’aurora boreale poteva essere vista in qualsiasi momento, però di sera era molto più probabile. Dalle sei in avanti. Secondo altri, le probabilità di attività erano maggiori dalle undici circa in poi. Mi piaceva la parola «attività», con il suo richiamo al paranormale, e soprattutto mi piaceva il modo in cui veniva detta all’interno di un ristorante. Poi qualcuno sostenne che in realtà eravamo troppo a nord per vedere l’aurora boreale. Eravamo confusi e alquanto demoralizzati, perciò fu rassicurante sentire il barman annunciare che avrebbero trasmesso, su una tv a grande schermo, una partita in diretta della serie A inglese. Arsenal-Manchester City! ’Fanculo l’aurora boreale e le sue apparizioni non programmate e forse persino favoleggiate. La partita illuminata a giorno era programmata e si giocava all’ora fissata, esattamente come annunciato. Il bar si riempì. A metà del secondo tempo, la cameriera, che era uscita a fumare una sigaretta, ci disse che era in corso l’aurora boreale. Ci precipitammo fuori. C’era un debole lucore nel bagliore notturno generale, comunque l’inquinamento luminoso della città non ci avrebbe permesso di vedere quasi niente. Rientrammo a guardare la fine della partita di calcio, non sapendo se sentirci sollevati perché eravamo di nuovo dentro, al riparo dal freddo, o depressi, perché le partite potevamo guardarle in qualsiasi momento, mentre questa era la nostra unica possibilità di vivere l’esperienza dell’Esperienza Aurora Boreale. 

Il cosiddetto «mattino» dopo, l’allegra receptionist del Basecamp chiese se la sera prima avessimo visto l’aurora boreale.

«No,» dissi «però abbiamo visto la partita!» Scherzavo, anche se, a rigor di termini, non scherzavo per niente. In realtà io ero profondamente deluso, e in un bizzarro capovolgimento nordico eravamo diventati noi una fonte di delusione per i nostri anfitrioni. L’implicazione era chiara: non aver visto l’aurora boreale non era il risultato della sua mancata comparsa bensì del nostro fallimento, dovuto a un’incapacità di percezione e a un atteggiamento sbagliato. Avendo qualche difficoltà a digerire la cosa, mi ritrovai a dire che la sua pretesa mi «adombrava», parola che di norma non uso. Era come dire Se ha intenzione di fare la norvegese mistica con me, signorina, allora io farò con lei il turista inglese medio, anche se questo equivaleva a stare lì a testa bassa con l’aria da cane bastonato. Volevamo vedere l’aurora boreale. Avevamo fatto tutta quella strada fino a questo luogo inaridito per vedere l’aurora boreale. Ci eravamo venuti in quello che, da tutti i punti di vista, era il periodo più ostile dell’anno proprio per vederla. Invece pare che vedere l’aurora boreale sia una faccenda molto più indefinita di quanto le fotografie – un vorticare di geyser di un verde psichedelico – ti inducano a credere. A volte è così sfumata che prima si devono sintonizzare occhi e mente. Vedere è credere: e credere è vedere. Dopo aver visto l’aurora boreale – quando sai che cosa stai cercando – ti convinci di poterla vedere di nuovo. In questo mi ricordava i primi tentativi di sballo (il che mi ricordò che esiste un famoso ceppo di cannabis pura chiamato Northern Lights). Non potevi stonarti – questo accadeva prima della skunk, prima di avere l’assoluta certezza che sei in procinto di farti scoppiare il cervello – fino a quando non sapevi che cosa significava essere stonato. Più ne parlavamo, più l’aurora boreale – che, presumevo, era la normalità in questa parte del mondo, in questo periodo dell’anno – acquistava parte del fascino non verificabile del mostro di Loch Ness o dell’abominevole uomo delle nevi. 

Il nostro umore peggiorò. Sembrava esserci una correlazione fra la mancanza di attività percepita nel cielo e la nostra sempre più crescente inattività. Ci rintanammo in camera, sempre più depressi e scoraggiati. La spiegazione avrebbe potuto essere che non avevamo saputo adattarci a quel freddo estremo e a quella notte infinita, ma era vero il contrario. Molti visitatori sembravano gradire molto la novità di tre giorni di notte artica, pur avendo difficoltà a credere che qualcuno potesse vivere lì a lungo. Su di noi l’effetto delle isole Svalbard era stato così forte che avevamo saltato la fase della luna di miele, vivendo i tre giorni come se fossero tre anni, ed eravamo piombati a capofitto nella tetraggine che può logorare chi qui ci ha passato davvero molto tempo. Alla terza o quarta mattina – che avrebbe potuto benissimo essere la trentesima o quarantesima – Yeti bussò alla porta della nostra stanza perché ci preparassimo alla gita in motoslitta alla quale ci eravamo iscritti. Scesi dal letto, aprii la porta, solo una fessura, e le dissi che non ci saremmo andati, alla sua gita. 

A che scopo? dissi quando la vidi alla reception più tardi nella giornata. Lo stesso freddo polare, la stessa oscurità in cui non c’era niente da vedere, come durante la nostra sventurata escursione con la slitta tirata dai cani. No, grazie tante, dissi, prima di girare i tacchi e trascinarmi di nuovo fino al letto. Stare chiusi nella stanza era deprimente, ma sempre meglio che non stare chiusi nella stanza.

«Se in questo momento l’aurora boreale bussasse alla nostra porta,» dissi a Jessica «mi girerei dall’altra parte.»

Passammo in camera tutto il cosiddetto giorno, depressi e scoraggiati, e poi, nella cosiddetta «sera», ci sforzammo di alzarci e uscire nella notte artica. Scarpinammo fino al ristorante ai limiti della città nel freddo polare e nella completa oscurità. Nella zona c’erano orsi bianchi, comunque ci avevano detto che restando sulla strada saremmo stati al sicuro, e inoltre gli orsi bianchi erano l’ultima delle nostre preoccupazioni. Ovviamente tenevamo gli occhi aperti, sia per gli orsi sia nel caso apparisse l’aurora boreale. Guardavamo. Eravamo ancora pronti a crederci. Eravamo pronti a vederla. Avevamo ancora la capacità di credere, ma in fondo avevamo cominciato a credere che l’aurora boreale, se esisteva, non si sarebbe fatta vedere da noi. Rosicchiammo le nostre bistecche di renna e di nuovo ci trascinammo faticosamente fuori, nella notte polare e nel gelo implacabile. Non c’era niente da vedere e l’unico scopo della passeggiata era quello di finirla, di sapere che ne eravamo usciti vivi, che eravamo sopravvissuti per raccontare la storia, la storia che alla fine è diventata questa storia.

Ripartimmo il giorno dopo, a mani vuote e a occhi vuoti. I rapporti con le persone che gestivano il Basecamp erano diventati freddini. La mia battuta sul nome di Yeti aveva avuto talmente successo che Jessica e io ci riferivamo a lei come all’«abominevole Yeti», e in questo modo non ci eravamo certo attirati la sua simpatia, e se niente di quello che era successo l’aveva incoraggiata a mostrarsi più cordiale con noi, diverse cose – non ultima il tema di Full Metal Jacket – avevano contribuito ad aumentare la sua freddezza. Eravamo come due scettici fra i fedeli a Lourdes e furono contenti che ci levassimo dai piedi. Il che non era un problema, perché anche noi eravamo contenti di levarci dai piedi e andarcene da un luogo al quale ci riferivamo solo come a «questo posto nefando» o «questo posto infernale del cazzo» prima di passare ad «abominevole» come aggettivo preferito. Avevamo fatto un’esperienza unica, anche se non quella che avevamo sperato; era stata come una vita intera di delusione condensata in meno di una settimana, che in realtà sembrava la parte più lunga – nel senso di più brutta – di tutta una vita. 

Il tetro autobus ci riportò al terminal attraversando l’abominevole villaggio. Ci si sarebbe aspettati che una simile esperienza creasse una certa tensione fra noi due; invece il fatto di essere così abbattuti e scoraggiati ci aveva avvicinato, benché forse potesse non essere evidente a un estraneo che ci vedesse seduti in silenzio in quel terminal deprimente, in attesa dell’aereo, che, rendiamo onore al merito, decollò in perfetto orario. Quando atterrammo a Tromsø una coppia inglese che avevamo conosciuto al bar del Radisson disse: «Avete visto l’aurora boreale?». A quanto pare l’aurora era comparsa fuori programma mentre noi eravamo in volo… ma sull’altro lato dell’aereo. Forse un influsso malefico ci perseguitava. Anche se avevo ritenuto che fosse impossibile essere più di malumore di così, l’umore peggiorò ulteriormente e poi, dopo l’ennesimo cambio di aereo, a Oslo, precipitò. Mi ritrovai rattrappito su un sedile senza spazio per le gambe, nonostante mi avessero garantito un posto nella fila dell’uscita d’emergenza. L’assistente di volo – una ex bionda norvegese sui cinquanta – venne a chiederci se gradivamo qualcosa. Si riferiva a cibo e bevande, ma dopo tutte quelle ore rinchiusi in camera a Longyearbyen io mi misi a sproloquiare sul mio posto a sedere, l’abominevole sedile senza un minimo di spazio per le gambe, dove stavo come un pollo in batteria a rischio di trombosi venosa profonda. Jessica, ormai catatonica, non diceva niente, invece io per la prima volta dopo diversi giorni, come un arto che si è congelato e sta tornando dolorosamente in vita, mi sentivo rinvigorito dalla rabbia e dallo sdegno. Al contrario dell’abominevole Yeti e delle altre ragazze del Basecamp, che ci avevano preso in antipatia per il nostro atteggiamento negativo, l’assistente di volo si mostrò totalmente solidale, concordando con me e disse che viaggiare in quelle condizioni era davvero intollerabile per un uomo così alto. Mi offrì del succo d’arancia – gratis! – e io mi calmai, anche se, mentalmente, continuai a pronunciare parole di indignazione per il torto che avevo subito. E poi, mentre iniziavamo la discesa su Heathrow, accadde qualcosa di straordinario. L’hostess ritornò e si inginocchiò nel corridoio posando la mano sul mio ginocchio. Mi guardò negli occhi abbattuti, gli occhi che non avevano visto l’aurora boreale, e ripeté che dovevo stare proprio scomodo, che le dispiaceva molto. Senza staccare gli occhi dai miei, disse che un giorno avrei sicuramente avuto il posto che meritavo e, ascoltandola, le credetti.

© Il Saggiatore, 2017

ARTICOLO n. 16 / 2022

LE CONSERVE

TRADUZIONE DI SILVANO DE FANTI

Quando morì, lui le organizzò un funerale decente. Arrivarono in massa le sue amiche, anziane signore tutte storte con berretti e cappottoni a manica larga foderati di pelliccia e odorosi di naftalina, con colli di castorino da cui le teste sporgevano come grosse e pallide protuberanze. Mentre la bara scendeva sottoterra sorretta dalle funi bagnate di pioggia, cominciarono a piagnucolare con discrezione, e poi, raccolte a gruppetti sotto cupole di ombrelli pieghevoli decorati da motivi ornamentali altamente improbabili, si avviarono alle fermate degli autobus.

Quella stessa sera aprì il mobile bar dove lei teneva i documenti e si mise a cercare… non sapeva neanche lui cosa. Soldi. Azioni. Obbligazioni. Una di quelle polizze che garantiscono una vecchiaia serena, quelle della pubblicità in TV con le scene autunnali piene di foglie cadenti.

Trovò soltanto vecchi libretti di risparmio degli anni Sessanta e Settanta e la tessera di partito di suo padre, felicemente defunto nell’ottantuno con la convinzione che il comunismo fosse un ordine metafisico e perenne. C’erano anche i suoi disegni dell’asilo ordinati con cura in una cartellina di cartone chiusa con l’elastico. Questa cosa lo commosse. Mai avrebbe pensato che lei conservasse i suoi disegni. Là dentro c’erano anche i quaderni di lei, zeppi di ricette per sottaceti, marinate e confetture. Ogni ricetta iniziava su una pagina nuova, e ciascun nome era ornato da arditi ghirigori, espressione gastronomica del bisogno di bellezza. «Sottaceti con la senape», «Zucca marinata à la Diana», «Insalata Avignon», «Ceppatello alla creola», A volte comparivano piccole stravaganze: per esempio «Gelatina di bucce di mela», oppure «Canna odorosa zuccherina».

A questo punto gli venne l’idea di scendere in cantina. Non ci andava da anni. Ma lei, sua madre, ci stava spesso e volentieri, ma questo fatto non lo aveva mai stupito. Quando lei considerava troppo alto il volume della partita che lui stava guardando, quando le sue sempre più flebili lagnanze cadevano nel vuoto, lui sentiva lo stridio della chiave nella toppa e poi il tonfo della porta sbattuta, e lei scompariva per parecchio tempo, un tempo che lui aspettava a gloria. Finalmente poteva dedicarsi alla sua attività preferita senza nessun intralcio: svuotare una fila di lattine di birra e seguire le imprese di due gruppi di maschi camuffati con magliette colorate che si spostavano continuamente da una metà campo all’altra alla caccia di un pallone.

La cantina era straordinariamente linda. C’era un tappetino consunto (oh, se lo ricordava dai tempi dell’infanzia), e anche una poltrona imbottita sulla quale scorse un plaid fatto all’uncinetto, ben ripiegato. Inoltre c’era una lampada a piantana con la base e alcuni libri letti e riletti fino all’ultima sillaba. Ma a fare una tremenda impressione erano gli scaffali gremiti di luccicanti vasetti per conserve, ognuno dei quali era provvisto di etichetta autoadesiva su cui, come aveva notato, si ripetevano i nomi dei quaderni delle ricette: «Cetriolini sott’aceto in salamoia della signora Stasia, 1999», «Antipasto di peperoni, 2003», «Strutto della signora Zosia». Alcuni nomi sapevano di mistero, per esempio «Fagiolini appertizzati»: non riusciva assolutamente a ricordare che cosa significasse «appertizzare». La visione dei funghi pallidi, delle verdure multicolori e dei peperoncini sanguigni pressati nei vasetti, ridestò in lui la voglia di vivere. Cercò sbrigativamente fra i palchetti degli scaffali, ma non trovò né titoli di credito né soldi nascosti dietro i vasetti. Pareva proprio che non gli avesse lasciato nulla.

Ampliò il proprio spazio vitale occupando la stanza della madre: ci buttava la roba sporca e vi accumulava i cartoni di birra. Di tanto in tanto portava da giù una scatola piena di conserve, apriva con un unico movimento della mano i vasetti l’uno dopo l’altro e disseppelliva con la forchetta quello che c’era dentro. La birra e le noccioline, oppure i bastoncini salati, uniti al peperone marinato o ai cetriolini delicati come neonati, avevano un sapore grandioso. Se ne stava davanti al televisore a contemplare la sua nuova situazione esistenziale, la libertà da poco conquistata. Si sentiva come se avesse appena preso il diploma di maturità e vedesse il futuro come una terra di conquista; come se stesse iniziando una vita nuova, migliore. Eppure aveva una certa età, l’anno prima aveva superato i cinquanta, e tuttavia si sentiva giovane, come un neo-diplomato, appunto.

Sebbene i soldi dell’ultima pensione della defunta madre si stessero lentamente esaurendo, ritenne di avere ancora il tempo necessario per prendere le giuste decisioni, ovvero: mangiare senza fretta ciò che gli aveva lasciato in eredità e comprare al massimo il pane e il burro. E ovviamente la birra. Poi, forse, avrebbe dato un’occhiata in giro per orientarsi se ci fosse qualche lavoro; su questo punto sua madre gli aveva fatto una testa così per tutti gli ultimi vent’anni. Forse sarebbe andato all’ufficio di collocamento, ci doveva pur essere qualcosa per un cinquantenne munito di maturità. Magari avrebbe anche indossato il completo bianco che lei aveva accuratamente stirato e appeso nell’armadio, assieme alla camicia azzurra, e sarebbe partito deciso verso il centro. A meno che non ci fosse una partita in TV.

Era libero. Però gli mancava un po’ lo strascichio delle ciabatte della madre, era abituato a quel rumore monotono solitamente accompagnato dalla sua flebile voce: «Sarebbe ora che la facessi finita con quella televisione, dovresti frequentare la gente, conoscere una ragazza. Hai intenzione di passare così il resto della vita? Dovresti trovare un alloggio tuo, questo è troppo angusto per due persone. La gente si sposa, fa figli, va in vacanza con la tenda, organizza grigliate. E tu? Non ti vergogni a farti mantenere da una donna vecchia e malata? Prima tuo padre, adesso tu, bisogna lavarvi e stirarvi la roba, portare a casa la spesa. Quella televisione mi disturba, non riesco a dormire, e tu stai lì davanti fino al mattino. Ma che cosa guardi tutta la notte, non ti viene a noia?» E rompeva per ore e ore, perciò si comprò le cuffie. Era una soluzione accettabile, lei non sentiva la televisione e lui non sentiva lei.

Ora però c’era troppo silenzio. La stanza della madre, un tempo tutta lustra e ordinata, piena di tovaglioli di carta e vetrinette, adesso veniva costantemente riempita da cataste di involucri vuoti, vasetti, panni sporchi, e poi anche da un odore strano, come di lenzuola marce, di intonaco toccato dalle lingue della muffa, un odore di spazio chiuso mai mosso da un filo d’aria, uno spazio che cominciava a marcire e a fermentare. Un giorno, mentre cercava degli asciugamani puliti, in fondo a un armadio trovò un’ulteriore batteria di vasetti; erano nascosti sotto pile di lenzuola, affondati tra matasse di lana – partigiani, la quinta colonna delle conserve. Li squadrò attentamente, i coperchi erano diversi da quelli in cantina. La scritta sulle etichette era piuttosto sbiadita, il 1991 e il 1992 si ripetevano, però c’erano anche singoli esemplari risalenti all’83, per esempio, e anche uno del 1978. Quest’ultimo era la causa principale di quello sgradevole odore. Il tappo a vite di metallo si era arrugginito e l’aria era penetrata offrendo in cambio alla zona circostante il tanfo della decomposizione. Qualsiasi cosa ci fosse stata là dentro, si era trasformata in un groviglio grigiastro. Buttò via tutto, disgustato. Sulle etichette ricorrevano scritte simili fra loro, per esempio «Zucca in crema di ribes», oppure «Ribes in crema di zucca». C’erano anche cetriolini sott’aceto completamente incanutiti. Molti contenuti dei vasetti non li avrebbe riconosciuti mai, senza quelle scritte gentili e premurose. I funghi marinati erano diventati un’impenetrabile gelatina cupa, le confetture – un coagulo nero, e il paté si era compattato in un piccolo pugno rinsecchito. Trovò altre conserve nel porta scarpe e nel ripostiglio sotto la vasca da bagno. Altre erano rinchiuse nel comodino del letto della madre. Quella collezione lo lasciò sbalordito. Che volesse nascondergli il cibo? Faceva quelle scorte per sé pensando che il figlio si sarebbe trasferito? O forse le aveva lasciate proprio a lui, si sa che per le leggi di natura le madri vivono meno dei figli… Forse con quei barattoli ermeticamente chiusi aveva voluto garantirgli un futuro? Guardava le conserve l’una dopo l’altra con un misto di commozione e disgusto. E a un tratto s’imbatté in un barattolo (sotto il lavello della cucina) con l’etichetta «Stringhe all’aceto, 2004»: questo avrebbe dovuto dargli da pensare. Guardò a lungo la matassina di stringhe marrone che nuotavano nella salamoia assieme alle palline nere di pepe garofanato. Si sentì a disagio, niente di più.

Gli tornavano in mente i suoi agguati quando lui si toglieva le cuffie e andava in bagno: lei scivolava rapidamente fuori dalla cucina, gli tagliava la strada e gemeva: «Tutti i pulcini lasciano il nido, è questo l’ordine delle cose, i genitori meritano un po’ di riposo. Questa legge è in vigore in tutta la natura. E allora perché vuoi farmi soffrire, avresti dovuto sloggiare e farti una vita tua già molto tempo fa». Poi dopo, quando tentava delicatamente di evitarla, lo afferrava per la manica, la sua voce si faceva più sonora e ancora più stridula: «Mi merito una vecchiaia tranquilla. Lasciami in pace una buona volta, voglio riposare». Ma lui era già in bagno, girava la chiave nella toppa e si abbandonava ai suoi pensieri. Quando usciva, tentava di riacchiapparlo, ma ormai senza troppa convinzione. Poi si dileguava con passo felpato nella sua stanza e di lei spariva ogni traccia fino al mattino successivo, quando sbatteva apposta le pentole perché lui non potesse dormire.

Ma come tutti sanno, le madri amano i propri figli; le madri esistono per questo: per amare e perdonare.

E dunque lui non si preoccupò più di tanto per quelle stringhe, e nemmeno per la spugna in salsa di pomodoro che successivamente trovò in cantina. Del resto c’era scritto in totale franchezza: «Spugna in salsa di pomodoro, 2001». L’aprì per controllare se l’etichetta riportasse fedelmente il contenuto, e buttò tutto nel cestino. Quelle stravaganze non le trattava come malignità postume indirizzate a lui. Anzi, a volte trovava rarità vere e proprie. Uno degli ultimi barattoli del palchetto più alto della cantina conteneva un prelibato stinco di maiale. Gli veniva ancora l’acquolina in bocca al pensiero delle rape rosse speziate scoperte dietro la tenda della stanza. Nel giro di due giorni ingurgitò cinque o sei vasetti. Il dessert se lo mangiava prendendolo direttamente con il dito dalla confettura di mele cotogne.

Per la partita Polonia-Inghilterra si caricò sulle spalle uno scatolone pieno di conserve prese in cantina e lo portò su. Per garantirne l’incolumità lo circondò con una batteria di birre. Infilava la mano a casaccio e s’ingozzava senza badare a cosa stesse mangiando. Un vasetto attirò la sua attenzione perché la madre aveva fatto un buffo errore sull’etichetta: «Frataioli marinati, 2005». Estrasse con la forchetta le delicate cappelle bianche, se le mise in bocca, e quelle, quasi fossero vive, gli scivolarono in gola e nello stomaco. Ci fu il primo gol, poi il secondo, perciò nemmeno si accorse di averle mangiate tutte.

La notte dovette andare in bagno, dove restò sospeso sopra il water, squassato da conati di vomito. Ebbe la netta sensazione che lei fosse lì con le nenie lamentose della sua insopportabile voce stridula, ma era ancora abbastanza lucido da ricordare che era morta. Vomitò fino al mattino, ma non servì a molto. Con le poche forze rimaste riuscì a chiamare il pronto soccorso. In ospedale volevano fargli un trapianto di fegato, ma non trovarono un donatore, perciò morì pochi giorno dopo senza riprendere conoscenza.

Era un bel guaio, perché non si trovava nessuno a cui affidare l’incarico di ritirare il cadavere dall’obitorio e organizzare il funerale. Alla fine, dopo un appello della polizia, si fecero vive le amiche della madre, le anziane signore tutte storte dai berretti fantasiosi. Spalancarono sopra la tomba gli ombrelli decorati da motivi ornamentali altamente improbabili, e celebrarono il loro caritatevole rito funebre.

© Olga Tokarczuk, 2022

Per ulteriori opere di Tokarczuk edite in italiano: “Casa di giorno, casa di notte”, Bompiani, 2021.

ARTICOLO n. 15 / 2022

IL NUOVO INCONSCIO

C’è una conseguenza del test di Turing di cui si parla poco ma che a me sembra l’aspetto più interessante dell’intera faccenda: se un computer può essere equiparato a un umano nel momento in cui finge efficacemente di esserlo, significa che apparire umano è la prima condizione per diventarlo. Da qui a dire che qualsiasi cosa sembri umana è nei fatti umana il passo è breve, e infatti già oggi c’è chi comincia a riflettere sui diritti dei robot o sviluppa legami sentimentali con le intelligenze artificiali (un film come Lei di Spike Jonze era profetico quando uscì 2013, dieci anni dopo è solo un passo avanti alla realtà).

È evidente che a essere in gioco qui non è il futuro della macchina, ma il futuro dell’uomo: è l’essere umano a venir ridefinito dall’intelligenza artificiale e non viceversa. Se c’è un aspetto che esce completamente trasformato dal confronto è quello dell’inconscio, dato che la presenza o meno di una mente inconscia (almeno per come l’ha definita la psicanalisi) è una delle grandi discriminanti tra uomo e macchina. Le azioni dell’uomo, ci ha detto Freud, sono in larga parte determinate da una dimensione della psiche invisibile dall’esterno; ci sono cause nascoste a muovere i gesti più banali; nulla è come sembra. Nella macchina è l’esatto opposto: come nelle grandi maschere cave di Ron Mueck, dietro l’apparenza non si nasconde niente; non c’è una causa propriamente detta, solo il determinismo del codice binario; tutto è esattamente ciò che sembra.

Questo aspetto della visione dall’esterno (ciò che posso vedere è tutto ciò che esiste) è centrale. Com’è noto Turing teorizzò il suo test in un articolo del 1950. Solo due anni più tardi, nel 1952, l’American Psychiatric Association pubblicò la prima versione del suo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, oggi arrivato alla quinta edizione e tuttora il principale strumento diagnostico in psichiatria e in psicologia clinica. Una delle critiche che il DSM-5 non smette di attrarre, come tutti i suoi predecessori, ha proprio a che vedere con il suo approccio empirico: i disordini mentali sono classificati – e dunque trattati – solo sulla base dei sintomi, mentre le cause del malessere vengono ritenute inconoscibili o quantomeno irrilevanti ai fini della cura.

Cosa rimane dell’inconscio in un simile approccio? Non molto, e infatti per diverse decine di anni l’idea freudiana di una dimensione nascosta eppure enormemente rilevante della nostra vita psichica è stata accantonata a favore del metodo più operativo della psicologia cognitiva. Che, come ricorda Frank Tallis nel suo Breve storia dell’inconscio (Il Saggiatore 2019, traduzione di Alessia Ranieri e Monica Longoni) si è affermata proprio negli anni Cinquanta grazie al paradigma computazionale entrato in voga con l’arrivo dei primi computer.

E oggi? Oggi sembriamo assistere a due movimenti apparentemente opposti, che però a ben guardare si rivelano parte di un arco coerente. Il primo filone era già stato ben analizzato da Massimo Recalcati in un libro del 2010 dal titolo emblematico, L’uomo senza inconscio (Raffaello Cortina), sul quale vale la pena spendere qualche parola. Come a volte capita, il titolo dice qualcosa di diverso, e in un certo senso di più, del libro stesso, che personalmente reputo forse la cosa migliore scritta da Recalcati ma che si inserisce comunque in un orizzonte di clinica lacaniana abbastanza tradizionale.

A un livello esplicito, l’assenza di inconscio di cui parla Recalcati va vista come una «perdita del soggetto dell’inconscio», che viene meno nel momento in cui il tecno-capitalismo impone l’imperativo di una soddisfazione immediata della pulsione e il godimento si sostituisce al desiderio (infatti non è un caso che il sequel ideale de L’uomo senza inconscio sia intitolato Le nuove melanconie e sia stato pubblicato sempre da Raffaello Cortina alla fine del 2019, in un momento compresso tra la diffusione mortifera dei nuovi sovranismi e lo scoppio della «psicodeflazione» pandemica, entrambe manifestazioni di quella che potremmo definire una «melanconia sociale»). Nella clinica del terzo millennio, dice Recalcati, il sintomo nevrotico viene sostituito dalla «frattura verticale» di quei disturbi che hanno a che vedere con le dicotomie del tipo tutto/niente, come le dipendenze, l’anoressia o – aggiungo io – il disturbo bipolare. Siamo chiaramente di fronte a un paradigma che mutua le proprie metafore dagli 1 e 0 del codice binario, termini netti tra i quali non esistono sfumature né momenti di elaborazione simbolica.

Ciò che Recalcati non dice esplicitamente, ma che il titolo suggerisce per lui, è che questi nuovi umani sono davvero «senza inconscio», nel senso che somigliano sempre di più alle macchine da cui sono (siamo) agiti e di cui sono (siamo) strumenti. Ecco insomma che la profezia oscura del test di Turing si trasforma in realtà.

L’altro movimento a cui stiamo assistendo, invece, va in direzione di un recupero del concetto di inconscio dopo anni in cui la psicologia cognitiva prima e le neuroscienze poi hanno minimizzato l’esistenza o quantomeno la rilevanza di una dimensione nascosta e simbolica della mente. Questo recupero però non ha a che vedere con la psicanalisi, come si vede nei concetti di «nuovo inconscio» e «nonconscio» che vengono mutuati proprio dal cognitivismo se non addirittura dalle scienze naturali o dall’informatica.

Del primo parla Tallis in Breve storia dell’inconscio quando si sofferma sugli sviluppi contemporanei dell’approccio cognitivo. È vero, dice Tallis, che il cognitivismo ha svilito l’inconscio al punto da arrivare quasi a metterne in discussione l’esistenza tout court, ma è altrettanto vero che proprio la metafora informatica ha portato una corrente di pensiero a concentrarsi su quei «processi di background» che nel cervello agiscono continuamente raggiungendo solo in minima parte la soglia della coscienza, come si vede per esempio quando ci fermiamo prima di fare un passo davanti a un’auto che ci stava per investire e che non avevamo visto. Cosa ci ha fatto fermare se non una parte della nostra mente non cosciente eppure abbastanza vigile da salvarci la vita? Oppure pensiamo alla capacità istintiva di calcolare gli spazi e le dimensioni, o le miriadi di operazioni mentali che sono necessarie per attività quotidiane come scrivere o parlare. Tutto questo è tecnicamente «inconscio», cioè oltre la soglia della nostra coscienza eppure essenziale per il suo funzionamento. Naturalmente si tratta di un inconscio che non ha niente a che vedere con il caotico luogo delle pulsioni di Freud, né tantomeno con l’archivio di simboli sovraindividuali di Jung, ma è pur sempre una forma di psiche altra rispetto alla vita cosciente, che rientra così dalla finestra negli interessi della psicologia  dopo essere stata cacciata dalla porta.

Il concetto di «nonconscio» invece è più sottile. A coniarlo è stata una critica letteraria che da molti anni si occupa del confine sempre più sfumato tra umano e postumano, N. Katherine Hayles, in un libro recentemente pubblicato in Italia da Effequ (L’impensato. Teoria della cognizione naturale, 2021, traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini).

A differenza del nuovo inconscio di cui parla Tallis, che come l’inconscio freudiano è in larga parte sommerso ma può diventare cosciente a fronte di uno sforzo di autoconsapevolezza o di un accidente (come nell’esempio dello scampato investimento che ho portato sopra), il nonconscio si riferisce a una dimensione totalmente inaccessibile alla coscienza. Inoltre il nonconscio pertiene una condizione base della cognizione, che l’uomo non condivide solo – come presumibilmente nel caso del nuovo inconscio – con gli altri animali, ma anche con le piante e, dice Hayles, con i sistemi informatici complessi. In un certo senso, il concetto di nonconscio ha a che vedere con l’interoperabilità tra specie e regni diversi, e addirittura tra esseri viventi e non viventi in un panorama complesso dove l’interazione con le macchine è diventata parte integrante della vita di tutti i giorni. Se possiamo «capire» un computer, e se un computer può «capire» noi, ciò non si deve solo al fatto che condividiamo un sistema simbolico di tipo umano (ad esempio: una tastiera; un altro esempio: la matematica), ma anche una forma base di cognizione.

Questo nonconscio cognitivo, sostiene Hayles, ha a che vedere con la capacità di entità diversissime di interpretare le informazioni che provengono dall’esterno. Non è necessario che ci sia una coscienza, né tantomeno una consapevolezza di sé e dell’informazione che viene elaborata, perché ci sia cognizione. Un computer può «capire» senza veramente «capire» – ma questa assenza di una «comprensione» a livello cosciente non impedisce che tra noi e una macchina ci sia uno scambio informativo di qualche tipo. Per usare una metafora della cibernetica, uomini, altri esseri viventi e sistemi tecnici complessi sono tutti parte di uno stesso meccanismo che si scambia informazioni e si autoregola tramite processi di feedback.

Può sembrare curioso, ma questa prospettiva mi pare rassicurante rispetto al problema paventato da molte direzioni, spesso a ragione, delle intelligenze artificiali. Quello di Hayles è uno sguardo normalizzante, che tende a smussare i picchi della uncanny valley nella quale ci ha portato il contatto quotidiano con le macchine «intelligenti».

Facciamo un esempio. Nel 2020 si è creduto che un’intelligenza artificiale basata su un modello linguistico autoregressivo conosciuta come GPT-3 avesse finalmente superato il test di Turing. Effettivamente i risultati ottenuti da GPT-3 erano impressionanti: l’IA era in grado di sostenere conversazioni complesse sulla natura della propria «coscienza» e su questioni morali con filosofi e cognitivisti, nonché di comporre una lettera spacciandosi per David Chalmers tanto riuscita da ingannare lo stesso Chalmers sulla sua veridicità. Ma in realtà era una finzione: GPT-3 infatti era perfettamente capace di rispondere a domande sensate, ma andava in crisi con il nonsense – un aspetto che avrebbe probabilmente stuzzicato l’animo inglese dello stesso Turing.

Eludendo i problemi tradizionalmente legati alla natura della coscienza e alla sua imitizaione, la prospettiva di Hayles ci colloca in un paradigma molto diverso rispetto al discorso che solitamente circonda il problema dell’intelligenza delle macchine. Il test di Turing, in fondo, potrebbe essere allo stesso tempo già superato e insuperabile. O meglio ancora, forse guardare al problema dell’interazione uomo-macchina dal punto di vista del test di Turing è sbagliato: in realtà noi e le macchine siamo già parte di uno stesso regno ontologico, almeno a un livello noncosncio che è insieme più reale e meno spaventoso dell’idea fantascientifica di robot indistinguibili dagli umani alla Blade Runner.

Questa potrebbe anche essere una prospettiva efficace per non cadere nel tranello dell’intelligenza artificiale che già vent’anni fa Jaron Lanier aveva inquadrato in maniera precisa quando scriveva che l’unico modo per cui un computer potrà mai passare il test di Turing è che gli umani si abbassino al livello delle macchine, arrivando a considerarsi tanto meccanizzati che la differenza svanisce. Se è così che si crea l’intelligenza artificiale, «artificializzandov l’intelligenza umana, allora dobbiamo ammettere che siamo molto vicini a dare finalmente vita al nostro Golem – e a dimostrarlo, come spiegava già Recalcati, è più la psicologia che l’informatica.

Oppure possiamo ribaltare completamente il tavolo, come fa Hayles, e smettere di seguire il sogno prometeico di costruire macchine capaci di sostituirci. Invece che perseguire l’evoluzione verticale sulla linea della coscienza possiamo espanderci in orizzontale sul piano del nonconscio, entrando in un territorio ancora tutto da esplorare dove ogni forma di cognizione ha il suo spazio, il suo ruolo e la sua specificità, e dove è possibile una convivenza che non prenda i caratteri di una trita distopia.

ARTICOLO n. 14 / 2022

Sympathy for the devil

Un bel po’ di tempo fa ho avuto una relazione brevissima, di quelle che chiamarle relazioni mi fa quasi sorridere, che hai giusto il tempo di dire, «Ehi, sembra molto interessante!», ma poi si rivelano essere solo una costruzione inesistente poggiata su fondamenta di pancarré inzuppato d’acqua.

Ci conoscevamo da anni: io vivevo ancora a Milano, avevo i capelli rosso fuoco e non soffrivo gli hangover. Stiamo parlando, dunque, di una vita fa. 

Mi era amico, appariva e spariva a intervalli regolari ma era una persona su cui potevo sicuramente contare quando mi succedeva qualcosa che mi faceva stare male. 

Bella testa, penna così così: aveva quella cosa tipica delle persone intelligenti, che non si applicano perché alla fine «massima resa e minima spesa» è più allettante: un potenziale così pigro non l’ho mai visto in tutta la mia vita e me ne sono sempre dispiaciuta. 

Una persona davvero interessante, ma che non ero mai riuscita a incrociare per una relazione o anche solo una scopata occasionale. Solo una volta ci eravamo quasi andati vicino ma poi, sul più bello, lui scelse una modella svedese al posto mio e io finii fidanzata con un ragazzo delle mie parti. Tutto tacque per anni, ma non la nostra amicizia: lui si subì stoicamente le mie lacrime per altri uomini e io le sue ansie per altre donne.

Ci siamo rincorsi a più riprese senza mai concretizzare, complice anche la mia attenzione che non resta troppo a lungo sulle cose: mi distraggo, dimentico, non rispetto le scadenze (e qui la redazione di The Italian Review lo sa bene), sparisco per giorni, ho un pessimo rapporto con Whatsapp, inizio a trovare più attraente stare in casa che uscire, odio le sorprese e tante altre meraviglie che mi fanno passare da sociopatica. Quando in realtà sono solo piuttosto svampita.

Poi, però, in questo gioco di apparizioni e sparizioni, io e lui abbiamo incrociato i nostri flussi. Per caso. Una sera in un locale.

Con un limone da sedicenni e un postumo da sbornia degno di ogni bella serata. E la relazione ha dunque preso forma.

Iniziata con il botto, con uno slancio di romanticismo che solitamente è presagio di poca sostanza (come quelle feste piene di decorazioni glitterate che riescono a mascherare il pessimo alcol e la musica di merda in filodiffusione) ma a cui non ho voluto dare il peso che in realtà meritava: una relazione ibrida, tra un film di Muccino (urlano tutti, si corre un sacco, ci sono tremila comparse e fidanzate nascoste) e una canzone di Lucio Dalla (ancora lacrime, un sacco di lacrime, «un sacco di capelli che non si riescono a contare»). Il suo declino è  iniziato presto.

Certo, all’inizio era bello. 

Poesie, libri, note scritte sul telefono e inviate mentre l’altra persona dorme, treni, stazioni, litri di vino – postilla per il futuro: se beve più di me può esserci la non così remota possibilità che abbia un problema con l’alcol – viaggi, libri, auto, case, fogli di giornale: tutto da manuale e una tenerezza bambina che non lasciava spazio ai discorsi da adulti.

Ci sono volute poche settimane infatti per capire che la mia, più che la figura dell’amante, era la figura della madre. 

Con tutti i mali che questa cosa può comportare.

Divento presto la nemica, colpevole di andare veloce e avere una vita caotica (si chiama lavoro, ma tant’è). 

I miei consigli diventano presto armi, la mia richiesta di maturità diventa impertinenza, il mio essere concreta diventa segnale di stronzaggine. 

Il bisogno di confronto costruttivo sui temi a noi cari diventa anch’esso un fardello dal quale liberarsi e la mia immagine, da divinità greca scesa in terra avvolta in una veste di lino bianco, si trasforma nella figura della matrigna di Cenerentola.

La capacità di reciproco arricchimento e crescita che qualsiasi relazione dovrebbe dare assume di colpo l’aspetto di una minaccia che mina la tranquillità dell’altro. E l’altro comincia a essere screditato in modi più o meno bizzarri, più o meno maturi («stai a fa’ la punta ar cazzo» assurge a frase emblematica di questa mia seconda opzione).

Di colpo la voglia di risolvere i problemi era diventata una cosa di cui non parlare, le mie necessità erano di troppo, esistevano solo le sue. Ogni mio bisogno – dal semplice dormire insieme al mio desiderio di confrontarmi su aspetti che i nostri lavori ci portano quotidianamente ad affrontare – era visto come pesante, come motivo di ansia, come qualcosa che si poteva evitare perché non serviva, a detta sua, per assicurare la riuscita della relazione. La mia paura di essere invisibilizzata nella storia era diventata una bambinata. Fino a quando questa paura non si è realizzata e io, di punto in bianco, sono stata divorata dalla sua necessità di non affrontare le cose. E da un giorno all’altro mi ha fatta sparire. Come se fossi un pezzo di un programma elettorale che era appena stato spuntato e su cui non tornare più. Non avevo più voce in capitolo su di noi, su di me in quel primordiale agglomerato sociale che è la coppia, su quelle che erano le mie richieste. Non c’ero più. 

Ho smesso presto di piangere per il fallimento di questa relazione che tanto desideravo e ho ritrovato la lucidità. 

E ho capito che non era lui, proprio lui, solo lui a essere così: era tutto il sistema.

Tutto il fottuto sistema in cui viviamo.

Il percorso che ha preso questa vicenda sentimentale al sapore di un film con Laura Morante (si fuma un sacco e si urla, si urla sempre anche lì) mi era infatti davvero familiare. 

Ho avuto come l’impressione di aver già visto questo meccanismo più volte ma non in altre relazioni, bensì in una pratica quotidiana a cui assisto con rassegnazione ormai da tempo: quella con cui la bolla conservatrice liquida le istanze progressiste e le tematiche sociali che ultimamente prendono spazio nell’editoria, sui giornali e sui social media. 

Per capirci: se fate divulgazione, scrivete o anche semplicemente ricondividete un contenuto altrui su un diritto civile o sociale che vi tocca o vi sta particolarmente a cuore, sono più che convinta che tra i commenti o gli inbox da voi ricevuti troverete almeno tre, «eh, ma che pesante», oppure, «ci sono cose più importanti», ma anche dei «ecco che arriva la maestrina».

Non è un vizio di forma dei social media, ma una prassi culturale sistemica di mantenimento del controllo.

Chi detiene il potere, infatti, per poter continuare a fare un po’ quello che vuole, usa da sempre dei metodi di retorica piuttosto standardizzati e talmente diffusi da essere entrati di prepotenza nel nostro uso quotidiano.

Prendiamo il dibattito sul ddl Zan per fare un esempio.

Lega e Fratelli d’Italia per mesi hanno cercato di liquidare le istanze previste dal decreto originale affermando che fosse superfluo, inutile, che ci fossero ben altri problemi, che esistessero già leggi ad hoc per le situazioni specificate nella bozza, che fosse divisivo, problematico, contro natura, una potenziale rovina della calma e della tranquillità del Belpaese.

Invalidare le istanze civili non è sicuramente cosa nuova e recente come l’affossamento del ddl Zan.

Pensiamo allo ius soli. O alla richiesta di riconoscimento da parte del SSN di vulvodinia e neuropatia del pudendo come malattie croniche e invalidanti. O ancora alla legalizzazione della cannabis: tutte cose che sono reputate pericolose, o inutili, o fuori dal tempo.

Ogni volta in cui si propone un’istanza, questa viene liquidata dall’intero sistema come superflua, come viziata, come potenzialmente rovinosa.

L’ultimo caso, in questo senso, è tutta la polemica su schwa e linguaggio inclusivo, che ha animato i conservatori di tutto lo Stivale che hanno perfino creato una petizione su change.org (diretta a chi?) per vietare (come?) l’uso della schwa (perché?) che avrebbe, secondo loro, distrutto la lingua italiana (quando?).

E questo smisurato terrore davanti all’inevitabile cambiamento linguistico, civile e sociale, si porta dietro un’infinita tenerezza che coincide con la smania di detenere il potere e il controllo in ogni modo possibile, anche schiacciando gli altri, i loro bisogni, il loro linguaggio, i loro desideri. 

In più, piccolo off topic, fare leva sulle paure ataviche della gente è l’unico modo in cui la destra del giornalismo – che si finge di sinistra perché altrimenti non tirerebbe manco tre copie in croce – ha per vendere: la paura come forma di controllo è la cosa più vecchia che ci sia, talmente vecchia da far quasi pena.

«Pesantoni», «pericolosi», «maestrine», «rompicoglioni», «viziati», «rancorosi» sono tutti termini che vengono affibbiati a chi è esigente di cambiamento.

Un cambiamento che per sua stessa natura deve mettere in crisi. Perché  – spoiler! – senza crisi non esiste crescita. 

Il problema è che questo modo di invalidare le istanze altrui, a forza di vederlo replicato all’infinito in ogni nostro sistema di riferimento, lo abbiamo portato anche tra le mura di casa.

Nelle nostre relazioni. Nelle interazioni con chi troviamo su internet. 

Nell’amore e in tutti gli altri demoni che ci permettono di vivere nel mondo.

Abbiamo disimparato il confronto preferendo la fuga, ma prima di fuggire preferiamo screditare il nemico. Quando spesso questo nemico neppure lo è.

Riprendendo il mio incipit: se anche una persona cosi sveglia e a noi vicina adotta il metodo del sistema per silenziarci o sviare dalle giuste richieste che apportiamo per le nostre necessità, allora vuol dire che non siamo più in grado di sostenere una conversazione su larga scala.

Se anche il più piccolo agglomerato sociale, ovvero la coppia, crolla davanti alla necessaria spinta verso l’accrescimento reciproco, come pensiamo che possa funzionare un dibattito così esteso?

Abbiamo disimparato a fare le cose insieme. Crescere, innanzitutto. 

Abbiamo dimenticato la cooperazione, sia questa tra due, tre, quattro o quattro milioni di persone.

Individuiamo da sempre le proposte di crescita, scontro e confronto come pesanti, non necessarie, invadenti, superficiali. Perfino diaboliche, alle volte.

Eppure io ho sempre avuto una certa simpatia per quel diavolo lì.

Quello che ti smembra le fondamenta e ricostruisce la casa dal primo mattone, con il fervore di chi crede davvero in chi ha davanti: sia una istanza sociale che una singola persona, un compito, un lavoro, un amore. 

Ho sempre avuto a cuore quel gioco di tacita sfida e fiducia che porta alla crescita, senza il bisogno di liquidare l’interlocutore come inadatto o di serie b.

È proprio questa la natura della crescita stessa: farsi del male per creare nuovi spazi, finalmente abitabili, preferibilmente in compagnia (che brutto demolire da soli).

Trovare interlocutori – in qualsiasi campo della vita – che non abbiano timore della sfida costruttiva e distruttiva è stimolante e lo stiamo dimenticando, facendo strada a gossip da rotocalco e benaltrismo.

Ricominciare a giocare, mettendosi in gioco a nostra volta, è la parte centrale del percorso di crescita. E spesso è proprio la più divertente.

Dopotutto, qualcuno diceva: 

What’s puzzling you is the nature of my game.
Pleased to meet you, hope you guess my name.

ARTICOLO n. 13 / 2022

Il diario di Stefan Czarniecki

TRADUZIONE DI DARIO PROLA

1

Sono nato e cresciuto in una casa molto per bene. Con pensiero commosso torno a te, o mia infanzia! Rivedo mio padre, un bell’uomo dalla figura fiera e dal volto in cui tutto, lo sguardo, i lineamenti e i capelli brizzolati, si componeva armoniosamente esprimendo l’appartenenza a una razza nobile e perfetta. E vedo anche te, madre, irreprensibilmente vestita di nero, con la sola concessone di quel paio di antichi orecchini a bottone. E vedo me, un ragazzetto esile, serio e pensieroso e mi viene da piangere per tutte le speranze disattese. Nella nostra famiglia non c’era forse che quest’unico neo: mio padre odiava mia madre. No, mi sono espresso male, non è che la odiasse: semplicemente non la sopportava. Non ne ho mai saputo il motivo e proprio qui inizia il mistero le cui nebbie, negli anni della maturità, mi hanno condotto alla catastrofe morale. Chi sono infatti diventato? Un buono a nulla, una persona moralmente fallita. Per esempio, quando bacio la mano a una dama finisco sempre per sbavargliela tutta e poi tiro fuori il fazzoletto e farfugliando «Ah, mi scusi» gliela ripulisco. 

Mi accorsi ben presto che mio padre evitava come la peste di toccare mia madre. Non solo: quando parlava con lei evitava il suo sguardo e il più delle volte guardava di lato o si osservava le unghie. Non c’era nulla di più triste di quello sguardo basso di mio padre. A volte capitava che la guardasse di sbieco con un’espressione di immenso disgusto. Una cosa per me inconcepibile, poiché io non provavo per mia madre alcuna avversione. Per quanto continuasse a ingrassare terribilmente, tanto da strabordare da ogni parte, mi piaceva stringermi a lei e appoggiare la testolina sulle sue ginocchia. Come dunque spiegare il fatto della mia esistenza, com’ero venuto al mondo? Suppongo di essere stato concepito con un atto di forza, a denti stretti, a dispetto degli impulsi naturali; in poche parole, immagino che mio padre, in nome degli obblighi matrimoniali, per qualche tempo abbia lottato eroicamente contro il disgusto (poneva infatti l’onore della sua virilità sopra ogni altra cosa) e che il frutto di questo eroismo sia stato io, un bimbetto. 

Dopo quello sforzo sovrumano, e con ogni probabilità mai più ripetuto, la sua repulsione esplose con irruenza. Una volta origliai mentre gridava a mia madre torcendosi le dita dalla rabbia: «Stai diventando calva! Tra qualche tempo sarai calva come un uovo! Una donna calva, ti rendi conto cosa significa per me? Una donna calva. La calvizie femminile… la parrucca… no, questo non potrei sopportarlo!».

Poi aggiunse piano con voce traboccante di tormento: «Ah, sei orrenda. Non sai quanto sei orrenda. La calvizie è un dettaglio, il naso pure, un dettaglio o un altro possono essere orribili, sono cose che capitano anche nella razza ariana. Ma tu sei tutta quanta orrenda, oscena dalla testa ai piedi, sei l’oscenità in persona… Ci fosse almeno un punto del tuo corpo libero da questa oscenità, avrei perlomeno qualcosa a cui aggrapparmi e – te lo giuro – concentrerei su quello tutti i sentimenti che ti ho promesso davanti all’altare. Mio Dio!».

Non riuscivo a capire: perché la calvizie di mia madre era peggiore di quella di mio padre? Oltretutto i denti della mamma erano persino migliori, aveva un canino con l’otturazione dorata… E per quale ragione non solo non provava ribrezzo per mio padre, ma – al contrario – amava accarezzarlo quando c’erano degli ospiti; solo in quelle occasioni mio padre non rabbrividiva di raccapriccio. Mia madre ispirava un senso di maestà. Mi sembra ancora di vederla patrocinare un mercatino di beneficienza, oppure una delle cene a cui veniva invitata, o la sera mentre recitava le preghiere con la servitù, nella sua cappelletta privata. 

La devozione di mia madre non aveva eguali; non era nemmeno fervore, ma avidità: avidità di digiuno, di preghiera, di buone azioni. A un’ora prestabilita io, il maggiordomo, il cuoco, la cameriera e il guardiano ci raccoglievamo nella cappelletta drappeggiata di nero. Dopo le preghiere iniziava con i suoi ammaestramenti. «È peccato! È un’oscenità!», tuonava mia madre, il mento le tremava e le dondolava come un tuorlo d’uovo. Forse non porto il dovuto rispetto ai cari estinti. È questo il linguaggio che ho appreso dalla vita, il linguaggio del mistero… ma non anticipiamo i fatti.

A volte mia madre ci convocava in un orario insolito: me, il cuoco, il maggiordomo, il guardiano e la cameriera. «Povero figlio mio, prega per l’anima di quel mostro di tuo padre, pregate anche voi per l’anima che il vostro padrone ha venduto al diavolo!». Capitava che sotto la sua guida cantassimo le litanie fino alle quattro o alle cinque del mattino, finché la porta non si apriva all’improvviso e compariva mio padre in frac o in smoking, con un’espressione di supremo disgusto dipinta in viso. «In ginocchio!», gridava mia madre, andando verso di lui tutta ondeggiante e oscillante, il dito puntato verso l’immagine di Cristo. «Avanti, a dormire, a letto!», ordinava mio padre ai domestici con modi da gran signore. «È la mia servitù!», rispondeva mia madre, e mio padre se ne andava subito via, accompagnato dalle nostre supplici lamentazioni davanti all’altare.

Che cosa significava tutto questo e perché la mamma parlava delle «sue brutte azioni», perché provava disgusto per le sue azioni, quando lui provava disgusto per lei? La mia mente innocente di bambino si smarriva tra tanti misteri. «Scostumato!», diceva mia madre. «Ricordatevi, non si può tollerare! Chi non grida di ribrezzo alla vista del peccato, è meglio si leghi al collo una macina da mulino. Il disprezzo, l’odio e il disgusto non sono mai abbastanza. Ha promesso, e adesso prova disgusto! Ha promesso di non provare disgusto! Fuoco e dannazione! Prova disgusto per me, e anche io provo disgusto per lui! Oh, verrà il giorno del Giudizio! All’altro mondo vedremo chi di noi due è il migliore! Il naso! Lo spirito! Lo spirito non ha né naso né calvizie, e una fede ardente apre le porte delle future delizie del paradiso. Verrà il giorno in cui tuo padre, torcendosi dal dolore, mi implorerà, seduta alla destra di Yahweh, volevo dire del Signore Iddio, di fargli leccare un mio dito umettato. Lo vedremo se proverà disgusto». Anche mio padre del resto era devoto e andava regolarmente in chiesa, per quanto mai nella nostra cappelletta privata. Di tanto in tanto, con la sua impeccabile raffinatezza, diceva strizzando gli occhi in modo aristocratico: «Credimi, mia cara, è disdicevole. Quando ti vedo davanti all’altare con quel tuo naso, quelle tue orecchie, con quelle labbra, sono sicuro che anche Cristo si sente a disagio. Naturalmente non voglio negarti il diritto alla devozione – aggiungeva – certo, dal punto di vista della religione una neofita è una cosa meravigliosa, per quanto difficile e vana. La natura non si fa smuovere dalle preghiere e ricorda il detto francese: «Dieu pardonnera, les hommes oublieront, mais le nez restera».

Intanto io crescevo. A volte mio padre mi prendeva sulle ginocchia e studiava a lungo e con inquietudine il mio viso. «Il naso, almeno per adesso, è il mio», lo sentivo bisbigliare. «Dio sia lodato! Ma qui negli occhi… nelle orecchie… povero bambino!», e così dicendo i suoi nobili tratti si contraevano di dolore. «Soffrirà terribilmente quando se sarà consapevole, non mi stupirei se dentro di lui si verificasse una specie di pogrom interiore». Di quale consapevolezza parlava e di quale pogrom? Come dovrebbe essere il manto di un ratto nato da un maschio nero e da una femmina bianca? Maculato? Forse quando colori contrastanti sono di forza uguale, il risultato di questa unione è un ratto senza tinta, senza colore… ma vedo che ancora una volta sto anticipando i fatti con le mie impazienti digressioni.

2

A scuola ero un alunno molto diligente anche se non ben voluto. Ricordo la prima volta che mi trovai davanti al preside, volenteroso, pieno di zelo e buoni propositi, con quella solerzia che caratterizzava sempre la mia natura. Il preside mi diede un benevolo buffetto sotto il mento. Pensavo che più mi fossi comportato bene e più avrei meritato la simpatia degli insegnanti e dei compagni. Le mie buone intenzioni si scontravano tuttavia contro un insuperabile muro di mistero. Quale mistero? Beh! Non lo sapevo, e non lo so neppure adesso; sentivo soltanto di essere circondato da tutte le parti da un mistero sconosciuto, ostile eppure incantevole, che non riuscivo a penetrare. E non era forse incantevole e misteriosa anche quella conta che facevo con i miei compagni nel cortile della scuola e che recitava così: «Un, due, tre, sporchi son gli ebrei, i polacchi sono eroi, tocca proprio a te»? Sentivo quanto fosse incantevole, la recitavo con delizia e trasporto, ma per quale ragione fosse incantevole questo non riuscivo a comprenderlo; anzi, avevo l’impressione di essere del tutto inutile e che sarebbe stato meglio se fossi restato in disparte a guardare. Cercavo di rifarmi agli occhi degli altri con la gentilezza e l’applicazione, ma in cambio ricevevo soltanto antipatia, non solo dai miei compagni di scuola, ma, cosa strana e assai più ingiusta, anche dagli insegnanti.

Mi ricordo anche la filastrocca:

Chi sei tu? Un giovane polacco

Il tuo segno? Un’aquila color bianco.

E ricordo anche il mio compianto professore di storia e letteratura patria, un vecchietto silenzioso e piuttosto indolente che non alzava mai la voce. «Giovanotti», diceva tossendo nel grande foulard, oppure sturandosi l’orecchio con il dito, «quale altra nazione è stata il messia delle nazioni? L’antemurale della cristianità? Quale altra nazione ha avuto un principe come Józef Poniatowski? Se consideriamo il numero di geni, e soprattutto di precursori, ne abbiamo tanti quanta l’intera Europa». E di punto in bianco diceva: «Dante», «Lo so io, professore», scattavo, «Krasiński!», «Molière?», «Fredro!”», «Newton?», «Copernico!», «Beethoven?», «Chopin!», «Bach?», “Moniuszko!». «Giovanotti, potete vederlo da voi», concludeva. «La nostra lingua è cento volte più ricca di quella francese, che pure viene considerata la più vicina alla perfezione. Figuriamoci! I francesi arrivano a dire al massimo petit, petiot, très petit. E invece pensate noi che ricchezza: piccolo, piccolino, piccoletto, piccino, piccinello, piccinetto e via dicendo». Anche se io ero il più veloce e il più bravo a rispondere, non gli piacevo. Perché? Non lo so. Tuttavia una volta tossicchiando disse con uno strano tono confidenziale e ammiccante: «I polacchi, giovanotti, sono sempre stati pigri, poiché la pigrizia suole accompagnarsi alle grandi capacità. I polacchi sono dei bravi ma pigri bricconi. I polacchi sono un popolo stranamente simpatico». Da allora il mio entusiasmo per lo studio diminuì, tuttavia neanche così mi guadagnai i favori del mio pedagogo che aveva un debole per i pigri mascalzoni. 

Ogni tanto socchiudeva un occhio e allora tutta la classe tendeva bene le orecchie. «Sentite?», diceva. «La primavera. Si sente nelle ossa, riempie prati e boschi. I polacchi sono sempre stati così, birbanti e indomiti. Eh, sì, spiriti irrequieti… per questo piacciamo così tanto alle donne svedesi, danesi, francesi e tedesche. Ma noi preferiamo le polacche, perché la loro bellezza è famosa in tutto il mondo». Questi discorsi mi fecero un tale effetto che finii con l’innamorarmi di una signorina. Eravamo nel parco di Łazienki e stavamo studiando sulla stessa panchina. Rimasi a lungo indeciso su come attaccare bottone, finché le dissi: «Permette?» Non mi rispose neppure. Il giorno successivo, dopo essermi consultato con i miei compagni di classe, mi feci coraggio e le diedi un pizzicotto, al che lei socchiuse gli occhi e iniziò a ridacchiare…

Ce l’avevo fatta! Tornai a casa felice, trionfante e sicuro di me, ma anche stranamente inquieto per quell’inesplicabile risatina e quegli occhi socchiusi. «Sapete una cosa?», dissi il giorno dopo in cortile, «anche io sono un’anima indomita, un briccone, un piccolo polacco, peccato che non c’eravate ieri al parco, avreste visto un paio di cosette molto interessanti…» E gli raccontai tutto. «Idiota!», dissero, anche se per la prima volta mi ascoltarono con interesse. Allora uno di loro gridò: «Una rana!», «Dove?» «Ammazzala, ammazzala!». Tutti si gettarono sulla rana e io non fui da meno. Iniziammo a sferzarla con delle bacchette fino a quando non morì. Fiero ed eccitato per essere stato ammesso a uno dei divertimenti più esclusivi dei miei compagni di scuola, vedendo in questo avvenimento l’inizio di una nuova era nella mia vita, gridai: «Ehi! C’è anche una rondine. Una rondine è volata in classe e ora sbatte contro il vetro. Aspettate…». Andai a prendere la rondine, e le spezzai un’ala perché non potesse volare. Poi andai a prendere la mia bacchetta. Quando tornai i miei compagni le si erano stretti intorno. «Poverina», dicevano, «povero, piccolo uccellino. Diamole del pane e del latte». Quando si accorsero che intendevo colpirla con la bacchetta Pawelski strizzò gli occhi con tanta forza che gli si evidenziarono gli zigomi e mi diede un tremendo pugno in faccia.

«Si è preso un pugno in faccia», gridarono. «Sei senza onore, Czarniecki, non ti fare mettere sotto, restituisciglielo!». «Non posso», dissi, «sono troppo debole. Se provo a restituirgli il pugno, me ne beccherò un altro e finirò doppiamente umiliato». Allora tutti mi si gettarono addosso e, senza risparmiarmi motti di scherno, me le diedero di santa ragione.

L’amore, quale incantevole e incomprensibile assurdità! Pizzicare, spilluzzicare, persino prendere tra le braccia, quante cose comprende! Eh, oggi so bene come considerarlo! Ci vedo una misteriosa affinità con la guerra, perché anche in guerra si tratta in fin dei conti di pizzicare, spilluzzicare o prendere tra le braccia. Ma allora non ero ancora quel fallito che sono oggi, al contrario ero pieno di buone intenzioni. L’amore? Posso affermare con certezza che lo cercavo intensamente perché speravo di infrangere così quel muro di mistero… con fede e fervore sopportavo tutte le stramberie del più strambo dei sentimenti, nella speranza di comprenderne un giorno il senso. «Ti desidero!», dicevo alla mia amata. Ma lei mi liquidava con delle frasette generiche. «Lei non vale niente!» mi diceva misteriosamente, osservando il mio viso. «Damerino, cocco di mamma!».

Ebbi un fremito: come sarebbe cocco di mamma? Che cosa aveva voluto dire? Che avesse intuito che… perché io qualcosa avevo già cominciato a sospettarla. Avevo capito che se mio padre era di razza pura fino al midollo, anche mia madre lo era ma in un altro senso, in senso semitico. Che cosa aveva spinto mio padre, un aristocratico impoveritosi a sposare mia madre, la figlia di un ricco banchiere? Capivo oramai il suo sguardo impaurito quando scrutava i miei lineamenti, e le uscite notturne di quell’uomo il quale – sentendosi deperire nell’orribile simbiosi con mia madre – veniva spinto dagli imperativi della specie a trasmettere il proprio sangue ad alvi più degni. Ma avevo davvero capito? No, forse non avevo capito. Di nuovo l’incantevole muro del mistero si stagliava di fronte a me. In teoria sapevo, ma non provavo alcun ribrezzo né per mia madre e neppure per mio padre; ero un figlio devoto. E anche oggi fatico a comprendere; non conoscendo la teoria, non so come dovrebbe essere il manto di un ratto nato da un maschio nero e una femmina bianca; posso solo supporre di essere stato il frutto di un caso eccezionale, una circostanza atipica, ovvero quella in cui due genitori appartenenti a razze nemiche, eppure dotate della stessa forza, si fossero neutralizzate a vicenda in maniera così perfetta da rendermi un ratto senza pelo e senza colore! Un ratto neutro! Questa era la mia sorte, il mio mistero, il motivo per cui ho fallito nella vita e per cui, ogni qual volta prendevo parte a qualcosa, in realtà non prendevo parte a nulla. Per questo al suono di quelle parole – cocco di mamma – mi aveva colto l’angoscia, tanto più grande in quando le aveva accompagnate un lieve abbassarsi delle palpebre, gesto che mi aveva già scottato un paio di volte nella vita.

«Un uomo», diceva socchiudendo i bellissimi occhi, “un uomo dovrebbe essere ardito!”.

«Certo», rispondevo, «posso essere ardito». La fantasia non le mancava. Mi ordinava di saltare i fossati e trascinare dei pesi. «Vorrei che calpestasse quell’aiuola, ma non adesso, più tardi, sotto gli occhi del guardiano. Spezzi quegli arbusti, getti nell’acqua il cappello di quel signore!». Mi guardavo bene dal fare spacconate, memore dell’incidente nel cortile della scuola, e d’altra parte quando le chiedevo di spiegarmi le ragioni di quelle richieste mi rispondeva di non saperlo neanche lei, di essere un enigma, una forza della natura. «Sono una sfinge», diceva, «un mistero…». Quando fallivo si intristiva, e quando riuscivo era felice come una Pasqua e come ricompensa mi permetteva di baciarle l’orecchio delicato. Tuttavia non voleva mai rispondere al mio: «Ti desidero». «In lei c’è qualcosa», diceva imbarazzata, «non saprei… di ripugnante». Sapevo bene cosa intendesse.

 In tutto questo, devo ammetterlo, c’era un che di stranamente incantevole, di leggiadro, sì, proprio di leggiadro, ma anche di stranamente poco convincente. Tuttavia non mi perdevo d’animo. Leggevo molto, soprattutto i poeti, e cercavo di far mio, come potevo, il linguaggio del mistero. Ricordo di aver svolto un tema dal titolo: «I polacchi e gli altri popoli». Ovviamente, scrissi, non è neppure il caso di ricordare la superiorità dei polacchi rispetto ai negri o agli asiatici, che hanno la pelle ripugnante. Ma anche rispetto agli altri popoli europei la superiorità dei polacchi è indubbia. I tedeschi sono pesanti, brutali e hanno i piedi piatti; i francesi sono piccoli, gracili e depravati; i russi pelosi; gli italiani canterini. Che sollievo essere polacco! Non c’è nulla di strano che tutti ci invidino e vogliano spazzarci via dalla faccia della terra. Solo i polacchi non suscitano il nostro disgusto. Scrissi proprio così, senza esserne convinto, eppur beandomi del linguaggio del mistero e dell’ingenuità delle mie affermazioni.

3

L’orizzonte politico si oscurava e la mia amata manifestava uno strano stato di eccitazione. Ah, quei grandiosi e fantastici giorni di settembre! Come avevo letto in un libro, profumavano di brugo e di menta, erano fuggevoli, amari, brucianti e irreali. Le strade brulicavano di gente, canti e cortei, di spavento, follia ed esaltazione – il tutto scandito del passo cadenzato delle truppe. Qui un vecchio insorto, lacrime e benedizioni; là la mobilitazione, gli addi dei giovani sposi; qui stendardi, arringhe, scoppi di entusiasmo, l’inno nazionale; là giuramenti, sacrifici, lacrime, manifesti, indignazione, solennità, odio. Se si volesse dar credito alle parole degli artisti, mai le donne erano state così incantevoli. La mia amata smise di far caso a me, il suo sguardo si era fatto più oscuro e profondo, divenne eloquente, ma guardava soltanto i militari. Mi chiedevo che cosa avrei dovuto fare. Il mondo del mistero si era fatto all’improvviso molto più potente e dovevo essere doppiamente accorto.

Esultavo insieme agli altri ed esprimevo il mio patriottismo, qualche volta partecipai anche ai linciaggi delle spie. Eppure sentivo che tutto quello era solo un palliativo. Qualcosa nello sguardo della mia Jadwiga mi spinse ad arruolarmi in tutta fretta. Venni assegnato a un reggimento di ulani. Fin dall’inizio mi resi conto di aver imboccato la strada giusta poiché alla visita medica, tutto nudo con un foglio in mano davanti a una commissione di sei funzionari e due medici che mi avevano ordinato di alzare la gamba per osservarmi il calcagno, incontrai lo stesso sguardo grave e indagatore, come assorto e freddamente calcolatore, che aveva Jadwiga. Ora mi stupivo che quella volta al parco, nel mettermi di fronte ai miei limiti, non avesse fatto caso ai calcagni.

E così ero un soldato, un ulano che cantava insieme agli altri: ulani, ulani, leggiadri fanciulli, per voi le ragazze d’amore son folli. A ben guardare, per lo meno presi a uno a uno, nessuno di noi era più un fanciullo; quando attraversavamo a frotte la città con quel canto sulle labbra, chinati sui colli dei cavalli, con le lance e il cappello a visiera, un’espressione stranamente incantevole si disegnava sulle labbra delle donne e io sentivo che questa volta i cuori battevano anche per me… Il perché non lo so, ero sempre il conte Stefan Czarniecki, di madre nata Goldwasser, soltanto che ora portavo gli stivali e le bande color amaranto sul colletto. Incitandomi a non avere alcuna pietà, in presenza di tutta la servitù (la cameriera appariva la più commossa), mia madre mi benediceva per la battaglia con una santa reliquia. «Sgozza, incendia, ammazza», diceva ispirata. «Non farla passare liscia a nessuno! Attraverso di te Yahweh, volevo dire il Signore, scatenerà la sua ira. Sei uno strumento d’ira, ribrezzo, ripugnanza, odio. Stermina tutti i dissoluti che provano disgusto, anche se davanti all’altare avevano promesso che non ne avrebbero provato!». Intanto mio padre, un fervente patriota, piangeva in un angolo. «Figlio mio», disse, «potrai lavare con il sangue la macchia delle tue origini. Prima della battaglia pensa sempre a me, e fuggi come la peste il solo ricordo di tua madre, perché potrebbe esserti fatale. Pensa a me e colpisci senza pietà! Senza pietà! Stermina quei farabutti fino all’ultimo, affinché scompaiano tutte le altre razze e sopravviva solo la mia!». La mia amata per la prima volta mi concesse le labbra; accadde nel parco, al suono di un’orchestrina in un caffè, una sera profumata di menta e di brugo; senza alcun preambolo o chiarimento, semplicemente mi concesse le labbra. Che delizia! Al solo ricordo mi scendono le lacrime! Oggi capisco bene che si trattava soltanto di pareggiare il bilancio dei cadaveri: dal momento che noi uomini ci avviavamo alla carneficina, loro, le donne, si mettevano all’opera; ma allora la mia vita non era ancora un totale fallimento e questo pensiero, per quanto non mi fosse ignoto, costituiva per me soltanto una speculazione filosofica incapace di trattenere le lacrime che scorrevano sulle mie guance. 

«Oh, signora guerra, qual è il tuo potere?». Mi scuso se ancora una volta ritorno al mistero che mi tormenta così tanto. Un soldato al fronte s’imbratta di fango e di carne, lo tormentano malattie, dermatosi, sporcizia, e inoltre quando il suo ventre è squarciato da un proiettile gli si riversano fuori le budella… Dunque? Perché mai un soldato dovrebbe essere una rondine, e non una rana? Per quale ragione il mestiere del soldato è bello e desiderato ovunque? O per essere più precisi, non bello, ma leggiadro, leggiadro al massimo grado. Proprio la sua leggiadria mi dava la forza di combattere contro la paura, quell’abominevole traditrice dell’anima di ogni soldato, ed ero quasi felice, come fossi già passato dall’altra parte di quel muro impenetrabile. Ogni volta che facevo centro con il mio fucile, mi sentivo aleggiare sull’indecifrabile sorriso delle donne e sulle note di quella marcetta militare, e dopo molti sforzi riuscii persino a entrare nelle grazie del mio cavallo, autentico orgoglio di ogni ulano, che fino a quel momento non aveva fatto che mordermi e prendermi a calci.

4

Accadde tuttavia un fatto che mi gettò in quegli abissi della depravazione morale dai quali ancora non riesco a risalire. Le cose stavano procedendo nel migliore dei modi: la guerra impazzava in tutto il globo e insieme a lei il Mistero; gli uomini si affondavano le baionette nella pancia, si odiavano, aborrivano e disprezzavano, si amavano e adoravano, e là dove prima il contadino trebbiava tranquillo il grano ora si alzava un cumulo di macerie. E io ero insieme a quegli uomini! Non avevo alcun dubbio su come agire e cosa scegliere; la dura disciplina militare mi indicava la via del Mistero. Partivo all’attacco, oppure stavo disteso in una trincea tra i gas asfissianti. La speranza, madre degli stolti, mi mostrava radiose prospettive future, come sarei tornato a casa in congedo, liberato una volta per sempre dalla mia sciagurata neutralità rattesca… Ma, ahimè, le cose andarono diversamente… In lontananza risuonavano i colpi dei cannoni… La notte scendeva davanti a noi su quel campo sconquassato, nel cielo veleggiavano brandelli di nuvole, soffiava un ventaccio gelido, mentre noi, più leggiadri che mai, per il terzo giorno di fila difendevamo con accanimento quel colle sormontato da un albero spezzato. Il tenente ci aveva ordinato di resistere fino alla morte.

In quel momento un colpo d’artiglieria arriva con un sibilo, si schianta, scoppia, recide di netto entrambe le gambe all’ulano Kacperski, gli squarcia il ventre, e quello all’inizio appare sbigottito, non capisce cosa sia successo, e un attimo dopo anche lui scoppia, ma a ridere, anche lui si schianta ma dalle risate! Si tiene le mani sul ventre che spruzza sangue come una fontana, e poi pigola e pigola per lunghi minuti in un buffo falsetto, con una vocina stridula, isterica ed esilarante. Quanto può essere contagioso il riso! Non potete neppure immaginarvi l’effetto che può fare il suo suono inatteso su un campo di battaglia. Riuscii a stento a resistere fino alla fine della guerra. Ma una volta tornato a casa, quando ancora continuava a risuonarmi nelle orecchie quella risata, constatai che tutto quello per cui ero vissuto fino a quel momento era in frantumi, che si erano totalmente dileguati i sogni di un’esistenza nuova e felice accanto a Jadwiga, e che in quel deserto che si apriva all’improvviso davanti a me non mi restava nient’altro che diventare comunista. Perché? Io comunista? Ma anzitutto che cosa intendo per “comunista”? Non comprendo in questa parola un preciso contenuto ideologico, né un programma, né alcun fardello; al contrario, la impiego piuttosto per quanto di estraneo, ostile e incompressibile racchiude costringendo gli individui più seri ad agitare convulsamente le braccia o a emettere selvagge grida di terrore e ribrezzo.

   Tuttavia, se proprio è necessario specificare un programma, allora eccolo qui: esigo con fermezza che tutto – padri e madri, razza e confessione, virtù e fidanzate – venga statalizzato e distribuito in porzioni uguali e sufficienti dietro la presentazione di apposite tessere annonarie. Esigo e chiedo davanti al mondo intero che mia madre venga fatta a pezzi e distribuita fra le persone poco zelanti nella preghiera e che lo stesso si faccia con mio padre con la gente di razza indefinita. Pretendo inoltre che i sorrisini, i vezzi e ogni forma di grazia vengano distribuiti solo dietro esplicita richiesta, e che il disgusto immotivato venga punito con la chiusura in una casa di correzione. Ecco il programma. E, per quanto riguarda il metodo, esso consiste soprattutto in una risatina acuta e nel socchiudere gli occhi. Con un certo dispetto sostengo il principio che la guerra abbia distrutto in me tutti i sentimenti umani. Affermo altresì di non avere personalmente firmato alcun armistizio con nessuno e che, per me, lo stato di guerra continua. Mah, direte voi, che programma irreale e che metodo stupido e incomprensibile! Va bene, ma il vostro programma è più reale e i vostri metodi sono più comprensibili? In ogni caso non mi impunterò né sul programma e neppure sul metodo, e se ho scelto l’espressione “comunismo”, è solo perché il “comunismo” è un mistero ugualmente impenetrabile per gli intelletti che lo avversano quanto lo sono per me i vostri bronci e le vostre risatine. 

Proprio così, signori miei, ridete, socchiudete gli occhi; accarezzate le rondini e torturate le rane; avete da ridire sul naso di questo o di quello; siete sempre lì a odiare qualcuno, a provare ribrezzo per qualcuno; poi ricadete in un inconcepibile stato di estasi, pieni d’amore e d’entusiasmo, e tutto questo a causa di un qualche Mistero. Ma che cosa accadrà se anche io avrò finalmente un mio mistero e lo imporrò al vostro mondo con tutto il patriottismo, l’eroismo, la dedizione che l’amore e l’esercito mi hanno insegnato? Che cosa succederà quando sarò io a sorridere (con un sorriso ben diverso) e socchiuderò gli occhi con la disinvoltura di un vecchio militare? Forse nel modo in cui ho trattato la mia adorata Jadwiga ho superato me stesso in fatto di spiritosaggine. «La donna è un enigma?», le ho chiesto. (Dopo il mio ritorno mi ha accolto con enorme effusione, ha guardato la medaglia e siamo andati subito al parco). «Oh, sì», ha risposto. «Non sono forse enigmatica?», ha detto socchiudendo le palpebre. «Una donna-forza della natura e una sfinge». «Anche io sono un enigma», ho detto. «Anche io ho il mio linguaggio misterioso ed esigo che tu lo parli. Vedi quella rana? Giuro sul mio onore di soldato che te la infilo nella camicetta se non pronunci subito, del tutto seriamente e guardandomi negli occhi, le seguenti parole: «ciam – bam – biu, mniu – mniu, ba – bi, ba – be – no – zar».

Non c’è stato verso, non ha voluto. Si schermiva, diceva che era una cosa stupida e assurda, che lei non poteva, si fece tutta rossa, provò a buttarla sullo scherzo, e alla fine si mise a piangere. «Non posso, non posso», diceva tra i singhiozzi, «che vergogna, ma come si fa… che parole assurde!». Presi dunque quel rospo bello grosso e tenni fede al mio giuramento. Sembrava impazzita. Si rotolava per terra come un’ossessa e lo strillo che emetteva si potrebbe paragonare soltanto al grido acuto ed esilarante di un uomo al quale un colpo di artiglieria abbia tranciato di netto le gambe squarciandogli parte del ventre. Forse un simile paragone, così come lo scherzo della rana, vi possono apparire di cattivo gusto, tuttavia vi prego di ricordare che pure io, un ratto senza colore, un ratto neutro, né bianco e né nero, sono disgustoso per la maggior parte della gente. Non è che la stessa cosa debba sembrare di buon gusto e leggiadra a tutti. Personalmente la cosa che mi sembrava più leggiadra e misteriosa, più odorosa di menta e di brugo in tutta questa storia, è che alla fine, non riuscendo a liberarsi dal rospo scatenato sotto la sua camicetta, sia impazzita per davvero.

 Forse non sono neppure un comunista, forse sono soltanto un pacifista militante. Vago per il mondo, veleggiando su questo abisso di incomprensibili idiosincrasie, e ovunque veda un sentimento misterioso, che sia virtù o famiglia, fede o patria, allora non posso fare a meno di commettere qualche carognata. Ecco il mio mistero che impongo al grande enigma dell’essere. Non riesco a trovar pace passando accanto a una coppia di felici innamorati, a una madre con il proprio bambino oppure a un vecchietto per bene. Ma quanta pena mi capita di provare per Voi, caro Padre e cara Madre, e anche per te, santa infanzia mia!

ARTICOLO n. 12 / 2022

IL MONDO DISCONNESSO

Se non si ha qualche separazione, non si ha neppure più né soggetto né oggetto di conoscenza;
non si ha più né utilità interna di conoscere né realtà esterna da conoscere.
Edgar Morin, La conoscenza della conoscenza

Il gioco del destino e della fantasia (2021) di Rysuke Hamaguchi è un film così astuto da mostrarsi leggero mentre maschera la propria profondità, così perfetto nel saper cancellare sotto un velo di minimale manifattura un vortice di interpretazioni. Nell’ultimo dei tre episodi di cui è composto, intitolato «Ancora una volta», si racconta di Natsuko, una giovane donna che partecipa a una rimpatriata di compagni di scuola con la speranza di rincontrare la vecchia fiamma dell’università. Non la trova, ma incontra invece su una scala mobile Ayo, casalinga frustrata con figlio che lei scambia per il suo antico amore. Comincia così un malinteso che porterà Ayo ad ospitare Natsuko a casa propria, fino al disvelamento dell’errore e alla messa in scena di un gioco di ruolo toccante (e disperato), nel quale entrambe le donne giocano a impersonare il ruolo del reciproco oggetto del desiderio.

Tutta costruita su lunghi e ipnotici dialoghi rohmeriani, questa storia mi ha lasciato l’amaro in bocca e scatenato parecchie riflessioni. Mentre i due precedenti capitoli del film sono ambientati nel presente, “Ancora una volta” si apre con un cartello che informa che la vicenda ha luogo in un tempo in cui un virus informatico ha provocato la diffusione dei dati informatici, causandone la perdita. Il mondo è tornato quindi pre-digitale e pre-informatico; le uniche forme di comunicazione rimaste sono la posta e il telegrafo.

Nel film però questo setting distopico quasi non si avverte; è tenuto con eleganza in sottofondo. La casalinga Ayo ordina per posta pacchi di blu-ray per il figlio perché i servizi di streaming sono fuori uso, ed è costretta a ricordare a memoria le mail private del marito (che flirta con un’altra) che il virus generatore di caos ha indirizzato a lei. Oltre a ciò, nella sceneggiatura non ci sono altre manifestazioni della catastrofe tecnica che è accaduta. Sembra quasi non avere importanza. Mi sono reso conto solo al momento dello scorrere dei titoli di coda di quanto quella che sembrava solo una cornice sia in realtà il vero motore del dramma.

Mi sono chiesto: che aspetto avrebbe davvero il Mondo Iperconnesso in cui viviamo se di colpo, per un guasto, un inconveniente o un attacco hacker, venisse di colpo a cessare per essere sostituito con il modello preesistente?

Non lo sappiamo per certo ma è sicuro che al momento l’iperconnessione ci garantisce una forma di conoscenza diversa da quella che l’uomo ha esperito fino a soltanto cinquant’anni fa. La rete e poi di conseguenza i social network hanno messo in connessione gli uomini e le informazioni degli uomini secondo modalità nuove. Ogni relazione è possibile, tutto è potenzialmente conosciuto. Tutto è totale.

Tutto è collegato, metaforicamente «in orizzontale», per lo meno, a scapito della verticalità e della profondità. Profondità che è comunque possibile: perché potenziale resta l’approfondimento, certo, ma inevitabilmente secondario, messo di fronte al godimento che l’orgasmo gnoseologico orizzontale ogni secondo ci dona.

Insomma, d’improvviso ci siamo conosciuti tutti, ci conosciamo tutti, le distanze geografiche si sono annullate, i segreti sono stati tutti rivelati, i templi profanati e aperti ai mercanti. Questo stato di chiarimento dell’oscurità e dell’ignoto e della sua sostituzione con una forma (per quanto parziale, veloce, approssimativa) di “noto”, ha appagato gli uomini come forse era mai successo prima nella Storia e gli ha ridisegnato attorno una nuova casa. Ci sentiamo così tutti quanti immersi in una sorta di nuova sicurezza, e ci pare di agire sempre dentro una grande bolla protettiva, buona e giusta. La democratizzazione delle tecnologie, il fatto che tutti possiamo permetterci uno smartphone che ci connette con il Mondo sempre, ci dà l’illusione di essere forti e completi; una completezza che arriva per l’appunto dalla sensazione di assoluto che la conoscenza dà. La tecnologia che iperconnette ha modificato la struttura dei nostri cervelli, i nostri brainframes, e ci sentiamo persi ogni volta che qualcosa mette in crisi o sospende per un attimo la nostra relazione totale col Mondo. Le patologie da perdita di connessione le conosciamo già abbastanza bene, sono già tutte qui, pronte ad accoglierci. L’acronimo F.O.M.O, ad esempio, viene dall’inglese «Fear of missing out» ovvero «paura di essere tagliati fuori», e indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto col cyber-mondo per paura di rimanere esclusi da qualsiasi avvenimento che ci offra un’opportunità di interazione sociale. La Nomofobia (dalla contrazione di «No-mobile phobia») si riferisce invece al terrore di rimanere senza telefono o senza connessione a internet. È considerata una dipendenza comportamentale: secondo il professore di psichiatria David Greenfield dell’Università del Connecticut l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Il livello di dopamina sale quindi ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare: ogni volta pensiamo che ci sia in serbo per noi qualcosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualcosa di piacevole, così si avrà l’impulso di controllare di continuo. È, dicono, lo stesso meccanismo che si attiva nel gioco d’azzardo.

Uno studio degli psicologi Shari P. Walsh e Katherine M. White intitolato Over-connected? A qualitative exploration of the relationship between Australian youth and their mobile phones già qualche anno fa cercava di indagare sull’attaccamento estremo al cellulare e sui relativi sintomi di dipendenza comportamentale. Sintomi quali salienza cognitiva, euforia, ma anche impotenza, cioè il sentirsi incapaci di fare determinate cose senza l’ausilio del proprio smartphone. La maggior parte dei ragazzi australiani aderenti allo studio riferiva di percepire, non potendo usare il cellulare, livelli di disagio personale elevati e di sentirsi «disconnessi dalle altre persone».

Abbiamo forse, nell’Era della Iperconnessione, di fatto amplificato e drogato un nostro naturale bisogno, quello di essere amati. Ci stiamo allontanando, in questo contesto di conoscenza totale dei dati e di collegamento a tutti e a tutto, dal concetto cristiano «ama il prossimo tuo». Lo abbiamo, pare, temporaneamente sostituito con un più approssimativo «cerca di essere amato». In un romanzo italiano poco conosciuto, Le venti giornate di Torino, Giorgio De Maria, racconta di notti di insonnia collettiva che tutti vogliono dimenticare e esseri giganteschi e mostruosi che si aggirano per la città. In questa Torino anni Settanta, come al solito grigia ed esoterica, De Maria però butta lì con nonchalance, dimostrando doti di veggente e anticipando il concetto di social network, l’esistenza di una biblioteca in cui non si trovano libri editi ma segretissimi diari dei cittadini, resi consultabili, disponibili per chiunque vi acceda, e voglia entrare così in contatto col privato degli altri.

In quei giorni in cui faceva paura uscire di casa e succedevano cose mostruose e innominabili gli autori dei privati diari sentirono il bisogno di entrare in contatto gli uni con gli altri – sembra volersi chiedere De Maria – perché non era più possibile sostenere la pesantezza del proprio esistere? Sostenerla in privato, senza poterla condividere? In altre parole, non era più possibile amarsi, sentirsi amati?

Il Mondo (non più) Iperconnesso evocato nell’episodio del film mi fa pensare anche al tempo. Penso ai social, dove tutto è conosciuto e conoscibile sempre, in una sorta di sospeso, superficiale eterno presente. Conoscendo i dati personali di tutti, divento amico di tutti, divento amico del mondo, e lo divento forever. Scrollo, swappo, e, questione di nanosecondi, sono aggiornato. Partecipo all’evoluzione del mondo, live, senza scatti, senza interruzioni. Non lo vedo invecchiare, invecchio semmai insieme a lui, ma non me ne rendo conto. C’è una canzone di Guccini che amo molto che si chiama «Ti ricordi quei giorni», in cui l’io cantante si rivolge a un amore di gioventù (forse il primo amore); questa persona viene chiamata in causa direttamente; il primo verso, rivolto a lei, è proprio «ti ricordi quei giorni?». Una domanda: ti ricordi quel determinato e ormai lontano periodo in cui abbiamo avuto un’esperienza insieme? L’io cantante, man mano che la canzone si dipana, non si ricorda la faccia o la voce di quella ragazza perduta nel tempo. Nel “mondo non social” in cui la canzone è scritta, Guccini non ricorda la faccia e la voce della fidanzata di tanto tempo prima, o ne ha un ricordo parziale, o assai poco compiuto, e di conseguenza trasfigura quell’esperienza. Ricostruisce, aggiunge. Viene attuato un passaggio dall’oggettività del reale a una sfera di sua soggettiva rappresentazione. E in questo caso, come nelle canzoni ben fatte, o nell’arte che passa alla Storia, si guadagna in potenziale patemico, densità lirica.

Nel Mondo non social di una volta, il tempo procedeva a scatti, e nel presente si riusciva a cogliere il senso del passato e quello del futuro. Il Mondo social di oggi presuppone un tempo indeclinabile, un’eternità, un presente bloccato.

È un po’ quello che Mihály Csíkszentmihályi definisce «stato di flow». Quando si è in questo stato, la persona si trova totalmente assorta in un’attività di suo gradimento in cui il tempo vola e azioni, pensieri e movimenti si succedono l’un l’altro senza fermarsi. Col flow siamo totalmente coinvolti nell’attività che stiamo realizzando e manteniamo un livello di concentrazione assoluto. Tuttavia, tale livello di assorbimento induce a uno stato di mancanza di autocoscienza in cui viene annullata la concezione egocentrica di sé come attore. Come effetto collaterale, lo stato di flow porta per l’appunto a una alterazione del tempo: passano le ore e non ce ne rendiamo conto.

Saremo mai in grado di gestire questo appagamento da iperconnessione, amministrare le nuove forme di conoscenza del mondo, governare l’incoscienza del tempo che passa, senza contraccolpi?

Tanti anni fa una ragazza, mentre ci stavamo lasciando, mi guardò terrorizzata negli occhi e con voce rotta mi disse: «non voglio perderti».

Mi abbracciò e poi scoppiò a piangere.

Più recentemente invece, per questioni di lavoro, ho fatto una ricerca su internet. Volevo capire che fine avesse fatto un ragazzo americano la cui famiglia mi aveva ospitato nel 1987 in occasione di uno scambio culturale organizzato dal mio liceo. Ero stato a casa sua in Virginia per circa un mese, e lui aveva fatto lo stesso a casa dei miei in Toscana. Nel mio ricordo, in un mondo non social, Charles Waters era un sedicenne allampanato, alto, secco come un chiodo, con l’apparecchio per i denti, la camicia di flanella e i capelli lunghi. Allegro, chiassoso, appassionato di Tom Petty, Van Halen e Steve Miller Band.

In rete ho ovviamente trovato decine di Charles Waters, ma all’inizio nulla che corrispondesse a quello che era il mio ricordo di lui. Poi, all’improvviso, su Linkedin, tombola. Non ci ho creduto subito, ma poi sì, «è lui» mi sono detto, «ho trovato il mio uomo». Ho scoperto che Charles vive adesso in Florida, ha fatto il college, e poi ha tentato la carriera militare. Platoon leader in Iraq, poi è tornato a casa ed è finito a fare prima il police officer a Tulsa e poi la guardia del corpo privata; adesso è capo del servizio di sicurezza di una ditta informatica a Miami. La foto sullo schermo ritrae un signore grasso, in giacca e cravatta, che sorride in maniera poco convinta. È completamente calvo o rasato a zero, non si capisce bene.

Ho cercato più di trent’anni dopo Charles Waters e l’ho trovato. Ma in un certo senso non è lui. Avrei forse dovuto invecchiare con lui, sarei dovuto rimanere in contatto con lui, avessimo avuto a disposizione nel 1987 un mondo social invece del primo disco dei Guns n’ Roses; avrei dovuto tenerlo sempre sott’occhio, rendere noto il suo ignoto, e così lui di me. Avremmo annullato la geografia, disintegrato il tempo. Io avrei capito quanto Charles i suoi genitori liberal li odiasse, e che il nonno, che mi parse subito un ignorante guerrafondaio repubblicano, fosse invece il suo idolo da sempre. Avrei capito che più che l’hard rock e il sesso gli interessasse fare a botte e sparare.

Oppure semplicemente, dovrei ricordare a me e insegnare a mia figlia che bisogna avere il coraggio di perdere, chiudere, lasciarsi alle spalle. Il coraggio di non trattenere per forza tutto quanto. E vivere anche nel dolore e nella morte, ebbene sì, e nel mistero che essi generano.

ARTICOLO n. 11 / 2022

I LUNA PARK ALLE STAZIONI DI RIFORNIMENTO

Fuori dal Cabaret Cremisi c’era un mondo di pioggia e buio. Ogni tanto, se qualcuno entrava o usciva dalla porta del locale, si poteva vedere la pioggia incessante e scorgere la rapida apparizione del buio. Dentro era tutto luce ambrata, fumo di tabacco e rumore di pioggia sulle finestre dipinte di nero. Le sere come quella, seduto a un tavolo del localino opaco, mi prendeva sempre una specie di allegria infernale, come fossi in attesa dell’apocalisse e non me ne potesse importare un fico. Amavo immaginare che fosse la cabina di una vecchia nave sorpresa in mare aperto da una tempesta violentissima, o la carrozza salone di un lussuoso treno passeggeri che traballava sui binari agitato da venti feroci e martellato da pioggia demoniaca. A volte, nelle sere piovose al Cabaret Cremisi, pensavo di occupare un posto nella sala d’aspetto dell’abisso (esattamente quello che facevo, peraltro) e tra un sorso e l’altro di vino o caffè sorridevo triste e toccavo nel taschino della giacca il mio immaginario biglietto per l’oblio.

Tuttavia, quella sera piovosa di novembre, non mi sentivo tanto bene. Dalla pancia l’impressione di una nausea leggera sembrava segnalare l’imminente apparizione di un virus o di un’intossicazione alimentare. Immaginai che a rincarare la dose fossero anche i miei disturbi nervosi che, tra alti e bassi e in varie forme, non mancavano mai di manifestarsi in un’abbondanza di sintomi fisici o psichici. In effetti ero preda di un leggero panico, ma non per questo escludevo che la nausea avesse origini strettamente fisiche, virali o tossiche. Né escludevo la terza possibilità che tuttavia a quel punto della serata cercavo di non considerare. Quale che fosse l’eziologia del disturbo alla pancia, quella sera avevo bisogno di trovarmi in un luogo pubblico, così che se fossi svenuto – eventualità che temevo spesso – ci sarebbe stato qualcuno a prendersi cura di me o perlomeno a trasportare il mio corpo all’ospedale. Allo stesso tempo non cercavo alcun contatto ravvicinato con questa gente, e in ogni caso non sarei stato di compagnia, seduto nell’angolo del locale a bere tè alla menta e fumare sigarette leggere per non tormentare la mia pancia sofferente. Per tutte queste ragioni quella sera avevo portato con me il quaderno e lo tenevo aperto sul tavolo, come a dire che preferivo essere lasciato in pace a meditare su certe questioni letterarie. Ma quando attorno alle dieci entrò nel locale Stuart Quisser, l’immagine di me che seduto all’angolo con il quaderno aperto bevevo tè alla menta e fumavo sigarette leggere per tenere a bada la situazione della pancia malmessa non lo dissuase affatto dal proposito di sedersi al mio tavolo. Venne una cameriera. Quisser ordinò non so più quale vino bianco, io un’altra tazza di tè alla menta.

«Così adesso è tè alla menta» commentò Quisser mentre la ragazza se ne andava.
«Mi sorprende che tu ti faccia vedere da queste parti» feci io, a mo’ di risposta.
«Pensavo di provare a far pace con la vecchia Cremisi.»
«Fare pace? Non è da te.»
«Comunque sia, l’hai vista, stasera?»
«No. Alla festa l’hai umiliata. Da quella sera non l’ho più vista, neanche
nel suo locale. Non so se ne sei al corrente, ma è meglio non farsi nemica una come lei.»
«In che senso?»
«Nel senso che ha agganci di cui non sai assolutamente nulla.»
«Tu invece che ne sai. Guarda che li ho letti, i tuoi racconti.
Sei un paranoico dichiarato, parla chiaro e spiegati.»
«D’accordo, parlerò chiaro» dissi. «Voglio dire che se in ogni stretta di mano c’è un po’ d’inferno, figurarsi in un insulto sfacciato e umiliante.»
«E dai, avevo solo bevuto troppo.»
«Le hai dato dell’illusa senza talento
Quisser alzò lo sguardo verso la cameriera che veniva a portarci da bere, e con un cenno frettoloso mi intimò il silenzio. Quando la ragazza fu lontana, commentò: «Tra l’altro, mi dicono che la nostra cameriera è una fedelissima della Cremisi. Probabilissimo che vada a dirle che stasera sono qui. Chissà se è disposta a fare da intermediario con il suo capo e recapitare una richiesta di scuse per conto mio».
«Ma guarda in giro, alle pareti» dissi.
Quisser posò il bicchiere di vino e perlustrò il locale.
«Mmm» fece quando finì di guardare. «È più serio di quanto pensassi. Ha levato tutti i vecchi quadri. E quelli nuovi non sembrano per niente opera sua.»
«Non lo sono. L’hai umiliata
«Eppure dall’ultima volta sembra che abbia risistemato il palco. Ridipinto, o qualcosa del genere.»

Il cosiddetto palco di cui parlava Quisser era una pedana, all’altro capo del locale. La circondavano quattro lunghi pannelli decorati con sigilli d’oro e neri su uno sfondo rosso lucido. Il palco ospitava esibizioni assortite: reading di poesia, tableaux vivants, commediole di vario genere, spettacoli di marionette, proiezioni di diapositive artistiche, concerti e via dicendo. Quella sera, un martedì, il palco era buio. Non ci vidi nulla di diverso dal solito e domandai a Quisser che cosa gli sembrasse nuovo.

«Non so dirlo, ma sembra che gli abbiano fatto qualcosa. Forse sono gli ideogrammi neri e oro, qualunque cosa vogliano dire. Insomma, sembra la copertina di un menu del ristorante cinese.»
«Ti stai autocitando.»
«In che senso?»
«Il commento sul menu cinese. L’hai scritto nella recensione alla mostra
di Marsha Corker il mese scorso.»
«Davvero? Non ricordavo.»
«Dici per dire o davvero non ricordavi?» La mia voleva essere banale curiosità, visto che la pancia sottosopra sconsigliava di prendere posizioni troppo antagoniste.
«Va bene, me lo ricordo. A proposito, c’è una cosa di cui ti volevo parlare.
Mi è venuta in mente l’altro giorno e ho pensato subito a te e alla tua… roba» disse, indicando il quaderno aperto sul tavolo. «Non riesco a credere che non sia mai saltata fuori. Tu, poi, dovresti conoscerli. Pare che non ne sappia niente nessuno. Cose di vari anni fa, ma sei abbastanza vecchio da ricordarle. Devi ricordarle.»
«Ricordare cosa?» domandai, e dopo una brevissima pausa lui rispose:
«I luna park alle stazioni di rifornimento.»

La pronunciò come la battuta finale di una barzelletta, come chi è fiero di aver suscitato un’ilarità profonda e sorprendente. Avrei dovuto mostrarmi sorpreso ma anche dargli un cenno di intesa, questo lo sapevo. Non era fenomeno di cui fossi completamente all’oscuro, e la memoria gioca brutti scherzi. Questo, almeno, è ciò che risposi a Quisser. Ma mentre lui parlava dei suoi ricordi cercando di destare i miei, poco a poco colsi la vera natura e lo scopo dei cosiddetti luna park alle stazioni di rifornimento.
In quell’arco di tempo non potei fare altro per nascondere il male che pativo per colpa della pancia che bruciava e pulsava. Mi ripetevo, mentre Quisser parlava dei suoi ricordi dei luna park alle stazioni di rifornimento, che ad affliggermi era senz’altro l’insorgere di un virus, sempre che non fossi vittima di un’intossicazione alimentare. Quisser però era talmente preso dal suo racconto che non parve accorgersi della mia agonia.

Spiegò che i luna park alle stazioni di rifornimento erano ricordi della sua infanzia. La sua famiglia, cioè lui insieme ai suoi genitori, faceva lunghe vacanze in auto e spesso percorreva distanze lunghissime verso le destinazioni più svariate. Durante il tragitto era perciò naturale sostare in un certo numero di stazioni di rifornimento nei pressi di città o cittadine o in località più isolate e rurali. Là, spiegò Quisser, era più probabile imbattersi negli allestimenti ibridi che egli chiamava «luna park alle stazioni di rifornimento».

Quisser non pretendeva di sapere quando o come questi specializzati luna park, o forse queste specializzate stazioni di rifornimento, fossero venuti a nascere, né quanto fossero diffusi. Forse gliel’avrebbe potuto dire suo padre, che purtroppo era morto qualche anno prima; sua madre, invece, non era più in possesso delle proprie facoltà mentali avendo subito una serie di catastrofi psichiche non molto tempo dopo la morte del marito. Così, tutto ciò che restava a Quisser era il ricordo delle escursioni d’infanzia che lo portavano insieme a mamma e papà in qualche zona rurale, magari al crocevia di due autostrade (spesso, gli sembrava di ricordare, attorno al tramonto), e scoprire in questa località isolata una delle curiosità che definiva «luna park alle stazioni di rifornimento».

Erano immancabilmente stazioni di rifornimento, sottolineò, non stazioni di servizio ove fosse possibile effettuare riparazioni accurate di automobili o altri veicoli. All’epoca ci si trovavano al massimo quattro pompe di benzina, spesso soltanto due, e un modesto edificio che di solito aveva appiccicati addosso così tanti cartelloni e pubblicità da non far capire che cosa nascondessero. Quisser spiegò che da bambino prestava particolare attenzione ai cartelli pubblicitari del tabacco da masticare e che da adulto, divenuto critico d’arte, continuava a trovare molto attraenti le scatole di tabacco da masticare e non capiva perché nessun artista ne avesse ancora sfruttato le qualità immaginifiche e visive. Ebbi l’impressione, quella sera al Cabaret Cremisi, che la divagazione sul tabacco da masticare fosse un pretesto di Quisser per aggiungere credibilità alla sua storia. Questo dettaglio sembrava risultargli assai vivido. Ma quando gli domandai se ricordasse qualche marca particolare tra quelle reclamizzate alle stazioni di rifornimento con annesso luna park si mise un po’ più sulla difensiva, come se con le mie domande volessi contestare l’accuratezza dei suoi ricordi d’infanzia. Poi portò il discorso sulla questione che avevo sollevato sottolineando che l’aspetto luna park di questi luoghi non era esattamente annesso all’aspetto stazione di benzina, ma che l’uno non era mai troppo lontano dall’altro e che tra essi vi era senza dubbio un legame commerciale. La sua impressione, instillata in lui come il principio fondante di un sogno, era che un sostanzioso acquisto di carburante concedesse al guidatore e ai passeggeri di un veicolo il libero accesso al vicino luna park.

A questo punto della storia Quisser mi parve ansioso di spiegare che i luna park alle stazioni di benzina non erano nulla di sfarzoso: anzi, il contrario. Allestiti negli spazi vuoti a fianco o, talvolta, dietro le stazioni di rifornimento rurali, consistevano dei soli resti di veri luna park, dell’ossatura di scenari più grandi e ricchi. Di solito c’era un ingresso, un arco imponente pieno di luci colorate in contrasto innaturale con il vasto e spoglio paesaggio circostante, specie quando al tramonto, il momento in cui spesso o forse sempre Quisser e i suoi approdavano in una di queste remote località, l’illuminazione colorata dell’ingresso del luna park creava un effetto al contempo allegro e sinistro. Ma dopo che il visitatore giungeva nel vero e proprio spazio del luna park arrivava un momento di delusione di fronte all’armamentario di allestimenti che sembravano resti abbandonati, in un passato lontano, da un parco divertimenti itinerante.

Le attrazioni, spiegò Quisser, erano sempre poche e molto di rado funzionavano a dovere. Supponeva che fossero in buono stato all’epoca in cui le avevano installate come annesso alle stazioni di benzina, ma pure che quel periodo non fosse durato molto. Senza dubbio le attrazioni venivano chiuse ai primi segni di malfunzionamento. Quisser raccontò che non era mai riuscito a salirci, a parte la volta in cui suo padre gli diede il permesso di montare sul cavallo di legno di una giostrina defunta.
«Una giostra in miniatura» precisò, come se ciò desse alla rievocazione un’aura di significato o sostanza. Tutte le attrazioni, disse, erano in miniatura, versioni in scala ridotta di giostre o montagne russe che aveva visto e su cui era stato altrove. Accanto alla giostra in miniatura, che non si muoveva mai di un centimetro e restava sempre buia e silenziosa in un paesaggio rurale remoto, c’erano la ruota panoramica in miniatura (non più alta di una casa a un piano solo, precisò Quisser), e magari un autoscontro in miniatura o montagne russe in miniatura. Ed erano sempre tutti chiusi perché al primo segno di cattivo funzionamento, ammesso che fossero mai entrati in funzione, nessuno li riparava. Forse, pensava Quisser, considerati i componenti e i meccanismi miniaturizzati di queste attrazioni in miniatura, ripararle era impossibile.

Tuttavia fra le attrazioni ce n’era una piuttosto importante che ci si poteva aspettare quasi sempre aperta al pubblico o perlomeno a coloro i quali avevano riempito la propria auto del quantitativo minimo di benzina ed erano liberi di varcare la soglia illuminata sopra la quale le luci colorate, con il cielo vasto e ammaliatore del tramonto in una terra desolata rurale a fare da sfondo, componevano la scritta luna park. Quisser mi fece una domanda: come poteva un posto simile spacciarsi per luna park, o luna park da stazione di benzina, se non includeva la più vitale fra le attrazioni da luna park, ovvero i baracconi dove andavano in scena i numeri più strani? Forse, immaginò ad alta voce Quisser, esisteva una legge o ordinanza speciale che dava disposizioni precise, un qualche vecchio statuto ancora in vigore nelle zone isolate dove certe tradizioni hanno una persistenza che nei centri urbani sarebbe impensabile. Ciò spiegherebbe perché a meno di circostanze eccezionali (per esempio, condizioni meteorologiche cattive e pericolose) c’era sempre qualche tipo di baraccone ai luna park delle stazioni di benzina, anche se il resto delle attrazioni era buio e guasto.

Ovviamente questi baracconi, come li descriveva Quisser, non erano eccessivamente sofisticati, e questo per gli standard non solo di un comune luna park, ma anche di quelli che fungevano da attrattiva commerciale a una stazione di benzina fuori mano. Ogni sito possedeva una sola attrazione, che si presentava agli avventori sempre con la stessa immagine: un tendone, non molto grosso, di telo sporco e strappato. A un certo punto, sul perimetro del tendone, un lembo di tessuto aperto faceva da entrata a Quisser e ai suoi genitori, ma talvolta al solo Quisser. Sotto il tendone c’erano poche panche di legno infossate nella terra sporca e, a una certa distanza, un palchetto alto meno di trenta centimetri. A fornire l’illuminazione erano due banali lampade a stelo, ai lati del palco, sprovviste di paralume o altro genere di copertura; in tal modo i bulbi nudi gettavano all’interno del tendone luce forte e ombre spaventose. Quisser, parole sue, notava sempre i fili smangiati che serpeggiavano dalla base delle lampade e grazie a una serie di prolunghe trovavano infine una sorgente di elettricità presso la stazione di benzina, o meglio, all’interno del piccolo edificio di mattoni oscurato dalla selva di cartelloni che pubblicizzavano tabacco da masticare e altri prodotti.

Di solito, quando i visitatori del luna park alla stazione di benzina entravano nel tendone e prendevano posto su una panca davanti al palco, non ricevevano alcuna indicazione sulla natura dell’esibizione o dello spettacolo a cui stavano per assistere. Quisser sottolineò che non c’erano insegne o locandine a ragguagliare gli ospiti del luna park, né prima di entrare né dopo che si sedevano sulle vecchie panche di legno. Tuttavia, con una sola importante eccezione, ogni esibizione o spettacolo era grosso modo la stessa tiritera. Il pubblico si accomodava sulle panche di legno, la maggior parte delle quali stava per andare a pezzi o (come osservò Quisser) sprofondava nel terreno così storta che starci seduti era impossibile, e lo spettacolo cominciava.

I numeri cambiavano a seconda del baraccone e Quisser diceva di non rammentarli tutti. Si ricordava, però, quello del Ragno Umano. Un breve spettacolo in cui una persona con un costume buffo corricchiava da un lato all’altro del palco e ritorno, e usciva da una fenditura nel tendone alle sue spalle. La persona che indossava il costume, aggiunse Quisser, doveva essere l’uomo che faceva benzina, lavava i vetri e svolgeva altre varie mansioni alla stazione di rifornimento. Quisser ricordava che in tanti numeri da baraccone, come quello dell’Ipnotizzatore, la divisa da benzinaio (salopette unta grigia o azzurra) era ben visibile sotto i costumi di scena. Quisser confessò di non sapere con certezza perché avesse definito questo particolare numero «l’Ipnotizzatore», dal momento che l’esibizione non contemplava ipnotismo né ovviamente esistevano manifesti o locandine, fuori o dentro il tendone, che preparassero il pubblico a numeri di mesmerismo. Il teatrante non sfoggiava che un soprabito lungo e largo e una maschera di plastica, l’imitazione scarna e pallidissima di un volto umano, che tuttavia al posto degli occhi (o delle fessure per gli occhi) aveva due grossi dischi con disegnata una spirale. Per qualche momento l’Ipnotizzatore si rivolgeva al pubblico con gesti caotici, di sicuro perché aveva la vista oscurata dai dischi con le spirali, dopodiché arrancava fuori scena.

Quisser sosteneva di avere visto un gran numero di altri numeri da baraccone, tra i quali la Marionetta Ballerina, il Verme, il Gobbo e Dottor Dita. Con una sola importante eccezione, la routine era sempre la stessa: Quisser e i suoi entravano nel tendone e occupavano una panca marcia, e dopo pochi istanti l’artista faceva la sua breve comparsa sul palchetto illuminato da due banali lampade a stelo. L’unica deviazione dalla routine era il numero che Quisser chiamò «Lo Showman».

Laddove gli altri numeri da baraccone cominciavano e finivano dopo che Quisser e i suoi erano entrati nel tendone speciale e si erano seduti, quello del cosiddetto Showman sembrava sempre in corso. Non appena Quisser entrava nella tenda – precedeva sempre i genitori, disse – ne vedeva la figura che immobile e ritta al centro del palco dava le spalle al pubblico. Per qualche motivo non c’erano mai altri avventori quando al tramonto Quisser e i suoi si fermavano a far visita a uno di questi luna park alle stazioni di benzina – con le loro attrazioni difettose, di seconda mano – e infine raggiungevano la tenda dei numeri da baraccone. Questa situazione non sembrava strana né inquietante al piccolo Quisser, se non quando entrava nel tendone e vedeva sul palco lo Showman con la schiena rivolta alle poche file di panche vuote che sembravano pronte a spezzarsi non appena qualcuno vi ci fosse seduto. Ogni volta che Quisser si trovava di fronte a questa scena desiderava di girare subito i tacchi e andarsene. Ma in quel momento arrivavano i suoi, di corsa, diceva, e in un attimo eccoli seduti tutti e tre su una panca in prima fila a guardare lo Showman. Quisser ripeté diverse volte che i suoi genitori non colsero mai il terrore che aveva lui di questo particolare artista da baraccone. E dire che le visite ai luna park delle stazioni di benzina, in particolare ai baracconi, avvenivano per dare un po’ di svago a Quisser; suo padre e sua madre avrebbero preferito limitarsi a fare il pieno all’auto di famiglia e ripartire per la prossima tappa della vacanza.

Quisser insinuò che ai suoi genitori piaceva guardarlo assistere terrorizzato all’esibizione dello Showman, finché non chiedeva, esasperato, di tornare sull’auto. Al tempo stesso la vista di questo personaggio da baraccone, diverso da tutti quelli che ricordava, lo lasciava di sasso. Era lì, raccontò Quisser, di spalle al pubblico con un vecchio cilindro in testa e un mantello che sfiorava il palco sporco. Da sotto il cilindro dello Showman spuntavano ciocche di capelli rossi stoppose e lunghe che, parola di Quisser, somigliavano a una specie di nido di nauseanti parassiti. Quando misi volontariamente alla prova la memoria e l’immaginazione di Quisser domandandogli se i capelli non fossero in realtà una parrucca, mi guardò con disprezzo, come a sottolineare che i capelli rossi stopposi non li avevo visti io; lui li aveva osservati sotto il vecchio cappello a cilindro dello Showman. Gli unici altri dettagli visibili al pubblico, aggiunse, erano le dita dello Showman strette agli orli del mantello. Gli sembravano deformi, dita che si arricciavano in piccoli artigli di un color verdastro pallido. A sentire Quisser la posizione calcolatissima dell’uomo lasciava intendere che prima o poi, con un’improvvisa piroetta, egli si sarebbe rivolto al pubblico, sollevando all’altezza dei capelli rossi stopposi le dita schifose strette al mantello. Ma era sempre immobile. A volte Quisser aveva l’impressione che lo Showman spostasse la testa leggermente a sinistra o a destra, minacciando di rivelare un lato o l’altro della faccia in un orribile cucù! Alla lunga, però, Quisser concluse che si trattava di movimenti illusori e che lo Showman manteneva sempre un’immobilità perfetta, un manichino da incubo che con l’astensione totale da ogni gesto evoca ogni genere di fantasticheria.

«Nient’altro che un odioso raggiro» concluse Quisser, e fece una pausa per finire il bicchiere di vino. «E se si fosse voltato?» domandai. Mentre attendevo la risposta sorseggiai il mio tè alla menta, che non sembrava granché utile contro la nausea che pure, al contempo, non peggiorava. Accesi una delle sigarette leggere che per l’occasione fumavo. «Hai sentito?» ripetei a Quisser, che guardava verso il palco all’altro capo del Cabaret Cremisi. «Il palco è lo stesso» dissi a Quisser con una certa asprezza, attirandomi gli sguardi di gente seduta agli altri tavoli del locale. «I pannelli sono gli stessi e i disegni sono gli stessi.»
Quisser giocherellava nervoso con il calice vuoto.
«Quand’ero giovanissimo» disse, «in certe occasioni vedevo lo Showman, ma fuori dal suo habitat naturale, per così dire, del tendone.»
«Credo di averne sentite abbastanza, per stasera» lo interruppi, portandomi una mano alla pancia dolorante.
«Ma cosa dici?» chiese Quisser. «Te li ricordi, no? I luna park alle stazioni di benzina. Magari è solo un ricordo vago. Ero certo che almeno tu ne sapessi qualcosa.»
«Credo di poter dire» risposi a Quisser «che dei luna park alle stazioni
di benzina mi hai raccontato quanto basta a chiarirne il senso.»
«Ma quale “senso”, cosa dici?» domandò Quisser, lo sguardo ancora rivolto al palchetto in fondo alla sala.
«Be’, tanto per cominciare, i tuoi recenti ricordi, i tuoi presunti ricordi dello Showman. Stavi per dirmi che da bambino l’hai visto più volte, in diversi luoghi e occasioni. Magari da lontano, dal cortile di una scuola, di spalle. O dall’altra parte di una strada affollata, e quando l’hai attraversata lui non c’era più.»
«Qualcosa del genere, sì.»
«E stavi per dirmi che in seguito hai visto questa figura o le vaghe tracce
di questa figura riflesse e distorte nelle vetrine lungo il marciapiede, apparizioni fugaci nello specchietto retrovisore della tua auto.»
«Somiglia tantissimo a una delle tue storie.»
«Per certi versi sì» risposi, «e per certi versi no. Tu hai paura che se mai,
per caso, vedessi lo Showman voltarsi verso di te… ti capiterebbe qualcosa di terribile, molto probabilmente periresti all’istante ucciso da una sorta di monumentale shock.»
«Sì» fece Quisser. «Da un orrore insostenibile. Ma non ti ho raccontato la parte più strana. Hai ragione, ultimamente mi è parso di scorgere… quella figura, e l’ho vista da bambino, cioè, anche fuori dalla tenda e dal luna park. Ma la parte più strana è che ricordo di avere visto lo Showman altrove anche prima di incontrarlo tra i baracconi di luna park alle stazioni di benzina.»
«È qui che volevo arrivare» dissi.
«Dove?»
«A dirti che i luna park alle stazioni di benzina non esistono. Non ci sono mai stati, i luna park alle stazioni di benzina. Nessuno li ricorda perché non sono mai esistiti. È un’idea campata per aria.»
«Ma c’erano anche i miei genitori.»
«Esatto: tuo padre, morto, e tua madre, mentalmente disabile. Ricordi di aver mai parlato con loro delle tue esperienze vacanziere presso queste stazioni di benzina speciali, con annessi quei fantomatici luna park?»
«No.»
«Perché non ci siete mai andati. Pensa a quanto suona ridicolo. Stazioni di rifornimento in mezzo al nulla, che attirano clienti con la promessa di un ingresso gratuito a luna park in sfacelo: che roba ridicola. Attrazioni in miniatura? Benzinai che fanno numeri da baraccone?»«Non lo Showman» mi interruppe Quisser. «Lui non era il benzinaio travestito, mai.»
«No, certo che non era il benzinaio, perché era un’illusione. Tutta quanta è una scandalosa illusione, ma anche un genere molto particolare di illusione.»
«E quale genere di illusione?» domandò Quisser, che ancora lanciava occhiate verso il palco, dall’altra parte del Cabaret Cremisi.
«Non una comune illusione psicologica, se pensavi che stessi per dirlo. Non mi interessa per niente, quella roba. Mi interessa parecchio, invece, quando qualcuno è afflitto da illusioni magiche. Anzi, per la precisione, mi interessano le illusioni prodotte dalla magia-arte. E sai da quanto tempo subisci l’influenza di questa illusione magico-artistica?»
«Non ti seguo.»
«Semplice» dissi. «Da quanto tempo immagini queste insensatezze di luna park alle stazioni di benzina e, in particolare, questo personaggio che chiami Showman?»
«Penso che non avrebbe senso, a questo punto, ribadire che lo vedo da quand’ero bambino, anche se è esattamente come sembra ed è esattamente ciò che ricordo.»
«Certo che non avrebbe senso, perché senza dubbio stai delirando.»
«Ah, io starei delirando riguardo allo Showman, tu no riguardo a… com’è che l’hai chiamata?»
«Magia-arte. Perché da quando sei caduto vittima di questa particolare magia-arte hai cominciato a farneticare dei luna park alle stazioni di benzina e dei fenomeni che li accompagnano.»
«E da quando, di preciso?»
«Da quando hai umiliato la Cremisi dandole dell’illusa senza talento. Te l’ho detto, quella ha agganci di cui non puoi sapere assolutamente nulla.»
«Ma ti parlo di un ricordo d’infanzia che porto con me da sempre. Non da qualche giorno, come dici tu.»
«Invece sì, perché da qualche giorno hai preso a delirare. Forse non ti sei accorto che con la sua magia-arte ti ha inflitto l’illusione della peggior specie, che potremmo definire illusione retroattiva. E non sei l’unico ad averla patita, negli ultimi giorni, settimane o addirittura mesi. Da tempo tutti, da queste parti, sentono incombere la minaccia di questa magia-arte. Io stesso comincio a temere di averla smascherata con troppo, troppo ritardo. Tu sai com’è soffrire di illusioni di tipo retroattivo, ma sai com’è ritrovarsi vittima di un violento mal di pancia? Me ne sono stato qui, nel locale della Cremisi, a bere tè alla menta servito da una cameriera che è amica della Cremisi, convinto che potesse farmi bene alla pancia, ma può tranquillamente darsi che questa bevanda peggiori i miei disturbi o li trasformi in qualcosa di più serio e strano. E comunque, la Cremisi non è l’unica a praticare la magia-arte. Succede ovunque, da queste parti. Il vento l’ha soffiata qui, imprevista come nebbia in mare aperto, e tanti di noi ci si stanno perdendo. Guarda le facce in questa sala e dimmi se sei tu l’unica vittima di un’orribile magia-arte. La Cremisi avrà qualche avversario, ma pure alleati potenti. Come faccio a spiegarti con esattezza chi sono… un gruppo specializzato in magia-arte, senza dubbio, ma non posso limitarmi a dire, con frivola sicurezza: “Sì, dev’essere una gang di illuminati”, o di scienziati esoterici, come da qualche tempo in tanti hanno preso ad autodefinirsi.»
«Ma somiglia davvero a una storia delle tue» protestò Quisser.
«Certo, e non credi che lo sappia anche lei? Ma non sono io quello che va raccontando la fola grottesca dei luna park alle stazioni di benzina e del palco sotto il tendone non dissimile dal palco che sta in fondo a questo salone. Non riesci a levargli gli occhi di dosso, lo vedo bene, e lo vedono anche gli altri. So che cosa credi di vedere, laggiù.»
«Sempre che tu sappia di che cosa stai parlando» rispose Quisser, che ora si sforzava di distogliere lo sguardo dal palco all’altro capo della sala, «come faccio, io, adesso?»
«Puoi cominciare smettendo di fissare il palco. Non c’è niente da vedere, se non l’ennesima illusione di magia-arte. Non c’è nulla che sia necessariamente fatale o duraturo in questa sofferenza. Ma devi credere che guarirai, come ci crederesti se fossi vittima di una malattia non fatale. Altrimenti rischi che le illusioni si trasformino in qualcosa di più letale, a livello fisico, psichico, o entrambi. Ascolta il consiglio di uno che si diletta in storie di destini tragici e straordinari, e sta’ lontano da questa follia. Il mondo è strapieno di fatalità banali. Trovati un posto tranquillo e aspetta che sia una di esse a portarti via.»

Ora, finalmente, vedevo l’intensa convinzione espressa nelle mie parole fare qualche effetto su Quisser. Il suo sguardo non sfiorava più il piccolo palco dall’altra parte della sala ma puntava dritto su di me. La verità riguardo alle sue illusioni continuava in qualche modo a sconvolgerlo, ma sembrava decisamente più tranquillo. Accesi un’altra sigaretta leggera e mi guardai intorno senza cercare qualcosa o qualcuno in particolare, limitandomi a sondare l’atmosfera. Il fumo di tabacco che saliva nel locale era molto più denso, la luce ambrata aveva sfumature assai più cupe, e la pioggia con il suo rumore continuava a tormentare le finestre ridipinte di nero del Cabaret Cremisi. Rieccomi nella cabina della vecchia nave sconquassata da una tremenda tempesta in mare aperto, priva di sostegno e seriamente minacciata da forze incontrollabili. Quisser si alzò per andare al gabinetto e la sua sagoma attraversò il mio campo visivo come un’ombra nella nebbia densa.

Non ho idea di quanto tempo stette via Quisser. Mi concentrai assorto sulle altre facce nel locale e sull’ansia profonda che rivelavano, ansia non di tipo naturale, esistenziale, ma nata da preoccupazioni specifiche di natura misteriosa. Quale epoca incombe ora su di noi, sembravano dire. E senza dubbio le loro voci avrebbero parlato chiaro di certe preoccupazioni, se non fossero state ridotte a strambi malintesi e doppi sensi dalla paura di patire la medesima innaturale sofferenza che tanto aveva nuociuto alla mente del critico d’arte Stuart Quisser. A chi stava per toccare? Cosa si poteva dire ormai, o pensare, senza sentirsi minacciati dalla vendetta di gruppi e individui dagli agganci e dai legami potenti? Quasi riuscivo a sentire le loro voci che dicevano: «Perché qui, perché ora?»; ovviamente con altrettanta facilità avrebbero potuto chiedersi: «Perché non qui, perché non ora?». Non sospettava, questa gente, che non ci fossero norme speciali in vigore; non sospettavano, questi artisti fantasiosi, che fosse una pura e semplice questione di terrore cieco e indistinto che converge su un luogo preciso in un momento preciso senza alcun motivo preciso. D’altro canto, nemmeno sospettavano di essere stati loro stessi a evocare certe forze e legami potenti; di avere contribuito a portarli nel nostro distretto semplicemente desiderando che vi giungessero. Potrebbero aver tanto desiderato che qualcosa di maligno e innaturale si avventasse su di loro, ma per un po’ nulla era accaduto. Poi avevano cessato di desiderare e dimenticato i desideri che tuttavia, al contempo, avevano acquistato nuova forza e si erano distillati in una formula potente (chi può dirlo!) finché, un giorno, non era cominciata l’epoca terribile. Perché se davvero avesse detto la verità, forse questa cricca di artisti avrebbe espresso quale nuovo significato (quantunque negativo), per non dire di quale vigoroso brivido (quantunque straziante), quest’epoca di innaturale malvagità aveva portato alle loro vite. Che cosa significa essere vivi se non corteggiare ogni attimo il disastro e la sofferenza? Per ogni svago, per ogni brivido che la nostra natura di generati esige da questo mondo-luna park, anche a costo dell’apocalisse, ci sono rischi da correre. Nessuno è al sicuro, neanche gli artisti-maghi o gli scienziati esoterici, che sono i più illusi perché i più disposti a lasciarsi tentare da divertimenti di genere misterioso e innaturale, armeggiando da buoni artisti o scienziati con il caos intrinseco delle cose. Mentre guardavo le facce del Cabaret Cremisi e facevo i miei pensieri su quelle facce, un’ombra riattraversò il mio annebbiato campo visivo. Immaginavo di scoprire che l’ombra fosse Quisser, mio compagno di tavolo per quella sera, di ritorno dal viaggio al gabinetto, invece mi ritrovai davanti la cameriera che Quisser aveva detto essere fedele alla Cremisi. Mi domandò se volessi ordinare l’ennesima tazza di tè alla menta, e disse proprio così, l’ennesima tazza di tè alla menta. Cercai di non lasciarmi innervosire dal suo tono bizzarro e sarcastico, per non peggiorare l’attacco di nausea, e risposi che stavo per andarmene. Poi aggiunsi che forse il mio amico gradiva l’ennesimo bicchiere di vino indicando, di fronte a me, il calice vuoto lasciato da Quisser quando si era alzato per andare al gabinetto. Ma non c’era nessun calice di vino dall’altra parte del tavolo; c’era soltanto la mia tazza vuota di tè alla menta. Subito accusai la cameriera di aver portato via il calice, mentre mi ero lasciato distrarre dal sogno a occhi aperti sulle facce del Cabaret Cremisi. Ma lei negò di aver servito vino al mio tavolo e aggiunse che mi aveva visto solo dal momento in cui ero entrato nel locale e mi ero seduto al tavolo, sull’altro lato rispetto al palco. Dopo una scrupolosa ricerca al gabinetto tornai e tentai di trovare qualcun altro che, nel locale, avesse visto il critico d’arte Quisser parlare a lungo con me dei suoi luna park alle stazioni di benzina. Ma tutti dissero che non avevano visto nessuno.

Nemmeno Quisser, quando il giorno dopo lo rintracciai in un buco di galleria d’arte, sosteneva di avermi visto. Disse che quella sera l’aveva trascorsa da solo, a casa, per via di una certa indisposizione – un germe, disse – da cui si era ripreso. Quando gli diedi del bugiardo mi affrontò a muso duro, al centro di quel buco di galleria d’arte, e con un sussurro nervoso mi disse di «badare a quel che dicevo». Continuavo a spararle grosse, aggiunse, e in futuro avrei fatto meglio a usare più riserbo in ciò che dicevo e nella scelta delle persone a cui lo dicevo. Poi mi domandò se davvero avessi creduto saggio, durante una festa, aprire bocca per dare a una persona dell’illusa senza talento. C’era gente, disse, che aveva agganci e legami potenti, e io, più di chiunque altro, avrei dovuto rendermene conto, considerata la mia consapevolezza di certe cose e il modo in cui la esibivo nelle storie che scrivevo.
«Non che io sia in disaccordo con il tuo parere riguardo a tu sai chi» disse. «Ma avrei evitato di essere tanto esplicito. L’hai umiliata. E di questi tempi una cosa del genere rischia di essere pericolosissima, non so se hai colto.

Certo che avevo colto; soltanto non capivo perché certe cose le stesse dicendo lui a me e non io a lui. Non bastava, pensai in seguito, che patissi quel tremendo disturbo alla pancia? Dovevo sopportare anche il fardello di un’illusione altrui? Anche questa spiegazione, tuttavia, fu demolita da un’ulteriore indagine. Riguardo alla sera della festa proliferò tra le mie conoscenze e i miei sodali una ridda di storie riguardo a chi esattamente avesse pronunciato l’offesa umiliante e chi fosse di preciso la parte lesa. «Perché a me?» mi domandò la Cremisi quando le portai le mie più sentite scuse. «Quasi neanche ti conosco. E poi ho già abbastanza problemi. Quella stronza di cameriera mi ha tirato giù i quadri e al loro posto ci ha messo i suoi.»

Ciascuno di noi aveva problemi, sembrava, le cui origini erano irrintracciabili; problemi che si incrociavano come la traiettoria delle infinite gocce di pioggia di una tempesta che si fondono a creare una nebbia di illusione e contro-illusione. Della presenza attiva di forze e legami potenti non si poteva dubitare, ma sembravano senza faccia e senza nome, era un’impresa capire cos’avessimo fatto noi – una combriccola di illusi senza talento – per offenderle. Eravamo stati trascinati in un’epoca di magia disgustosa dalla quale niente ci offriva scampo. Sempre più spesso mi ritrovavo a rimuginare su quei ricordi di luna park alle stazioni di benzina, a cercare una risposta nel crepuscolo di campagne isolate dove giostre e ruote panoramiche in miniatura giacevano rotte in un paesaggio desolato.

Ma qui non c’è nessuno che presti orecchio alle mie umilissime scuse, nemmeno lo Showman che potrebbe trovarsi dietro qualsiasi porta (anche oltre la soglia del gabinetto, al Cabaret Cremisi). E qualunque stanza mi veda entrare può trasformarsi nel tendone al cui riparo io mi siedo, su una panca vecchia e traballante che sta per andare a pezzi. Lo vedo, adesso, lo Showman di fronte a me. I capelli rossi stopposi si avvicinano appena a una spalla, come se finalmente intendesse rivolgermi il suo sguardo, ma tornano indietro; la testa si muove appena verso l’altra spalla in questo interminabile e orribile gioco a fare cucù. E io non posso che aspettare, conscio che un giorno egli si volterà, scenderà dal palco e mi restituirà all’abisso che da sempre temo. Forse allora scoprirò che cosa ho fatto – cosa tutti noi abbiamo fatto – per meritare questo destino.

© 2015, Thomas Ligotti

ARTICOLO n. 10 / 2022

CINQUE MINUTI

Sono morto per cinque minuti, ha detto Christian Eriksen. Il calciatore danese si riferiva al malore avuto il 12 giugno 2021, al 43esimo minuto del primo tempo, durante Danimarca-Finlandia, valevole per gli Europei. Eriksen pare che soffrisse – e soffra – di un problema cardiaco dovuto a una predisposizione genetica, una cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro. Ora vive con un defibrillatore sottocutaneo, ma poiché il problema è ereditario, l’arresto cardiaco potrebbe capitare nella normale vita quotidiana, mentre Eriksen apre il frigorifero o cammina su un marciapiede. Ma, soprattutto, potrebbe accadere ancora poiché il calciatore ha deciso di riprendere l’attività agonistica. 

Nato a Middelfart nel 1992, ha iniziato a giocare nella locale squadra di calcio, si è trasferito all’Odense e poi in Olanda, nelle giovanili dell’Ajax: proprio ad Amsterdam ha intrapreso la sua carriera professionistica, prima di essere ceduto, ventunenne, al Tottenham. Ha giocato per sette stagioni nel campionato inglese, eccellendo in due statistiche: assist e gol da fuori area. 

Al momento del malore, Eriksen era un tesserato dell’Inter. E tuttavia, al suo arrivo nel campionato italiano (gennaio 2020, a metà della stagione 2019/2020), il calciatore danese ha attraversato numerose difficoltà e subìto umiliazioni prima di diventare uno dei protagonisti dello scudetto 2020/2021.

L’Inter ha acquistato Eriksen per assicurare all’allenatore Antonio Conte un giocatore di qualità a centrocampo. Ma a qualcuno interessa la qualità? Eriksen è – forse sarebbe meglio dire era, dopo l’arresto cardiaco è plausibile che non riesca più a esprimersi al livello degli anni precedenti – un giocatore capace di calciare con entrambi i piedi, senza perdere precisione o potenza; dava il meglio di sé agendo in posizione avanzata, in modo da servire passaggi geniali agli attaccanti o ai compagni di squadra che sopraggiungevano alle sue spalle. 

E invece, all’Inter, Eriksen è stato relegato in panchina per quasi un anno. Capitava che Conte gli dicesse, preparati per entrare. Eriksen si scaldava lungo la linea laterale: corsetta, scatti, esercizi, lo sguardo rivolto al rettangolo di gioco, a immaginare se stesso all’interno dell’azione; poi entrava a due minuti dalla fine, a risultato acquisito. Parecchi giocatori meno forti di lui, dopo umiliazioni di quel genere si sarebbero rifiutati di entrare in campo, avrebbero detto, grazie, preferisco la panchina. Eriksen con grande professionalità, ha sempre obbedito all’allenatore e giocato i pochi secondi concessi. In quelle circostanze, usciva dal campo con la maglia e i pantaloncini come nuovi. Quando andava bene, toccava un paio di palloni ininfluenti e la partita terminava. 

Giornalisti sportivi, commentatori, ex calciatori divenuti opinionisti affermavano che Eriksen fosse un acquisto sbagliato. È lento, dicevano, compassato. L’amministratore delegato dell’Inter, Giuseppe Marotta, lo ha definito, nel dicembre 2020, «non funzionale» al gioco della squadra. Quello di Marotta era un invito esplicito ai dirigenti di altre squadre affinché acquistassero il cartellino del giocatore danese. Un invito poco lungimirante che avrebbe deprezzato il valore del cartellino. Ma nessuno ha voluto investire su Eriksen, nemmeno acquisirlo in prestito, per sei mesi, e così il calciatore è rimasto a Milano.

Il 26 gennaio 2021, Eriksen è entrato a due minuti dalla fine sul punteggio di 1 a 1, stavolta durante l’incontro di Coppa Italia contro il Milan. Ha segnato, nei minuti di recupero, il gol della vittoria su punizione, calciando una parabola perfetta terminata all’incrocio dei pali. Da allora è diventato titolare, fondamentale per lo scudetto 2020/2021 e sarebbe stato – a maggior ragione con Simone Inzaghi, nuovo allenatore dell’Inter – uno dei protagonisti della squadra. Ma ha avuto un arresto cardiaco il 12 giugno 2021. Dopo alcuni mesi di convalescenza, ha chiesto la rescissione consensuale del contratto con l’Inter. Infatti, secondo le regole del calcio italiano, chi ha un defibrillatore sottocutaneo impiantato nel torace non ha l’idoneità sportiva per giocare in Serie A o nei campionati minori. Altre nazioni, in casi come questi, sono tolleranti al limite dell’irresponsabilità, e così Eriksen giocherà, per sei mesi, nel campionato inglese, in una squadra londinese di bassa classifica: il Brentford. Poi si vedrà.

Ma il tema qui è un altro. Come può, un giocatore considerato lento, compassato, inadatto, non funzionale al calcio italiano e per questo motivo umiliato, ecco, come può aver giocato per sette anni nel campionato di calcio inglese, noto per la competitività e il ritmo forsennato? Perché Eriksen, un calciatore generoso, altruista, intelligente, di qualità, era considerato lento e inadeguato? Quale è la percezione della velocità e della lentezza, in Italia? Qual è la percezione della qualità, in Italia, non solo in ambito calcistico?

Il calcio è uno sport spesso ingiusto e sempre diseguale. Alcune squadre giocano molti più minuti rispetto ad altre. Cinque anni fa, per esempio, la Fiorentina era la squadra che giocava più minuti reali: 55 su 95 in media. Il Torino, invece, era la squadra che giocava meno minuti reali: 47 su 95. Dove finivano i 40 minuti non giocati dalla Fiorentina? Dove finivano i 48 minuti non giocati dal Torino? Dove finivano gli 8 minuti di differenza tra Fiorentina e Torino? Cosa si può fare in 8 minuti? A volte, moltissimo. Nel caso di Eriksen, segnare un gol all’incrocio nel derby, oppure avere un attacco cardiaco, morire per cinque minuti e riprendersi nei successivi tre.

Non c’è niente di meglio della Serie A per assistere allo spettacolo della perdita di tempo. I detentori dei diritti televisivi non dovrebbero mostrare gol sottolineati dalla musica percussiva ma, nel silenzio, giocatori a terra che fingono infortuni accompagnati da slogan di questo tipo: sei pronto a perdere tempo guardando il grande spettacolo della perdita di tempo? 

Da alcuni anni, quando guardo un incontro di calcio di Serie A, amo osservare lo sviluppo delle azioni, certo, ma amo guardare, non di meno, i modi in cui i raccattapalle perdono tempo, i modi in cui i calciatori perdono tempo, i modi in cui gli allenatori perdono tempo, i modi in cui gli arbitri non recuperano tempo, avallando così le perdite di tempo complessive di un sistema che invece fa della falsa frenesia un valore. 

Basterebbe introdurre il tempo effettivo, come nel basket. Ma così finirebbe l’aleatorietà del calcio e in particolare del calcio italiano, e finirebbe parte del potere arbitrale e, soprattutto, la gigantesca perdita di tempo. 

In media, un arbitro del campionato italiano recupera al massimo 2 minuti nel primo tempo e 5 minuti nel secondo. Quindi, se va bene, un arbitro italiano di Serie A recupera 7 minuti. Se un arbitro volesse recuperare 40 minuti, ovvero il tempo perso, sarebbe radiato dall’Associazione Italiana Arbitri. Eppure questo sistema, basato su una spaventosa messinscena, ha definito Eriksen lento, inadatto, non funzionale.

Nel calcio italiano ti insegnano a gestire il tempo fin da bambino. I raccattapalle, per esempio, in Serie A hanno in media quattordici anni, giocano e sognano, molto spesso, di diventare calciatori professionisti. Appartengono alle categorie giovanili della squadra ospitante o a società satelliti, affiliate alla squadra di Serie A che ospita la partita. Da quando in ogni incontro si utilizzano almeno un paio di palloni – per ridurre, in teoria, le solite perdite di tempo -, la funzione dei raccattapalle è diventata ancora più significativa. 

Ecco le prime cose che i dirigenti ripetono a un raccattapalle prima della partita.

Se perdiamo o siamo in parità, tieni sempre il pallone tra le mani, in modo da passarglielo subito al nostro calciatore quando rimette la palla in gioco; se vinciamo, non tenere mai il pallone tra le mani, lascialo dietro i cartelloni pubblicitari e fa’ con calma, anzi, non passare il pallone al calciatore avversario, così lui deve scavalcare il cartellone pubblicitario e recuperare il pallone. 

Questa strategia ritarda l’azione di alcuni secondi, secondi che finiscono nella grande discarica di tempo che è ogni partita del campionato italiano di Serie A.

È bello guardare tutta questa simulazione.

Fingere di subire un fallo.

Subire un fallo, accentuare l’esito del colpo, urlare, cadere a terra toccandosi la caviglia e lamentarsi stringendo, a causa del dolore, il malleolo; quasi piagnucolare a occhi chiusi, sbirciare schiudendo un occhio, per vedere se l’arbitro, oltre ad aver fischiato il fallo, ha pure ammonito il giocatore avversario; attendere l’entrata in campo del medico, del massaggiatore, bramare la bomboletta di ghiaccio spray pronto all’uso quasi fosse un medicinale salvavita, fissare la nuvoletta del ghiaccio spray e poi rialzarsi come un reduce, sbattere la suola sul terreno, fingere di zoppicare per alcuni secondi e, infine, riprendere a correre come se nulla fosse accaduto.

Battere la rimessa del fallo laterale ma, prima, chiedere un paio di volte all’arbitro se quella è la posizione giusta per ricominciare l’azione. In questo modo, non soltanto si perdono alcuni secondi: si gratifica l’ego dell’arbitro. 

Recuperare il pallone, se si è in vantaggio, mimando una specie di corsa da fermo, come sul tapis roulant.

Impossessarsi del pallone, battere la rimessa laterale al posto dell’avversario e poi, fingendo di non aver capito, scusarsi con l’arbitro, per evitare l’ammonizione.

Frapporsi fra l’avversario e il pallone prima di un calcio di punizione.

Afferrare il pallone, farselo cadere dalle mani sulla punta delle scarpe, in modo che il pallone rotoli a tre metri, e recuperarlo con calma.

Sistemare il parastinchi prima di calciare una punizione o un calcio d’angolo.

Rallentare ogni minimo gesto.

Le parole invecchiano e infine muoiono proprio come noi. 

Manfrina è la parola che identificava, fino a pochi decenni fa, una patetica perdita di tempo in ambito calcistico: finti infortuni o ripetute ostentazioni di falso zelo, come la corsa da fermo per recuperare il pallone. Manfrina, parola coniata nel XIX secolo, è una danza piemontese, del Monferrato, diffusasi poi, in diverse varianti, in altre regioni. Forse, se la parola manfrina non fosse stata utilizzata nel linguaggio calcistico, avrebbe avuto una vita più lunga.

Viviamo quest’epoca basata sulla perdita di tempo, sulla dissoluzione del confine tra lavoro e svago. Mi è capitato di guardare una partita in compagnia e constatare la propensione, nei più giovani ma non solo, ad alternare la visione della partita allo smartphone, ai social.

Le tecnologie introdotte per limitare gli errori e il potere decisionale dell’arbitro e dei guardialinee, hanno apportato qualche miglioramento, ma bisogna ricordare che la consultazione della tecnologia comporta un investimento di tempo. Rivedere un caso controverso al video implica fermare il gioco per almeno un paio di minuti; aggiungiamo tutto il resto, e si conferma la voragine di tempo smarrito a ogni partita.

Quando Eriksen, umiliato, entrava a due minuti dalla fine, giocava quei pochi secondi comprensivi del recupero. Ma poiché anche durante i tre, quattro, cinque minuti di recupero si perde tempo, ecco che il tempo effettivo giocato da Eriksen si limitava davvero a pochi istanti. 

Ogni tanto riguardo un’azione in cui Eriksen non segna e nemmeno fa un vero e proprio assist. Risale al breve periodo in cui Eriksen ha giocato con continuità nell’Inter. È un’azione, quattro mesi prima del malore, in cui risplende la sua intelligenza calcistica grazie alla quale l’Inter ha segnato il secondo gol, al 57esimo minuto di Milan-Inter, il 21 febbraio 2021. 

La partita è finita con la vittoria dell’Inter per 3 a 0.

Lukaku, a metà campo, defilato sulla destra, spalle alla porta, circondato da due milanisti, attende l’inserimento di Hakimi. Hakimi resiste a una carica e, grazie alla sua velocità, salta i difensori e passa il pallone, in orizzontale, a Eriksen. Eriksen, infatti, segue l’azione, è in posizione centrale, tra la metà campo e il limite dell’area milanista. È in piena corsa quando riceve il pallone che ballonzola: lo stoppa con il sinistro, mandandolo in avanti e arriva al limite dall’area di rigore, un po’ defilato sulla sinistra. Un giocatore egoista, da quella posizione, tira in porta. Un giocatore altruista, da quella posizione, passa il pallone, nella fattispecie, a Lautaro Martinez, che si è smarcato sulla sinistra. Eriksen invece attende, suggerisce a Lautaro Martinez di posizionarsi al centro dell’area; l’attaccante argentino non capisce subito le intenzioni del compagno, allora Eriksen si prende il tempo necessario – alcuni decimi di secondo – affinché Lautaro Martinez comprenda l’idea, e affinché Perisic, che arriva di corsa da dietro, possa inserirsi sulla fascia sinistra. A questo punto, Eriksen serve una palla precisa, rasoterra, tra il difensore milanista che cura Lautaro Martinez e Lautaro Martinez che è in movimento e sta andando in mezzo all’area di rigore.

Il pallone finisce a Perisic che, sopraggiunto di corsa, serve un assist rasoterra a Lautaro Martinez che, da cinque metri, segna.

Da quando Lukaku tocca il pallone a quando Lautaro Martinez segna, passano 9 secondi. Eriksen tocca il pallone per poco più di 2 secondi, comprensivi del suggerimento non recepito da Lautaro Martinez.

A proposito di questa azione, mi è capitato di sentire, da alcuni giornalisti sportivi: Eriksen arriva al limite dell’area, è indeciso, non sa cosa fare, e passa a Perisic. L’ottusità davanti alla bellezza è impressionante. Del resto, sempre più persone si annoiano e non comprendono un’azione calcistica basata sul fraseggio, o un tipo di scrittura che privilegia l’indugio, il tempo giusto per aprire un varco e arrivare, quanto più possibile, alla frase esatta.

Non a caso, secondo la maggioranza dei giornalisti sportivi o dei commentatori il calcio è la somma di locuzioni alla moda – attaccare lo spazio, attaccare la profondità – sostituibili dai prossimi tic verbali.

Eriksen, in quell’azione, crea lo spazio, e questo grazie al suo lucido, intenzionale tergiversare per pochi istanti, un tergiversare che non è indecisione ma necessario atto sorgivo.

Dopo il gol, Lautaro Martinez ringrazia a malapena Perisic, autore dell’assist, e corre verso la panchina a gioire. Niente di nuovo: il normale egoismo dell’attaccante. È invece commovente la corsa di Hakimi verso Eriksen, l’abbraccio di Barella a Eriksen e la gratitudine di Eriksen a entrambi e a Perisic, che ha capito l’intenzione e assecondato il fluire dell’azione.

Un’azione sublime, che avviene senza pubblico a causa delle restrizioni anti-covid. E per una volta, l’assenza del pubblico non è negativa, anzi, San Siro vuoto evidenzia meglio la geometria dell’azione.

Meno di quattro mesi dopo, la morte di cinque minuti e la sopravvivenza.

Ottenuta la rescissione del contratto dall’Inter e prima di ritornare nel campionato inglese, Eriksen si è allenato da solo. Partiva da Milano e, come un frontaliero diretto in Canton Ticino, varcava la dogana e raggiungeva lo stadio di Chiasso, dove gioca la squadra che milita nella terza serie svizzera. 

Ricominciare da uno stadio marginale, sul confine: correre, palleggiare. Chissà se mentre si allenava, Eriksen riusciva a pensare soltanto al calcio, alla simulazione di un’azione che avrebbe voluto orchestrare. Forse il calcio gli servirà ancora a questo, a non pensare ai cinque minuti di morte, al conseguente defibrillatore sottocutaneo. O forse il calcio, a maggior ragione, lo riporterà al dispositivo elettrico grande come un orologio da taschino che protegge la vita e crea, dall’invisibile, qualcosa: il piccolo apparecchio sottopelle, sempre pronto ad adattarsi al battito umano, a correggere le aritmie, cercando di plasmare, in un tempo rinnovato divenuto anche suo, lo spazio.

ARTICOLO n. 9 / 2022

LA MORTE

Le regole del gioco erano queste: le bambine, nell’attimo in cui il rumore le colpiva, dovevano rimanere immobili. Nessun muscolo palpitava più. Non battevano ciglio, non si muovevano. Nemmeno se i rumori che dovevano simulare uno sparo – un grido, una pietra sbattuta sul recinto o un coccio di bottiglia tirato contro un muro – le sorprendevano in piena corsa o nell’atto di spiccare un salto, di portare l’acqua, di pettinarsi, o nelle posizioni più strane, nelle quali era difficile mantenere a lungo l’equilibrio.

Era già successo, non da molto, che due di loro fossero rimaste in bilico sul bordo di una finestra, sul punto di cadere. Il davanzale era alto, quasi quanto un piano. Le loro gambe esili stavano per cedere, potevano precipitare all’indietro da un momento all’altro… Un giovanottone che passava di là era riuscito a trattenerle in tempo.

A volte rimanevano anche un’ora paralizzate nella posizione in cui le aveva sorprese il segnale, come stabiliva la regola. Le mani alzate, una gamba per aria, il collo torto o la schiena curva. Le braccia penzoloni fin quasi a terra, irrigidite, nell’atto di raccogliere il paramano di un vecchio cappotto o addirittura, incredibile, l’involucro oleato di un panetto di burro, ancora unto, arrivato chissà come dalla mensa delle sentinelle. Il desiderio, per quanto forte, di continuare il gesto iniziato non riusciva a smuoverle. Erano morte: nessuna tentazione avrebbe avuto l’effetto di destarle.

Esistevano, dunque, anche dei giochi. Le bambine avevano inventato questo: «il gioco dei manichini». Cercavano di diventare, di punto in bianco, signorine e signore graziose. L’immobilità delle statuine sudicie e cenciose pretendeva addirittura una certa eleganza, che immaginavano appartenesse a un mondo il quale aveva conservato – così supponevano – l’ideale di donne nobili e raffinate, la cui perfezione si identificava con l’immobilità dei manichini.

Il gioco, però, si sarebbe potuto chiamare anche diversamente. Il loro irrigidirsi, nello stato in cui si trovavano, quasi nude, scheletriche, l’immobilità che raggiungevano, il loro modo di fermarsi di colpo, rinunciando a ogni movimento – fin quasi a trattenere il respiro –, facevano presagire qualcosa di sinistro.

Guardandole, il ragazzo si era chiesto spesso se il gioco non attirasse un tale evento, affrettandolo. Gli pareva di avvertire nelle vicinanze la presenza della canna di un fucile in agguato, puntato dietro un muro o dalla garitta… Un tale gioco avrebbe tremendamente divertito le sentinelle. Nell’attimo in cui ricevevano il segnale, spesso con un grido che simulava uno sparo, non avrebbero capito che una di loro era stramazzata. Non si sarebbero accorte che si era trattato di un colpo vero: la caduta del bersaglio non faceva parte del gioco. Andavano fiere della bravura che avevano acquisito nel conservare, pur nell’immobilità, l’alterezza e la leggiadra civetteria di quell’altro mondo, nel quale, come si immaginavano o come avevano sentito raccontare da qualcuno degli anziani, esistevano ancora signore e signori fatti apposta per essere ammirati, da lontano, dietro le vetrine… Al ragazzo pareva di vedere il mirino del fucile o la piccola bocca, nascosta a pochi passi, della pistola, in agguato, pronti a esplodere fulmineamente in un altro gioco, che avrebbe divertito moltissimo i soldati.

Il giorno in cui, sorprese dall’allarme sul davanzale della finestra, vicino al tetto dei dormitori, stipati fino all’inverosimile di letti a castello, le due bambine stavano per perdere l’equilibrio, trattenute all’ultimo momento da Lică, il cugino gigante dai capelli crespi, rossi, ma già anche bianchi, di un colore insolito, una specie di rosa mattone sbiadito, il ragazzo ebbe la certezza che la disgrazia fosse successa davvero. Atterrito, riaprì gli occhi solo dopo qualche istante: le due brunette correvano di nuovo. Parevano, sì, ancora spaventate, ma erano vive, allegre, da non crederci.

… Tutt’intorno, al di là del recinto, era un’esplosione di fiori. Era arrivata la primavera, si sentivano gli uccelli. Non avrebbe saputo riconoscerli, dar loro un nome, nessuno aveva trovato il tempo di parlargli dei fiori e degli uccelli. E neppure dei tanti insetti che spuntavano insieme con il sole.

Si era appoggiato a uno dei pali del recinto. Gli occhi chiusi, spossato dal torpore che lo invadeva. Sentiva un gran caldo, si sbottonò la camicia fino alla vita. Una camicia sgargiante, variegata, fatta di pezzi diversi, messi come capitava: se li era procurati, chissà dove, la mamma. Si era slacciato i due bottoni, uno rosa, da trapunta, al collo, l’altro cucito in basso, vicino alla cintola, grosso e nero, «da soprabito», come andava ripetendo Lică per prenderlo in giro. Aveva slacciato i due bottoni e scostato i due lembi della camicia, scoprendo il petto magro, ossuto e cereo. Era rimasto a occhi chiusi, le palpebre tremolavano, pulsando per via della luce.

Il sole riscaldava le costole sottili, non ancora ben formate… lasciate in balia del colpo che stava per esplodere.

Lo ricevette in pieno petto. Il primo pensiero, ancor prima di aprire gli occhi: «Non si è sentito nulla, non c’è stato sparo». Nessuno sparo, in effetti. Udiva il ronzio vicino, sul petto. Sentiva l’aculeo fitto in profondità e il punto della trafittura. Agitò le braccia convulsamente, gridò. Era questa la morte, non sarebbe durato che qualche attimo, tutto crollava, non c’era più tempo. Correva, pallido, trafitto: un morto dagli occhi sbarrati, atterriti, neri; l’insetto giallo lo seguiva, ronzandogli intorno alle spalle. Levava le mani, cercando di proteggersi, inciampando, barcollando all’indietro. Fece alcune giravolte, la camicia gli era caduta dalle spalle; girò su se stesso, riprese a scappare, senza più voltarsi indietro. Saltava, la terra si apriva sotto ogni salto, correva a bocca aperta, smorto, sudato, per cogliere gli ultimi istanti, per arrivare in tempo. Il dolore aumentava, il veleno, con traiettoria rapida, capillare, saliva, sarebbe stato troppo tardi… sbatté contro la porta della baracca, facendo irruzione all’interno.

Lo zio guardava fuori, come al solito, attraverso le assi.

Non avrebbero potuto aiutarlo, non l’avevano nemmeno visto. Barcollò, presto le forze lo avrebbero abbandonato, lo sapeva; si precipitò contro la porta dei vicini, a fianco, più oltre, dagli altri, più oltre, nel corridoio. Era allo stremo, soffocava, le guance accese, appiccicose di lacrime.

Varcò d’un balzo la soglia, fece il giro del cortile singhiozzando, disperato. Il tempo fuggiva, passò nell’altra baracca: la trovò, finalmente! Fece ancora in tempo a mostrarle il gonfiore cresciutogli sul petto, il punto colpito.

Ansimava, la scongiurava, presto, presto, bisognava tentare di tutto, immediatamente. Forse lo poteva ancora salvare… era stato preso di mira, colpito, trafitto, qualcosa di giallo, di velenoso… Ma la mano ruvida lo accarezzava sulla testa, per calmarlo. Carezze stupide, la mamma era solita sprecare il tempo così. Ormai gli mancavano le forze, era alla fine, nemmeno lei capiva la disgrazia. «Non è niente, un’ape, non è niente»; ma la sua voce calma lo terrorizzava. Nemmeno lei capiva, e di conseguenza…Voleva giusto alzare gli occhi, urlare, quando udì alle sue spalle una risata beffarda, che ben conosceva. Era suo cugino Lică che sghignazzava. Quel colosso si era fatto sempre più emaciato, ora aveva un aspetto miserabile, ma forza gliene era rimasta. E la sua forza, quello screanzato, pareva averla concentrata tutta nella risata che gli rovesciava addosso.

© 2015, Norman Manea, All rights reserved

ARTICOLO n. 8 / 2022

COSA RESTA ANCORA DEL ROMANZO?

Si è spesso detto che il romanzo è in pericolo, e che il libro è stretto d’assedio dai nuovi media. Eppure, ondate di nuovi romanzi si susseguono a un ritmo incalzante e, in forma digitale, continuano a lungo a fluttuarci intorno. Ma c’è un fenomeno ancora più sorprendente. Il romanzo realista – più volte dato per morto – continua a essere oggetto di un culto ostinato. Continua a dispensare visioni della Storia e a rivelare preziose verità – a nutrire ambizioni grandiose. Nell’insistenza con cui si dà voce a queste ambizioni c’è, tuttavia, qualcosa di sospetto; c’è una nota di ansietà, un eccesso di retorica, un’enfasi così marcata che finisce col suscitare qualche dubbio. Il realismo gode di buona salute, ma in che modo si è evoluto? Cosa ne è stato, davvero, dei suoi ideali? 

Per capirlo è forse utile ricordare in che modo questi ideali ne hanno segnato la storia. Da quando, all’epoca del Robinson Crusoe, ha iniziato a prender forma quel che siamo soliti chiamare «realismo», la cultura del romanzo è stata un luogo di esperimenti arditi, spesso destinati a un meraviglioso fallimento. Minacciati dall’avanzata della scienza, i romanzieri più ambiziosi si sono lanciati all’inseguimento della «realtà», riflettendo instancabilmente sui rapporti tra vita e arte. La realtà inseguita da scrittori come Defoe e Fielding e poi, nel secolo successivo, come Balzac, George Eliot o Flaubert, non era quella delle cronache: era quella dell’esperienza, fatta di emozioni, di quotidianità, di dettagli. E la loro ambizione non si fermava a questo. A interessarli non era solo quel che succedeva tra le pareti di un salotto o nell’anima di una fanciulla innamorata: nei casi più memorabili il racconto delle vite private diventava un’occasione per scavare nelle fibre nascoste di un’intera comunità, per intrecciare il racconto delle vicende individuali a quello di processi sociali ancora in divenire. Queste ambizioni si esprimevano spesso in forma polemica. Molti stili romanzeschi sono stati concepiti come strumenti di conoscenza, con l’intento di rimpiazzare altri stili, degenerati in maniera e incapaci di catturare i moti sottili dell’esistenza. Gli esperimenti della grande stagione modernista sono stati un’ulteriore prosecuzione di questo progetto. Sia Proust sia Virginia Woolf, tesi a narrare la parte sommersa della psiche e il suo complicato rapporto con l’ambiente circostante, reagivano per esempio all’eccesso di dati esteriori tipico del naturalismo.

Il progetto del realismo aveva due implicazioni. Da una parte, l’arte del romanzo era tesa a produrre una visione alternativa, un modello per riformare l’esperienza, per redimere un mondo che la cultura capitalista stava riorganizzando e, secondo molti, compartimentando troppo rigidamente. Le visioni dei romanzieri non avevano l’afflato metafisico che percorre la poesia romantica, ma i loro obiettivi erano altrettanto elevati: restaurare un’armonia perduta, tessere una vasta e fitta rete di legami simpatetici e addentrarsi in dimensioni inesplorate: la dimensione microscopica dei processi interiori, quella macroscopica dei grandi fenomeni sociali e l’interazione tra le due. 

Al tempo stesso, l’ascesa del realismo ha coinciso con la nascita di una nuova cultura dell’intrattenimento. Come un filmato in handycam, in molti romanzi i dettagli e i moti della coscienza puntavano ad avvolgere i lettori, a trascinarli nella storia; e così la ricchezza di stimoli visuali. Il confine tra realismo e sensazionalismo era labile. Per suscitare immedesimazione, il romanzo tendeva a far leva su paure o desideri fin troppo noti al pubblico – che consisteva, già allora, perlopiù di lettrici –: finire in miseria, restare senza marito, cedere a un seduttore senza scrupoli, scoprire segreti sul proprio passato familiare. Nei primi anni del Novecento, i romanzieri più rigorosi, non di rado in rotta con il mercato, cercarono infatti di sbarazzarsi dell’apparato melodrammatico e del facile moralismo che sembravano fare tutt’uno con l’arte del romanzo: un gesto che ha portato all’estremo la ricerca di veridicità dei primi scrittori realisti, e che abbiamo visto ripetersi molte volte. 

Fin da subito, del resto, i più convinti adepti del realismo hanno cercato di riscattare i romanzi dal girone della letteratura d’intrattenimento, rivendicandone la funzione pubblica. Il romanzo realista si è presentato ai lettori come un catalizzatore del progresso nazionale. In primo luogo, perché permetteva di pensarsi come parte di una comunità più ampia. E perché invitava, al tempo stesso, a meditare sulle sorti di quella comunità. Queste caratteristiche ne hanno favorito l’istituzionalizzazione: quando, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento la letteratura moderna ha fatto il suo ingresso nei programmi scolastici, il realismo è diventato un oggetto di studio e uno strumento pedagogico.

Cosa ne è del modo realista? Continua, nonostante tutto, a catturare l’attenzione, e lo scetticismo degli autori postmoderni non l’ha nemmeno scalfito. Continuiamo a mettere il naso negli ambienti borghesi e a seguire la vita emotiva dei loro abitanti. Continuiamo a cercare nei romanzi un sapere alternativo, la cartografia di una quotidianità ignota che sfugge alle cronache. Concetti di matrice ottocentesca ammantano i melodrammi domestici di cui avidamente continuiamo a cibarci: la letteratura racconta l’animo umano, racconta la nostra storia; è un’analisi, un’indagine, uno studio, un’esplorazione; solleva problemi; offre spunti di riflessione. Lodiamo lo sguardo penetrante del romanziere, la sua capacità di spingersi nei più profondi meandri della psiche, il suo coraggio di fronte alla verità sconvolgente del male o all’ambiguità morale della nevrosi. Al tempo stesso, e con maggior enfasi che in passato, lodiamo la capacità del romanzo di sperimentare tutte le gamme dell’esperienza emotiva e così di intrattenerci in modo efficace. Elogiamo un libro perché nel giro di poche pagine ci ha fatto ridere e piangere, perché ci ha tolto il respiro, ci ha commosso ed esaltato, rapito e scosso. Queste reazioni sono registrate con particolare vividezza da chi racconta le proprie esperienze di lettura sul web, mostrando una propensione diffusa all’immersione, all’identificazione, all’intensità. Più che un incontro con il linguaggio – poiché ogni frase e ogni pagina deve rapinosamente condurre alla successiva, la lingua deve essere invisibile – la lettura costituisce un’esperienza emotiva vicaria. In parte, certo, era così già all’epoca di Richardson, quando le giovani lettrici del 1740 facevano propri i terrori di Pamela, veicolati dalla lingua non letteraria della finzione epistolare, e si perdevano in elenchi di oggetti non molto diversi da quelli che affollano i romanzi di Federico Moccia. 

Con ancora più enfasi che in passato, dunque, attribuiamo al romanzo due capacità inscindibili: lo consideriamo in grado di offrire al pubblico un’esperienza di rara intensità emotiva e, al tempo stesso, una conoscenza del mondo che solo la letteratura sembra in grado di garantire. Una delle idee più ricorrenti, ribadita, nei secoli, da teorici e narratori come Diderot, George Eliot, Jonathan Franzen e Zadie Smith, è che leggendo si allena la capacità empatica. I romanzi ci preparano alla pratica quotidiana della compassione e nutrono la conoscenza della nostra e di altre comunità. I libri erano e restano un luogo di crescita morale e civile, e gli autori – il cui viso serio non ci lascia requie – sono piccoli o grandi oracoli di cui si esalta la sapienza, la capacità di poter dire, mostrare, vedere, spiegare, oltre che affabulare. Una piccola religione si sviluppa intorno a quest’idea, con i suoi riti e i suoi sacrari, in cui (come nella musica pop) si mescolano devozione e spettacolo.

Ma il romanzo è in una posizione scomoda; e non perché sia minacciato da altri mezzi d’intrattenimento. Non ha mai avuto così tanti lettori, che continuano, nelle sale d’aspetto e negli aeroporti di tutto il mondo, ad abbandonarsi alle sue lusinghe. Difficilmente, però, può condurci a nuove scoperte. In passato, l’antropologia, la psicologia e molti altri rami del sapere esistevano solo in forma embrionale, e la narrazione romanzesca poteva occupare territori vergini. Alla fine del Settecento, solo un romanzo poteva raccontare la quotidianità e le ansie di una ragazza di provincia in età da marito. Solo un romanzo poteva, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, avvicinare ai luoghi centrali del dibattito pubblico l’esperienza di una sessualità non ortodossa. E solo un romanzo poteva catturare le usanze, gli ideali o la malinconia di una classe sociale al tramonto, o lo slancio e i sogni di una classe sociale nascente. In assenza di tecnologie audiovisive, i romanzi fungevano anche da supporto visuale. Le lunghe descrizioni di Dickens degli slum londinesi, che oggi la maggior parte dei lettori, abituati a periodi brevi, troverebbero insostenibili, erano anche formidabili documentari.  

Le cose sono cambiate, perché oggi tutto può essere tema di discussione; tutto può essere fotografato, filmato, raccontato – dagli stessi protagonisti – e, ovviamente, razionalizzato. Molti libri di antropologia urbana sono dei capolavori narrativi. Inoltre, gli altri media non si limitano a intrattenerci. La complessità di un sistema urbano può essere raccontata in modo illuminante da una serie TV come The Wire, che troneggia nel pantheon realista e ha un valore educativo che difficilmente si può riconoscere a un romanzo di Carrère o McEwan. Ai romanzi resta, certo, il racconto dell’interiorità, che raramente, tuttavia, costituisce una scoperta. Le caratteristiche di fondo dell’esperienza narrata, i suoi presupposti psicologici e sociali – per esempio la scarsa empatia di un assassino, i comportamenti compulsivi di un adolescente traumatizzato, l’oppressione della società patriarcale, le conseguenze devastanti del sistema coloniale – sono già dibattuti in vari ambiti (e interstizi) dello spazio mediatico. L’emozione del racconto ci cattura, ma è parte di una macchina narrativa che per conseguire il proprio effetto muove da una visione preformata; grattando via la superficie, si trovano giudizi di valore, modelli del mondo e modelli comportamentali ben riconoscibili, e con i quali, spesso, tendiamo a concordare. I romanzi, del resto, si nutrono di temi caldi, e non lanciano sfide al pensiero teorico. Anzi, lo seguono con un certo ritardo. Si muovono spesso sulla scia della grande cultura radicale degli anni ’70, e nella maggior parte dei casi non suscitano questioni che esulino dal campo letterario.  

Oggi più ancora che in passato, il modo realista si traduce in una conferma del già noto che ci dà l’illusione di conoscere il mondo. Si risolve in un invito ricorrente all’empatia tragica, in prese d’atto del naufragio di ogni speranza: in particolare in Italia, in cui c’è un particolare interesse per il disagio adolescenziale o giovanile. Ci appassioniamo spesso alle vicende di giovani uomini e giovani donne che faticano a crescere, alle prese con pesanti retaggi. Ripetutamente e implacabilmente, impariamo che la nostra storia familiare ci schiaccia, il capitalismo finanziario ci schiaccia, una corruzione atavica ci schiaccia e – in un perpetuo incubo darwiniano – anche la natura ci schiaccia. Il melodramma realista ci dà l’illusione di capire tutto. E ci invita a riconoscerci. Contemplando frustrazioni simili alle nostre, ripercorriamo il difficile avvicinamento a una maturità irraggiungibile. Vediamo variazioni, in chiave drammatica, del nostro io privato, che fatica ad adeguarsi alle tristi richieste dell’età adulta. Nel far questo, certo, mettiamo il naso in altre case, altri ambienti, altre città, che difficilmente, tuttavia, risultano alieni. Ci abbandoniamo, piuttosto, a un turismo dei sentimenti e degli interni, che ci porta nelle dimore sontuose dei ricchi o nelle stamberghe dei poveri. O che ci spinge per un po’ sui sentieri della nostalgia, riportandoci ai luoghi del passato, a quella stagione in cui la vita abbondava di emozioni estreme che il tempo ci ha obbligato a reprimere.   

In tutto questo non c’è nulla di condannabile. Il problema può risiedere, al più, nelle idee nebulose in cui tendiamo ad avviluppare l’oggetto letterario, finendo, contraddittoriamente, col nasconderne la natura: nell’idea che la letteratura debba andare di pari passo con la «verità» e il «senso critico», che possa regalarci una conoscenza speciale. La nostra cultura si fa un vanto di chiamare le cose col proprio nome, di definirle con precisione. Ma guardando alla vicenda del romanzo moderno ci si può chiedere, a ragione, come definirlo; e sorge il dubbio che il modo in cui viene presentato un cine-comic hollywoodiano sia più aderente alla realtà. Cosa resta davvero degli ideali del romanzo, del suo intreccio di teoria e pratica, insieme eroico e fallimentare; dell’ispirazione enciclopedica di Fielding e Balzac, dell’obiettività di Flaubert, della sottigliezza di Jane Austen, degli slanci degli scrittori modernisti, che volevano rinnovare la lingua per «straniarla»? Perché, nella maggior parte delle sue espressioni, il romanzo non sembra sfruttare a fondo il linguaggio: sembra assecondarne l’inerzia. 

Anzi: forse la narrativa è proprio il luogo in cui il peso greve del mondo si manifesta in modo più forte. Al suo interno si possono, infatti, sperimentare nuove forme di cognizione, affrancando la lingua dagli schemi consueti. E il fatto che questo avvenga solo di rado, e che il più delle volte avvenga l’esatto contrario, la rende un fruttuoso oggetto d’analisi. L’insegnamento della letteratura è stato e continua a essere importante. I romanzi e i racconti sono stati, in molti casi, il luogo in cui le visioni dominanti in determinati gruppi umani – non solo le ideologie aberranti dell’imperialismo o del patriarcato, anche prospettive morali rassicuranti ma limitate – hanno rinnovato la propria seduzione. Per questo è utile capirli: per mostrare il modo in cui anche attraverso costrutti linguistici relativamente elaborati gli esseri umani tendono ad adagiarsi in un’inerzia di massa; forse in un narcisismo di massa, che preclude l’incontro con le possibilità della Storia. Ed è utile, a questo fine, un dibattito ricco di voci dissonanti, che attinga anche alle teorie del racconto. La letteratura può essere, oltre che una fonte di emozioni, un marchingegno da smontare.

Non c’è, in fondo, da temere. Ogni cultura letteraria cova sviluppi inattesi. Si continua a cercare, attraverso il racconto, un’esperienza di alterità, di sconcerto; una via verso nuovi stati d’attenzione. E si continua a farlo – come del resto è sempre stato – non solo attraverso una simulazione della realtà, e non solo attraverso storie lineari. Il realismo, val la pena di ricordarlo, è una scelta tra le tante. A contare non è il metodo, ma il fine – e nulla ci riguarda più intimamente delle visioni mostruose di certi scrittori. Le trame convenzionali si dimostrano, spesso, catene da spezzare: strane digressioni suggeriscono i legami invisibili tra ciò che ci riguarda da vicino e ciò che è fuori dal nostro campo percettivo; ci portano a stabilire correlazioni tra fatti e oggetti apparentemente lontani. La visuale sul presente si dimostra angusta, forse infruttuosa: proiezioni in un futuro possibile ci portano a guardare a noi stessi e al nostro rapporto col mondo da altri punti di vista, a immaginare e interrogare nuove forme di coesistenza. E la lingua più trasparente si rivela un carcere: prose strappate ai meccanismi stanchi dell’affabulazione rivestono il mondo di nuove parole, in grado di illuminarne nuove sfumature, avventurandosi in luoghi apparentemente banali – come una periferia urbana o un paesaggio di provincia – e incoraggiando nuovi tipi d’investimento affettivo. E, soprattutto, quel che credevamo di sapere si rivela infondato. Sfuggendo alle logiche comuni o corrodendole dall’interno, i romanzi continuano a spingersi nelle pieghe nascoste della quotidianità, in realtà pulviscolari e aliene che le forme consuete faticano a catturare. 

Rinsaldare il rapporto tra il romanzo e ciò che è altro da noi non significa baloccarsi in illusioni metafisiche. Significa rispolverare le risorse del linguaggio, strappandolo alla tirannia di una sintassi anchilosata, di un lessico impoverito, di stereotipi durevoli ma logori. Queste si esprimono al meglio nell’invenzione più multiforme, che può nutrire un ecosistema linguistico sano. Sfruttare a fondo le potenzialità del linguaggio narrativo, portandolo a un’osmosi con quello poetico o con molti altri registri e discorsi, è un buon modo per sintonizzarci sulle sfumature delle cose, per rinnovare il legame tra le parole e gli oggetti. È un modo, inoltre, per far esperienza del mistero, della non-comprensione – e per farci venir voglia, però, non tanto di contemplarne le soglie, quanto di oltrepassarle. Di fare a nostra volta esperienza dell’ignoto: anche – perché no – con la razionalità. 

ARTICOLO n. 7 / 2022

OLTRE LE SBARRE

per me si va tra la perduta gente.
DANTE, Inferno, Canto III

È cominciato tutto da una dimenticanza.

Ero in partenza per un viaggio. In aeroporto mi accorgo di aver lasciato a casa il libro da leggere nella lunga trasferta, così, superato il check-in, mi infilo nell’edicola/libreria del terminal in cerca di una sostituzione. Passando in rassegna riviste e best seller, inciampo su un volume, fatto cadere inavvertitamente da qualcuno. Sulla copertina, l’immagine di una mano che simula il profilo di una pistola, con il pollice sollevato e l’indice e il medio puntati in avanti. Il titolo: A mano armata. Sottotitolo: Vita violenta di Giusva Fioravanti

Dò un’occhiata alla quarta di copertina: «Noi siamo sopravvissuti per caso, le pallottole ci hanno risparmiato. Volevamo dimostrare che il mondo non appartiene solo ai grandi, che non ci può essere qualcuno che decide sempre per te. Abbiamo fatto un macello per questo. E alla fine, sia gli amici sia le vittime sono morti inutilmente…». 

Decido che quel libro partirà insieme a me.

Della vita violenta di Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, conoscevo ciò che riferiva la cronaca all’epoca dei fatti che avevano insanguinato il nostro paese per oltre un decennio. Un periodo storico che avevo vissuto, adolescente, con un sentimento ambivalente di paura ed eccitazione, attrazione e repulsione. Ero troppo giovane per afferrare il significato delle varie sigle e acronimi che rivendicavano, a turno, le azioni politiche, gli attentati, le rapine, gli atti dimostrativi. Cosa volessero dimostrare, appunto, mi sfuggiva, ma una cosa è certa: la mia giovinezza romana sarebbe stata segnata dalla febbre di quegli anni, poiché nulla di così incredibile era mai accaduto prima. 

Fioravanti apparteneva all’oscura galassia del terrorismo nero, del quale poco si parlava e meno ancora si capiva: ma probabilmente il suo nome, nella mia memoria, si sarebbe confuso insieme a quello di tanti altri, se il suo volto di bambino, di bravo bambino, non fosse apparso, per contrasto, accanto alle foto segnaletiche del giovane 

uomo cattivo che era diventato. Il piccolo Giusva, protagonista de La Famiglia Benvenuti, popolare sceneggiato televisivo degli anni ’60, divenuto un criminale di spicco della destra eversiva, suscitava l’interesse della stampa che aveva trovato il soggetto ideale per opinioni e considerazioni di ogni genere.

Col tempo, e con la distanza necessaria per una riflessione, ho cominciato ad approfondire la conoscenza di quel periodo ormai tramontato, volevo capire cosa avesse spinto dei giovani verso una deriva così spietata e autolesionista. Quel libro caduto ai miei piedi è stato per me l’inizio di un lungo percorso.

Rientrata a Roma, avevo un solo obiettivo: acquistare i diritti di A mano armata e scriverne una sceneggiatura. La storia raccontata da Giovanni Bianconi conteneva un’infinità di elementi drammaturgici interessanti: l’infanzia borghese, il successo nel cinema, l’insofferenza verso l’autorità, gli studi in America, il senso di protezione nei confronti del fratello minore (preludio di un viaggio senza ritorno), la storia d’amore con Francesca Mambro, la morte degli amici, la morte dei nemici, la latitanza, l’arresto, il carcere. Il personaggio Giusva Fioravanti, anomalo rispetto ai terroristi della sua frangia politica e così diverso per generazione ed educazione dei combattenti di sinistra, poteva essere raccontato in un film, malgrado le inevitabili difficoltà e i rischi legati alla rappresentazione di vicende reali così dolorose. Questo credevo, e questo hanno creduto anche Giovanni Bianconi e Sandro Veronesi con i quali scrivemmo la sceneggiatura, e Marco Risi, mio marito, che avrebbe diretto il film.

La stesura della sceneggiatura è stata lunga e sofferta. Avevamo a che fare con un materiale incandescente, si trattava di risollevare il velo su fatti e misfatti che bruciavano e bruciano tuttora, sentivamo il peso e la responsabilità di raccontare eventi realmente accaduti cercando di aggirare le infinite trappole seminate dal confronto, talvolta impari, fra l’onestà intellettuale e le esigenze artistiche. Avevo raccolto una quantità enorme di materiali: fotografie, articoli di giornali, testimonianze dei familiari delle vittime, sopralluoghi nei quartieri in cui si erano svolti i fatti, processi ancora in corso… Ero stata travolta dalle ricerche, e più andavo avanti più volevo andare a fondo senza accorgermi che stavo girando a vuoto. I miei compagni di lavoro se ne resero conto molto prima di me: il film su cui ci stavamo lambiccando da mesi non si sarebbe mai fatto. I produttori traccheggiavano, e non per una questione di soldi. «I tempi non sono ancora maturi» è la frase che ho sentito ripetere più volte, e forse era davvero troppo presto: il processo per la strage di Bologna, avvenuta quindici anni prima, era ancora in corso, e da quella tragedia, per la quale non era ancora stata emessa una sentenza definitiva, il nostro racconto non poteva prescindere. E dunque, come spesso accade a chi lavora nel cinema, la sceneggiatura fu messa in un cassetto, con l’amara consapevolezza che lì sarebbe rimasta. Con saggezza i miei compagni passarono ad altri progetti, e lo stesso feci anch’io. Partii per la Turchia per le riprese di un film a me molto caro, Il Bagno turco, opera prima di Ferzan Ozpetek, ma nonostante il coinvolgimento e l’entusiasmo, non riuscivo a non pensare all’altro film, a quello che non si sarebbe fatto (infelice chi non gode di ciò che possiede e rimpiange quel che non ha…). Il tarlo scavava nella mia mente, e così, un giorno, decisi di scrivere una lettera. 

Destinatario: Giuseppe Valerio Fioravanti. 

Indirizzo: Via Raffaele Majetti 70, Carcere Circondariale di Rebibbia. 

«Mi chiamo Francesca d’Aloja, sono un’attrice. Ho passato un anno a documentarmi sulla tua vita. So molte cose di te, e tu non sai niente di me. Mi sembrava giusto dirti chi sono e informarti che il progetto del film tratto dal libro di Giovanni Bianconi A mano armata si è arenato. Il film non si farà…»

Aggiunsi alcune note biografiche, raccontai qualche dettaglio sulla sceneggiatura (esitai a lungo sul confidenziale «tu», ma l’azzardo di scrivergli una lettera era talmente sfacciato che usare il «lei» mi sembrò ipocrita), e spedii la lettera, dando per scontato che mai avrei ricevuto risposta, ma a me bastava. Era il punto finale che andavo cercando.

Fu solo l’inizio.

Arrivò la risposta pochi giorni dopo:

«So benissimo chi sei. Ricordo di averti vista passare, vestita di nero, in un’aula bunker durante uno dei miei tanti processi. Hai i capelli lunghi. Sei alta e magra. Mi conforta sapere che il film non si farà, e se ne hai voglia posso spiegarti perché. Sai dove trovarmi, basta chiedere un permesso…»

La lettera era molto più lunga, ma queste sono le frasi che ho letto e riletto più volte. Sai dove trovarmi… Basta chiedere un permesso…

Prima di allora immaginavo fosse difficile entrare in un carcere. Perché mai – mi chiedevo – dovrebbero concedermi il permesso di incontrare un pluriergastolano senza avere nessuna parentela o titolo professionale che ne giustifichi la richiesta? Oggi risponderei che quando circostanze apparentemente difficili si rivelano praticabili, o viceversa, quando ciò che appare semplice diventa insormontabile, il significato è uno solo: è il momento giusto, oppure non lo è. Quel luogo ostile e lontano da tutto ciò che aveva fatto parte della mia vita, mi stava aspettando. E quello strano appuntamento non era altro che il mezzo per entrarci.

Fui accolta dal direttore del carcere, Maurizio Barbera. Gentile, disponibile, loquace, non corrispondeva a nessun immaginario cinematografico (è naturale e quasi inevitabile l’associazione mondo carcerario/cinema, l’unica a nostra disposizione, almeno fino a quando i cancelli blindati non si aprono davvero, come accadde a me quel giorno). Mi scortò per un lungo percorso fatto di corridoi rivestiti di linoleum, cancelli aperti e subito richiusi, saluti frettolosi con il personale e descrizioni minuziose dei luoghi che via via attraversavamo: la biblioteca, la palestra, le cucine, l’area verde…  Ero curiosa, sfacciata. Approfittavo della disponibilità del direttore incalzandolo di domande alle quali rispondeva senza indugi, forse anche lui grato dell’occasione. All’epoca non erano frequenti visite non ufficiali, se non per scontare una pena, in carcere ci si va per svolgere un lavoro, ottemperare un impegno, altrimenti lo si evita. 

Senza arte né parte, mi aggiravo nei meandri della prigione ringraziando la sorte (e la mia sfrontatezza) per l’opportunità che mi veniva concessa. Ricordo ancora oggi lo stato d’animo che accompagnava i miei passi: mi sentivo a mio agio, incredibilmente a mio agio. 

Entrammo in una piccola stanza arredata con un tavolino in formica e due seggiole: «Può attendere qui, Fioravanti la raggiungerà al più presto.»

E il direttore se ne andò.

La prima cosa che mi colpì fu il suo abbigliamento. Camicia pulita e pantaloni di buona fattura. Niente a che vedere con quella che mi era sembrata la divisa di ordinanza di quasi tutti i detenuti intravisti durante quell’oretta di visita: tuta acrilica o felpe fuorimisura. E un nuovo cliché prodotto dal mio immaginario veniva smentito dalla realtà: nella mia mente un ergastolano, con diciassette anni di detenzione alle spalle, si sarebbe dovuto presentare con la barba lunga e i vestiti casuali di chi ha da tempo abbandonato l’idea del decoro mondano. E invece era vestito come ci si veste fuori. La faccia era la stessa del ragazzino di tanti anni prima, forse per via di quei lineamenti affilati, zigomi alti, mascelle pronunciate, naso sottile, che il tempo non aveva intaccato. Ci stringemmo la mano, mi rivolse un sorriso, ricambiai.

Mi sentivo a disagio?

Meno di quanto avrei immaginato. E questo mi mise a disagio.

Parlammo a lungo. Di tantissime cose. Roma, la nostra città, era il centro della conversazione, e ancora mi stupii della sua totale mancanza di toni nostalgici nell’evocare luoghi conosciuti: piazze, strade, cinema, negozi o gelaterie. La sensazione che avevo provato durante i lunghi mesi di immersione nelle vicende che lo riguardavano, e che un’intima censura desiderava fosse smentita, fu invece avvalorata: quel giovane uomo, che citava titoli di film che avevo amato, gruppi musicali che avevano segnato la mia adolescenza, autori per me fondamentali (Camus su tutti), fino a un certo punto della sua esistenza sarebbe potuto diventare mio amico. Quel certo punto, il punto di non ritorno, quello che avrebbe interrotto definitivamente la nostra possibile amicizia, rappresentava il cardine del mio interesse. La domanda sul perché una persona, cresciuta in contesti simili ai miei (educazione borghese, buone scuole, addirittura la stessa piscina del Foro Italico, come allievi, in anni diversi, del corso di tuffi condotto da Klaus Di Biasi…), in apparenza nessun motivo valido di ribellione, decida improvvisamente di distruggere ogni cosa, arrivando al punto di uccidere e farsi uccidere, era per me centrale. La politica non c’entrava nulla, a me interessava altro. 

Rincasai frastornata, ma nella confusione dei pensieri si insinuava il desiderio, sempre più urgente, di tornare. Il carcere era un luogo che volevo, dovevo, conoscere. Ancora non sapevo quanto sarebbe stato importante farlo.

Giorni dopo ricevetti una lettera di Fioravanti. Calligrafia rotonda, femminile. Si diceva contento di avermi incontrata. Nelle poche frasi si percepiva, tuttavia, un sottile stupore riguardo alla mia curiosità di conoscere il luogo in cui era costretto a vivere.

(Lo stesso stupore mi par di cogliere in alcuni di voi… Non riguarda il luogo, ma la persona che in quel luogo viveva. Vi starete chiedendo, non dite di no, quali oscure manovre della mia mente mi abbiano condotto verso «quella» persona e perché mai il giudizio, il sacrosanto giudizio, non abbia prevalso. Vi rispondo che è forse l’aver sospeso tale giudizio ad avermi aperto le porte del carcere. È la regola fondamentale seguita da chiunque voglia varcare quei cancelli con la fedina penale pulita. Insufficiente come risposta? Può darsi. E in questo caso, il giudizio lo lascio a voi che leggete.)

A quella lettera fece seguito una lunga, fitta corrispondenza. Dai molti argomenti affrontati emergeva una personalità poliedrica, molto distante dal profilo medio dei simpatizzanti di destra che proliferavano nel mio quartiere (i Parioli), verso i quali nutrivo un’avversione furiosa. Mi chiedevo se tale distanza fosse stata generata dalla lunga detenzione, se la capacità di analisi e riflessione, così evidente nei suoi scritti, e praticamente assente nella stragrande maggioranza dei «fasci» che avevo incrociato, fosse il frutto di una crescita esistenziale maturata fra le quattro mura di una cella. Tuttavia, dalla storia della sua vita, così ben raccontata da Giovanni Bianconi, affiorava un carattere solitario e introspettivo che avrebbe lasciato presagire un futuro ben diverso. L’intelligenza mal riposta è stato il primo dei delitti di Valerio Fioravanti. Glielo feci notare, anni dopo, in nome di quel «perché?» che continuava a pungolarmi. «Sono tante le risposte – mi disse – potrei imputare le mie scelte alla città in cui vivevo, al momento storico, alla scuola che frequentavo, a mio padre, mio fratello, agli amici che mi ero scelto, ma sarei disonesto se non considerassi una personale vocazione al male, farina esclusiva del mio sacco.»

Quando manifestai il mio desiderio di conoscere il carcere, lui commentò con un sarcastico «Allora sei più stramba di me». Non ricordo se ritenni necessario fornirgli le mie motivazioni, forse perché allora non mi erano così chiare come lo sono adesso, con tanti anni di distanza. Da ragazza insoddisfatta degli ambienti nei quali ero cresciuta, avevo bisogno di sconfinare in territori sconosciuti. Distanti da me. Un carcere maschile era quanto di più lontano potessi immaginare. (Ma forse, e lo dico col beneficio del dubbio, ciò che aveva spinto i miei passi all’interno di quel luogo era l’impareggiabile opportunità di fiancheggiare il male stando dalla parte del bene, di respirarne lo zolfo ben protetta dal mio statuto di persona onesta. E poi, onesta? Chi può davvero ritenersi tale fino in fondo? Mettermi alla prova significava concedermi la possibilità di scardinare le mie certezze, dubitare delle mie convinzioni. Sono stata ingenua, lo confesso, e anche alquanto presuntuosa. Credere di sconfinare mettendosi accanto a persone che avevano sconfinato sul serio era una forma di presunzione. Ero giovane allora, ma non così giovane…)

Ottenere il permesso per un incontro occasionale si rivelò relativamente semplice, ma come avrei fatto a garantirmi un accesso regolare? Mi fu d’aiuto Pablo Echaurren, che conoscevo solo come autore della famosa copertina di Porci con le ali. Pablo aveva creato dei laboratori di pittura all’interno del carcere, e grazie a lui ottenni un colloquio con l’allora responsabile del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Michele Coiro, persona preziosa senza la quale non avrei potuto ottenere nulla. Gli chiesi un permesso temporaneo con il patto che se entro tre mesi non avessi portato un progetto concreto sarebbe stato revocato. Si fidò di me, non so perché.

(Parentesi fondamentale: nell’attesa di ricevere il lasciapassare, le maglie del destino imbastivano una nuova trama. Sandro, Sandro Veronesi, l’amico che più di altri avrebbe avuto a che fare con le incognite della mia vita, mi disse che avrei dovuto conoscere Edoardo Albinati: «Insegna in carcere da alcuni anni, potrebbe esserti d’aiuto». E fu così che a una cena organizzata dal mio migliore amico per agevolare la mia nuova avventura, incontrai l’uomo cardine del mio futuro. Non lo sapevo ancora, nessuno di noi lo sapeva. Eravamo felicemente partecipi di altre vite.)

Trascorsi alcuni giorni, mi ritrovai fra le mani il tesserino plastificato «Art.17», che mi consentiva di muovermi nella quasi totale libertà all’interno dei reparti. E così cominciò il mio viaggio.

Per diversi mesi sono entrata a Rebibbia ogni giorno, esclusi alcuni fine settimana. Ci arrivavo al mattino e me ne andavo al tramonto.

Cosa facevo?

Si può dire che trascorrevo il mio tempo parlando, ma soprattutto, ascoltando. 

Superata l’iniziale diffidenza nei miei confronti (che vuole questa qui…?), i detenuti mi raccontavano le loro storie, e via via che accumulavo aneddoti e confidenze si materializzava l’idea di raccoglierle in un film. 

Insieme a Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti, la nostra guida all’interno di un luogo pieno di trappole e insidie che nella mia ingenuità talvolta non coglievo, abbiamo speso ore e ore a trascrivere o a registrare le voci dei reclusi. Ho imparato ben presto che dispensare saluti e sorrisi lì dentro aveva un altro significato, mostrare interesse nei confronti di qualcuno poteva generare invidie e gelosie, dimenticare, anche per un solo istante, la realtà del luogo in cui mi trovavo era imprudente. Non ho mai voluto sapere per quali reati erano stati incarcerati. È stata un’esperienza faticosa e difficile, eppure non dimenticherò mai la sensazione di appagamento che mi portavo a casa la sera e il desiderio di farvi ritorno l’indomani.

L’impegno preso con Michele Coiro venne onorato, allo scadere del terzo mese avevo un progetto: girare un film su e con i detenuti. Miei co-autori, Fioravanti ed Echaurren. Avremmo messo in scena la quotidianità, la routine ripetitiva e insensata di un gruppo di reclusi, selezionati durante quei mesi di colloqui. Titolo: Piccoli Ergastoli.

Riunii una piccola troupe di collaboratori e cominciarono le riprese. Si trattava della mia prima prova di regia, affrontata senza ponderare fino in fondo la difficoltà dell’impresa: una volta chiusi i cancelli alle mie spalle, non avrei potuto contare sull’aiuto di nessuno, non potevo telefonare né ricevere assistenza dall’esterno. Dovevamo cavarcela da soli, adattando le nostre esigenze alle ristrettezze del luogo. Inoltre, non consideravo il rischio di lavorare con persone il cui unico legame era basato sulla reciproca fiducia e la cui disponibilità poteva essere messa in discussione a ogni istante. Non erano professionisti che avevano stipulato un contratto, non percepivano un compenso (vietato dalla legge), non avevano dunque nessun obbligo. È capitato più di una volta che uno degli «attori» non se la sentisse di girare perché reduce da un turbolento colloquio con l’avvocato, o con la moglie, o che, nottetempo, fosse stato trasferito altrove. In quei casi dovevamo improvvisare una nuova situazione (rimpiangerò sempre di non aver potuto riprendere Drago, zingaro con una faccia impareggiabile, sempre vestito di nero, che mi accolse nella sua cella per raccontarmi la sua storia, e mentre parlava, le mani scivolavano languidamente sulle decine di fotografie di donne nude attaccate alle sue spalle…). L’indisponibilità di Drago offrì una nuova occasione al mio destino. Dovendo tamponare il buco, mi venne in mente che Edoardo Albinati stava svolgendo il suo lavoro di insegnante nel reparto accanto. Perché non riprendere una lezione? Bussammo alla porta della sua classe. Nello sguardo, l’ennesimo, eloquente: «che vuole questa?». Chiedemmo gentilmente il permesso di riprendere una tranche di lezione, e lui e i suoi studenti gentilmente acconsentirono…

Malgrado gli imprevisti e le difficoltà portammo a termine le riprese.

Il film, preceduto da critiche e commenti di ogni genere, fu presentato al Festival di Venezia. La conferenza stampa si rivelò come una delle prove più difficili. Il nome di Valerio Fioravanti, presente nei titoli, scatenò la reazione dei familiari delle vittime e non fu affatto semplice sostenere le ragioni di un lavoro nato come un esperimento che offriva ai carcerati la possibilità di raccontarsi, dunque di esistere. Non era mai accaduto prima. Ci fu d’aiuto il direttore del carcere, Barbera, insieme a noi a Venezia, ma il fatto che Fioravanti non apparisse nel film (il titolo stesso ne avrebbe escluso la presenza…) non fu sufficiente a placare gli animi. Inutile dire che di Piccoli Ergastoli si parlò più di quanto avrebbe meritato, si trattava in fondo di un piccolo film, realizzato con pochissimi mezzi. Un’opera prima sincera, sì, ma sgangherata e approssimativa che certo non ambiva a palcoscenici internazionali. Divenne un caso nostro malgrado, tanto che la Rai lo mandò in onda in contemporanea con una proiezione all’interno di Rebibbia cui fece seguito un dibattito al quale parteciparono detenuti, giornalisti e rappresentanti dello Stato. In diretta. Mi tremavano le gambe.

Spenti, come si dice, i riflettori, avrei potuto considerare conclusa la mia immersione carceraria. Non fu così. Decisi di continuare. Da sola, questa volta. Senza collaboratori, senza nessuno. Chiesi il rinnovo del permesso e restai, come volontaria, per altri due anni. Non osavo confessare ai reclusi che mi piaceva stare lì. È facile, se sai di poterne uscire, avrebbero commentato. 

Entrare in un luogo in cui tutto era diverso, gli equilibri e la sostanza, l’importanza di un oggetto, la sospensione del tempo, il significato delle parole, degli sguardi, di un raggio di sole, di una promessa non mantenuta, l’assurdità delle regole, il rumore costante, gli odori: tutto questo rendeva anche me prigioniera.

E poi volevo spingermi oltre. Tornare da sola era tutta un’altra faccenda. Pensavo di sapermi muovere dopo mesi di frequentazione. Era un luogo che conoscevo, l’avevo percorso in lungo e in largo tante volte… Di nuovo ingenua e presuntuosa. Ho fatto una montagna di errori, perlomeno all’inizio. Poi forse ho imparato. Ecco, se c’è una cosa che ho imparato frequentando un carcere è l’importanza, l’importanza fondamentale dell’equilibrio. Tutto è in bilico. Lo è fuori, sempre, figuriamoci dentro. Attenzione ai toni, agli sguardi, alle confidenze, ai passi falsi, alle false gentilezze, ai pregiudizi (presenti anche quando credi di esserne immune), all’illudersi di essere al sicuro, al ritenersi superiori. Attenzione alla cattiveria ma anche alla bontà.

Chi, all’esterno, era a conoscenza del mio viaggio fra la perduta gente, manifestava stupore e insieme ammirazione per un impegno giudicato difficile da perseguire: «che brava che sei… che coraggio…». Così vengono spesso considerate le persone che prestano servizio in un carcere, varcare quei cancelli volontariamente può apparire un gesto eroico, e talvolta tali attestati sono ben riposti. Ma io, onestamente, non li meritavo. Non era l’altruismo a spingermi là dentro. Non era per loro che andavo. Lo facevo per me. Ne avevo bisogno. Volevo spingermi in un altrove, forse perché nello sconfinare si trovano le chiavi per conoscersi, per capire un po’ meglio se stessi. Io, di me, non ho mai capito nulla. E però, da ciascun uomo conosciuto in prigione e in ciascuno dei giorni lì trascorsi, ho imparato qualcosa (sono passati più di vent’anni da allora, eppure, ancora oggi, considero quell’esperienza una delle più importanti della mia vita). Tre anni straordinari, stranissimi, irripetibili, che si conclusero un giorno ben preciso.

Mi trovavo a passeggiare insieme ai detenuti nel cortile, durante l’ora d’aria. E a un certo punto, da un altoparlante sentii distintamente una voce scandire il mio nome: «DALOIA, al colloquio!»

Se l’avessi visto scritto, sarebbe stato diverso. Ma sul momento, pensai che l’ordine fosse rivolto a me e non a un detenuto il cui cognome si pronunciava come il mio. Ed ebbi paura. Pensai di essere entrata nell’ingranaggio, e che mai più ne sarei uscita.

Non avevo mai avuto paura, entrando e uscendo dalle celle, transitando nei vari reparti, andando su e giù per il cortile. E avevo sbagliato. 

Quella voce, per quanto suonasse surreale, mi riportava alla realtà. Mi ricordava che io, lì dentro, ero solo di passaggio.

ARTICOLO n. 6 / 2022

VIETATO FUMARE

C’è questa foto, che è stata scattata a Palermo, in cui rido e ammicco girata verso la macchina fotografica.

È sera, fa caldo e ho una canotta nera con le spalline sottili, la borsa bianca di tela sulla spalla e un bicchiere, di quello che sembra essere gin tonic, stretto nella mano destra.

Collanina azzurra al collo, capelli raccolti, sudore sul viso.

Intorno ho degli amici, chiacchierano tra di loro, una persona alla mia destra è mossa, sta ballando.  

Io strizzo un occhio, e rido, a bocca spalancata. Porto degli occhiali da sole bianchi, non so di chi.

Dovrebbe essere l’ingresso di un locale, ma non si capisce bene: tutto intorno è molto buio, si intravede della carta da parati in lontananza. 

Io rido al centro della scena e sono completamente bruciata dal flash della macchina fotografica analogica. 

I contorni non sono a fuoco, anzi, quasi tutta la mia figura non lo è, si distinguono a malapena la borsa di tela e le mie stesse mani.

Sto partecipando all’evento di una rassegna culturale, sono gli ultimi giorni di settembre e fa ancora caldissimo.

Non si nota subito ma se si strizzano un po’ gli occhi si vede che tra le mani ho una sigaretta, anch’essa totalmente fuori fuoco. 

Io stessa c’ho messo un po’ per individuarla.

Non si vede il fumo, la sovraesposizione ne impedisce la permanenza sulla pellicola: il bianco del flash e quello del fumo si annullano a vicenda.

Il ragazzo che ha scattato la foto me l’ha mandata qualche settimana fa e io ne sono stata particolarmente felice: sotto Natale, nel pieno della quarta ondata, con una serie di dubbi su ciò che saranno tour, festival ed eventi culturali da qui a maggio, il ricordo di un momento di quasi-libertà mi fa apparire un bel sorriso sulla faccia.

Ritaglio la foto, la raddrizzo, scrivo una caption in cui si capisce che quella era una festa, che era ottobre, che era bellissimo, che spero che ricominci presto la voglia di assembramento e premo «posta sul profilo». La foto adesso si trova su Instagram. 

Quando posto le foto che mi piacciono spesso dimentico che i social sono, sì, finestre sulle nostre quotidianità, ma hanno un valore assolutamente parziale.

Ahimè, ci metto ben poco a ricordarmelo.

Succede infatti che la foto inizia a ricevere commenti e il sentimento di claustrofobia di questo secondo anno di coronacene risulta assai – mi perdonerete il gioco di parole – pandemico

Chi ricorda con tristezza i giorni estivi. Chi ha mancanza della normalità. Chi sente nostalgia per Palermo e per «i sorrisi, l’alcool e l’amore», come scrive il mio amico Ignazio.

Ci sono commenti su quanto la foto sia sfocata ma ugualmente intensa, c’è chi chiede da dove vengano gli occhiali da sole e chi invece si sente contagiato dalla mia felicità impressa sulla pellicola.

Tra questi commenti, però, ne intercetto uno piuttosto lungo, che sembra non aver molto a che fare con il mood generale, bensì con ciò che stringo tra le dita: la famosa sigaretta.

È un blocco piuttosto lungo in cui questa persona mi accusa di promuovere «sostanze dannose, pericolose, che creano dipendenza» e aggiunge che «come scelta personale va benissimo ma fare pubblicità gratis alle multinazionali che campano sulla distruzione della salute è brutto». Più sotto la sua arringa continua, ribadendo che «quanto fumi sono cazzi tuoi (…) hai un potere e questo deve essere considerato quando è usato».

In tutto ciò, io, sulle prime, continuo a non capire a cosa si riferisca, dal momento che la sigaretta nella fotografia, come dicevo, non riuscivo a vederla. Poi, metto più a fuoco, e mi scappa quasi da ridere.

Insomma, quello rivoltomi, è un rimprovero per la presunta superficialità con cui avrei mostrato il vizio del fumo, vizio che mi porto dietro da ormai un paio di decadi e che appare e scompare periodicamente grazie a momenti esistenziali rilassati e senso di colpa: fumare è la mia personale sfida con cui spesso, non lo nego, mi sollazzo, premiandomi o punendomi a seconda dei giorni sul calendario. 

L’accusa della persona che evidentemente non è aficionada alla mia pagina – altrimenti avrebbe saputo che ho smesso di fumare subito dopo quel tour palermitano e che il vizio del fumo, comparato ai vizi che ho portato avanti per una vita, è davvero una bazzecola da educande – verte sul fatto che io, in quello scatto, inneggerei al tabagismo facendo da supporter alle multinazionali che commerciano in nicotina. 

Insomma, ciò che questa critica voleva dire è che rendere cool – ma come poi? – un gesto che uccide le persone è una cosa che chi come me ha un certo seguito non dovrebbe fare e, nel caso, che lo faccia di nascosto, al riparo dagli occhi dei bambini, sia mai che qualcuno pensi a questi maledettissimi bambini. 

La prima reazione che mi è sorta spontanea è stata cercare di capire quando io mi sarei tramutata in madre di un popolo invisibile denominato con il termine collettivo e ben poco identitario di followers, che l’autore del commento reputa incapace di comprendere – secondo una personalissima scala di valori morali – la differenza tra bene e male, giusto e sbagliato, su una cosa così elementare.

Ma la seconda osservazione che questo commento mi ha portato a fare è stata di carattere più ampio e mi ha ricordato che su internet corrono brutti tempi. 

No, non sono una di quelle persone che condanna il mezzo social dicendo che tutto sta andando a puttane per colpa dei dispositivi mobili e che moriremo soli sbranati dai gatti o investiti dagli autobus perché non sappiamo più comunicare e non contempliamo il mondo intorno a noi: io credo davvero che internet e i social media siano un mezzo assimilabile al progresso più che all’autodistruzione del genere umano.

È infatti proprio grazie ai social che molte delle istanze sociali e civili, che per anni sono state insabbiate, trovano oggi un luogo di dibattito e un mondo in cui confrontarsi.

Categorie da sempre silenziate possono prendere per la prima volta parola e alzare la loro voce. Non è poco, anzi: è l’abc dell’inclusività.

Penso però che il coronacene abbia accelerato qualche processo e che, dopo un isolamento prolungato in cui l’unico mezzo possibile per la socializzazione era ed è quello digitale (che è privo di regole e limiti), le urgenze civili e sociali stiano andando un pochino oltre a quella che è la capacità stessa del metamondo.

Il punto che mi interessa comprendere, in un flusso di pensieri che vomito qui sopra, è quanta responsabilità stiamo addossando al singolo avatar e soprattutto in che modo.

Ripartendo dall’antefatto della sigaretta invisibile mi ritrovo a pensare a quanto ci dia pena l’azione altrui, come se questa potesse e dovesse sopperire alle mancanze sociali che sono invece responsabilità di un sistema educativo statale, di sovrastrutture politiche universali.

E questo vuoto culturale e istituzionale si manifesta davanti ai miei occhi in un duplice modo, con due diverse fazioni che agiscono esattamente nella stessa maniera: nel punire, senza rieducare, ogni singolo individuo che commette l’imperdonabile errore del giorno.

Quindi da una parte abbiamo i conservatori, la parte della comunità intellettuale e politica che si appella al passato, che condanna la vacuità delle istanze delle nuove generazioni e le azioni dei singoli rappresentanti delle stesse, che propone un linciaggio basato sul mero gossip e cerca di sputtanare gli esponenti del movimento progressista invalidandone le tesi con giochi che sono più simili al bullismo che alla vera e propria critica politica e sociale.

Persone che chiedono che certe cose si facciano a casa nostra, a porte chiuse, non davanti ai bambini perché poi «la teoria del gender come ce li farà crescere?», «dove andremo a finire, signora mia?», le battaglie vere sono altre e questa gente passa il tempo a farsi i tatuaggetti a forma di cuore sulla pelle e a usare asterischi e cancelletti.

Dall’altro lato, vista la più totale mancanza di una politica che sia giovane e consapevole del paese reale, la giusta rabbia del progressismo spesso si arena in baggianate e rivolte di massa verso singoli comportamenti. Che lasciano spazio solo a personalismi e quindi a nessuna dimensione di complessità, finendo con l’imporre divieti senza spiegare per cosa si venga effettivamente puniti.

Spesso succede anche una cosa bizzarra, tanto da fare il giro: come nel caso della sigaretta di cui sopra, si finisce per incolpare il singolo di una sua scelta personale – discutibile, come ogni vizio, dopotutto – chiedendo a gran voce di nasconderla, perché altrimenti «che modello educativo dovrebbe venirne fuori?».

Questo procedimento mi ricorda proprio quello proibizionista e perbenista che tanto vogliamo smantellare e usa proprio i mezzi punitivi del conservatorismo per generare silenzio e terrore.

Ecco, in entrambe le situazioni da me appena citate il problema è proprio il modello educativo: non lo dovrebbero dare i singoli e non si dovrebbe imputare ad altri in uno slancio di idolatria. Sentimento che nasce proprio dall’assenza di reali sistemi educativi di riferimento.

Non dovremmo cercare la perfezione in un sistema parallelo, ma in quello che abbiamo e che dovrebbe guidarci e che si sta dimostrando sempre più incapace nello stare al passo con i tempi della rivoluzione culturale nata sui social.

Gli stessi social sono diventati, da palestra di dibattito prolifico quale erano, dei giganteschi contenitori di frustrazione. Una frustrazione più che legittima, che nasce dall’essere costantemente inascoltati, ignorati, invisibilizzati. 

Ma che non trovando sfogo e ascolto adotta gli unici mezzi che conosce, ovvero quelli del padrone.

Nei talk che accompagnano le presentazioni dei miei libri mi viene chiesto spesso cosa si possa fare per convincere i nostri amici, vicini di casa, parenti, ad abbandonare posizioni fasciste o retrograde ed escludenti. E ogni volta che mi viene posta questa legittima domanda io mi sento terribilmente affranta perché un sistema che da sempre ci ignora, ci fa anche credere che la responsabilità ricada su di noi, sulle categorie marginalizzate, sui singoli, come se dovessimo istruire le persone con devozione e abnegazione.

Ridendo, dunque, rispondo sempre a questo quesito che a convertire le persone una ad una ci ha già provato una persona nata a Betlemme. E infatti non è andata a finire troppo bene.

Nell’ansia di frenare il vomito biliare delle personalità tory del nostro panorama politico e culturale finiamo per scordarci che è al sistema che dobbiamo rivolgerci o perderemo totalmente la complessità del nostro pensiero. È al sistema che dobbiamo imporre di educare e sensibilizzare.

E la complessità è essenziale quando si battono dei nuovi sentieri, come quello della rivoluzione culturale in cui stiamo ampiamente entrando, perché senza comprendere limiti e potenziali si finisce per applicare le teorie con confusione (come, ad esempio, richiedendo una donna qualsiasi al Quirinale. Ma se quella donna fosse antiabortista, razzista o con posizioni politiche liberali andrebbe davvero bene? Dove perdiamo la logica, tra la teoria e la pratica a ogni costo?).

Mi ritrovo spesso a confrontarmi con canali di informazione e media che fanno dei disservizi giganteschi: basti pensare a come viene trattata la violenza di genere dai canali mainstream e come non si sappia ancora scrivere di femminicidio, deresponsabilizzando il sistema culturale che ne è la sua stessa, chiarissima, matrice.

Mi trovo anche a dover ricordare a redazioni televisive e personalità di spicco che stanno davanti alle telecamere e a milioni di spettatori che la propaganda antiabortista in prima serata dovrebbe essere vietata. Mi trovo, di base, ad interagire con quelle che sono le fonti secondarie di informazione e apprendimento, il cui carattere universale ha quindi una portata catastrofica nella sopravvivenza di stereotipi e bias culturali. È in questi sistemi che dobbiamo inserisci esigendo dialogo e cambiamento.

Questi sono infatti ambienti ottimali per poter intavolare un discorso di applicabilità della rappresentazione corretta delle categorie marginalizzate.

Ma prendere le foto di una influencer di otto anni fa in cui usa una terminologia che oggi sappiamo essere senza dubbio alcuno razzista e darle della stronza traditrice non è altrettanto intelligente, anzi: la punizione esemplare non interviene qui, perché stiamo applicando retroattivamente cose che purtroppo sappiamo soltanto oggi e grazie alle voci di chi si sobbarca un peso enorme e che non dovrebbe essere suo.

I giornali, il sistema, le fonti, i ragionamenti sono da portare nei luoghi di comando perché è lì che sono sempre mancati ed è il sistema educativo stesso che deve sobbarcarsi una nuova visione del mondo che sia comprensiva di tutte le persone.

La guerra tra poveri, la chiamo io.

Quella lotta tra persone che si menano virtualmente dimenticandosi del sistema e appigliandosi a minchiate di controllo serve solo a perdere tempo gratificando nel breve periodo ma lasciando intatto un meccanismo che procede imperterrito con i suoi anacronistici e goffi ragionamenti e in cui difesa si schierano dei veri e propri bulli di professione, impauriti dal nuovo che avanza.

Il fulcro di questa mia rubrica a cadenza mensile sarà quello di analizzare i limiti di un sistema vetusto, chiuso, crudele e comprendere dove inizi la complessità del progressismo, che spesso perdiamo davanti al fumo di una sigaretta, un divieto troppo netto e privo di senso, alla voglia di rendere retroattivo qualcosa che retroattivo non può essere e a porre dei dubbi sul perché una infografica sia il nuovo mostro invisibile del giorno.

Sento che ci stiamo perdendo via la complessità.

Nel dubbio ci penso un po’ su, accendendomi una paglia.

Non vogliatemene, nel caso mi permetto di ricordarvi, però, che il fumo uccide.

ARTICOLO n. 5 / 2022

ENNIO MORRICONE SECONDO GIUSEPPE TORNATORE

un'intervista

Ennio di Giuseppe Tornatore è un affresco enorme, coloratissimo, pieno di dettagli e di idee. Inizia con le mani di Morricone, si concentra prima sui suoi movimenti, sulla ginnastica, sulle braccia che si allargano e che si riavvicinano al corpo e poi sulle parole. La camera cerca insistentemente la striscia degli occhi e la base della fronte. Il montaggio – firmato da Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci – gioca con la regia, e le immagini giocano con la musica. 

C’è, come sottolinea Tornatore, un ritmo incredibile, che avvolge ogni cosa e ogni momento, e che permette a questo documentario di diventare un torrente di ricordi e di informazioni, di riempirsi di emozioni e sentimenti genuini, e di amalgamare, in due ore e mezza, la storia di un uomo, dei suoi successi e del suo talento con la storia di un intero paese. Ma Ennio non è solo questo. 

È un film sul cinema e sui registi, sull’anima delle storie, sull’importanza dei suoni e dei rumori, su quello che proviamo ogni volta che ascoltiamo una canzone, o che le immagini trovano lo stesso passo della musica. È, poi, un film d’amore, perché Morricone parla di sua moglie, Maria Travia, e lo fa con la dedizione degli innamorati; ed è un film sull’amicizia, perché le persone che vengono intervistate sono tutte profondamente legate a Morricone da un affetto genuino. 

Infine, c’è il rapporto tra Tornatore e Morricone: e quindi ci sono la complicità di ogni racconto e la libera onestà con cui tutto viene ricordato e restituito allo spettatore. Per finire Ennio, dal primissimo pitch alla versione definitiva, ci sono voluti quasi sette anni. E, dice Tornatore, ogni montaggio è stato diverso. «Il primo, ovviamente, era molto più lungo e abbondante. Conteneva più capitoli e aveva lo stesso ritmo e lo stesso andamento». 

Dopo il successo di The Beatles: Get Back di Peter Jackson, potrebbe essere un’idea farne una miniserie, per approfondire ulteriormente il racconto. Ne avete parlato?
«Le dico la verità: nessuno mi ha chiesto di lavorarci nuovamente. Confermo, però, che c’è molto più materiale».

Ma a lei piacerebbe allargare ulteriormente questo racconto?
«Più che allargarlo, mi piacerebbe ricomporlo. Nel secondo montaggio, c’erano molte più cose. Cose che, secondo me, sono piuttosto importanti. Quindi valuterei senza problemi una proposta del genere. Non avrei nessuna riserva. Intendiamoci: si tratterebbe di un lavoro piuttosto complesso. Perché una cosa è trarre una versione più sintetica da una più lunga, un’altra, invece, è ricostruire una versione più estesa che non è mai stata finalizzata».

Mentre parla di Ennio, Tornatore sembra inseguire qualcosa: un’idea, forse; oppure un’intuizione. Non è mai brusco, ma c’è una consapevolezza precisa nella sua voce. Non è vero, dice, quello che hanno scritto. «Questo non era il sogno della mia vita, non ci avevo mai pensato prima. Sono stati i produttori, Gianni Russo e Gabriele Costa, a propormi di fare un documentario su Morricone».

Lei ha accettato immediatamente?
«Se Morricone è d’accordo, ho detto io, lo faccio volentieri. Conoscevo il carattere di Ennio, e conoscevo la sua ritrosia a lasciarsi riprendere. Quindi sono andati da Ennio, gli hanno fatto la stessa proposta, e Ennio ha risposto: se lo fa Giuseppe, per me non ci sono problemi. In un certo senso, mi sono ritrovato coinvolto. E solo a quel punto ho cominciato a immaginarlo e a scriverlo. È diventato un progetto importante per la mia vita, e io ho fatto di tutto per realizzare il miglior documentario possibile».

Dal primo giorno di lavorazione a oggi, sono passati – diceva – quasi sette anni.
«Durante i primi cinque, però, ho fatto solo qualche intervista e qualche ripresa, e poi sono tornato ai miei film. Negli ultimi due anni, invece, mi sono concentrato unicamente su questo progetto». 

Ha dovuto riscriverlo diverse volte.
«Non tanto per gli eventi quanto, in realtà, per il cambiamento di certi contesti produttivi. Per esempio, in un primo momento nel film erano previste anche alcune sequenze di ricostruzione cinematografica. Dunque andavano fatti dei casting e trovati degli attori. Alla fine, però, sono stato costretto a rinunciare e ad abbracciare una formula più tradizionale».

Da dove è partito?
«Per questo documentario, la cosa più importante è sempre stata avere un linguaggio più vicino alla musica che alle immagini. L’intera struttura doveva avere una sua musicalità. Perché è proprio la musicalità che avvicina questo documentario alla personalità e alla figura di Ennio Morricone».

In Ennio si alternano interviste – una delle più deliziose e delicate è quella fatta a Bernardo Bertolucci – e materiali di archivio, e poi, per tutto il tempo, ritornano i temi e la musica scritti da Morricone. Le persone li canticchiano. Danno il tempo. «L’opera di Morricone fa parte del nostro tessuto quotidiano», dice Tornatore, «e io ho giocato con questa cosa. Tutti, prima o poi, finiscono per fischiettare le sue musiche. E lo fanno soprattutto i registi e le persone che, nel corso del tempo, hanno lavorato con lui. Chiunque, in questo film, è pronto ad accennare una musica di Morricone».

C’erano due Ennio. Uno più introverso e timido, e uno più deciso e coinvolto. Lei quale ha conosciuto?
«Tutti e due. Non erano due facce in contrapposizione, ma due aspetti complementari. Ennio era così: ironico, spiritoso, trasparente, di un’onestà unica; e allo stesso tempo era deciso, appassionato, pronto ad accalorarsi e arrabbiarsi per far valere le sue ragioni. Dietro questi due aspetti, c’era la sua profonda genialità. E non sembrava esserne nemmeno consapevole. Eccola, la chiave della sua grandezza».

A un certo punto, nel documentario, dice: io sono tutta la musica che ho studiato.
«Non pensava, però, di essere un genio puro. E questo non sapere l’ha reso ancora più grande: gli ha permesso di alzare ogni volta l’asticella delle sue aspettative e di continuare a sperimentare. Perché per lui comporre musica significava sperimentare. Erano la stessa cosa. Io ho conosciuto il Morricone curioso e il Morricone pronto a puntare i piedi. E nel 99% dei casi, quando lo faceva, aveva ragione lui».

Com’è andato il vostro primo incontro?
«Mi ha messo immediatamente alla prova. Voleva capire le mie intenzioni. Ennio temeva gli approcci estremamente superficiali che a volte ci sono nel cinema. Non tutti i registi conoscono la musica, e non tutti i registi la rispettano. Quando gli dissi che non volevo una musica siciliana per Nuovo Cinema Paradiso, si tranquillizzò e accettò di lavorare al film. Per me si trattava di una storia universale».

Ne La leggenda del pianista sull’oceano, Morricone ha saputo dare voce all’amore.
«In quel caso, la musica è stata decisiva due volte. Non era solo un commento: faceva profondamente parte del film. Con Morricone, ne abbiamo parlato prima dell’inizio delle riprese; ci abbiamo lavorato a lungo. La musica che aveva composto era la musica definitiva, e in questa scena il tema doveva parlare di amore».

In che senso?
«Doveva essere particolare anche rispetto al resto della colonna sonora. L’inizio di questo tema contiene in sé dei lunghissimi intervalli, e sono stati questi intervalli che mi hanno permesso di descrivere nel racconto questo meccanismo che volgarmente chiamiamo “colpo di fulmine”».

Lui vede lei, e cerca di conoscerla attraverso la musica. 
«Il tema non poteva essere deciso. Doveva essere incerto. Soprattutto, poi, non doveva ripetersi mai: doveva evolversi in continuazione. In quel tema c’è tutto: c’è lui e c’è lei; c’è il desiderio di conoscere, ci sono l’amore e la consapevolezza finale. Questo che sto dicendo, però, è la sintesi di ore e ore di lavoro e di discussioni: ed erano ore bellissime, piene, ricche di Ennio e della sua sensibilità. Con le sue musiche, i film hanno trovato qualcosa che, fino a poco prima, non avevano. Qualcuno parla di anima. Sicuramente raggiungevano uno spessore superiore, diverso, che li migliorava enormemente».

Questo documentario riesce a sintetizzare efficacemente anni e anni della televisione italiana e del cinema mondiale. È sempre stato uno dei suoi obiettivi?
«Nella mia idea iniziale c’erano solo un coreuta pronto a raccontare e a raccontarsi e un coro disposto ad affiancarlo e sostenerlo. Quando ho cominciato a montare, però, ho notato un’altra cosa. Non volendo, nel documentario era nata una linea narrativa quasi insospettabile. Attraverso le immagini, la musica e i ricordi veniva fuori un racconto della nostra storia e del nostro paese».

C’è una linearità precisa.
«I programmi tv, i presentatori che lo intervistano, i giornalisti, la timidezza per i primi premi ricevuti: in questa narrazione cronologica, la vita di Ennio diventa quasi un romanzo. E la narrazione cronologica, a volte, può essere un rischio: perché rallenta l’andamento e il tono, e perché può essere quasi polverosa, piena di frammenti di altre cose. In questo caso non è stato così. Anzi».

Secondo lei, abbiamo dato per scontato il genio di Morricone?
«Per scontato no, lo escludo. Lo abbiamo capito, secondo me. Perché ci ha trasmesso molte emozioni e perché è stato una parte importante della colonna sonora delle nostre vite. La sua opera, però, difficilmente verrà ricostruita per intero. Ennio ha scritto tanto. E in ogni cosa che ha scritto e composto, ci sono ancora oggi intuizioni e sfide aperte che possono avere ulteriori interpretazioni ed evoluzioni. Insomma, c’è ancora tanto da studiare e da scoprire. Il mio documentario sarà, secondo me, solo un documentario: uno dei tanti. Ce ne saranno altri, e si continuerà a parlare di Ennio».

Che tipo di amicizia è stata la vostra?
«È stata fondamentale. Dal punto di vista umano, è stata l’amicizia più importante della mia vita. Un’amicizia fatta non solo di stima e di fiducia, ma anche di affetto familiare e profondo. Ci univa una voglia continua di comprendersi. Eravamo liberi di dire quello che pensavamo. La stima c’era sempre, e la nostra amicizia rimaneva: era lì in ogni istante».

Ricorda il momento in cui, per la prima volta, si è lasciato catturare dalle musiche di Morricone?
«Avrò avuto 9 o 10 anni. Ero in spiaggia, allo stabilimento balneare del mio paese. E il jukebox mandava una musica che avevo sentito pochi giorni prima al cinema: una musica senza parole, su cui gli altri ragazzi riuscivano comunque a ballare. Era il tema di Per qualche dollaro in più».

Qual è stata la lezione più importante di Morricone?
«Sapersi fidare degli altri. Mi ha sempre colpito la libertà che, ogni volta, per ogni film, Ennio mi dava. Mi faceva ascoltare quattro o cinque tracce, e poi mi lasciava scegliere. In quel momento, era sicuro del suo lavoro, di ogni pezzo che aveva scritto, ma dava a me l’ultima parola. E quello era un atto estremo di fiducia». 

Che cosa ha capito?
«Per avere fiducia negli altri, bisogna avere prima di tutto fiducia nelle proprie capacità. Oggi io provo a fare la stessa cosa. Quando incontro i miei produttori, porto più idee e più soggetti, e lascio a loro la scelta».

Ennio di Giuseppe Tornatore, prodotto da Gianni Russo e Gabriele Costa per Piano B Produzioni Srl, sarà al cinema in anteprima il 29 e il 30 gennaio. Tornerà in sala il 17 febbraio, distribuito da Lucky Red in collaborazione con TIMVISION.

ARTICOLO n. 4 / 2022

LA FINE DI UN MONDO

Strange days have found us
Strange days have tracked us down
They’re going to destroy
Our casual joys
We shall go on playing or find a new town
Yeah!

JIM MORRISON

Viviamo tempi apocalittici. Passeggiando per le strade della mia città alle prese con l’emergenza sanitaria, la paura del contagio, la corsa alle vaccinazioni, sento risuonare in petto la tensione del far convivere lo scorrere della vita ordinaria con lo spettro aleggiante (ma mai così in carne) della morte. Sento mancarmi il respiro e alzo gli occhi al cielo. Nello spazio affissioni vicino al ponte fra via Melchiorre Gioia e il parco Bam svetta la gigantografia di Don’t look up, il film di Adam McKay di cui parlano tutti e che pochi giorni fa ho divorato anche io.

Dal mio punto di vista di europeo di mezza età appassionato di cinema ci ho trovato il difetto delle commedie cerebrali americane moderne: esageratamente ammiccante, la sceneggiatura per tutta la durata del film si sforza di mostrarsi intelligente e mostrare sé stessa più che essere funzionale alla narrazione. Terminata la visione, per capire sé stessi sbagliando nel formulare il mio giudizio, ho dovuto rivedere The fortune cookie del 1961, una black comedy scritta da Billy Wilder e I. A. L. Diamond, perché la ricordavo anch’essa densa di dialoghi feroci, e quasi barocca nello sciorinare ipercinetico battute scoppiettanti, e ho capito che no, non mi sbagliavo affatto. 

Don’t look up è figlio dei nostri tempi, della voglia di chi scrive (il cinema, ma in generale tutto) di scrivere come se si stesse partecipando a un concorso, a un talent. Si procede per ammasso, si accumula, tendendo alla saturazione, come se si dovesse lanciare un detersivo, corrompere una giuria o impressionare col mostro il pubblico del circo. Per cui se scelgo di raccontare l’Apocalisse, bulimicamente infilo nel copione tutte le battute possibili. I film di Billy Wilder, ma anche la screwball comedy americana degli anni Trenta, o persino Hitchcock, possono essere anch’essi film molto parlati, ma sanno fermarsi, lasciare spazio all’immagine, sanno respirare. Hanno sceneggiature scritte ancora in funzione della storia da raccontare.

Il cinema commerciale contemporaneo, non tutto ovviamente, è scritto come se si dovesse tirare un sasso gigantesco nello stagno e far sì che gli anelli derivanti scavalchino lo stagno della storia (cinematografica). Si scrive cinema (o serie tv, ancora meglio) un po’ come se si stesse facendo uno scoop giornalistico, un saggio di danza, uno spettacolo di stand up comedian in cui conquistare tutti e far ridere sempre, pena la fucilazione.

Peccato perché la storia è semplice ma azzeccata: una coppia di scienziati scopre che una cometa è diretta verso la Terra e che nel giro di sei mesi la distruggerà. Ma il mondo non prende sul serio la notizia, perché troppo indaffarato in altre questioni. Anzi, in un certo senso la accoglie ma solo per inglobarla e piegarla al processo di spettacolarizzazione mediatica che ben conosciamo. 

Oddìo, siamo davvero così sicuri di conoscerlo bene? In questo senso bisogna ringraziare Adam McKay, perché ha scritto una storia che pone esplicitamente delle domande e sottolinea fenomeni che forse davamo per scontati oppure che no, non conoscevamo affatto. Siamo sicuri di essere a conoscenza della nostra tecno-tossicodipendenza? Di aver letto sul foglietto gli effetti collaterali? Siamo sicuri di essere pienamente coscienti di vagare ormai come dannati nella spirale digitale dell’ostensione del nostro ego? Siamo davvero sicuri di non ritrovarci in fondo disperati e soli, nel mondo che tutto comunica e interconnette?

Disperati e soli gli esseri umani lo sono da sempre. Eppure, mentre scelgo il petto di pollo al supermercato, ho la sensazione che mai come in questo momento storico da questa parte del mondo si faccia finta di non rendercene conto. Ci illudiamo di essere belli, eterni, connessi, sempre disposti alla cosa più importante da fare: scrollare, taggare, filtrare, levigare la nostra immagine per metterla in piazza, fino alla disintegrazione del corpo, alla mortificazione della carne.

In questo senso Don’t look up è un bel film, o più che bello è un film necessario. Pedagogico addirittura, didascalico come il cinema popolare italiano degli anni Cinquanta, quello non engagé: la commedia, il melodramma, il bellico e persino il comico. Cinema barocco, grottesco, semplificato, rispetto a quello degli autori, che si dava in pasto alle masse assetate di intrattenimento e fungeva bene da chiave interpretativa dei tempi e della Storia. Perciò Don’t look up, con i suoi errori, il suo sovraffollamento nevrotico di temi trattati, dalla satira contro Trump al ruolo dei media, è per come sintetizza la nostra epoca nuovo cinema popolare, cinema che sono molto felice che gli americani producano in questo periodo. È un prodotto che ha il coraggio di mettere nero su bianco che la fine del mondo non avverrà con scoppi e cataclismi. Neanche con asteroidi, pestilenze, guerre mondiali, virus, terremoti. La fine del mondo innanzitutto non avverrà. Sta già accadendo. Il mondo (o una parte del mondo, e poi a seguire tutto quanto) finirà senza effetti speciali, senza clamori. Finirà nello squallore. La solitudine ci seppellirà. Non saranno gli alieni, non sarà il meteorite imprevisto. Saremo noi a non saper governare il presente in selvaggio mutamento con un’idea di futuro e una visione adeguate. 

Saremo noi a guardare sugli schermi dei telefonini la famiglia nucleare morire. 

L’Annuario Istat dice che soltanto qui da noi in Italia il numero delle famiglie monoparentali (cioè composte da un solo elemento) negli ultimi quarant’anni è cresciuto tanto che, solo nell’ultimo ventennio è passato dal 21,5% del 1997-98 al 33% nel 2017-2018, fino a rappresentare un terzo del totale.

Fanno parte della categoria giovani e vecchi: giovani che si staccano dal nido (perché a quanto pare non siamo più neanche tanto mammoni, neppure quello, dato che lasciamo casa dei genitori solo leggermente in ritardo rispetto alla media europea, che è di 26), anziani rimasti soli magari dopo la morte del marito o della moglie, giovani che vivono lontani dalla famiglia di origine per motivi di studio o per scelta ma che non sono economicamente autosufficienti, i single economicamente autosufficienti, i divorziati o separati, i vedovi, e gli stranieri che, arrivati in territorio italiano, vivono soli.

Le cause della parcellizzazione familiare sono tante. C’è l’invecchiamento sempre più evidente della popolazione, e come dicono ormai tutti i docenti di demografia intervistati dai giornali, ci sono le trasformazioni sociali e i modi di formazione della famiglia: anche a voler stare con un’altra persona, lo si rimanda, ci si sposa sempre più tardi. Perché si invecchia sì, inesorabilmente, ma non si muore e si rimane in scena strombazzando quanto sia giusto rimanere fanciulli in eterno, in nome di Peter Pan e del mito dell’innocenza. A ingrossare le file dell’esercito degli isolati c’è poi ovviamente la donna, che, finalmente slegata dal ruolo obbligato di moglie e madre a cui è stata per secoli culturalmente assegnata, secondo i dettami della società patriarcale, si rende autonoma e indipendente economicamente e sceglie di vivere da sola. C’è un ancora misterioso e inspiegabile, per il piccolo mondo antico che abitiamo, 5% di donne che per scelta non vogliono procreare (come scrive in un bell’articolo Simonetta Sciandivasci uscito su La Stampa). E infine ci sono i fallimenti dei progetti d’amore, i separati e i divorziati tutti, anche loro, nuclei monoparentali. Li incontro ogni giorno al supermercato o al parco al mattino portare il cane a pisciare. Popolo di non anuptafobici, abbiamo vinto le guerre di indipendenza e soli regniamo sovrani.

Ma non per forza, e non ancora, felici. Dobbiamo ancora imparare. Monoparentalmente si è infatti più esposti al rischio di povertà, visto che ad esempio non si possono condividere affitti e bollette con qualcun altro. È di sicuro il problema economico quello più rilevante, ma a questo ne vanno aggiunti altri, di altro carattere, come il fatto di non poter contare su una rete di sicurezza familiare, rappresentata dai genitori o dai fratelli, quantomeno nell’immediato. Ci sono anche alcuni studi che rileverebbero conseguenze psicofisiche: il 14% di chi vive da solo, nel momento in cui gli è stato chiesto come si sentisse, ha risposto: «molto male».

Abbiamo tutte queste persone sole, ancora in coda all’hub vaccinale, che aspettano pazienti scrollando le schermate dei social; tutte queste persone sempre più giovani e sempre più vecchie che postano davanti alla Posta, per distrarsi, in coda alla Fine di un Mondo. Giovani e vecchi soli che consumano e inquinano il pianeta più di quanto farebbero in famiglia; solitudini che costano care agli Stati, esseri umani che non moriranno ma si ammaleranno e che di conseguenza comporteranno costi, assistenze sanitarie e sociali che nessun bilancio riuscirà più a sostenere se ci ostineremo a vivere con la rivoluzione tecnologica nuova in mano e sistemi di pensiero vecchi in testa, sistemi mai rimpiazzati da una nuova visione. Avremo allora superato e risolto antichi familiar-borghesi problemi (il patriarcato, il maschilismo), fatto conquiste di eguaglianza sessuale, ma senza le regole nuove queste conquiste rimarranno sterili, o buone per i rotocalchi o i videosalotti di un mondo inaridito. Un mondo di persone sole, così perdute a toccare schermi da non accorgersi che la fila è già cominciata: quella per la grande adunata nella Valle di Giosafat, obbligatoriamente in presenza.

ARTICOLO n. 3 / 2022

LA POESIA È UNA NUVOLA?

Ritratto obliquo di Anne Carson

1. In obliquo

Questo è un attraversamento obliquo della poesia di Anne Carson passando per i suoi libri pubblicati in Italia. Da Eros il dolceamaro, uscito nel 2021 per la giovane casa editrice Utopia, nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emmanuela Tandello; ad Autobiografia del rosso, inizialmente pubblicato da Bompiani nel 2000 e poi riportato in libreria da La nave di Teseo nel 2020, con traduzione di Sergio Claudio Perroni; ad Antropologia dell’acqua. Riflessioni sulla natura liquida del linguaggio, edizione italiana a cura di Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello, Roma, Donzelli, 2010; a The Albertine Workout, edito da Tlon nel 2019, a cura di Eleonora Marangoni, con traduzione di Giulio Silvano; fino a Economia dell’imperduto, traduzione di Patrizio Ceccagnoli con uno scritto di Antonella Anedda, arrivato nel 2020 in Italia ancora attraverso Utopia, che sta pubblicando o ripubblicando tutta l’opera saggistica di Carson; e fino alla pièce teatrale del 2019 Norma Jeane Baker of Troy, edita da Crocetti nel 2021 a cura ancora di Patrizio Ceccagnoli con il titolo, scelto dall’autrice, di Era una nuvola – una versione dall’Elena di Euripide. È un attraversamento obliquo perché va per frammenti, senza porsi il problema dell’intero. Lavorerà sull’intero la lettrice, il lettore. Come il lavoro di Carson che presuppone infinitamente un prima, un’origine sempre letteraria, così faremo insieme qui. 

Eros il dolceamaro

2. Il confine della carne e del sé 

È la materia di Eros il dolceamaro, l’impossibile, il fatto di opposti. Sin da subito, lo sappiamo: tornare indietro a identificare un precedente, scrivere sempre a partire dal già scritto. Il desiderio erotico è innato in questa scrittura per /attraverso la scrittura di un Altro e tornerà nell’opera di Carson fino a Norma Jeane/Marilyn, passando per Gerione che desidera Eracle, passando per Albertine, tutta una teoria auerbachiana di figure di desiderati e desideranti, continua traslazione traduzione. Impossibile. Quindi, da farsi.  

3. Misurarsi con l’origine

E per misurarsi con l’origine, cosa c’è di meglio dei lirici greci? La prima origine in Occidente, il punto di partenza – seguirà, lo sa chi scrive, la seconda genesi nei trovatori provenzali, poi la terza matrice, l’origine oscura, il Novecento, da cui non si torna indietro, da cui si può solo andare oltre. Il nucleo già radiante: l’idea di Eros come mancanza e il suo influsso su di noi, la radiosa assenza, presenza assente, già amor de lonh? Carson stessa lo dice. Comunque, nostalgia dell’interezza, del prelinguistico? 

4. La grandiosa invenzione

Se «l’atto d’amore è un’ibridazione» in cui «si confondono i confini del corpo, le categorie del pensiero», o ancora, se «il paradosso è ciò che prende forma sulla lastra sensibile della poesia», qui Anne Carson è quasi Walter Ong nell’intuire che la scrittura, la grandiosa invenzione, ci racchiude nei confini del sé. «Le culture orali e scritte non pensano, non percepiscono la realtà né si innamorano nello stesso modo».

5. Ne consegue la guerra

Così il desiderio erotico diventa invasione, percepito da chi sperimenta per la prima volta questo nuovo sé racchiuso, uno in sé, compatto, giardino circondato da alte mura. Ciò che secondo Marguerite Yourcenar in Quoi? L’Éternité, in pieno rovesciamento dei termini, sarà ogni grande amore. 

6. Ne consegue l’entanglement

Nella dottrina degli effluvi di Empedocle, sussurra ancora Anne Carson, tutto respira con tutto. Tutto è già connessione quantistica. Ciò che è in connessione è perché non è lo stesso. «Il tu e l’io non sono una cosa sola». Se lo siano mai stati, rileva dell’irraccontabile, di ciò che è prima della prima origine. Lì questa poesia, forse nessuna altra poesia, ma è cruciale il forse, non può dire.

7.  Una forma di conoscenza

Innamorarsi diventa così una forma del conoscere. Diviene possibile l’ideale dell’io. In questa tensione è tutto Eros, la sua mancanza, il suo movimento, l’arco, la danza. Sia l’esperienza del desiderio che quella della lettura hanno qualcosa da insegnarci sui confini, ci dice Carson, e cita Werner Heisenberg: «esistono diversi tipi di conoscenza … che non possono essere simultaneamente a disposizione della nostra mente». 

8. Il maestro arriva quando l’allievo è pronto

Scrive Anne Carson, quando Eros entra dentro di noi, nel momento dell’inizio, dell’origine, «entriamo in contatto con ciò che è dentro di noi, in modo improvviso e sorprendente. Percepiamo ciò che siamo, cosa ci manca, come potremmo essere. (….). Una disposizione d’anima legata alla conoscenza comincia ad aleggiare sulla nostra vita», perché Eros «può insegnarci la vera natura di ciò che abbiamo dentro», è «il principio di ciò che siamo destinati ad essere».

9. Ne conseguono la mela e l’Albero della conoscenza del bene e del male?

Nel momento in cui ci vediamo come privati di quello che manca, e vediamo noi stessi, e dobbiamo conoscere nella mancanza. Le antiche saggezze riportano sempre nello stesso luogo?

Autobiografia del Rosso

10. Alla seconda potenza

Quello di Carson è scrivere sempre attraverso, ce lo siamo detti. Letteratura elevata alla seconda potenza. Cosa la porta a questo, cosa dice nascondendo l’autrice, cosa nasconde dicendo. Detto modestamente, in ogni (breve) biografia, lo studio dei classici, come «ciò che faccio per vivere». Omissione, attirare l’attenzione negando, negandosi. Un filo a cui aggrapparsi, come la corda di carne che tiene le ali del ragazzo-mostro Gerione. 

11. Heimlich unheimlich

Il mondo classico appare (ancora) a occhi europei familiare, heimlich? Quasi high concept, terreno conosciuto, magari anche chance di successo. Allo stesso tempo, lo sappiamo, nasconde oscurità, tanto più oscure quanto insospettate, invisibili. Non attraversate. Questa sensazione di familiarità in Italia generazione dopo generazione diminuisce. (Chi direbbe anche, attraverso il ceto e le classi). Forse ancor più con la distanza, spazio invece di tempo, attraversando l’oceano, con occhi dal Nordamerica. Domanda per cui non esiste una vera risposta, ci porta al numero 12.

12. Domanda che non può essere rivolta

Dove scegli di stare, tra il chiarore e l’oscurità? Davvero scrivi poesia chiara e trasparente sull’indecidibilità delle cose? (In fondo, è il gran tema del trobar clos). Non che sia mai stato risolto, né prima né dopo.  Ci porta a The Albertine Workout.

The Albertine Workout

13. Tenendo presente Albertine

L’opera vastissima di Proust si distilla in The Albertine Workout in una poesia di osservazioni brevissime, schegge e frammenti: è il residuo irriducibile, è quello che resta, ed è di questo residuo che dobbiamo dare conto, sembra dirci Carson? (Di nuovo, in un sussurro, siamo a chiederci fino a che punto la letteratura deriva dall’io, dal mondo, dall’io-e-mondo, e fino a che punto da altra letteratura, fino a che punto ciò che scriviamo è sempre stato già scritto?

14. Un altro modo di chiamare la traccia e l’aura

In che rapporto sono l’apparizione e la metamorfosi? Possiamo mettere in relazione questi termini con i poli opposti di poesia e prosa, che qui si avvicinano fino a toccarsi? Se sei davvero obbligata alla scelta, metafora o metonimia?

15. Quello che ci stiamo chiedendo in realtà

È cosa rimane della Grande Opera, anche nel senso alchemico.  La voce di questa poesia dice anche solo frammenti, schegge come di legno nella carne, spine?

Antropologia dell’acqua

16. Qual è la differenza tra incontro e scoperta?


E possiamo chiamare anche la poesia, come l’antropologia, una scienza di reciproca sorpresa? Un viaggio da cui non puoi tornare come sei partito, ma soltanto diverso – come qualsiasi viaggio, in realtà. Solo che, appena nascosto dai paesaggi della Galizia, questo è in realtà un viaggio nel regno dei morti.

17. Quattro frammenti a scelta

«Cos’è la paura dentro al linguaggio? Nessun incidente del corpo può impedirle di bruciare».

«Tu non puoi vedermi, sono al buio, in ascolto, come in un vortice». 

«I due modi di conoscere il mondo sono solo sottomettersi o divorare? Entrambi finiscono, più o meno, nello stesso posto».

«Mi domando se ci vengono inviati segnali come una voce all’interno della carne».

18. Un ritmo di vuoti e pieni

Pellegrinaggio, campeggio, nuoto hanno in comune l’essere traversate dello spazio e del testo, scandite da un ritmo di vuoti e pieni. Questo fa Carson in questo libro, di qui la poesia. In fondo sempre nient’altro che attraversamento di spazio e tempo ignoto.

19. Acqua è connessione

In un libro fatto di punti da collegare, di tracce disgiunte, una scrittura che ha una struttura quantica, a salti.

20. I personaggi maschili del libro

L’Imperatore – anche una carta dei Tarocchi – domina la Terra. Il mio Cid lotta senza tregua ancora dal mondo dei morti se seguiamo la leggenda. E il nuotatore dev’essere necessariamente il signore delle acque. Cosa è allora della voce femminile, Fenice che rinasce, cos’è suo, il regno del Fuoco?

Economia dell’imperduto

21. Paul Celan e Simonides

Come Phlebas il Fenicio di T.S. Eliot alle prese con la perdita, la più terribile perdita. E in Simonide, alle prese con quello che oggi chiamiamo profitto, su uno sfondo di lapidi. Per cosa scambiamo, per cosa sprechiamo oggi la poesia? Chi davanti a noi, e per che cosa, sta diventando fantasma?

Era una nuvola

22. Sono già tutti fantasmi

Elena spettro vivo secondo Euripide, in realtà era una nuvola. Così, onda-particella, nube di probabilità/possibilità, nient’altro che una sovrapposizione di stati. Elena spettro, spirito, Elena è Marilyn, Norma Jeane è Marilyn, Ben Whitaker, l’attore per cui fu scritta la pièce, è Norma Jeane, tutto è sempre anche qualcos’altro. La verità semplice per cui siamo sempre, sempre e ancora un ibrido con ciò che è oltre noi, per cui viviamo sempre nella metamorfosi. Potremmo mai uscirne? 

ARTICOLO n. 2 / 2022

MANGIARE LA REALTÀ

La trasmissione televisiva di cucina oscilla tra il reportage e la divulgazione popolare. L’inviato è uno scrittore-giornalista. La televisione, alla fine degli anni Cinquanta, si preoccupa di educare i telespettatori al cibo genuino. 

Cibo genuino è un’invenzione televisiva che non significa nulla, una locuzione per formare i prossimi borghesi e piccolo borghesi.

Milioni di italiani non comprendono cosa significhi cibo genuino: mangiano la verdura del proprio orto, mangiano le uova delle loro galline, mangiano le loro galline. Questo è il cibo. Il cibo è il rispetto e il terrore per la fame patita fino a una dozzina d’anni prima. La fame patita a causa del fascismo non esiste nella trasmissione televisiva di cucina, la fame patita a causa del fascismo non è mai esistita, e se è esistita, è associata alla guerra, non al fascismo: il cibo televisivo serve a dimenticare. Il rispetto per il cibo esige da un lato l’occultamento della miseria causata dal fascismo, dall’altro lo svelamento non soltanto delle ricette, ma anche di ciò che compone i piatti. La trota non è già pronta e servita, la trota si agita mentre il pescatore le toglie l’amo dalla bocca.

L’inverno è la stagione della riproduzione che, al massimo, si prolunga all’inizio della primavera. Le uova si trasformano in avannotti. Gli avannotti sono piccoli pesci, conservano qualcosa delle larve che sono stati ma presentano qualcosa dei pesci che saranno: sembrano quei quattordicenni che non vogliono tagliarsi la peluria spuntata sul labbro, considerata come qualcosa di estraneo con cui convivere. Gli avannotti finiscono dentro i laghetti artificiali, le sponde in cemento, e lì crescono, prima di morire giovani. 

Lo svago di una domenica italiana. La domenica, gli operai e gli impiegati pagano una quota d’ingresso per accedere alle vasche di cemento; il proprietario fornisce la canna da pesca in bambù, gli operai e gli impiegati divenuti pescatori domenicali devono soltanto contare quante trote catturate in un’ora: tre, quattro, cinque. Alcuni proprietari non chiedono nemmeno la quota d’ingresso, i pescatori domenicali pagano quanto riescono a estrarre dal laghetto. In teoria, le trote delle vasche di cemento sono meno buone delle trote di torrente, ammesso che le trote di torrente non siano intossicate dalla chimica.

Il primo supermercato italiano apre nel 1957, l’anno della trasmissione dello scrittore-giornalista. Lo scrittore-giornalista mostra la cartina dell’Italia e indica la zona mostrata durante la puntata. La cucina inizia ad abbinarsi al turismo, diventa, essa stessa, turismo: il metodo migliore per viaggiare è mangiare. 

Più ci allontaniamo da noi stessi, più la cucina assume una falsa connotazione popolare. 

Lo scrittore-giornalista mostra quanto gli agricoltori si stiano motorizzando. Agricoltore è la parola utilizzata al posto di contadino. Nessuno pensa che, un agricoltore, si possa definire, poco dopo, imprenditore agricolo. La motorizzazione è la nuova realtà, ma la compravendita del bestiame avviene ancora al mercato. 

La pesa. I corpi degli animali. I corpi degli uomini. I soldi. I soldi, in contanti. Al massimo, gli assegni, firmati con le calligrafie incerte, prima il cognome del nome, come insegnano i maestri elementari, prima e durante e subito dopo il fascismo. Lo scrittore-giornalista dice che la povera gente cucina la fonduta, ma la fonduta può cucinarla anche la contessa vestita con un sobrio abito nero e un’elegante collana di madreperla. L’odore è buono, il sapore è meglio. Lo scrittore-giornalista pensa che sia possibile mangiare bene a casa dei miliardari e della povera gente. La cucina è uguale per tutti. La cucina è democratica. La cucina non fa sentire i poveri povera gente

L’importanza di abbassare la testa in un piatto, di identificare lo sguardo con il cibo. Basta avere tempo per il brasato. Mettere una coscia di manzo in umido, nel barolo, e cuocere per abbrustolirlo in superficie, così da impedire al succo interno della carne di disperdersi nel proseguimento della cottura. Il segreto è tutto qui: il barolo, la vita trattenuta dall’animale morto, quando la carne morbida si rilassa aumentando di gusto. Vedete i maiali? Ecco, questi sono quelli che abbiamo visto prima; già ammazzati, sventrati, ridotti nella forma desiderata: prosciutto cotto o crudo, salame, salsicce, salamelle, lardo per mortadella, cubetti di lardo trattati con pepe, sale, aromi. E le rane? Davanti a tutti, la monda delle rane, tagliare la testa, le zampe, togliere la pelle. Oggi nessuna trasmissione mostrerebbe il taglio della testa, delle zampe, l’asportazione della pelle, la faccia soddisfatta di chi mangia ossa croccanti. Impressiona, certo. E tuttavia, pochi decenni dopo, schiacciamo le rane con le ruote delle auto, quando torniamo dal supermercato dopo aver acquistato gamberi argentini surgelati.

Più di quindici anni dopo, la cucina diventa spettacolo, c’è il pubblico in studio. La trasmissione è alle sette di sera. A casa, le madri, ai fornelli, cucinano non troppo concentrate, si voltano, una posa a tre quarti verso il televisore, senza smettere di girare il mestolo; le madri ripetono le parole del televisore girando il mestolo nella pentola; i padri guardano il programma seduti in cucina, rispondono alle domande dei conduttori chiedendo consiglio alle mogli; i figli giocherellano con le briciole nei piatti ancora vuoti, edificano architetture con la mollica del pane. 

Sembra di essere in televisione.

Due conduttori, un uomo e una donna: l’uomo, figlio di un industriale chimico, ex editore, curioso, colto, generoso nel tentativo di una pedagogia che vada al di là della divulgazione; la donna, figlia di un imprenditore, attrice di cinema, poi di teatro, impegnata soprattutto in ruoli nei quali la donna ha un’origine popolare; l’attrice, alla fine della carriera, recita nel ruolo di una casalinga investigatrice. 

In ogni puntata, i conduttori presentano due personaggi noti che cucinano il loro piatto preferito. Poi rivolgono domande al pubblico in studio. È l’epoca dei quiz, il cibo bisogna guadagnarselo rispondendo alle domande. Che cosa è bene usare, per preparare un buon brodo di carne? Acqua fredda o acqua calda? Quali sono le verdure adatte a un brodo vegetale? Si usa ancora moltissimo la parola pastasciutta. Quanta acqua occorre ogni cento grammi di pasta per preparare una buona pastasciutta? Quando mia moglie non prepara la pastasciutta a mezzogiorno sono demoralizzato. È un medico che parla. Cento grammi non ingrassano nessuno, perché dovrebbero ingrassare me? Qual è il criterio per capire se uno gnocco è buono? La semola? Il colorito? Salire sul tavolo della cucina e spiaccicarlo per terra? Qual è il riso migliore per le cotture al forno? Qual è il riso più adatto alle minestre? Il riso povero di amido è consigliato per l’insalata di riso? Qual è il metodo migliore per mantenere bianco il riso dell’insalata di riso? È un valore, per il riso, essere bianco, o lo è per noi che mangiamo il riso bianco? Noi italiani mangiamo quattro chili di riso all’anno, in media, perché soltanto in Lombardia se ne mangiano dodici. Dodici chili sembrano tanti, ma in Cina ne mangiano centocinquanta all’anno. Un quintale e mezzo di riso dentro un corpo. Moltiplichiamo per un miliardo di cinesi. Centocinquanta miliardi di chili di riso. 

In Lombardia occorre lavorare ancora molto per diventare cinesi. 

Questi, invece, sono due cuochi cinesi che vivono a Milano, guardate, due veri cinesi. Voi siete specialisti di riso. Non solo. Patate impastate con farina di gamberi. Si immergono nell’olio fritto. C’è anche la carne, dentro? Ah, questa è una specialità, ogni specialità ha il suo segreto. 

Come si stacca la crosta della polenta dal paiolo? Un coltello può servire a molte cose, ma non è detto che sia la soluzione migliore. Questo riso, invece, arriva dagli Stati Uniti. Si chiama wild rice. Non diciamo che è loglio, una graminacea detta zizzania, che cresce accanto ai cereali, altrimenti, come possiamo lanciare il prodotto in Italia? È una zizzania buona, non è la discordia, non è la zizzania della Bibbia, e poi zizzania è una parola che scomparirà, resterà soltanto nella Bibbia, che ormai non legge quasi nessuno. Persa la parola di Dio, ci rimane il prodotto riso selvaggio, wild rice, basta dire che arriva dagli Stati Uniti, mettere wild nel nome e sarà un successo. Questo invece è riso italiano, per gente che ha molto appetito, diciamo pure, fame. Quando abbiamo fame, una frittata è meglio di una scatoletta. S’intende, una scatoletta di carne. Qui sul tavolo abbiamo tre tacchini morti, non ancora spennati, una natura morta su un tavolo degli studi Rai di corso Sempione, a Milano, la morte in serie. Tralasciamo la decorazione e diventiamo pragmatici. Questo tacchino, secondo voi, è buono? E questo? E questo? Qui invece abbiamo due oche: una ha le zampe giallo pallido, l’altro giallo acceso. Qual è l’oca più buona? La freschezza dell’agnello si riconosce dal rognone. Scegliete un rene rosa pallido o rosso vivo? Comprereste un pesce con la testa nera?

Nell’Ottocento si scrivono manuali sull’arte di usare gli avanzi. Due secoli dopo, il segreto per non lasciare avanzi è preparare porzioni minime, porzioni da bambini. Il segreto per non lasciare avanzi a sé stessi è alimentare gli altri. Impariamo dalla conduttrice del nuovo millennio, la donna magra, contemporanea, che pare entrata in cucina dopo una giornata di lavoro passata in uno studio televisivo trasformato in cucina. Cucina asettica, nessuna natura morta e tantomeno monda delle rane. La donna non mangia mai ciò che prepara. Al massimo, un assaggio, un assaggino. Eppure qualcosa rimane, sempre. Una magia: l’avanzo di un assaggino nemmeno assaggiato. 

Coraggio, bambini. C’è tempo per crescere, ma non poi così tanto. 

Un vecchio, solo, scola la pasta, la versa nel piatto, si siede al tavolo, guarda il fumo salire dai cento grammi di pasta: ha un malore, si accascia, la fronte appoggiata accanto al piatto, il fumo sale ancora per qualche secondo. 

Non sapremo mai se la macchia sul tavolo sia vino o sangue.

ARTICOLO n. 1 / 2022

SENTIERI INTERROTTI

Che fine ha fatto il romanzo metafisico in Italia?

Tre anni fa Bruce Sterling, non senza sorpresa da parte degli interessati, rilanciò su Wired la suggestione del «Novo Sconcertante Italico», una categoria scherzosa inventata in occasione di una conferenza organizzata dall’Indiscreto per parlare di new weird all’italiana, o meglio della sopravvenuta contaminazione del mainstream da parte di quelli che fino a poco tempo fa venivano definiti, quasi sempre con disprezzo manicheo, i «generi». 

 Quell’incontro era solo l’ultima tappa di un discorso che andava avanti da qualche anno, con riflessioni, anche retrospettive, sia rispetto a quanto avveniva in Italia, sia a quanto di «strano» si muoveva nell’Europa contemporanea

Se, in effetti, autori come la polacca Olga Tokarczuk, il romeno Mircea Cărtărescu, l’ungherese László Krasznahorkai o il bulgaro Georgi Gospodinov sono passati da essere nomi di culto per nicchie selezionatissime di lettori a venire unanimemente considerati il fronte d’onda del romanzo contemporaneo, come del resto provato dal Nobel 2018 alla polacca e dalle plurime candidature del romeno e dell’ungherese (col bulgaro subito dietro, forte di un fresco Premio Strega Europeo), vale la pena notare che, al di là del lavoro di singoli, arditi, editori, come Voland da noi, che ha tradotto Gospodinov e Cărtărescu quando erano ancora sconosciuti fuori dai paesi d’origine, spesso è stata una scoperta o riscoperta anglosassone ad accendere l’attenzione su certi nomi: vale per Tokarczuk come per Krasznahorkai, arrivato in Italia solo dopo la vittoria del Man Booker Prize International con Satantango, nel 2015 – e Satantango è un romanzo del 1985. Dall’altro lato, questa fortissima emersione di autori «strani» dall’Europa orientale può essere vista come epifenomeno di un progressivo decadimento della narrativa che finora aveva tenuto banco a livello mondiale, quella nordamericana: finita l’epoca dei giganti, morti Roth, Morrison e Bellow, agli ultimi fuochi i «titani viventi» De Lillo, Pynchon e McCarthy, il panorama, per quanto ricco di ottimi autori, è parimenti carente di autori eccelsi, e i pochi grandi – Franzen su tutti, per quanto Crossroads si collochi sopra il resto della sua produzione recente – paiono bloccati in un approccio realista ormai esausto, ma forse ancora inevitabile nel panorama statunitense. Si pensi ad esempio a un Colson Whitehead, che dopo un inizio all’insegna della più estrema ibridazione tra i generi, ha raccolto i più grandi onori prima con uno steampunk opportunamente mascherato da romanzo storico, La ferrovia sotterranea, e poi con un romanzo storico tout-court, I ragazzi della Nichel, quasi giocandodeliberatamente al ribasso. Non è forse un caso, allora, se quella che potremmo considerare (al netto dei titani) la massima autrice vivente americana, Marilynne Robinson, si muove in un territorio sì realista ma profondamente innervato di spiritualità – anzi, di metafisica. E metafisico è stato l’ultimo grande sprazzo del romanzo statunitense, quel Lincoln nel Bardo in cui George Saunders si è spinto nello spazio interstiziale tra la vita e la morte (un luogo oscuro ed enigmatico in cui si finisce sempre per incontrare László Krasnzahorkai che passeggia perfettamente a suo agio). 

In genere, quando si parla di autori come Krasznahorkai o Tokarczuk negli Stati Uniti, emerge un’espressione: magical realism, realismo magico. È possibile che sia solo il frutto di una carenza di categorie ed esempi: in un panorama di literary fiction improntato al realismo, e in una relativa penuria di traduzioni rispetto all’Europa non anglofona, la cosa a cui finiscono per assomigliare di più romanzi come Nella quiete del tempo di Tokarczuk Satantango di Krasznahorkai è in effetti Cent’anni di solitudine di Márquez (o le sue immediate, quando non pedisseque, derivazioni, come Il dio delle piccole cose di Roy). Ora, se l’assegnazione di tale categoria a Tokarczuk può risultare plausibile (almeno restando su Nella quiete del tempo: tutt’altro discorso sono la reinvenzione del thriller di un Guida il tuo carro sulle ossa dei morti o le suggestioni sebaldiane dei Vagabondi), appare già più bizzarra per l’oscura metafisica millenarista di Krasnzahorkai, ma è opportuno ricordare che anche il Bolaño di 2666, in mancanza di categorie migliori, fu spesso etichettato in USA come magical realism, sebbene non presenti situazioni apertamente fantastiche. A un europeo appare piuttosto chiaro, invece, che le influenze chiave di questi autori sono Kafka da un lato e Borges dall’altro, autori che tanti addetti ai lavori americani cominciano a leggere davvero soltanto adesso, almeno stando a quanto hanno scritto Lethem e Chabon (due che aspettiamo, ancora, al varco con grandi speranze). È possibile che il boom di memoir e autofiction abbia ritardato la resa dei conti del mainstream USA col fantastico, ma è solo questione di tempo: il probabile officiante potrebbe essere Jeff VanderMeer, sempre che sviluppi le qualità stilistiche che ancora gli mancano (quelle strutturali pare averle messe a punto, a giudicare da Dead Astronauts) e che, dalla sua posizione pienamente weird, e quindi più vicina alla fantascienza e al fantasy tout court che a una loro contaminazione della literary fiction, riesca a farsi prendere sul serio da un’accademia e da un campo letterario al momento presi da tutt’altre questioni. Ma se magical realism è un’etichetta senz’altro inadeguata, forse anche new weird non è più una definizione adatta a rappresentare i nuovi e diversi approcci all’oltre-reale che stanno emergendo. Per quanto ironico, viene quasi da rivendicare quel «novo sconcertante italico» che, se non altro, prendeva una prima distanza da un «new weird» che, nel mondo anglosassone, resta legato a precise derivazioni dell’horror e della fantascienza, più che definire una loro tracimazione nel mainstream. Una tracimazione peraltro quasi sempre legata alla necessità di trovare strumenti adatti a prendere nuovamente di mira la metafisica (cosa, questa, che porterebbe a escludere anche slipstream, termine focalizzato sulla sola questione dei generi). 

La definizione giusta potrebbe forse arrivarci dal Regno Unito, dove, oltre a quella che è plausibile incoronare, per originalità, stile e sensibilità, regina del weird contemporaneo – Aliya Whiteley, pubblicata in Italia da Carbonio con L’arrivo delle missive, La bellezza La muta –, si muovono autori come Tom McCarthy e David Mitchell, che attraverso romanzi decisivi quali Déjà-vu L’atlante delle nuvole hanno sviluppato una loro nuova e originalissima metafisica, con la natura della coscienza e le realtà parallele tra i tratti caratterizzanti del primo, e l’akasha e la sincronicità tra quelli del secondo, e ancora altri nomi che, oltre a muoversi senza compromessi nei loro generi, hanno sviluppato una capacità stilistica e strutturale tale da farsi prendere sul serio nel mondo della literary fiction (che pure nel paese di Tolkien e Lewis resta un po’ snob rispetto a ogni uscita dal realismo), come China Miéville o Susanna Clarke, il cui recente Piranesi non ha patito il consueto stigma, portando a casa anche uno Women’s Prize for Fiction e venendo recensito dalla critica che conta come un romanzo metafisico e non un «volgare fantasy». 

Un percorso, quello di Clarke, per certi versi simile, anche se più folgorante (nel suo caso c’era la spinta mai sopita del successo mondiale del suo esordio Jonathan Strange & il signor Norrell), a quello di Antoine Volodine: un inizio ben ancorato nei «generi» – fantasy Clarke, fantascienza Volodine –, e un progressivo affinamento stilistico, per arrivare poi a un indiscutibile riconoscimento mainstream. 

E qualcosa si muove in certe direzioni anche nel paese d’origine del naturalismo, se alla definitiva emersione di Volodine si accompagnano le incursioni nel fantastico del penultimo Gongourt, Hervé Letellier, la cui Anomalia è stata da poco pubblicata in Italia, e quella, forse ancora più inattesa, di Mathias Énard: se con grandi romanzi come Zona Bussola aveva già mostrato di poter essere uno degli innovatori della letteratura europea, il magistero pareva più quello di Sebald, laddove invece l’ultimo Banchetto annuale della confraternita dei becchini ci porta nuovamente nel Bardo Thodol. Ancora in quello spazio liminale tra la vita e la morte, dove stavolta si incontrerà anche Saunders, sebbene mai a suo agio come Krasnzahorkai… Ma Énard potrebbe incontrarci anche il connazionale Volodine: almeno nel suo capolavoro Terminus radioso ci sono diverse parti che paiono svolgersi in quel nebuloso campo metafisico. 

In questo momento, nel loro paese, pare non esserci una sola libreria che non esponga in vetrina Les ouvertures, traduzione degli Esordi di Antonio Moresco, e allora viene da pensare che, tra gli italiani, l’unico abitatore di questo campo liminale tra vita e morte che pare diventato il luogo di elezione di tanti grandi romanzieri contemporanei (a pensarci, anche i già citati Cărtărescu e Tokarczuk ne sono piuttosto assidui frequentatori, basti pensare al primo volume di Abbacinante e a certi passaggi di Nella quiete del tempo), sia proprio Antonio Moresco, che lo ha sfiorato nei Canti del caos e ci si è infilato a capofitto prima con La Lucina e poi con Gli increati.

Il nome di Moresco ci riporta a un’inchiesta curata da Paolo Di Paolo e Giacomo Raccis per la rivista Orlando(del 2015, ma ancora attualissima), in cui si chiedeva a un certo numero di giovani critici, autori e studiosi italiani chi, a loro avviso, sarebbe stato ancora letto a distanza di cinquant’anni: il podio era composto, oltre che da Moresco, da Michele Mari e Walter Siti. Due autori su tre fanno quindi parte del «canone strano»; solo il terzo può essere un «realista» – e incidentalmente, è l’autore di un pamphlet intitolato Il realismo è l’impossibile. 

Stiamo facendo finalmente pace col disprezzo crociano per il fantastico, che tanto fece scuola? Viene in mente l’intervista di Arbasino a Borges, in cui il secondo, di fronte a qualche perplessità del primo sul fantastico, gli ricorda che Dante, Ariosto e Tasso, letteralmente il canone italiano, altro non sono che autori fantastici. Il realismo avrebbe poi vinto in epoca moderna e contemporanea, ma fino a un certo punto: nel «canone strano» compilato da Carlo Mazza Galanti, figurano pur sempre Papini, Savinio, Landolfi, Buzzati, Calvino, Levi, Wilcock, Soldati, De Maria, Morselli, Volponi, Manganelli, Ortese ed Evangelisti, oltre agli stessi Mari e Moresco; un contro-canone che può guardare in faccia il suo dirimpettatio «realista» senza troppi complessi. Andiamo, allora su un canone «puro»: quello stilato da 600 addetti ai lavori nel 2020 per la rivista L’Indiscreto: nelle prime 10 posizioni per voti ricevuti figurano almeno tre titoli «strani» – Sirene di Laura Pugno (che assieme a Branchie di Ammaniti e Uno indiviso di Alcide Pierantozzi rappresenta un plausibile capostipite dello «strano italiano» propriamente detto), Leggenda privata di Mari e Canti del caos di Moresco, col distopico Miden di Veronica Raimo a un passo dalla top-10 –, mentre guardando alla top-100 si contano 16 titoli di questo tipo, quindi un 16% complessivo a fronte di un 33.3% nelle prime dieci posizioni; volendo continuare il gioco delle intelligenze collettive e delle percentuali da esse generate, il canone stilato dalla rivista Crapula Club presentava 4 titoli «strani» su 18 (22.2%); quello indirettamente generato dai giovani critici interpellati dalla Balena Bianca, 9 su 58 (15.5%), il che ci dà una media generale di 17.9%, un po’ più di un titolo su sei. Molto? Poco? Si sa che i numeri, quando si parla di letteratura, sono soltanto gingilli, ma di certo è una percentuale molto superiore a quella dei libri «strani» che vengono pubblicati, in un contesto editoriale che vede ancora l’egemonia del realismo – e questo senza neanche considerare la sostanziale esclusione da qualunque riflessione «canonica» di quasi tutto ciò che risulta interamente ascrivibile ai «generi». 

Viene tuttavia naturale un’osservazione: tre, quattro, cinque anni fa, nei dibattiti sullo «strano» (che in Italia, come a Est, ha più a che fare con il lavoro sulla metafisica e con un certo tipo di ricerca formale, che con il «new weird» nell’accezione anglosassone) si parlava di Mari e Moresco tra i venerati maestri, di nomi come Morstabilini, Funetta, Bernardi, Esposito o Di Fronzo tra le brillanti promesse, e ancora dei «Gotici mediterranei» Gentile, Tetti, Labbate e Di Monopoli, delle distopiche Raimo e Bellocchio, delle «magiche» Lipperini e Matteoni, dei «non-classificabili-ma-comunque-strani» Magini, Meacci, D’Isa e Tedoldi… Quei nomi ci sono ancora, in diversi casi hanno già pubblicato nuovi libri significativi, ma dietro di loro? Il panorama autoriale, rispetto a questo quadro, non sembra cambiato moltissimo. Qualche nome sparso c’è: Mirabelli, il cui Configurazione Tundra è stato il penultimo titolo della collana Romanzi di Tunué, diretta da chi scrive, che assieme al Saggiatore diretto dallo stesso Andrea Gentile, e poi alla collana Altrove di Chiarelettere diretta da Michele Vaccari, aveva ospitato una discreta parte di questa corrente; spingendosi più nella sci-fi (e forse, quindi, del tutto fuori dalla categoria qui intesa) si trova Tevini, il cui Storia di cento occhiè uscito per la stessa Safarà che ha portato in Italia il vero capostipite del «nuovo strano», il sommo Lanark di Alasdair Grey (in questo senso vale la pena ricordare anche la riscoperta da parte di Cliquot del proto-lovecraftiano italiano Carlo H. De’ Medici, col suo Gomoria); si può citare anche Gregorio H. Meier, che con lo stranissimo, anche formalmente, Io e Bafometto, edito da Wojtek, si è posizionato come uno dei migliori esordienti italiani del 2021, se non il migliore (tra gli esordienti spiccano anche il Cassini di Non tutto il male e la Guerrieri di Non muoiono le api, sebbene anche qua, come per Tevini, si sia di fronte ad autori più orgogliosamente «di genere» che «ibridi», e quindi forse da considerare fuori dallo «strano» che si intende in questa sede), e qualche altra proposta interessante da case editrici avvedute ma ancora quasi invisibili dal punto di vista distributivo come Acheron o Zona42; tuttavia, l’impressione generale è che, rispetto alla quantità e qualità di voci emerse tra il 2014 e il 2019, se da un lato continua un interessante ribollire di nuovi nomi e nuove idee, dall’altro sia mancato quel momento di agganciamento e spinta che poteva essere costituito da un interesse reale della grande editoria: l’onda «strana» è stata propulsa quasi esclusivamente da editori medi, medio-piccoli e piccoli, e non essendo poi giunto il volano a cui volte le «major» danno vita se intercettano una tendenza e decidono di puntarci su, l’onda sia rientrata nell’oceano, fatti salvi giusto i big internazionali Krasznahorkai e Tokarczuk, che hanno trovato casa presso Bompiani – sebbene, come abbiamo visto, per tutt’altre ragioni. Se però, oggi, autori come Gospodinov o Cărtărescu sono, almeno a giudicare dai loro voti, tra i più letti e apprezzati dagli addetti ai lavori, è naturale ipotizzare che, finito il momento-autofiction che stiamo vivendo (per certi versi un’ultima ratio del realismo-a-ogni-costo, ma anche questa potrebbe essere una lettura semplicistica: non sono forse Solenoide Fisica della malinconia due ibridi tra autofiction e «strano»?), qualcosa accadrà; ma accadrà fuori dalle «bolle» degli addetti ai lavori e dell’underground letterario soltanto se la grande editoria italiana vorrà intercettarlo, il che non significa solo dargli una chance, ma anche prenderlo sul serio, promuoverlo e valorizzarlo, insomma credere davvero in qualcosa di nuovo (anzi, di «novo»), uscendo da quella postura per lo più difensiva seguita allo scoppio della «bolla degli esordient e mantenuta, anche a causa della pandemia, fino a questo momento. 

ARTICOLO n. 77 / 2021

DIVENTARE ADULTI

ritratto di Paolo Sorrentino

Da bambino ero quasi condannato a osservare perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempo che nel ricordo mi appare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfottò, le dinamiche del gioco, le psicologie.

PAOLO SORRENTINO, Vanity Fair, 20 maggio 2020.
Intervista di Malcom Pagani.

Nei film di Paolo Sorrentino i bambini sono ovunque: non sono piccoli e teneri, ma sono uomini e donne adulti, individui ostinati, spesso viziati, infantili, che si autoconvincono delle loro idee, che le ripetono fino allo sfinimento e che per tutto il tempo cercano – perché è questo quello che fanno: cercano – il loro posto nel mondo. 

Essere liberi, per il Tony Pisapia de L’uomo in più (2001), significa essere sé stessi, significa vivere senza costrizioni e senza limiti, conoscere la sostanza delle cose nel profondo e farsela piacere, innamorarsene e poi abusarne fino allo sfinimento, fino a dimenticare. Ne Le conseguenze dell’amore (2004) Titta Di Girolamo ha la stessa paura di cambiare, e di crescere, di un adolescente: si protegge ripetendo gli stessi movimenti e gli stessi rituali; prova a seguire le regole che si è dato, e proprio alla fine, proprio quando pensa di aver perso tutto, vince. Stravince, anzi. Perché scopre l’amicizia, e nell’amicizia diventa completo: diventa adulto. 

Il Geremia de’ Geremei de L’amico di famiglia (2006) vive con sua madre, e tutto il suo mondo ruota attorno a quest’idea assurda di amore-odio. Ricorda l’infanzia, ricorda quello che era, e nella malinconia per il passato diventa cattivo e meschino: fa quello che fa quasi per ripicca. Ama le donne ed è ossessionato dalla bellezza. Lui che, da tutti, viene considerato brutto. È un bambino. Quando la volpe non arriva all’uva, dice che è acerba, che non va bene. Geremia, quell’uva, la vuole comunque. Proprio come, nonostante tutto, continua a volere sua madre. 

Ne Il Divo (2008) Andreotti gioca. Con il potere, con le persone, con quello che gli altri pensano e credono. E si diverte. È uno dei personaggi più ironici del pantheon sorrentiniano. Sembra un folletto: curvo, con le mani sempre raccolte, le orecchie grandi, la fronte enorme e spaziosa. Ha una vocina sottile, meditabonda. È intelligentissimo. Perché, proprio come i bambini, ha una visione diversa. 

Anche il Cheyenne di This must be the place (2011) si trova in una dimensione sospesa, quasi alternativa, dove non si urla ma si parla piano, quasi sottovoce, dove tutto sembra ovattato e rallentato, e dove l’immensità dell’esistenza si risolve nelle piccole cose. Si mette in viaggio per ritrovare le sue origini e rivedere suo padre. Conosce la tristezza, perché nella tristezza ha trovato una compagna fedele. 

Jep Gambardella, ne La grande bellezza (2013), si sente incompleto. Ha scritto un libro, ed è stato un grandissimo successo. Rimpiange, però, il suo passato; soprattutto rimpiange il suo primo amore che non è mai andato via e che, puntualmente, nei ricordi e nei sogni a occhi aperti, ritorna. I motoscafi, le isole, il mare azzurro. Tuff tuff tuff anche qui. I bambini che incontra nelle sue infinite passeggiate gli sorridono come, a volte, sorride la vita: all’improvviso e senza nessuna malizia. È l’innocenza. La stessa innocenza della Santa che dice: le radici sono importanti. E quindi è importante il passato ed è importante l’infanzia; è importante essere, ed essere stati, bambini. 

In Youth – La giovinezza (2015) si parla proprio di questo, e cioè dell’immaturità genuina, spontanea, che risiede in ogni persona, e che non ha niente a che fare con l’età o con gli anni. Ogni rapporto, ogni relazione e ogni ruolo sono solo parti di uno schema più ampio, meno complicato e decisamente prevedibile: la vita è una linea, inizia e finisce; e sta proprio a noi capire che cosa farne. Quando però ci riusciamo è troppo tardi. Siamo soddisfatti, perché abbiamo risolto il rompicapo più difficile di tutti, e siamo, per la prima volta, consapevoli. Una Rossana può davvero essere la felicità. 

Anche il Berlusconi di Loro (2018) è un uomo che vuole continuare a giocare, che non sa accontentarsi, che vede l’amore e il sesso come accessori, e che ne capisce pienamente il valore quando li perde. Non è una giustificazione, non è il tentativo di riabilitare una figura controversa della nostra storia più recente: è l’umanità intesa come caratteristica nella sua definizione più elementare. E quindi come sinonimo di fallibilità, di mediocrità, di errore, di imperfezione e di ironia. 

In The Young Pope (2016) e in The New Pope (2020) il protagonista è stato abbandonato dai genitori, e per tutto il tempo, dal primissimo all’ultimo istante, fa quello che fa per ritrovarli, per risentirsi a casa e per essere finalmente accettato. All’inizio è viziato e arrogante, perché è arrabbiato. Poi, lentamente, riscopre il piacere della semplicità, dell’affetto vero, del bene fatto senza pretendere nulla in cambio. Diventa quello che deve diventare: un uomo.

Il filo rosso del cinema di Sorrentino

Tutto quello che Sorrentino ha raccontato è unito da questo filo rosso, sottilissimo ma evidente, fatto di ricordi, di piccoli frammenti e di battute bellissime: diventare adulti; non essere più bambini; prendere, finalmente, il controllo della propria vita. Ma la verità è anche un’altra. Perché non si smette mai di crescere, si è sempre figli di qualcuno e tutto, anche la cosa più complicata e assurda, può essere ricondotto alla logica del gioco. 

Il cinema è una lente di ingrandimento o, a seconda dei punti di vista, un grandangolo per allargare la propria prospettiva sulle persone e sul mondo. Con il cinema, e con la parola scritta, e anche con la televisione, si può affrontare qualunque argomento e qualunque tema senza mai accontentarsi. 

Il talento di Tony Pisapia è come il talento di Maradona, figura che ritorna spessissimo, anche citata per caso, nei film di Sorrentino. L’ironia di Andreotti è come l’ironia di Geremia de’ Geremei: spesso incompresa, a volte sottile e volutamente cattiva. Il successo, che unisce un po’ tutti i personaggi di Sorrentino, non è l’obiettivo, ma il mezzo: e quindi anche Jep Gambardella, così apprezzato e ben voluto, non sa ancora cosa essere da grande. Uno scrittore? Un giornalista? Un pensatore? Le domande si accumulano, e le risposte non bastano.

È stata la mano di Dio

In È stata la mano di Dio (2021) Fabietto, il protagonista interpretato da Filippo Scotti, è Sorrentino. Quando era giovane, quando viveva a Napoli, quando cercava la sua strada. È un film autobiografico, ma è pure un film di finzione, perché Sorrentino si prende le sue libertà e unisce racconti e ricordi, insegue una cronologia degli eventi più o meno precisa, e poi la ribalta. C’è lo scherzo, c’è la responsabilità delle scelte, e c’è quel passaggio fondamentale, centrale per tutto il tempo, dall’infanzia all’età adulta.

Per Fabietto essere grande vuol dire smettere di farsi chiamare Fabietto, vuol dire fare l’amore per la prima volta e non sognare più zia Patrizia; vuol dire affrontare la perdita dei genitori, e farlo nonostante l’impossibilità di poter dire addio. Ma vuol pure dire prendere un treno e lasciare Napoli, trovare qualcosa – qualcosa di importante – da raccontare, urlare finalmente la propria insoddisfazione e la propria frustrazione.

Fabietto è un personaggio che, nel corso del film, cresce. E prima è un figlio, poi è un orfano. Prima parla con suo fratello come un amico; poi diventa più serio, ed entrambi si confessano cose più difficili e importanti. In un certo senso, Fabietto si riscopre. Perché, nel profondo, è sempre stato la stessa persona: ha sempre visto Napoli, la famiglia, le zie e i cugini in un modo; ha sempre provato a mettere in ordine i pensieri e le parole; ha sempre desiderato, sognato e sofferto. Quando però perde i suoi genitori, tutto si amplifica: diventa insopportabile. Una detonazione di dolore e angoscia. Manca qualcosa, e si nota nell’espressione di Fabietto, si nota nel modo in cui, all’improvviso, rimane in silenzio: si nota nella camminata spedita ma non veloce, nella meraviglia che, piano piano, ritorna, nella serietà che prende il posto dell’approssimazione.

Crescere, dopotutto, richiede sacrifici e privazioni. L’età dell’innocenza finisce quando finisce il tempo dei giochi a tutti i costi e del futuro senza forma: quando si è grandi, quando si è adulti, bisogna decidere. E bisogna, poi, convivere con le proprie scelte. Ed è questo che, prima di ogni altra cosa, Fabietto deve imparare. Il cinema non può essere un capriccio: deve essere una risposta a una domanda specifica. E l’amore, come il sesso, non può avere la consistenza fumosa di un desiderio: deve farsi carne, deve trovare un corpo e avere delle sembianze precise.

Ma chi cresce deve anche essere in grado di trovare da solo i suoi maestri, di sceglierseli. Non è più il tempo della scuola e delle lezioni obbligate: da grandi, dobbiamo capire cosa vogliamo imparare e da chi, poi, vogliamo impararlo. Fabietto – come Sorrentino – trova in Antonio Capuano la sua guida. Anzi, meglio: l’innesco del suo cambiamento. Capuano lo sprona, lo mette davanti a un bivio: Napoli, il cinema, le storie, dire e non dire, parlare oppure tacere; capire cosa vale la pena inseguire, e cosa, invece, non serve, è solo una distrazione.

Crescere a Napoli, crescere lontano da Napoli

Crescere non è una cosa facile, e non c’è un libretto delle istruzioni da seguire per farlo. Crescere, spesso, è il risultato di quello che ci succede intorno, di quello che vediamo e che proviamo, di quello che ci dicono gli altri e che copiamo e riprendiamo da loro. Crescere, a volte, richiede tantissimo tempo. Altre volte, invece, succede all’improvviso: prima si è una persona, e il momento dopo un’altra. 

Conta, in questo grande schema, anche l’ambiente, e quindi la città in cui si nasce. Per Fabietto questa città è Napoli. E in È stata la mano di Dio Napoli è ovunque. Nelle strade, negli scorci di mare, nei tuff tuff tuff dei motoscafi; nell’aria scanzonata e divertita dei contrabbandieri; nei pavimenti di marmo, nell’esultanza sui balconi, nel tifo religioso per un uomo, Maradona, e per una squadra.

Napoli rappresenta, come gli altri personaggi, un grande incontro. E, a suo modo, una grande riscoperta. Una città che vive nel sottosuolo e che è calda, pulsante, trafficata e rumorosa. Una città che è pure delicata, e che come il mare avvolge tutto, ogni cosa, ogni persona. Napoli è una religione, ed è pure una maledizione: perché ti forma, e ti costringe a una determinata idea. Se sei napoletano, dividi le persone in napoletane e non napoletane; se cresci a Napoli, ci saranno la tua città e la città degli altri. Viaggiare è una sfida, perché per trovare una nuova casa bisogna vincere una scommessa. E Fabietto lo sa: glielo si legge in faccia quando prende il suo treno per Roma («solo gli stronzi vanno a Roma»), quando si abbandona con la testa contro il finestrino, e rimane ad ascoltare.

‘O Munaciello

Nel cinema di Sorrentino, i bambini hanno qualcosa di più rispetto agli adulti. Sono estremi. Immuni ai compromessi. Ne La grande bellezza sono Roma stessa, perché giocano, sono felici, e perché sono confinati in uno spazio preciso, sorvegliati a vista. In È stata la mano di Dio, i bambini sono ‘o munaciello: e quindi sono a metà, esseri magici e mistici, fatti di carne e idee, di fede e scaramanzia. Alla fine, però, anche ‘o munaciello è solo un bambino, e quando si mostra alla luce del sole i sogni finiscono per coincidere con la realtà.

Ma in È stata la mano di Dio i bambini sono anche fastidiosi, insistenti; stanno lì e ti fissano, e ti fanno arrabbiare perché non vuoi essere fissato, perché sei in un momento particolare e vuoi rimanere solo con il tuo dolore, e invece loro stanno lì: si aggiustano i capelli, poi gli occhiali, e mentre aspettano il ritorno della madre ti guardano. E tu ti incazzi. I bambini, l’abbiamo già detto, sono estremi. Prima si spaventano per il rumore di una bottiglia che scoppia, poi sorridono divertiti.

La cosa più interessante, però, non è né il punto di partenza – il bambino, appunto – né il punto d’arrivo – l’adulto; la cosa più interessante è quello che unisce questi due punti, il viaggio da una forma all’altra, da un insieme di idee a un pugno di convinzioni (magari sbagliate). Chi cresce deve attraversare un mutamento, che comincia prima di tutto nella testa. Fabietto rimane fondamentalmente identico: gli stessi capelli, lo stesso orecchino, lo stesso modo curvo di stare in piedi e di affrontare le persone. Ma cresce, e cresce visibilmente: gli occhi conservano il loro taglio, ma si chiudono con una saggezza diversa; la voce esce fuori un po’ più lenta e impastata, e le cose importanti, di colpo, sono altre. 

Essere adulti, forse, significa proprio questo: imparare a convivere con il dolore, non allontanarlo; imparare a fronteggiarlo e a provarlo con giudizio. Perché anche quello serve. E insomma, il gioco non si ferma: continua. Cambia la musica di sottofondo, e alla gioia di fare, tipica dell’infanzia e dell’adolescenza, si aggiunge la malinconia per il passato, per ciò che è stato e che non potrà più essere. Il cinema di Sorrentino è una guida, un atlante. Titolo: come diventare adulti.

ARTICOLO n. 76 / 2021

MANGA

Istruzioni sentimentali per l'uso

1986, Milano. Giardino di una scuola d’infanzia. Intervallo.

«A cosa giochiamo?» chiede la bambina con i capelli corti. 

«Strega comanda color?» propone quella con le scarpette di vernice. 

«Giochiamo a fare le torte di sabbia? Possiamo decorarle con le margherite o con i fiori gialli» dice quella minuta con gli occhiali di plastica rosa.

«Perché non giochiamo a Occhi di gatto?» L’idea è della bambina con la coda di cavallo. 

Scarpette di vernice e occhiali rosa si entusiasmano, discutono: «Io faccio Sheila.» «No io, tu puoi fare la più piccola, Tati.» «Ma non mi piace la cintura arancione, voglio quella gialla.» «Domani portiamo tutte una sciarpa, tu portala azzurra così fai Kelly. Poi dobbiamo anche scegliere cosa rubare.»

La bambina con i capelli corti non si è ancora fatta avanti, finalmente trova il coraggio di chiedere: «Come si gioca a Occhi di gatto

Le altre bambine si scambiano sguardi interrogativi, impietositi, scocciati.

«Ah già che tu non hai la tv.» 

La tv, la bambina con i capelli corti ce l’ha ma i genitori non gliela lasciano guardare mai. Non sa niente di Kelly, fasce colorate, gatti e ladri, e le altre giocano senza di lei. 

1987, Milano. Salotto di una casa in via Ripamonti. 

La bambina con i capelli corti ha finito di pranzare dalla nonna e fra poco andrà al corso di pattinaggio sul ghiaccio. Il freddo non le piace, pattinare invece sì. Però è sempre difficile lasciare il divano caldo per la pista gelida, le maestre severe e il ghiaccio duro quando si cade. E lo è ancora di più da quando la nonna le permette – violando il divieto tv – di guardare quindici minuti di cartoni animati mentre lei si prepara. La nonna è sempre elegante, anche quando la aspetta un intero pomeriggio sugli spalti scomodi del palazzetto. 

Sullo schermo compare un treno che viaggia nella galassia, una donna vestita di nero, lunghi capelli biondi, l’aria triste, enigmatica, un ragazzino orfano e un controllore senza volto. La bambina con i capelli corti non capisce molto della trama, ma quello che sta vedendo la cattura, è un piacere strano, paura vissuta al sicuro. 

«Dai, non possiamo fare tardi» dice la nonna.

Deve spegnere. 

Ogni volta, dopo soli quindici minuti abbandona quei pianeti sinistri, mortiferi, desolati prima di sapere se e chi si salverà. Non vedrà mai una puntata dall’inizio alla fine, eppure quel tempo insieme alla donna bionda e al bambino orfano nello spazio è un piacere irrinunciabile. 

1992, Milano. Vie del centro.

La bambina con i capelli corti è quasi una ragazzina. Sta andando al cinema con il padre: ancora niente tv, ma tre pomeriggi al mese sono dedicati al grande schermo. Il padre questa volta ha scelto un cartone animato. Lei è diffidente, lo conosce, non è un tipo da Disney. E infatti quando arrivano davanti alla sala la locandina che li accoglie non ha nulla di infantile: un motociclista di spalle, vestito di rosso, si dirige verso una moto dello stesso colore. Il suolo è bianco, spaccato in un punto. Akira, il titolo, è scritto in solide lettere maiuscole. «È un film di animazione giapponese, non un cartone per bambini» le dice.

Lei è cresciuta, certo, ma forse non abbastanza: immagini di una città postatomica, guerra fra bande, ribellioni, un bambino dalla pelle azzurrognola e rugosa, ritmi primitivi, sintetizzatori, un arto meccanico, un corpo umano che si trasforma in qualcosa di mostruoso la affliggeranno nei sogni, mentre fa colazione o cammina per andare a scuola.

In Italia la diffusione della cultura pop giapponese ha avuto inizio attraverso il piccolo schermo e questi sono i miei primi tre ricordi che la riguardano: la bambina con i capelli corti sono io. Ho cominciato a osservare quel mondo di nascosto, talvolta di sfuggita, oppure fin troppo da vicino proprio negli anni in cui ha sedotto e conquistato, per la prima volta, il pubblico italiano. All’epoca in televisione erano tanti i cartoni animati giapponesi trasmessi, al contrario pochi erano gli editori che si avventuravano nella pubblicazione di manga – e infatti noi abbiamo sperimentato una dicotomia e uno sfasamento schermo-carta che non rispecchiava quanto accadeva in Giappone, dove la produzione e la distribuzione della versione cartacea precede la versione animata.

E così mentre Lady Oscar creava valorose adepte fra le mie amiche e Georgie le faceva piangere, nelle camerette si giocava all’Incantevole Creamy con bacchette improvvisate e recitando paripampum molto convinti. Tutte con lo stesso desiderio di essere magiche, di potersi trasformare in una cantante-illusionista amatissima, di diventare una pallavolista capace di ovalizzare i palloni, di scoprirsi un prodigio della ginnastica ritmica, di avere una vita normale e una incredibile. E poi – anzi prima, durante e dopo – c’erano i robottoni: Goldrake, Mazinga, Jeeg per citarne giusto tre. Nonostante i prodotti non raggiungessero sempre in purezza (traduzione, tagli, riduzioni) il mercato nostrano, e nonostante fosse ancora radicato il pensiero «sono cartoni animati quindi sono per bambini» – ma come esistono libri di narrativa per bambini e per adulti, allo stesso modo anche i manga sono destinati a un pubblico diverso a seconda delle tematiche e dei contenuti – quel linguaggio funzionava. A prescindere dal merchandising che sarebbe diventato consistente negli anni e avrebbe funzionato da amplificatore, le qualità seduttive di quel prodotto culturale esistevano soprattutto in virtù delle sue potenzialità narrative, delle sue ambientazioni, della sua estetica, della profondità emotiva. L’anime-manga è stato quindi capace di coinvolgere e incuriosire anche un pubblico che aveva tutt’altre matrici culturali rispetto a quelle del paese che lo aveva creato e dove la sua industria era solida e sfavillante da tempo grazie al successo di mercato. 

La prima esposizione all’immaginario visivo giapponese avviene quindi in Italia negli anni settanta e ottanta, e crea una generazione di appassionati. Spettatori diventati poi lettori e che, in alcuni casi, hanno visto i loro interessi trasformarsi in culti, territori di studio, ricerca, collezionismo. 

Quanto a me, per una decina di anni non ricordo di essermi più curata molto dei manga – ho letto appassionatamente Black Jack e Nana – e i graffi dell’infanzia si sono trasformati in quiete cicatrici.

Finché nel 2007 sono capitata in Giappone dove, pochi mesi dopo, ho scelto di vivere. Una decisione semplice, spontanea – per quanto possibile. Guardando ora a quel tempo, ho la sensazione che parte del desiderio di abitare il Paese mi abitasse dagli anni della frustrazione per Occhi di Gatto, del treno spaziale Galaxy 999 e dall’apocalisse di Akira. Una sorta di malìa, che ha potuto perfezionarsi nel momento dell’incontro fisico e reale con la capitale. Quando sono arrivata a Tokyo ero nuova e senza aspettative: eppure il fascino si è dispiegato in tutta la sua forza, e ha fatto divampare l’interesse. Ben presto ho iniziato a colmare le lacune, ho completato letture e visioni e ne ho aggiunte di più attuali – Death Note è per me il titolo della consapevolezza. 

Ma, al netto della produzione ineguagliabile e della storia profondamente radicata, dov’era possibile incontrare i segni tangibili e immediati di questa forte presenza? Sono entrata in libreria, un punto vendita di grandi dimensioni parte di una catena: era molto lo spazio destinato ai manga – serie di culto, edizioni speciali, ultime uscite, diversissimi per tematiche, ambientazioni, generi, formati, pubblico di riferimento. Anche nei konbini – minimarket aperti 24h che vendono poche cose di immediata necessità – i manga occupavano almeno qualche scaffale. 

Il volume di denaro che riescono a muovere è da tempo una fetta importantissima dell’intero comparto editoriale del paese – oggi, secondo le indagini della società di ricerche di mercato Statista, questo volume ammonta a 612.000 miliardi di yen, poco meno di metà del totale. 

I protagonisti dei manga sono eroi popolari, conosciuti e amati in tutto il Giappone, e quindi ottimi testimonial pubblicitari o portavoce di messaggi importanti: dalle campagne informative del governo al food marketing, dalla promozione del turismo locale alle norme di comportamento in metropolitana. La principessa Zaffiro e Astroboy di Osamu Tezuka spiegano come non causare incendi all’aperto, mentre Simbad e Black Jack danno buoni consigli su come evitare gli incidenti domestici generati da stufe elettriche, fuoriuscite di gas o fiamme libere. Duke Togo, il sicario protagonista di Golgo 13, la serie manga più longeva tuttora in corso (il primo numero è stato pubblicato nel 1968) insegna alle piccole e medie imprese come tutelarsi all’estero. A Oreimo, una delle protagoniste della serie Oreimo – My Little Sister Can’t Be This Cute, si sono affidati nel 2015 per spiegare le conseguenze dell’abbassamento dell’età di voto da 20 a 18 anni (in Giappone la maggiore età è 20 anni). Miss Dronio (la supercattiva di Yattaman) e Black Jack si mostrano insieme – una passeggiata sotto la neve, una romantica gita in barca – sul manifesto pubblicitario di un’agenzia matrimoniale: lei è iraconda e determinata, lui cupo e misterioso, sarà amore? 

E quando non sono i personaggi più noti a essere in prima linea, spesso lo è lo stile manga: l’immagine veicola il messaggio con maggior semplicità rispetto a un testo, e quindi più rapidamente. Ho visto manga educational per spiegare la Costituzione. Ogni istituto costituzionale è incarnato da un personaggio femminile. La bionda è Saibansho-chan la signorina tribunale, quella blu è Kokkai-chan la signorina parlamento, e la mora è Naikaku chan la signorina Consiglio dei ministri. Per spiegare come funziona la Convenzione dell’Aia sulla sottrazione internazionale di minori, un argomento dibattuto e controverso nel paese, di nuovo è stato scelto di utilizzare un manga.

Ma anche nella quotidianità, in una giornata qualsiasi è facile incontrare un fumetto che spieghi come fare la raccolta differenziata, o che promuova un’iniziativa benefica.  

L’anno scorso, il successo travolgente di Demon Slayer – Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba dal novembre 2019 al novembre 2020 ha venduto in Giappone più di 82 milioni di copie – gli ha garantito sponsorizzazioni di ogni tipo, dai cup ramen agli snack, dalle mascherine ai rasoi da uomo, dalle compagnie telefoniche a quelle aeree, dall’abbigliamento agli occhiali da vista.

Intanto, in Italia, negli anni successivi al primo boom, il manga ha raccolto sempre più attenzione, si è liberato di alcuni pregiudizi, è stato riconosciuto come prodotto di grande qualità e letterario (anche se non sempre e non da tutti) ed è stato pubblicato da editori sempre più sensibili, seri, consapevoli che gli hanno assegnato risorse e strumenti specifici. E certamente ha giocato un ruolo importante anche la distribuzione: dalle edicole e dai negozi specializzati o per appassionati, i manga si sono diffusi nelle librerie, e sono sempre più spesso fruiti anche online e in forma digitale. Tutto ciò ha dato i suoi risultati e nel 2021 i manga, finalmente ammessi nelle rilevazioni ufficiali dei libri più venduti, hanno raggiunto i primi posti delle classifiche. Il pubblico italiano ha riconfermato la propria passione (vecchie serie, riscoperte, novità) e questa volta ha trovato il suo interesse sostenuto anche da una struttura – librerie, editoria, comunicazione – che lo ha nutrito con sapienza e attenzione. Ma cosa ha reso l’Italia un terreno così fertile? 

«Italia e Francia sono tra i primi paesi al mondo a importare anime giapponesi negli anni settanta, molto prima del mondo anglofono dove manga e anime rimangono un fenomeno di nicchia e da nerd fino più o meno al nuovo millennio, quando nascono distributori come Tokyopop. Altro elemento che facilita la diffusione del manga in Italia (e un discorso simile vale per la Francia) è la presenza di una forte tradizione locale di fumetti narrativi, molto diversi dal fumetto nordamericano di supereroi, e più vicini all’estetica e alle tematiche del manga. Altra cosa interessante è che proprio per questa storia relativamente lunga di interesse per il manga tra i lettori italiani, negli ultimi anni sta crescendo abbastanza il fenomeno del gaijin manga, fumetti in stile manga ma scritti in lingue diverse dal giapponese, autori come Vincenzo Filosa (Viaggio a Tokyo, Figlio Unico), che creano fumetti in stile manga, alcuni ambientati in Giappone altri ambientati in Italia o in mondi immaginari. Un altro esempio interessante è Giuseppe Durato che si è formato in Giappone come assistente della mangaka Keiko Nishi, e ha poi pubblicato una sua serie sulla rivista Big Comics Spirits, Mingo: Itariajin ga minna moteru to omounayo, poi ripubblicata in volume e ora tradotta anche in italiano, facendo il giro completo.» Mi dice Rebecca Suter, Direttrice del programma di studi giapponesi all’Università di Sydney, alla quale ho chiesto un parere autorevole sull’argomento. 

Rivoluzione culturale? Fuga dall’Occidente? Probabilmente entrambe le cose e credo che la risposta abbia una componente personale oltre che una sociale. 

Arte, profondità, trasversalità, scrittura accurata, letteratura, punti di vista alternativi, domande cosmiche, risposte cosmiche, domande quotidiane, risposte quotidiane, visioni future, conoscenza, invenzione, personaggi indimenticabili, distorsioni e riallineamenti, distruzione e ricostruzione, compagnia, partecipazione, commozione: questo è solo un frammento della sequenza, anzi della successione disordinata di termini che associo al manga, un flusso che ha origine nei ricordi e porta con sé le impressioni di un mondo tanto reale quanto inimmaginabile, un flusso capace di generare continua curiosità tra sguardo e pensiero.

2014, Nagoya, zona di Endoji.

La bambina con i capelli corti è adulta e da qualche anno vive in Giappone. Da poco ha cambiato città, abita in un condominio di pochi piani, in una zona di case tradizionali e silenziose. Non è facile integrarsi nel nuovo quartiere. Quando esce per fare una passeggiata al tramonto incontra spesso una vicina, una donna giapponese, che deve avere solo qualche anno più di lei – o almeno così sembra. La donna porta a spasso il suo cane, un piccolo shiba inu dall’espressione sorridente. Anche se il cane si mostra incuriosito dalla ragazza, la donna lo strattona e non lascia che si fermi. Alla ragazza dispiace, vorrebbe fargli almeno una carezza. 

È un pomeriggio d’inverno, nevica fitto. La ragazza esce lo stesso, e anche la vicina con il cane. Come sempre si incontrano, come sempre il cane si mostra affettuoso, come sempre la donna sta per portarlo via. 

«Come si chiama?» chiede la ragazza, mentre i fiocchi riempiono lo spazio, tengono la giusta distanza.

«Nana-chan» dice la vicina. 

Il cane scodinzola sentendo il suo nome. 

«Nana, come il manga?» chiede la ragazza.

La vicina cambia espressione, per la prima volta il loro sguardo si incontra. 

«Sì. Lo conosci anche tu?»

La ragazza annuisce: «La storia inizia in una giornata di neve…»

ARTICOLO n. 75 / 2021

CAMBIARE IL MONDO COMINCIANDO DA SÉ STESSI

Conversazione con Enzo Restagno

Enzo Restagno. Nei primi anni sessanta lei ha lavorato per un certo tempo all’interno della radio estone. Immagino che il suo fosse un lavoro assolutamente normale di tecnico del suono che però le avrà dato la possibilità di ascoltare moltissima musica. Potrebbe raccontarci come ha vissuto quell’esperienza? 

Arvo Pärt. Quel lavoro si svolse parallelamente ai miei studi in conservatorio. Nella mia condizione di tecnico del suono dovevo osservare un orario molto flessibile. Facevamo delle registrazioni – tre o quattro ore al giorno – oppure trasmettevamo dei concerti dal vivo. Era un lavoro interessante grazie al quale potevo avere a disposizione registrazioni di ogni genere di musica e soprattutto potevo vedere e ascoltare una quantità di partiture contemporanee. Alla radio estone i tecnici del suono erano quasi tutti dei compositori e nell’insieme formavamo una compagnia molto vivace e creativa. Uno degli aspetti più preziosi di questo nostro lavoro veniva dagli scambi musicali con altri paesi; non tanto con la Germania, la Francia o l’Italia, ma piuttosto con paesi come la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Polonia, dai quali ricevevamo musiche spesso molto interessanti. A volte qualcuno di quegli scambi non arrivava alle orecchie degli ascoltatori della radio estone, ma noi avevamo ugualmente la possibilità di accedere a quelle musiche proibite che poi restavano sigillate dentro gli archivi. 

E.R. Può fare un esempio di quelle “musiche proibite”? Erano di autori del blocco orientale o anche di altri compositori? 

A.P. No, anche di altri.
E.R. Quindi, per esempio, musiche di Boulez, Nono, Stockhausen, Berio… 

A.P. Sì, tra le musiche “proibite” c’era anche qualche loro componimento, però la sorgente principale dalla quale ci arrivavano le testimonianze della nuova musica per noi era Mosca, con le opere di Schnittke e di Denisov. Entrambi avevano rapporti personali con molti compositori dell’Ovest, con Boulez per esempio, e allora succedeva che componimenti censurati a Mosca arrivassero a noi. 

E.R. A dispetto delle direttive ufficiali c’era in quegli anni un fitto scambio di informazioni che affluivano dai canali più disparati; ricordo benissimo che Luigi Nono mi raccontava delle sue visite a Mosca in cui portava ai colleghi quantità di dischi e di partiture. C’era poi il festival dell’Autunno di Varsavia che funzionava un po’ come una zona franca dove i musicisti dell’Est potevano recarsi senza troppe difficoltà per ascoltare le voci dei loro colleghi dell’Occidente. Vorrei chiederle quali, fra le testimonianze che riuscivano a filtrare attraverso le maglie della censura, furono per lei particolarmente interessanti. 

A.P. Direi che mi interessava tutto senza eccezioni, perché davanti a quei documenti provenienti da un mondo musicale diverso, noi non avevamo la volontà di scegliere e di giudicare. Per noi non c’era il buono e il cattivo; nel nostro ghetto sovietico accoglievamo ogni cosa che arrivava dall’esterno con gioia. Il tempo ha mostrato verso quali lidi ogni compositore si è diretto e Denisov, per esempio, ha scelto una strada molto diversa dalla mia, ma tutto questo si è chiarito solo con il tempo. Noi allora abbiamo accettato ogni cosa con grande rispetto, ma se proprio vuole sapere qualcosa sulle mie predilezioni, allora devo parlarle di Anton Webern. Alla nostra radio era arrivata anche la registrazione integrale delle opere di Webern che qualcuno era riuscito, non ricordo come, a procurarsi a Mosca. Le assicuro che mi fece una grande impressione. Ebbi la possibilità di ascoltare anche Boulez che però alle mie orecchie suonò allora piuttosto estraneo; Webern invece, probabilmente per la sua grande trasparenza, sentivo che scendeva nel profondo.

E.R. Mi chiedo se fra tutte quelle musiche clandestine ebbe la possibilità di ascoltare anche Messiaen? 

A.P. No, non me ne ricordo. Salvo qualche rara eccezione, noi eravamo maggiormente attratti dalle opere dei musicisti della nostra generazione. Quello che vorrei farle presente, al di là delle singole scelte e delle predilezioni, è la sorpresa che quelle stesse scelte mi hanno procurato in seguito. Non appena cominciammo a scrivere una musica diversa, in qualche modo influenzata dai modelli occidentali, fummo bollati come nemici del partito e perseguitati. Quando arrivai in Occidente scoprii che quegli stessi musicisti che avevo preso a modello, attirando su di me l’accusa di amico del capitalismo, intendevano con i loro componimenti lottare contro il capitalismo. Mi misi a riflettere su questo fatto un po’ paradossale e mi resi conto che il mondo della nuova musica portava dentro di sé i germi di un conflitto. Vuole che le dica perché mi sono allontanato da questa musica? L’ho fatto perché per me quei conflitti non erano importanti, perché volevo lasciare dietro di me i conflitti con il mondo. 

E.R. Le sue parole suonano alle mie orecchie un po’ come una parafrasi del più bello fra i Rückert-Lieder di Mahler: «Ich bin der Welt abhanden gekommen». In effetti questa sua idea della nuova musica come una realtà carica di conflitti latenti mi sembra molto interessante; le sarei grato se volesse illustrarmela meglio. 

A.P. Si tratta di una questione assolutamente personale: sono arrivato alla conclusione che il mio compito non è quello di combattere con il mondo e neppure di giudicare questo o quello; prima di tutto devo cercare di giudicare me stesso perché ogni conflitto inizia dentro di noi. Questo non vuol dire che sono indifferente a quello che succede intorno a me, ma se qualcuno vuole cambiare o migliorare il mondo, allora deve cominciare da se stesso. Di questo sono assolutamente convinto. Se non cominciamo da noi stessi, il primo passo che compiamo in direzione del mondo contiene un grosso inganno e, insieme, anche una potenziale aggressione che tenderemo a diffondere intorno a noi. Come tutto questo si possa realizzare è un’altra faccenda, ma se si parte da questa idea, tutto assume una prospettiva nuova ed è proprio seguendo quest’ultima che io vado in cerca di altri suoni. In questo caso è la mia strada stessa che diventa sorgente di ispirazione: essa non procede verso l’esterno ma scende verso l’intimo, verso quel nucleo dal quale tutto nasce. Questo è il senso che l’operare ha per me: la costruzione e non la distruzione. 

E.R. La domanda che vorrei farle ora riguarda la sua musica da film. Lei ha scritto un certo numero di colonne sonore e talvolta anche musiche di scena per il teatro di prosa; si tratta, a mio giudizio, di esperienze importanti per un compositore, perché gli permettono di acquistare una superiore capacità di connotare situazioni e atmosfere

A.P. Nell’Unione Sovietica i più grandi compositori come Prokof’ev e Šostakovič hanno scritto musiche da film; da voi, in Occidente, è successo più di rado e questo dipendeva in gran parte dalla situazione politica. Nella musica era difficile esercitare la censura e, difatti, per le colonne sonore non esistevano controlli. Nei film parole e immagini venivano regolarmente tagliate dalla censura, ma lo sfondo musicale era come se non interessasse a nessuno. Molte musiche di Schnittke, vietate nelle sale da concerto, poterono tranquillamente essere utilizzate nei film. Anche da noi in Estonia le cose stavano così, anzi un po’ meglio che a Mosca perché, bene o male, quello che si scriveva si riusciva anche a farlo eseguire. Mi ricordo di una visita di Luigi Nono a Tallin: in quell’occasione lo portai in una sala cinematografica a vedere uno dei film per i quali avevo scritto le musiche. Avevo composto dei pezzi in una sorta di jazz dodecafonico con tanto di saxofono, vibrafono e tromba; se li avessi presentati in un concerto cameristico mi avrebbero sicuramente procurato un sacco di problemi, ma al cinema nessuno ci fece caso e Luigi Nono, ricordo, si divertì moltissimo. 

Nora Pärt. Scrivere colonne sonore era anche un’occasione per esprimersi musicalmente in modo assolutamente spontaneo. Arvo ha scritto anche molta musica destinata al teatro per bambini. 

A.P. È vero: in quelle occasioni mi era possibile un atteggiamento più liberamente creativo, talvolta quasi improvvisativo, che nella mia attività compositiva abituale, dove tutto era rigorosamente strutturato, faticavo a raggiungere. E non bisogna trascurare il fatto che per molti compositori, fra i quali includo anche Schnittke, Denisov e Sofija Gubajdulina, scrivere musiche da film era l’unica fonte di sostentamento. La cosiddetta musica pura – sinfonie, quartetti e altro – poteva recare qualche guadagno solo nel caso che fosse stata commissionata dallo stato. 

E.R. Lo so: Schnittke e Gubajdulina mi hanno raccontato queste cose qualche anno fa, ma quello che trovo ancora più miserabile, in quel clima di oppressione, è il fatto che venissero compilate liste di proscrizione, e non solo da Tikhon Khrennikov. A esse collaborarono con grande zelo i compositori più mediocri e politicamente allineati, ben contenti di conservare i loro privilegi e di colpire i colleghi più talentosi. Nel mesto orizzonte delle “anime morte” della musica sovietica, vorrei ricordare quei compositori della vecchia guardia come Khačaturjan, Kabalevskij o Sviridov, ai quali andavano gli incarichi più prestigiosi e le commissioni meglio remunerate. Erano musicisti pluridecorati, talvolta anche forniti di talento, ma che in ogni caso si premuravano di non permettere agli altri compositori di avvicinarsi troppo al recinto dei loro privilegi. Il fatto è che il principio del divide et impera lo si applica perfino alla gestione di una bottega e sotto qualsiasi regime. Tornando ai suoi lavori degli anni sessanta, vorrei parlare di un breve e semplice componimento che ebbe un successo strepitoso; intendo quel Solfeggio che lei scrisse nel 1963. 

A.P. In realtà non saprei cosa dire: si tratta solo di una scala (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si) che prende la forma di un cluster a quattro voci, perché ogni nota è accostata direttamente a un’altra. L’ho scritto seguendo le orme di Perpetuum mobile, utilizzando però solo sette suoni invece di dodici. Come vede, l’idea era molto semplice e non ero assolutamente sicuro che avrebbe funzionato fin quando non l’ho ascoltato. 

E.R. Effettivamente funziona benissimo.
A.P. Sì, se viene eseguito nel modo giusto, ma, mi creda, non saprei cos’altro aggiungere. 

E.R. Nel frattempo, mi riferisco sempre agli anni sessanta, lei aveva già scritto due sinfonie. Che cosa mi potrebbe raccontare di questi due componimenti? 

A.P. Mi riesce sempre difficile dire qualcosa sui miei componimenti; a volte non riesco nemmeno a immaginare una buona ragione per fornire delle spiegazioni di questo genere, ma a ogni modo cercherò di farlo. La mia Prima Sinfonia era il lavoro che presentai per il mio diploma al conservatorio ed è una composizione dodecafonica senza pretese. La seconda è un po’ più complessa; in essa si verifica infatti un primo approccio verso la contrapposizione tra il bianco e il nero. 

E.R. Significa forse che nella Seconda Sinfonia lei ha cercato di umanizzare la tecnica? 

A.P. Non sarei così estremo; direi che quello che misi in pratica con quella sinfonia fu semplicemente creare un’occasione per cercare di capire dove mi sarei sentito a casa: ora sono più tollerante, anche nei confronti della scrittura dodecafonica. Non sono i dodici suoni a essere colpevoli: tutto dipende dal compositore e dal modo in cui li usa. Bisogna vedere se il compositore vuole produrre un nettare o distillare un veleno. Webern, per esempio, non produce mai veleni. Ci sono dei limiti ben precisi per l’utilizzo di quei materiali; bisogna capire innanzitutto in che modo quel sistema può produrre dei frutti concreti. Molte volte è il sistema stesso a indicarci il modo in cui dobbiamo avvicinarlo e come possiamo servircene, ma a quell’epoca io ero molto meno tollerante di adesso e vivevo l’esperienza della mia Seconda Sinfonia e del Credo con grande tensione; sentivo che non potevo permettermi neppure la più piccola negligenza. 

E.R. L’inflessibilità che lei descrive è probabilmente il connotato più vistoso dei nostri anni di apprendistato; solo l’esperienza è in grado di insegnarci l’uso sapiente della regola e dell’eccezione; ma torniamo ora a quei suoi anni: c’è un lavoro molto significativo, scritto nel 1968, ed è il Credo per pianoforte, coro e orchestra. L’esecuzione avvenne a Tallin sotto la direzione di Neeme Järvi, insieme alla Sinfonia di Salmi di Stravinskij e mi risulta che si risolse in un successo non privo di scandalo. Com’è noto gli scandali giovano alla carriera, ma quello che io trovo più singolare in questa storia è il fatto che in quel caso fu scatenato dalla sezione centrale del componimento, quella in cui la tecnica dodecafonica, utilizzata con una procedura speciale, va a culminare in una violenta mimesi del caos. Mi piacerebbe però ascoltare il racconto delle intenzioni che racchiude questa partitura dalla voce del suo autore. 

A.P. A quell’epoca, e forse anche un po’ prima, avevo la sensazione di avere scoperto quello che chiamerei un nuovo inizio. La cosa più importante nell’affrontare la nuova opera fu per me il testo che avevo deciso di musicare; si trattava di quel passo del Vangelo in cui risiede il cuore stesso dell’insegnamento del Cristo, ovvero la frase con la quale all’antico detto “Oculum pro oculo, dente pro dente” Gesù risponde: «Autem ego vobis dico: non esse resistendum injuriae, Credo». Ho letteralmente sciolto questa frase in note e numeri, e si può notare come ogni parola trovi corrispondenza nei mezzi orchestrali utilizzati. Ora però vorrei provare a rievocare le circostanze in cui l’opera nacque. Da noi, normalmente un compositore doveva presentare i nuovi lavori a un’apposita commissione, eseguendoli o mettendo a disposizione una registrazione. La commissione decideva quindi se fosse opportuno o no eseguire il pezzo in pubblico. Io non avevo nessuna registrazione del pezzo e così ho invitato alcuni membri della commissione alla prova generale. Si dava il caso che il membro più feroce, nonché zelante servitore del partito e mio acerrimo nemico, fosse ammalato. A quelli che ascoltarono il mio Credo spiegai che avevo utilizzato dei materiali estratti dal primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach. Loro ne ricavarono una buona impressione e pensarono che il testo fosse assolutamente inoffensivo, probabilmente perché era in latino. Sta di fatto che il pezzo fu approvato e ne fu autorizzata l’esecuzione. La sera del concerto il pubblico si mostrò così entusiasta che il direttore fu indotto a ripetere il pezzo per intero. L’accoglienza così calorosa del pubblico finì però con l’indisporre la commissione che cominciò a sospettare che vi fosse contenuto qualche principio sovversivo. Ricordo che pochi giorni dopo la prima del Credo andammo a Mosca per un congresso con una delegazione composta da una cinquantina di persone. C’era anche il presidente della commissione cultura e nessuno si degnò di rivolgermi la parola perché il ricordo dello scandalo era ancora ben vivo. A un tratto però il capo della delegazione, che aveva palesemente alzato un po’ il gomito, mi fermò nel corridoio del treno e, alludendo al testo latino del Credo, mi face capire che il KGB era già sulle mie tracce. Dopo quell’episodio fui interrogato più volte e gli inquirenti tornavano spesso sulla stessa domanda: «Quali fini persegue con questo lavoro?».

N.P. E aggiunsero: «Si ricordi che quest’opera non dovrà mai più essere eseguita». Seguirono intimidazioni e provocazioni, ma ripensandoci ho l’impressione che allora non ci rendessimo conto della nostra effettiva situazione. C’è poi un dettaglio importante che Arvo ha dimenticato di sottolineare: la parte dodecafonica è costruita su una successione di quinte. 

A.P. Sì, è vero: ho strutturato l’impianto dodecafonico accostando intervalli di quinta uno dopo l’altro, fino ad arrivare al massimo sviluppo orchestrale possibile. Con questa giustapposizione delle quinte si arriva a una tessitura sempre più densa, a una vera e propria saturazione di note che funziona come mimesi del caos e della distruzione. Solo dopo vengono le parole del Cristo “Ma io vi dico…”, e quindi tutto, un po’ alla volta, va in pezzi. È come la rovina del regime sovietico; qualcuno avrebbe potuto interpretare quel passo in questo modo e così nacque un certo timore. 

N.P. All’interno di quel caos – il blocco indistinto di suono viene rappresentato anche graficamente nella partitura con fasce nere – il coro gridava i peggiori improperi che però non potevano essere uditi in quanto tali. Alla fine dell’anno ci fu sulla stampa locale una specie di sondaggio in cui la gente doveva indicare qual era stato l’evento artistico più significativo a cui aveva partecipato. Il novanta per cento delle persone indicò il concerto in cui era stato eseguito il Credo

E.R. Vi ringrazio di questa rievocazione così vivida del Credo e delle conseguenze che ha portato. Vorrei aggiungere che le cose da voi riferite sulla censura dimostrano una volta di più quanto essa sia stata abile nel fiutare il pericolo eversivo. Pensare che i censori siano ignoranti e grossolani e pertanto incapaci di comprendere le intenzioni più sottili che si celano dietro le opere d’arte, è, a mio parere, un’imperdonabile ingenuità. 

© il Saggiatore S.r.l., Milano 2017.

ARTICOLO n. 74 / 2021

DONNE CHE CORINNE IN REALTÀ NON CONOSCE

Traduzione di Camilla Pieretti

La professoressa di archeologia

Nella cittadina del Sud in cui Corinne ha affittato un appartamento per l’estate, ha trovato anche un centro yoga. È un po’ più vecchio stile rispetto a quello in cui va di solito a Boston. Là le donne sono levigate e depilate al laser, i leggings aderenti e le posizioni impegnative. In questo posto, situato sopra un centro di assistenza tecnica, tutti indossano pantaloni larghi e magliette sformate. Pagano lasciando contanti o un assegno bancario in un cesto e segnando la propria presenza a penna su un taccuino. Sbuffano quando si piegano. Corinne srotola sempre il suo materassino nell’angolo in fondo, cercando di tenersi in disparte.

La professoressa di archeologia è l’unica altra donna con dei veri pantaloni da yoga. Una che riesce a portarsi la gamba all’orecchio. Ha una lunga chioma di ricci rossi. Ascoltandola di nascosto, Corinne ha scoperto che insegna all’università e che il marito è professore di chimica nello stesso ateneo, ma che stanno divorziando.

Corinne ha molte domande. Se l’insegnamento di ruolo e il mercato del lavoro faranno sì che la donna e il suo ex continuino a vivere nella stessa minuscola cittadina per tutto il resto delle loro vite. Se, quando ricominceranno ad avere una vita sentimentale, finiranno inevitabilmente per uscire con qualcuno che l’altro conosce. C’è un solo ristorante elegante in zona, e Corinne già si immagina la scena: la professoressa che aspetta il suo accompagnatore all’ingresso mentre l’ex è lì a cena con un’altra donna, proteso verso la candela al centro del tavolo, la forchetta negli spaghetti di lei.

Corinne sa ben poco della professoressa, le ci è voluto un po’ anche solo per afferrarne il nome, ma può figurarsene alla perfezione la vita: un appartamento pieno di libri, qualche bicchiere di vino con l’amica titolare della cattedra di studi sulle donne, un gatto, un viaggio didattico ogni due anni, in Israele o in Grecia. Non riesce a fantasticare allo stesso modo sulle donne a Boston, che si truccano prima di fare yoga, né sulle altre donne qui, con i loro vestiti macchiati di erba tagliata (riconosce che, in entrambi i casi, il suo è puro snobismo). Qualcosa, nella professoressa di archeologia, ha catturato la sua attenzione, qualcosa che la spinge a cercarla con gli occhi a ogni lezione, a seguirla con lo sguardo mentre si allontana nella sua Subaru.

È origliandone le chiacchiere che Corinne scopre dell’ultimo scandalo locale: il portiere della squadra universitaria, la liceale in visita di cui ha abusato, l’improvviso interesse nazionale. Sempre origliando, scopre anche che le iscrizioni all’ateneo sono calate, che il nuovo rettore non gode di grande popolarità e che qualcuno ha imbrattato con scritte razziste la lavanderia di un dormitorio, anche se è probabile che sia stata opera di uno del luogo. Gli altri, a yoga, sembrano usare la professoressa come linea diretta per qualunque notizia riguardante l’università. In particolare, chiedono della violenza commessa dal portiere.

Corinne la sente dire: «Almeno la ragazza lo ha denunciato, e subito. Spesso non si fanno neppure avanti».

La vede al negozio di alimentari, in biblioteca, ma l’altra non dà segno di averla riconosciuta. Corinne si domanda se non abbia una cotta per lei, ma no: l’ha semplicemente notata e, in un’estate priva di altre forme di intrattenimento, la professoressa è divenuta una celebrità. Divinità, attori, membri della famiglia reale: al momento, nel mondo di Corinne non c’è nulla del genere, perciò un brandello primordiale della sua mente ha mitizzato la donna, la sua chioma arturiana.

Nel breve periodo trascorso qui, Corinne si è sentita sempre meno se stessa. Si sveglia nel seminterrato che ha affittato e niente di ciò che vede le appartiene. Cammina per la città e nessuno le appartiene. Nell’appartamento non ci sono specchi, cosa che da principio le è sembrata una gran seccatura, ma che ora le pare straordinariamente liberatoria. Si rende conto che nelle ultime settimane ha visto il volto della professoressa molto più spesso del proprio. Un giorno fa per sistemarsi la coda e si sorprende nel ritrovarsi capelli lisci e sottili, anziché selvaggiamente ricci.

Qualcosa, dentro di lei, si è smosso. 

Corinne vorrebbe presentarsi, avere un’amica in città, ma già dopo quindici giorni, dei due mesi che passerà lì, è troppo tardi. Non avrebbe la pazienza di perdersi in convenevoli quando ha già immaginato così tanto della vita di quella donna, e non ha alcuna voglia di scaricarle addosso i dettagli della propria esistenza. Sono qui per fare ricerca. Gli archivi dell’università. Un ambientalista del xix secolo: ne hai sentito parlare? No, è una noia. Otto settimane. Una fondazione privata, in realtà. Sì, due maschi, sono al campo estivo. Sì, le montagne sono una meraviglia.

La moglie del ragazzo che l’ha stuprata

A casa, Corinne non ha mai avuto la tentazione di cercarlo. Ogni tanto ci pensava e ogni volta veniva percorsa da un’ondata di repulsione e insieme di orgoglio, perché non aveva bisogno di sapere. Aveva valutato se chiedere al marito di googlarlo per lei. Ma lui, dopo che gli ha raccontato dello stupro subito, anni fa, non ha mai più sollevato l’argomento, per cui Corinne teme che, se lo menzionasse, ne riceverebbe in cambio solo uno sguardo vacuo. Non potrebbe immaginare niente di peggio.

Qui, però, ha tempo, non ha niente da fare e sente il bisogno di provare qualcosa. Per prima cosa si mette a googlare il caso del portiere, solo così, per curiosità, per vedere la faccia del ragazzino di cui si parla tanto. La violenza si è verificata un anno e mezzo fa, ma ora c’è il processo. In breve si ritrova a googlare il ragazzo-che-fu e finisce a fissare le foto di Elise dal suo lettuccio rigido.

Per quel che vede da Facebook, la donna di nome Elise vive a Tampa con tre bambini (due femmine e un maschio) e con il ragazzo, che ormai è diventato un uomo. Gli si è gonfiato il viso, ma solo quello. Alcolismo? Il suo account è privato o poco attivo, con una semplice foto profilo, lo sfondo di un tramonto e la menzione di una raccolta fondi, cinque anni fa. L’account di lei, invece, è una timeline che sembra non avere fine, un decennio di insulsa vita quotidiana.

Pare che Elise lavori in azienda, il tipo di impiego che a Corinne non interessa affatto. Il ragazzo è diventato nientemeno che un medico, un podologo. Le sue recensioni online sono perlopiù positive.

Per quanto ne sa Corinne, c’è stupro e stupro. Se il suo fosse stato uno stupro violento, avrebbe già contattato Elise. Per come stanno le cose, ha solo pensato all’account fittizio che potrebbe creare, al messaggio che potrebbe inviarle.

Una sera, a tre settimane dal suo arrivo in città, apre un nuovo documento Word. Si dice che può scrivere una breve nota senza mandarla e che, dato che non vedrà il suo strizzacervelli per tutta l’estate, la cosa potrebbe anche avere un effetto catartico. Conoscevo tuo marito all’università, inizia, ma cancella tutto e ricomincia, parlando solo di sé. Non ci conosciamo, scrive, ma devo raccontarti una storia. Parla del college senza nominarlo, racconta di come si era ritrovata a cinque Stati di distanza da casa sua. Non farà il nome di Kyle finché non sarà riuscita a guadagnarsi le simpatie della donna. A un certo punto menziona la festa, la confraternita e la scuola. Qualcuno aveva messo della droga nel punch, ho scoperto poi. Come in un brutto film. Probabilmente, però, non si è trattato di Kyle, che era una matricola e non faceva ancora parte del gruppo. Per la maggior parte racconta quello che si ricorda, cioè praticamente niente. La mia compagna di stanza ci ha visto andare via insieme. Ero alla festa, poi all’improvviso era mattina, ero nuda nel mio letto e mi faceva male tutto. La testa, ma anche tutto il resto.

Elise corre mezze maratone. Questo gliela rende subito antipatica. Non perché Corinne disapprovi, ma perché quelle che lavorano in azienda e corrono mezze maratone non fanno per lei. Se Elise avesse un impiego in campo umanistico, se Elise avesse pubblicato foto di sé con le amiche e qualche cocktail, se Elise scrivesse post di stampo politico, Corinne potrebbe provare una qualche affinità per lei. Ma posta solo foto di gare o della famiglia agghindata per Pasqua, in tonalità lavanda e blu marino. Citazioni in corsivo su come le madri siano fatte d’acciaio, su come non bisogna farsi abbattere dalle preoccupazioni.

C’era del riso bianco cotto sparso per tutto il pavimento della stanza. Non ho mai capito perché.

Se Corinne percepisse la benché minima somiglianza con Elise, potrebbe anche mandarle la lettera con le migliori intenzioni, da sorella a sorella. Parte di lei, però, vuole contattarla per i motivi peggiori: per provocarle dolore. Per rovinare il suo matrimonio. Per dimostrarle che il mondo è un posto orribile e che l’uomo che ha sposato, da ragazzo, era un mostro, che lo sia ancora o meno.

Ragion per cui non si permetterà mai di scriverle davvero.

La mia compagna di stanza gli ha detto: «Non azzardarti a toccarla, è troppo ubriaca». Più tardi, quando lo ha incrociato in corridoio, mentre usciva dalla porta, lui le ha detto: «Non ho seguito il tuo consiglio». Si è stretto nelle spalle, ha raccontato la mia compagna di stanza, ha sorriso e ha fatto schioccare la lingua. È importante che tu sappia che si è stretto nelle spalle.

Salva il file. Di tanto in tanto lo riapre, lo rilegge e lo rivede. Anche solo guardare il portatile chiuso, che riposa sulla scrivania, le dà un’iniezione di adrenalina.

L’ex del suo amico

Un giorno, il suo amico George le ha raccontato di una donna che aveva frequentato intorno ai vent’anni. Una che voleva essere immobilizzata con la forza ogni volta che facevano sesso. E non solo all’inizio: per tutto il tempo. In pratica doveva fingere di violentarla. Se provava a baciarla, a farla godere o a lasciarle il braccio, perdeva l’attimo, lei si rialzava, si rivestiva e si metteva a rispondere alle e-mail.

La sera che glielo aveva raccontato, George aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e non faceva caso a ciò che diceva. Corinne ci aveva pensato diverse volte alla settimana, da allora, non per uno scabroso interesse, ma con genuina curiosità: che cosa, in quella donna, le faceva passare la voglia, se lasciata libera di agire?

Visto che era ubriaca anche lei, aveva chiesto a George se ciò che faceva con quella donna lo rendeva felice: «Ero felice di farla felice», era stata la risposta, «ma alla fine è per quello che ci siamo lasciati».

Quando gli aveva domandato come mai, lui era arrossito e si era raddrizzato sulla sedia, come se si fosse reso improvvisamente conto di essere solo in un bar, con un’amica, a parlare di sesso. «Non avrei potuto andare avanti così per sempre», aveva detto, «non solo così per sempre. E poi, insomma… era faticoso. Fisicamente».

Dopodiché aveva cambiato discorso.

Da allora, di tanto in tanto, Corinne dà una scorsa ai contatti Facebook di George alla ricerca della donna, di cui però non ha mai saputo il nome. Cerca donne più o meno dell’età di George, donne di cui non si sospetterebbe mai che possano celare un simile desiderio. O, al contrario, che sembrano le più adatte a coltivarlo: dirigenti di impresa, socie di grandi studi legali. Cerca donne che assomiglino vagamente a George, con i suoi stessi ricci scuri e quel suo sguardo perennemente sorpreso. E poi cerca l’esatto opposto: donne con lineamenti duri e capelli chiari.

Quando è in piedi, Corinne preferisce appoggiarsi a un muro o far sporgere un’anca quanto più in fuori possibile. Le piace percepire dei limiti e immagina che per quella donna sia lo stesso. Vagheggia di tornare a guardare tra i contatti Facebook di George, per vedere se trova qualche donna appoggiata a un muro di mattoni o seduta a gambe incrociate.

Un giorno, ai primi di luglio, fa un sogno in cui George le presenta la donna, che è la professoressa di archeologia. Corinne commenta: «Avrei dovuto saperlo». E l’altra risponde: «Avresti dovuto saperlo».

La cantante di cui suo marito salva le foto

In primavera, aveva dovuto scaricare i moduli per il campo estivo dei ragazzi dal computer di Wallace. Aveva cliccato l’icona di un file sul suo desktop e si era trovata di fronte le foto. Non sapeva chi fosse quella donna, ma ben presto fu sicura che non era qualcuno che Wallace conosceva, sicura che le foto non gli erano state inviate di persona. Scatti pieni di filtri, il culo ambrato della donna illuminato alla perfezione. In alcune succhiava un lecca-lecca, si leccava le labbra o si copriva i capezzoli con due dita per mano.

Corinne cercò l’attrice per cui l’aveva scambiata, ma non era lei. Due settimane più tardi la vide cantare a Saturday Night Live e la riconobbe. «Ti piace?», chiese a Wallace.

Lui rise. «Mi pare un po’ esagerata», rispose. Poi aggiunse: «Pensa che l’ho incontrata, qualche mese fa. Per quella faccenda della Fun Run». Wallace collaborava all’organizzazione di un evento benefico per la sua azienda, a cui partecipavano anche celebrità minori. «Si atteggia molto da diva».

Quella sera, Corinne controllò quando erano state salvate le foto. Alcune poco prima della Fun Run, alcune subito dopo, altre ancora sei settimane più tardi. Perché avesse bisogno di salvarsele, invece di farsi una sega davanti ai risultati di Google e basta, Corinne non riusciva a immaginarlo. O forse sì: una ricerca su Google avrebbe mostrato la cantante insieme al fidanzato, la cantante da bambina, la cantante fotografata per strada senza trucco. La raccolta di Wallace invece era curata, impeccabile. La donna vi appariva sempre sola.

Corinne non pensò nemmeno per un secondo che potesse esserci stato qualcosa tra Wallace e la cantante. Quasi si sarebbe augurata di poterlo credere. Al contrario, l’intera faccenda lo faceva apparire come un omuncolo triste e patetico. Lo immaginò mentre guardava la cantante dall’altro lato del tendone della Fun Run, fasciata da pantaloncini cortissimi. Lo immaginò mentre le stringeva la mano con il palmo umido o chiedeva se desiderava dell’altra acqua, abbastanza vicino da percepire un profumo che, Corinne ne era certa, conteneva note di vaniglia.

Quella sera, aveva passato un’ora a leggere tutto ciò che poteva su di lei. La cantante era stata sposata tre volte, mai per più di un anno. La cantante era una vegana che di tanto in tanto mangiava bacon. La cantante era stata scoperta all’età di dodici anni in un talent show a Disneyland. O forse il premio era andare a cantare a Disneyland. Non si capiva bene.

A luglio, seduta sul suo letto nell’appartamento del seminterrato, si mette a curiosare sul suo account Twitter. Come prevedibile, è pieno di tweet di bassa lega. Pultroppo, scrive, faccio fatica a credere in me stessa. Per fortuna ci siete voi a sostenermi!

Corinne non riesce a pensare a niente di meglio che mettere Mi piace al post per poi potersi togliere la soddisfazione di rimuoverlo, di vedere il cuoricino che passa da rosso a trasparente.

La professoressa di archeologia, di nuovo

Un giorno di fine luglio, mentre è nella posizione della pinza in piedi, il viso rivolto all’indietro tra le caviglie, Corinne si rende conto che ciò che la affascina – o meglio, ciò che la affascina della sua stessa fascinazione – è che per lei la professoressa di archeologia non è né bella né brutta. Non capita spesso. Ha interiorizzato una misoginia tale che in genere prova rabbia, conscia o inconscia, verso le donne che le sembrano più belle di lei. Vuole vederle fallire, vuole che vengano punite per la loro bellezza (con l’età, la bruttezza, la stupidità). Per le donne meno belle di lei, magari perché più vecchie, più tarchiate, più sgraziate, con una dentatura peggiore della sua, invece, prova pena. Una pena rabbiosa e vendicativa.

È al tempo stesso la regina cattiva che vuol vedere Biancaneve morta e la stessa Biancaneve, disgustata da quella vecchia megera.

Queste sue valutazioni in genere non sono il risultato di un pensiero razionale, quanto una sensazione di pancia. Qualche anno fa, però, ha iniziato a cercare di riconoscere i segnali sparsi del proprio razzismo, per cui ora cerca di fare lo stesso con la misoginia.

Sa benissimo che ci sono uomini a questo mondo, uomini pieni di teorie sulle donne, che la definirebbero perfidia, che chiamerebbero in causa l’evoluzione, la competizione. Invece non è affatto così. Ha assimilato quella rabbia dalle riviste, dalla TV, dalla sua stessa madre. Ha imparato a odiare il corpo femminile, suo e di qualunque altra donna, da un film che ha visto ancora troppo giovane, in cui degli universitari nerd filmano di nascosto le ragazze che li hanno rifiutati. Nella pellicola, i ragazzi vengono presentati come degli eroi. L’ha imparato dagli spot della birra, dai video musicali, dagli insegnanti di danza e da un mondo in cui se sei bella ti aggrediscono per strada, se sei brutta ti aggrediscono online.

Il suo giudizio si applica solo alle estranee. Se conosce una donna, la considera un essere umano qualunque. Se non la conosce, però, è così facile vederla come la vede il resto del mondo, con gli occhi degli uomini, quindi come un oggetto.

Quando una donna che è stata bella ma adesso non lo è più fa ancora di tutto per sembrare giovane, la sua misoginia prorompe con prepotenza. Donne dalla fronte inamovibile, donne che si ostinano a insaccare i propri corpi ormai stagionati in abiti succinti. Quell’attrice, con le labbra gonfie e tirate fino a renderle il viso volgare, vaginale. Le odia, vorrebbe ridere loro in faccia, vorrebbe trovare foto sempre più inguardabili quando le cerca su Google. Alla fine, vorrebbe vederle con i vermi che gli escono dalle cavità oculari, le labbra a canotto che si screpolano fino a sanguinare.

Non per davvero. Ma a livello molto profondo.

Corinne pensa a tutto questo mentre è ancora chiusa a pinza. La professoressa di archeologia, chiusa a pinza anche lei, si infila agilmente le mani sotto la pianta dei piedi.

La ragazza nella caffetteria

Corinne svolge la maggior parte del suo lavoro nella biblioteca che, in fin dei conti, conserva gli archivi dell’ambientalista del xix secolo su cui è venuta a fare ricerche. Ma l’aria là dentro è fredda e secca, gli archivi chiudono alle 16:30 e c’è una caffetteria, in città, con divani in pelle sdrucita e incrostazioni alle finestre. Nonostante l’ondata di afa, se si siede dritta sotto il getto del minuscolo condizionatore se la può cavare.

Dovrebbe preoccuparsi di indicizzare la sua ricerca o di richiedere maggiori sovvenzioni, invece si ritrova a scorrere la pagina del campo estivo dei ragazzi in cerca di foto che dimostrino che sono vivi, abbronzati e sorridenti.

La ragazza indossa una felpa della squadra di pallavolo dell’università, deve essere rimasta in città per un qualche lavoro estivo. È lì insieme a un ragazzo che continua a prenderle il telefono, a guardare tra le sue foto e a chiedere: Chi è questo? Chi è quel tipo? Sembra un tappo. Un tappo con la faccia da cazzo. Come si chiama?

Poi comincia a leggerle i messaggi. La ragazza fa quel risolino di disagio, quello spasmo involontario di allegria di cui Corinne ha faticato tanto a liberarsi.

«Adesso lo cancello, quello là», dichiara.

La ragazza dice No, fermo! e vorrebbe che lui si fermasse, ma, forse perché lo dice piagnucolando anziché gridare, lui non le dà retta. Eppure non dovrebbe aver bisogno di gridare. La ragazza tenta di riprendersi il telefono.

La liceale

La studentessa violentata dal portiere ha testimoniato contro di lui in tribunale e la notizia ha fatto il giro del mondo. Da quelle parti è sui giornali già da un po’, ma in fondo Corinne è arrivata lì solo quell’estate.

Il volto della ragazza non è stato reso pubblico, i suoi dati non sono trapelati, ma la sua testimonianza sì. Non aveva bevuto, ma il portiere e i suoi amici le hanno fatto mangiare quattro caramelle gommose alla marijuana. Forse in quel momento era ancora tutto uno scherzo: vediamo cosa fa questa liceale. Si sentiva stordita, per cui era salita al piano di sopra, nella confraternita, per sdraiarsi un attimo. Si era risvegliata con lui sopra di lei e aveva raccontato che era stato come trovarsi in uno di quei sogni in cui si è mezzi svegli e si cerca di muoversi, ma il corpo, ancora addormentato, non reagisce. Si prova a urlare e non esce niente.

Il ragazzo sostiene che non sapeva fosse minorenne. Sostiene anche che è stato tutto consensuale.

Ci sono molti più precedenti legali di casi legati all’alcol.

Corinne guarda il sunto della testimonianza da un baretto in città, in una sala dalle pareti rivestite in legno dove la gente del luogo tiene il proprio boccale personalizzato appeso a un gancio. Alle quattro del pomeriggio, oltre a lei, nel locale c’è solo una coppia di anziani con giubbotti Harley-Davidson. Ordina un calice di pinot grigio e si domanda se venga dalla stessa bottiglia di quando è stata lì l’ultima volta, una settimana prima.

Secondo il notiziario, in tribunale è emerso che la ragazza “si era depilata l’inguine” prima della festa. L’avvocato della difesa, uomo, l’ha tempestata di domande sul perché avrebbe fatto una cosa del genere se non era in cerca di sesso.

La conduttrice legge parte della trascrizione mascherando a fatica la rabbia.

L’avvocato della difesa ha chiesto se la ragazza assumesse la pillola contraccettiva. Ha chiesto se l’avesse presa anche il giorno stesso della festa.

Corinne vorrebbe sfasciare il televisore.

La donna della coppia di centauri scuote la testa, dicendo: «Ecco, vedi. Ora si spiega tutto».

La moglie dell’uomo con cui va a letto

Corinne la odia di un odio puerile. Odia i suoi lunghi capelli neri, il collo longilineo, la quantità di amici meravigliosi che la abbracciano nelle foto.

Con lei è stata la prima volta che si è fatta risucchiare dalla vita di qualcuno online. I suoi profili social; il sito web della sua società di consulenza; l’annuncio del suo matrimonio, ormai vecchio di dieci anni.

Non la cercava da diverso tempo, ma un giorno di inizio agosto, nella sala degli archivi, stanca degli scatoloni di corrispondenza indecifrabile (l’estate le spezza la schiena e le annebbia la vista), Corinne prende il computer e per prima cosa riapre l’ipotetica e-mail a Elise. Non ci conosciamo, ma devo raccontarti una storia. Cerca Elise su Google, per vedere che altro riesce a trovare. Indossa ancora i guanti protettivi quando digita sulla tastiera. Svariate menzioni su pagine di gare importanti. Tempi che per Corinne non significano niente. Un profilo LinkedIn che non può vedere gratuitamente. Dato che è già caduta nella trappola del Web, e dato che la vita di Elise non è poi così interessante, finisce per cercare su Google la moglie. È una dermatologa. Di quelle che fanno le iniezioni, non che curano i melanomi.

Quando Corinne è con George, o quando gli scrive, non usa mai il nome della donna. “Tua moglie”, la chiama. Non vuole che George la lasci: che ci dovrebbe fare con lui, poi? Di certo non sposarlo. Non lasciare il marito. Sarebbe troppo faticoso. George sarebbe troppo faticoso. È tutto troppo faticoso.

Non erano finiti a letto la sera in cui George le aveva raccontato della sua ex, quella a cui piaceva farsi immobilizzare. Ma l’intimità di quella conversazione aveva sicuramente fatto scattare qualcosa tra loro. Era successo un mese più tardi, quando lui l’aveva accompagnata a casa dopo una festa da cui Wallace se ne era andato in anticipo, dichiarando di avere mal di testa. Da allora erano passati tre anni.

È questione di logica: è gelosa della moglie perché ha George. Ma – e si rende conto di quanto sia ipocrita – non si augurerebbe mai di essere sposata con George, perché George è il tipo d’uomo che tradisce la moglie (Wallace, pur con tutti i suoi difetti, non lo farebbe mai, non riuscirebbe mai a fare quel che serve per arrivare a quel punto). Quindi si dispiace per la moglie, perché è sposata a un tizio di cui in realtà non sa praticamente niente. Ma la moglie è felice, o almeno lo sembra. Una felicità sbagliata. Mentre Corinne, che sa la verità e che per qualche tempo ha avuto George tutto per sé ogni martedì pomeriggio, almeno, non è particolarmente felice. La domanda è: come diavolo è possibile?

George ha l’abitudine di spezzarle il cuore. Non appena Corinne inizia a fare affidamento su di lui, ad ammettere a se stessa di esserne innamorata, se ne esce dicendo di aver bisogno di spazio. Oppure svanisce. Non appena il suo cuore si crea una nuova barriera protettiva, eccolo che torna. Corinne aveva pensato che cambiare aria, allontanarsi da lui per un paio di mesi, potesse aiutarla a ritrovare se stessa.

O forse no: ad agosto si rende conto che quello che voleva veramente, che ha sempre voluto, era che lui le corresse dietro. Che si presentasse sulla soglia del suo appartamento nel seminterrato per una notte, due notti, una settimana.

Invece le scrive gli stessi messaggi insignificanti del marito: Raccontami qualcosa di bello. Ti auguro una buona giornata. Sì, qui tutto a posto. Voleva prendere le distanze, ma non questo.

Quando è arrabbiata con George, quindi abbastanza spesso, pensa che un giorno scriverà alla moglie una lettera anonima, su carta, e la spedirà da un’altra città. Non le racconterà di sé, ma della donna con cui George è andato a letto al lavoro; della donna che ha frequentato per un certo periodo, qualche anno prima; dell’amica della moglie che ha baciato, da ubriaco, a una festa nella sua stessa casa. Fossi in te mi farei un test, le scriverebbe. Lo dico da amica. Ovviamente, quella parte sarebbe falsa. Quell’estate, in calce a un documento pieno di ricerche inutili, scrive anche quello, un’aggiunta alla serie di lettere che non manderà mai.

Apre il sito della moglie: Botox, Restalyne, Juvederm, dermaplaining. Ed eccola lì, una bellezza non eccezionale, ma il cui volto emana una discreta luminosità, con le labbra piene e, a meno che la foto non sia stata ritoccata, la pelle del collo che non fa gli stessi orrori di quella di Corinne.

Corinne sa parecchie cose su di lei, spesso poco lusinghiere. Sa che fa bagni lunghi anche cinque ore, che mangia l’insalata con le mani, foglia dopo foglia, e che, ancora vergine a ventitré anni, quando aveva incontrato George, non aveva idea di cosa fosse davvero un pompino.

Lo strizzacervelli di Corinne dice che il suo odio per la moglie è odio malriposto verso se stessa, sublimazione della colpa. Corinne non può negarlo. Ha declinato l’offerta fattale dal terapista di continuare le loro sedute per telefono, durante l’estate. Probabilmente è una cattiva idea, ma, strano a dirsi, le sembra di riuscire ad articolare i pensieri con maggiore chiarezza, nella sua testa. Senza qualcuno con cui discuterne, deve ragionarci su a fondo da sola.

Dà un’occhiata ai prezzi di alcuni dei servizi offerti dalla moglie. Ottocento dollari per filler della durata di sei mesi. Cinquecento dollari per un trattamento al laser. Le foto del prima e del dopo sono notevoli, se vere. Volti lisci come se fossero stati stirati, pelle illuminata fino a sembrare… bruciata, sì, ma anche più giovane.

Prima, dopo. Prima, dopo. Prima, dopo. Corinne potrebbe andare avanti tutto il giorno.

L’aprile precedente, George aveva detto a Corinne che lui e la moglie avrebbero partecipato a una protesta fuori da un edificio federale. Corinne aveva risposto che pensava di andarci anche lei, anche se fino a quel momento non le era nemmeno passato per la testa. Era una manifestazione talmente piccola che quando era arrivata li aveva visti subito. George teneva sulle spalle il figlio minore. La moglie sembrava conoscere metà dei presenti.

Era stato allora che Corinne si era resa conto di dover cambiare aria. Non si riconosceva più, una pazza tra la folla.

Persino adesso non è sicura del perché ci sia andata. Di certo non per dire qualcosa. Quella è solo una sua fantasia, che non diventerà mai realtà. Si dice che forse ci era andata per osservare, raccogliere informazioni. Non per usarle, ma per togliersi una curiosità. Per potersi dire: È fatta così. È così che si muove. È così che parla, con un tono più alto di quanto si potrebbe pensare. È così che vive la sua vita. Guarda che belle scarpe.

La ragazza nella caffetteria, di nuovo

La giovane coppia è di nuovo lì. Corinne li guarda studiare l’uno vicino all’altra. La ragazza si alza per andare in bagno e il ragazzo le dice: «Lascia qui il telefono.»

«Eh? Perché?»

«Così so che non mandi messaggini sconci a nessuno.»

La ragazza dice: «Sei ridicolo.»

«A che ti serve portarti il telefono il bagno?»

E lei: «Lo lascio qui, ma lo blocco.»

«Perché dovresti bloccarlo?»

La ragazza gli lancia il telefono addosso e lui lo appoggia a faccia in giù sul tavolo.

Corinne scribacchia una frase su un tagliando della biblioteca preso dalla sua borsa e si mette ad aspettare fuori dalla porta della toilette. Quel ragazzo è uno stronzo, ha scritto. È così che le cose cominciano ad andare male. Quando la giovane ricompare, glielo porge.

Teme che la ragazza mostrerà il foglietto al compagno e che si prenderanno gioco di lei, ma aspetta un instante prima di entrare in bagno e, quando la guarda, vede che si sta infilando il foglietto in tasca.

Per qualche ora Corinne si sente molto orgogliosa di sé, poi comincia a domandarsi perché non ha detto qualcosa, perché non ha affrontato quel tizio. Le piace pensare che, se per esempio avesse visto un ragazzino dire a un altro di tornarsene in Pakistan, sarebbe intervenuta a gran voce. Avrebbe fatto una scenata.

Per le donne, però, no: solo sussurri, foglietti.

La figlia del ragazzo che l’ha stuprata

Con il passare dell’estate, man mano che l’appartamento si riempie di strati di ciarpame, Corinne trascorre sempre più tempo al computer. Fa avanti e indietro tra Twitter e Facebook, in attesa che succeda qualcosa di interessante. Scava tra le e-mail a cui non è riuscita a rispondere l’anno precedente.

Una notte sogna di aver fatto un brutto scherzo al marito, riempiendo una pentolaccia con i servizi di porcellana ricevuti in regalo per il matrimonio e chiedendogli di colpirla. È il suo compleanno e, quando la pentolaccia cade a terra, spargendo cocci da tutte le parti, è evidente che Wallace si sente profondamente tradito. Nel sogno, Corinne scoppia a ridere, ma si sveglia tormentata dall’acidità di stomaco.

Si stordisce rimanendo sdraiata a letto a fissare il telefono, ma, per qualche ragione, quella mattina decide di provare a fare una ricerca su Instagram con il cognome del ragazzo, che è piuttosto inusuale. Lui non c’è e sua moglie nemmeno, ma c’è la maggiore delle figlie, che avrà all’incirca 14 anni: troppo pochi per avere un account pubblico del genere, troppo pochi per pubblicare quelle foto in bikini.

Corinne si domanda se la madre lo sappia, si chiede se non debba fare qualche screenshot da mandare a Elise in forma anonima. Ma no, no, no, no. Com’è possibile che stia pensando di segnalare una ragazzina che si fa fotografare mezza nuda, ma non il padre per aver commesso uno stupro?

Beh, lo sa benissimo come.

La moglie dell’ambientalista del xix secolo

Si chiamava Mae e compare spesso tra le ricerche di Corinne, anche se non è per quello che lei si trova qui o che ha una borsa di studio.

Mae era un’erborista. La sua domestica, Annunziata, un’immigrata italiana, fu arrestata nel 1892, quando il marito morì per aver ingerito dell’olio di mandorle amare che la moglie gli aveva somministrato come cura. Annunziata dichiarò che pensava fosse olio di mandole dolci, un medicinale del tutto innocuo, e che c’era stato un malinteso con il farmacista a causa del suo inglese zoppicante, per cui era il farmacista a dover andare a processo.

Corinne rimane turbata dalla vicenda, soprattutto dalla versione in cui Annunziata avrebbe amato il marito e gli avrebbe somministrato il farmaco letale per errore. La versione migliore? Il marito la picchiava e Mae le aveva spiegato cosa fare. A quale altra forma di giustizia avrebbe potuto affidarsi in quei tempi oscuri? Su quale forma di giustizia si può mai fare affidamento?

Annunziata rimase al servizio di Mae fino in tarda età.

La conduttrice

È visibilmente furibonda quando spiega che il giudice ha condannato il portiere ad appena tre mesi. Tre mesi nel carcere della contea, due anni di libertà vigilata. Eppure non sta conducendo un programma di opinione ma un telegiornale, il suo compito è riportare la notizia. Corinne immagina che abbia idee e informazioni sui peli pubici, sulle pillole anticoncezionali, sull’interdizione, sull’avvocato della difesa, sul giudice.

Le piace il suo modo di fare. È una conduttrice che lavora per una rete locale, che Corinne ha scoperto solo da quando è arrivata in città. Ricorda di aver sentito qualcuno dire che, siccome i conduttori devono comprarsi da sé gli abiti che indossano in onda, le donne rischiano la bancarotta per acquistare sfilze di giacche dai colori vivaci e blouse dai toni gioiello. Non possono mai vestirsi allo stesso modo due volte. Gli uomini, al contrario, alternano sempre le stesse cinque giacche e camicie.

Il ragazzo è stato espulso dall’università, ma è stata organizzata una raccolta fondi online per “aiutarlo a cadere in piedi”.

Corinne osserva la conduttrice contrarre ritmicamente la mano sinistra, le unghie rosa perfettamente curate. Anche la manicure avrà un costo.

La professoressa di archeologia, di nuovo

Corinne la scorge al mercato che viene allestito ogni sabato mattina all’ingresso del piccolo giardino botanico della città. Lei non è lì per fare acquisti (il suo appartamento ha un fornello microscopico, quindi cosa potrebbe mai farsene di cipolle, cavoli e patate?), ma, quando nota la professoressa con le braccia cariche di sporte di iuta, rimane nei paraggi e compra qualche fiore. La professoressa guarda le zucchine, assaggia del formaggio.

Le cuciture di una delle sporte cedono e un sacchettino di carta cade a terra, sul marciapiede. Mirtilli ovunque.

Corinne vorrebbe dare una mano, ma è pietrificata al suo posto. La professoressa si inginocchia a tentare di raccogliere il tutto, con l’aria di una che sta per scoppiare a piangere. Fino ad allora, Corinne l’ha sempre vista serena, con quel suo atteggiamento profondamente yogico. In quel momento, sembra che sia la quindicesima volta che le capita qualcosa del genere quel giorno, come se fosse a tanto così dal disastro e dalla disperazione più nera.

Corinne decide che la prossima volta che andrà al centro yoga le pagherà di nascosto un pacchetto di lezioni.

Tuttavia il lunedì successivo, una volta sul posto, è troppo intimidita per presentarsi alla reception con quella strana richiesta. Di sicuro, tutti lì conoscono la professoressa. Ma nessuno conosce lei. Alla fine, quindi, non fa niente. Però ci ha pensato e, per un po’, la sola idea la fa stare bene.

Le donne nei film di bondage

È il solo porno che Corinne voglia vedere, ora. Donne legate, costrette a godere contro la loro volontà. Strumenti, fruste, file di uomini, strane configurazioni con le corde, imbavagliamenti.

Deve credere che i film siano stati girati in maniera etica, che se una di quelle donne fosse mai stata in difficoltà se ne accorgerebbe, lo capirebbe dalla sua espressione.

(E a quel punto che cosa potrebbe fare? Chiamare la polizia? La donna nel porno che sto guardando ha l’aria infelice).

Vorrebbe che gli uomini non vedessero quei video, mai. Non vuole che i ragazzini pensino che sia così che funziona.

Naturalmente, non vuole neppure essere presa per strada, rinchiusa in un sotterraneo e ritrovarsi segnata dalle corde. Non vuole essere le donne nei video e non vuole essere gli uomini nei video, ma non vorrebbe neppure essere una delle altre donne nei video, di quelle che partecipano facendo cose a quella legata. Vuole solo starsene lì, sul suo letto, a guardare.

Le piacerebbe che quei siti potessero raccogliere statistiche di genere su chi guarda che cosa. Magari è così, chi lo sa.

Le piacerebbe poter cambiare ambito di ricerca ed essere lei a raccogliere quei dati. Chiederebbe agli utenti di compilare dei sondaggi facoltativi, quando escono dai siti porno. Niente informazioni personali, al di là di genere ed età, ma cose come: Questa cosa ti ha dato fastidio? Ti è piaciuta? Hai odiato quella donna? L’hai adorata?

Quello che fa, nella realtà, è inviare i link a George. Gli aveva già mandato delle cose, prima, ma non di questo tipo. Tra dieci giorni sarà di nuovo a casa, ma è piuttosto sicura che la sua assenza abbia messo fine a qualunque cosa ci fosse tra loro. Quando si rivedranno sarà strano, formale. Niente abbracci appassionati. Non era quello il punto, in fondo?

Lui scrive: È questo che vuoi? E lei: No. Poi aggiunge: Credo di voler essere la frusta.

L’esperta di cura personale

Corinne è di nuovo nella caffetteria e la donna dall’aria sciatta seduta accanto a lei sta guardando un video, di quelli con il primo piano di qualcuno che parla, sul portatile, senza auricolari. A casa Corinne se ne lamenterebbe, ma qui è sempre cosciente di essere un’estranea, con l’accento da Yankee. E poi non sta combinando nulla in ogni caso.

La donna nel video è un’esperta di cura personale e sta parlando di compartimentalizzazione: «È impossibile assimilare tutte le brutte notizie che colpiscono le persone nel mondo», dice. Indossa un blazer giallo pallido ed è di una calma inquietante, la voce come la lama di un pattino da ghiaccio.

Corinne pensa che quella sia la peggiore sciocchezza che abbia mai sentito, una scusa per badare solo a se stessi, ai propri familiari e a persone che ci ricordano la nostra famiglia.

La donna consiglia di immaginarsi la propria mente come una serie di barattoli col coperchio. Consiglia di inserire le questioni romantiche in un barattolo, quelle finanziarie in un altro, chiudendo mentalmente i tappi.

Corinne si chiede se sia questo ad averla mandata in tilt, quell’estate: ha perso la capacità di compartimentalizzare. A casa, correre dietro ai figli, lavorare, cenare con Wallace, vedere George, usare il computer solo per fare ricerca, tenere in ordine la casa, tenere in ordine l’ufficio… ogni cosa aveva il suo posto. Qui, il suo mondo si è fatto caotico e disordinato quanto la stanza che ha affittato. Tutto quello che le è successo, tutti quelli che ha conosciuto sono lì, nel suo computer, in attesa che lei muova il mouse per riportarli in vita.

È rimasta rapita dal video della sua vicina così a lungo che non ha notato la coppia di studenti, la giovane universitaria con quel suo orribile ragazzo, entrare nella caffetteria. Sono in coda, intenti a guardare gli enormi pasticcini attraverso il vetro sporco. Si tengono per mano. Corinne infila il portatile e le carte nella sua borsa, affrettandosi a uscire prima che la ragazza la veda… sempre che che non l’abbia già vista, sempre che quel loro tenersi per mano non sia un modo per mandarle un messaggio.

Invece di andare al bar per un drink, e sebbene abbia ancora una mezza bottiglia aperta a casa, compra del vino rosso e mette in borsa anche quello, sentendolo sbatacchiare contro il computer.

Quando arriva nell’appartamento, uno scarafaggio sbuca fuori da sotto la porta dell’armadio, grosso come un topo. Corinne riesce a non urlare: al contrario, si batte le mani contro le cosce, girando su se stessa. Pesta i piedi qua e là, ma lo scarafaggio è già sparito.

La studentessa all’ultimo anno di liceo

Corinne ha finito la bottiglia aperta e iniziato quella nuova.  Non ricorda di aver seguito la cantante da cui è ossessionato Wallace sui social, ma a quanto pare lo ha fatto. Eccola lì, in un halter a fasce nere così striminzito che pare che qualcuno ci abbia dato dentro con il nastro adesivo. In effetti ha pure del nastro adesivo sulle labbra, a formare una X nera. “In difesa delle vittime del silenzio”.

Che diavolo sono le vittime del silenzio?

Nel tweet subito sotto – Corinne ha un momento di dissonanza cognitiva nel rendersi conto che la cantante ha menzionato la città in cui lei si sta ubriacando in quel momento – ha postato un articolo sul caso dello stupro.

Hanno pubblicato le dichiarazioni della vittima, ma non il nome. Corinne legge il documento, e non è affatto male. Chissà come, si era persa il fatto che, dopo la violenza subita durante la visita al campus, la giovane aveva comunque scelto di studiare lì e vi aveva trascorso un anno come matricola. Pensa alla ragazza della caffetteria, si chiede se si conoscano, se si siano mai confrontate in classe.

La scelta di iscriversi all’università era stata usata contro di lei. Era la migliore delle scuole che mi hanno accettato, ha scritto, forse perché sapeva che avrebbe dovuto giustificarsi. Mi hanno offerto la borsa di studio più vantaggiosa.

La ragazza – anzi, la giovane donna, perché ormai è all’università ed era stato allora che Corinne aveva iniziato a definirsi una donna – aveva scelto di frequentare l’università, ma quando aveva visto il suo stupratore nel campus era crollata. A quel punto era andata in terapia, era riuscita ad articolare quanto le era successo e si era rivolta a un avvocato.

Corinne trova un tweet in cui si mette in discussione la decisione della giovane di immatricolarsi all’università, se era davvero così traumatizzata.

Perché, risponde Corinne, quale “istituto senza stupratori” avrebbe dovuto scegliere?

La donna nella foto

Corinne si sveglia con la sensazione di un martello pneumatico in testa, l’amaro in bocca, le luci troppo forti. Si è scolata tutta la bottiglia senza aver cenato.

Ricorda un ex alcolista che era stato a tenere un discorso nel suo liceo e aveva detto: «Ho capito di avere un problema quando ho iniziato a bere da solo. Non c’è mai una buona ragione per bere da soli». Lui, però, era un uomo. Non capiva che, per le donne, bere da sole è molto più sicuro. È bere in gruppo che è pericoloso.

Sennonché con lo smartphone tra le mani e il portatile accanto al letto ormai non si è più davvero soli, e pian piano Corinne si rende conto che quello che ha fatto non era un sogno ma un ricordo, acre e viscoso come qualunque cosa le stia invischiando la lingua.

Eppure… cos’è che ha fatto, di preciso? Ha fatto tutto al contrario. Ha fatto tutto al contrario di proposito, seguendo una qualche logica dettata dall’alcol che alla fine potrebbe salvarla, anzi, salvare tutti quanti, cosa che non era nelle sue intenzioni ma di colpo lo è diventato. Sempre che si sia ricordata di usare un account falso. Trascina il computer in bagno, si siede sul pavimento accanto alla tazza e controlla, le dita che le tremano per la sbronza ma forse anche per il nervoso.

Sì, vede che ha usato l’account falso di cui si serve per prenotare posti gratuiti ai raduni di politici spregevoli, in modo che restino vuoti.

In più di un’occasione si è stupita della propria capacità di scrivere lucidamente, o perlomeno di produrre un testo impeccabile, da ubriaca. E anche questa volta non è da meno: senza errori di ortografia, con i nomi cambiati, ha preso la nota che aveva scritto su George, sulle sue varie avventure extraconiugali (a parte la loro), e l’ha inviata a Elise, la moglie del ragazzo che l’ha stuprata, all’indirizzo e-mail indicato sui suoi profili social. Ha sostituito luogo di lavoro e mestiere con quelli del ragazzo (a un convegno medico, ha scritto, perché, pensa, lui ora è un medico, uno che i pazienti sembrano adorare); ricorda che è andata sulla sua pagina Facebook, ha trovato il nome di un’amica molto attraente con cui si era taggato a una festa e ha inserito il suo nome nel messaggio (Prova a fare qualche domanda a Debra Wenman). È possibile che la menzogna venga smascherata all’istante. Debra Wenman potrebbe essere lesbica, potrebbe essere morta, potrebbe essere la cugina. A meno di non essere colpevole, il ragazzo sarà sicuramente in grado di protestare la propria innocenza con tutta la convinzione di un vero innocente. Potrebbe persino passare il test della macchina della verità.

Ma perché è così preoccupata per lui? Ciò di cui lo ha accusato è assai meno agghiacciante di quello che ha fatto in realtà, solo più recente. Ha accusato l’uomo, quella è la differenza, non il ragazzo.

Per un orribile istante, le viene il dubbio di aver inviato alla moglie di George il messaggio pensato per Elise, di aver accusato George di aver stuprato qualcuno ai tempi del college. Ma no, non c’è niente del genere tra le e-mail inviate. Controlla il telefono per vedere se ha scritto qualcosa anche a lui, ma l’ultimo messaggio visibile è ancora la faccina che sorride a testa in giù che George le ha inviato due giorni fa e a cui lei non ha mai risposto. Solo così riesce a sentirsi a posto: quando è lei a farsi attendere e lui ad aspettare.

Non le è certo sfuggito che ha fatto tutto questo da ubriaca, e che anche il ragazzo era ubriaco quando le ha fatto quello che ha fatto, vent’anni prima.

Qualche anno fa, quando un altro stupro universitario aveva fatto notizia, la sua amica Suzanne (ormai ex-amica) aveva sostenuto che il ragazzo non poteva essere colpevolizzato per ciò che aveva fatto da ubriaco. Bere, aveva replicato Corinne, non ti cambia completamente l’indole. Un uomo normale non uccide la moglie, quando è ubriaco, un marito violento sì. Non si dichiara il proprio amore a qualcuno da ubriachi, a meno di non esserne davvero innamorati. «Io non vado in giro a violentare gente, quando sono ubriaca», aveva detto Corinne, «a prescindere da quanto ne sia attratta. Perché non sono una stupratrice». Eppure, mentre era in stato confusionale ha mandato un’e-mail che è tutta una menzogna e non farà altro che ferire gli interessati. Questo che cosa fa di lei?

Le viene in mente che forse, quando il polverone sarà passato, il rapporto tra il ragazzo ed Elise ne uscirà più forte. In fondo, vuol dire che qualcuno deve essere geloso di uno di loro, per mandare quell’e-mail. Qualcuno vuole dividerli, e cosa può esserci di più romantico?

Corinne vomita tre volte. Beve un po’ d’acqua e vomita anche quella. Si chiede se il rimorso velato di panico che prova per aver inviato quel messaggio sia parte del rimorso generale che la assale ogni volta che si trova a smaltire i postumi di una sbornia, il disprezzo di sé che vuole essere espulso insieme all’alcol.

Il suo stomaco vuoto, terribilmente vuoto, per una volta sembra piatto. Quando riesce a tornare a letto, si sfila la maglia, tiene in alto il telefono e scatta una foto al suo torso nudo, il petto, il collo, il viso. Ha una faccia tremenda, pallidissima, ma rimedia applicando qualche filtro. In genere non manda mai a George foto che includano sia il corpo sia il viso, solo l’uno o l’altro, per prudenza, ma si sente spericolata e incline all’autodistruzione, perciò la invia.

Aspetta la sua risposta, che però non arriva. Si addormenta e quando si risveglia sono passate due ore, ma lui ancora non le ha scritto. Detesta essere l’ultima a premere Invia, detesta trovarsi in quella situazione di limbo, vorrebbe non aver mai inviato quella foto.

Prima di cancellarla dal telefono, la osserva. Sembra un cadavere, gli occhi chiusi, il corpo rigido e immobile sul lenzuolo bianco.

Ha bisogno che i ragazzi tornino dal campo estivo. Ha bisogno di tornarsene a casa sua. Quanto si è rivelato facile perdere ogni contatto con la realtà.

La professoressa di archeologia

È l’ultima lezione di yoga di Corinne allo studio. Ha quasi finito di svuotare l’appartamento e ha scritto un biglietto di ringraziamento per l’archivista della biblioteca.

Vorrebbe poter rimanere in quella stanza, su quel materassino, per sempre.

I momenti più felici, per lei, sono quelli in cui il suo corpo è annodato su sé stesso, le gambe incrociate una sull’altra al pari delle braccia, oppure con le braccia premute contro le cosce, i piedi chiusi tra le mani, o ancora con le mani incrociate dietro la schiena. Ha bisogno di percepire i limiti del proprio corpo e la durezza del pavimento sotto il materassino.

A fine lezione si prende del tempo per mettere via le sue cose, raccogliendo mattoncini ed elastici con tutta calma. La professoressa di archeologia sta parlando con l’istruttrice. Corinne deve essersi avvicinata più di quanto pensava: quando l’istruttrice si volta, sembra sorpresa nel trovarsi il volto di lei a pochi centimetri dal suo.

Quello che Corinne vorrebbe dire – e quasi inizia la frase, come in un sogno, come se non riuscisse a controllare ciò che verrà dopo – è: «Ho fatto casino e ho bisogno del tuo perdono». Ma, visto che non sta sognando e visto che se ne sta lì, a piedi nudi, sul freddo pavimento in legno, tutto quello che le viene da dire è: «Ti è caduto questo».

Poi, però, non riesce a pensare a cosa, mentre la professoressa e l’istruttrice di yoga la guardano, in attesa.

La mano di Corinne è nella tasca della sua felpa, e nella stessa tasca ci sono i venti dollari che voleva lasciare nel cestino per i pagamenti delle lezioni. Porge la banconota arrotolata alla professoressa.

«Oh!», esclama lei, le sopracciglia inarcate in segno di incredulità. «Sul serio?».

«Sì, sì», risponde Corinne, allontanandosi prima che possano farle altre domande.  Domani passerà furtivamente a lasciare altri venti dollari nel cestino. Anzi, ne metterà cinquanta. Le sembra più giusto. O cinquanta e un biglietto di ringraziamento. O cinquanta e una scatola di caramelle morbide di quel posto su Main Street. Deve pur esserci una formula, un quantitativo ideale che riesca a compensare la sua goffa esistenza, i suoi peccati.

La donna nella paninoteca

È l’ultimo giorno di Corinne in città e la donna avrà 60-65 anni. È seduta da sola, a mangiare un’insalata.

Terminato il pranzo, si spazzola accuratamente i denti con uno spazzolino asciutto, osservandosi in uno specchietto. In qualche modo, riesce a non farlo sembrare disgustoso. Si rimette il rossetto. Si alza e si stira i polpacci, uno per uno, dedica un minuto a riorganizzare la borsetta. A rimettersi in ordine. Corinne non pensa mai a rimettersi in ordine, non si ferma mai a chiedersi, a metà giornata, a che punto è. Rimane incantata dalla cura che quella donna ha di sé, dal suo modo di fare le cose una alla volta.

La donna si avvicina e le chiede se sa come arrivare al giardino botanico. «Penso che debba andare dritta verso est», le risponde Corinne.

Invece di Non sono di qua. Invece di Insegnami a vivere

© 2021 by Rebecca Makkai, first published in Harper’s. Used by permission of the author.
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ARTICOLO n. 73 / 2021

SARÀ IL PAESAGGIO A SALVARE IL MONDO?

Le culture continuano ad essere due e ben distinte: da una parte le umanistiche e dall’altra le scientifiche, il dibattito torna animato. In ultimo dal ministro Cingolani che lamenta che nel corso di dodici anni di scuola, «continuiamo a fare tre, quattro volte le guerre puniche», mentre «ci serviranno i digital manager per la salute, per l’energia, lavori che nemmeno esistono oggi». Gli storici sollevano gli scudi e si indignano i matematici che ritengono che continuare a studiare greco e latino sia all’origine del successo dell’anti-scienza. Non manca però chi ricorda che Marchionne era laureato in filosofia. Alcuni fanno riferimento a Le due culture, libro del 1959 di Charles P. Snow che, non solo per appartenenza culturale (era un fisico), stava dalla parte degli scienziati ai quali opponeva i non scienziati, qualificati come letterati. «Di professione scienziato, di vocazione, scrittore» era però equanime nei biasimi. Ai suoi colleghi rimproverava «libri ben pochi…e dei libri, che per la maggior parte dei letterati sono come il pane, romanzi, storia, poesia, teatro, quasi nulla». Ai letterati, invece, la pretesa che «la cultura tradizionale costituisca la totalità della “cultura”, come se l’ordine naturale non esistesse» e l’ignoranza a proposito de «l’edificio scientifico del mondo fisico…la più splendida e magnifica opera collettiva della mente umana». Un tentativo di conciliazione tra i due saperi, si evidenzia in righe famose: «Chiedevo di spiegare che cos’è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda: ed altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è presso a poco l’equivalente scientifico di avete letto un’opera di Shakespeare?».  

Sessant’anni dopo, parole e repliche a Cingolani, non sembrano mostrare che molti passi avanti siano stati fatti. Il ministro, pur capace di equilibrismi in ambito ambientale tanto da tenere insieme energia nucleare e fonti rinnovabili, di annuire al contempo a Greta Tunberg e alla finanza capitalistica, fallisce l’occasione, come i suoi critici, di cogliere l’opportunità – che pure il nome (Transizione Ecologica) del suo ministero pone ­– di fondere colture differenti. Non solo, quindi, multidisciplinarietà ma anche transdisciplinarietà. Mitterand della élite dei funzionari statali formati all’Ecole Nationale d’Administration diceva: «sanno tutto, peccato che sappiano solo quello». Pur apprezzandoli li riduceva ad esempio del sapere riduzionista quello, tornando a Snow, degli specialisti ignoranti incapaci di frequentare saperi diversi, incuriosirsi dei margini tra essi dove si ibridano nature e culture e progredisce la conoscenza.  Quelli che ignorano la prima lezione che deriva dalle scienze ecologiche: la transizione non può considerare separatamente i singoli problemi ambientali perché essi sono sistemici. Ai tempi dell’Antropocene, per di più, è palese che i problemi ambientali fuoriescono dai limiti fisico biologici e coinvolgono aspetti politici, sociali, economici, culturali. Guardano ai bisogni e ai desideri, a condizioni di vita che non potranno essere valutate solo in base all’uso, seppure sostenibile, delle risorse per bisogni quali l’alimentazione, la sanità, l’accesso all’energia, ma dovranno pure misurarsi con aspetti non meno essenziali: l’educazione, la qualità della democrazia, il rispetto delle radici culturali, la libertà di conoscere e viaggiare, il confronto a diverse scale (locale, globale) con le diverse culture umane, con le necessità sociali, con una dinamicità che consenta elasticità rispetto a un futuro che può prevedersi ma non conoscere. È la sfida di una complessità che tenga insieme il materiale e l’immateriale, che non guardi solo agli interessi della specie umana ma a quelli complessivi della biosfera. Una sfida che si vince se, prima od oltre a saperi super specialistici e alle consequenziali iper tecnologie, ci si affida a nuovi saperi, scenari. Bisogna parlare lingue diverse, ibride. In un film di Michelangelo Antonioni del 1970, Mark, studente di Berkeley, era inseguito dalla polizia nel deserto di Zabriskie Point per il delitto di «avere portato gli ingegneri ai corsi d’arte» e perciò cacciato dall’università. Primo Levi, chimico e scrittore, concordava con Snow: «Chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura.».

In tempo di cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, pandemia è giunto il momento che il paesaggio si faccia avanti con la sua rivoluzionaria radicalità sistemica che nulla esclude: sintesi di storia, natura e percezione culturale, legame tra ciò che è materiale e ciò che è immateriale. Specchio, come sempre è stato, della civiltà. Oggi, con riferimento al Green Deal europeo (e alle declinazioni locali come il PNRR) è il solo strumento possibile per comprendere e affrontare la complessità, uscire dalle secche del riduzionismo e approdare ad una visione sistemica espressione di nuovi comportamenti, stili di vita, modelli di sviluppo per cui è necessario andare nella profondità dell’animo dell’uomo, della cultura e delle sue manifestazioni. 

Il paesaggio è espressione di servizi ecosistemici produttivi, ambientali e culturali che cambiano in relazione ai tempi della natura e dell’uomo. Nella sua dinamicità connaturata è in grado di confrontarsi con il futuro e di adeguarsi a esso, alla sua inevitabile imprevedibilità, alle domande che si porranno, ai bisogni che nasceranno dalla storia passata e presente di una comunità attraverso la partecipazione, la condivisione, l’incontro di saperi diversi. Il paesaggio è il risultato visibile della cultura di un popolo, esprime attraverso sé stesso o le forme che lo rappresentano valori ecologici, estetici, economici ed etici e confrontando i bisogni personali e della collettività con risorse e vincoli della natura con cui interagisce, riguarda l’intero (umano e non umano) mondo vivente. La visione propria del paesaggio ha urgenza dell’incontro tra le due culture e dei linguaggi conseguenti, del passaggio dalla frammentazione nozionistica a una conoscenza multi e transdisciplinare utile al confronto con le diverse culture umane, con le necessità sociali. Inevitabilmente antropocentrico per il principale attore che lo determina ­– “coscientemente e sistematicamente” diceva Emilio Sereni, ma si riferiva, alla fine degli anni ‘50, ai mirabili paesaggi agrari della tradizione italiana – comprende ed esprime tutto ciò di cui l’umanità ha urgente bisogno. Quelli del futuro ­– che dovranno ospitare le energie rinnovabili, che occuperanno spazi urbani, che sfameranno l’umanità, che presidieranno le montagne e contrasteranno gli incendi, che si confronteranno con l’innalzamento delle temperature e del livello delle acque marine, che si presteranno al piacere e alla contemplazione ­­– non dovranno nascere solo nelle stanze dei decisori politici, negli studi e dei laboratori degli scienziati o dalle riflessioni e creazioni di umanisti o letterati. Devono nascere (immaginati, pensati, progettati, realizzati, gestiti) con la partecipazione di chi li costruisce, li abita, li vive. Non in contrasto, ma nel rispetto della biosfera: alleati, non dominatori in essa. 

Una volta si ripeteva, fino allo sfinimento, che la bellezza avrebbe salvato il mondo, adesso è il momento che in campo scenda il paesaggio.

ARTICOLO n. 72 / 2021

NYARLATHOTEP

Traduzione di Massimo Berruti

Nyarlathotep…il caos strisciante…Io sono l’ultimo…Dirò al vuoto in ascolto… 

Non ricordo esattamente quando tutto ebbe inizio, ma accadde alcuni mesi fa. La tensione generale era al massimo. A un periodo di disordini politici e sociali si era aggiunta la strana, minacciosa sensazione di un orrendo pericolo fisico incombente. Un pericolo diffuso, che gravava su tutto, un pericolo quale si può immaginare solo nelle visioni più angosciose della notte. Ricordo che la gente andava in giro con facce pallide e preoccupate, e sussurrava avvertimenti e profezie che nessuno osava ripetere volontariamente o ammettere a se stesso di aver udito. Un mostruoso senso di colpa pervadeva la nazione, e dagli abissi fra le stelle soffiavano gelide correnti che facevano tremare gli uomini in luoghi bui e solitari. Un’alterazione diabolica aveva colpito il ciclo delle stagioni – il calore dell’autunno persisteva in modo preoccupante, e tutti sentivano che il mondo e forse l’intero universo erano sfuggiti al controllo di forze o dèi conosciuti per passare sotto quello di forze o dèi sconosciuti. 

Fu allora che, in Egitto, apparve Nyarlathotep. Nessuno sapeva chi fosse, ma nelle sue vene scorreva il sangue antico di quella terra, e aveva le sembianze di un faraone. I fallah si inginocchiavano al suo passaggio, ma non avrebbero saputo dire il perché. Diceva di provenire dall’oscurità di ventisette secoli, e di aver udito messaggi provenienti da luoghi non di questo pianeta. Scuro di carnagione, magro e sinistro, Nyarlathotep fece la sua comparsa nei paesi civilizzati, e si procurava senza sosta strani oggetti di vetro e di metallo, che poi assemblava in strumenti ancora più bizzarri. Parlava molto di scienza – di elettricità e psicologia – e nei suoi spettacoli dava dimostrazioni di un potere capace di ammutolire gli spettatori, e che tuttavia gli procurò una notorietà eccezionale. La gente raccomandava di andare a vederlo, eppure tremavano. Dovunque arrivasse Nyarlathotep, finiva la pace – perché le ore che seguono la mezzanotte erano lacerate da grida d’incubo. Mai prima d’allora le urla provocate dagli incubi avevano rappresentato un problema di ordine pubblico: ma ora i saggi quasi avrebbero voluto proibire alla gente di dormire durate le ore che seguono la mezzanotte, così che le urla delle città non turbassero tanto orribilmente la luna pallida e pietosa mentre illuminava le verdi acque che scorrevano sotto i ponti e le antiche guglie cadenti sullo sfondo di un cielo malato. 

Ricordo quando Nyarlathotep arrivò nella mia città – la grande, antica,  orribile città dai crimini infiniti. Un amico mi aveva parlato di lui, dell’irresistibile fascino e attrazione che esercitavano le sue rivelazioni – e io morivo dal desiderio di scoprire i suoi misteri piùreconditi. Il mio amico sosteneva che fossero impressionanti e orribili, e superassero l’ardire della mia più sfrenata immaginazione; sosteneva che quanto veniva proiettato sullo schermo in una sala buia rivelava cose che solo Nyarlathotep osava rivelare, e che nel succedersi dei fotogrammi venisse rubato agli uomini ciò che mai prima era stato loro rubato – e che tuttavia solamente negli occhi si rivela. E venni a sapere che all’estero si vociferava che chi aveva conosciuto Nyarlathotep fosse capace di vedere cose che agli altri erano precluse. 

Fu in una notte di quel caldo autunno che mi unii a una folla agitata, per recarmi a vedere Nyarlathotep; attraverso un calore opprimente risalii gli interminabili scalini che conducevano in una sala affollatissima. Sullo schermo vidi sagome incappucciate muoversi tra cumuli di rovine, e volti crudeli e gialli che sbirciavano dietro monumenti caduti. Vidi il mondo lottare contro l’oscurità, contro il montare della distruzione proveniente dallo spazio estremo – lo vidi vorticare, agitarsi, sfrenato, attorno a un sole sempre più debole e freddo.Poi le fiammate di luce compirono degli strani movimenti attorno alle teste degli spettatori, e i loro capelli si rizzarono, mentre ombre più bizzarre di quanto io sappia descrivere apparvero dal nulla e si acquattarono sulle nostre teste. E quando io, che ero più lucido e razionale degli altri, provai a lamentare con un brivido che si trattava di «impostura»,  di «elettricità statica», Nyarlathotep ci condusse tutti fuori, giù per le scale ripide e nelle strade umide, afose e deserte di mezzanotte. Gridai con tutte le mie forze che non avevo paura, che mai ne avrei avuta, e altri gridarono con me per farsi coraggio. Ci rassicurammo l’un l’altro che la città era esattamente la stessa, che era ancora viva – e quando le luci cominciarono a spegnersi più volte maledicemmo l’azienda dell’elettricità, e ridemmo delle strane espressioni sui nostri volti.  

Poi, credo, avvertimmo qualcosa scendere dalla luna verdastra, perché quando rimase solamente la sua luce, cominciammo inconsciamente a marciare in curiose formazioni che sembravano conoscere la propria meta, sebbene nessuno osasse pensarci. A un certo punto notammo che i blocchi della pavimentazione scivolavano via e venivano sostituiti dall’erba, e solo una debole traccia di metallo arrugginito indicava il vecchio percorso dei tram. Vedemmo la carrozza di un tram, staccata dal resto, senza vetri, in rovina e quasi adagiata su un fianco. Guardando verso l’orizzonte non vedemmo più il terzo grattacielo vicino al fiume, e notammo che la sagoma del secondo era sbrecciata sulla cima. Quindi ci dividemmo in gruppi più piccoli, ognuno dei quali pareva trascinato in una direzione diversa. Uno scomparve in un vicolo angusto sulla sinistra, lasciandosi alle spalle soltanto l’eco di un gemito di terrore. Un altro, risucchiato da un’entrata della metropolitana ricoperta di erbacce, ululò una risata folle. Il mio gruppo fu invece attirato verso l’aperta campagna, e immediatamente tutti noi avvertimmo un brivido gelato che non aveva nulla a che fare con quel caldo autunno, perché mentre procedevamo nella cupa brughiera ci accorgemmo che attorno a noi il chiarore infernale della luna si rifletteva in luccichii malvagi sulla neve. Neve inspiegabilmente intatta, spazzata dal vento in un’unica direzione, verso un abisso reso ancora più nero dalle sue pareti luccicanti. Il mio gruppo sembrava ridursi mentre s’incamminava a fatica, come in un sogno, verso il baratro. Io indugiavo in fondo al gruppo, perché l’abisso nero immerso nella neve verdastra era spaventoso, e credetti di udire un lamento inquietante man mano che i miei compagni scomparivano; ma ormai non avevo piùfacoltà di trattenermi. Come attirato da quelli che mi avevano preceduto, fluttuai fra le possenti raffiche di neve, terrorizzato e fremente, per poi precipitare nel cieco vortice dell’inimmaginabile.

Se gridassi lucidamente, o fossi preda di un muto delirio, solo gli dèi che furono saprebbero dirlo. Sono un’ombra malata e sensibile che si contorce in mani che non sono mani, e vortica ciecamente oltre le mezzanotti popolate di fantasmi d’un cosmo in putrefazione, oltre cadaveri di mondi morti infettati da piaghe che furono città, oltre venti d’ossario che spazzano stelle sbiadite e ne attenuano il chiarore. Al di là dei mondi, immagini indistinte di cose mostruose, pletore confuse di templi blasfemi che si ergono su rocce senza nome sotto lo spazio, e svettano fino a vuoti vertiginosi sopra le sfere della luce e della tenebra. E attraverso questo ripugnante cimitero dell’universo, si ode un folle, ovattato rullìo di tamburi, e un sottile e monotono lamento di flauti blasfemi provenire da stanze inconcepibili e oscure al di là del Tempo; quei suoni e rullii osceni al cui ritmo danzano lenti, goffi e insensati i giganteschi, tenebrosi ultimi dèi – i ciechi, muti, dementi orrori la cui anima è Nyarlathotep. 

Il racconto sarà presente nell’antologia I Racconti dell’apocalisse curata da Andrea Esposito prossimamente in uscita per il Saggiatore.

ARTICOLO n. 71 / 2021

METAFISICA MEDITERRANEA

Intervista di Marco Marino

Marco Marino. Giuseppe, la prima domanda che le vorrei fare è cosa significa per lei dipingere. 

Giuseppe Modica. È una bella domanda, essenzialmente per me è legato a qualcosa di ontologico, esistenziale, qualcosa di vitale; è questo la pittura: qualcosa di profondamente intimo, legato proprio alle ragioni primarie dell’essere umano nel caso mio. Qualcosa di originario, non eludibile, di fondamentale, insomma è come il respiro.

M. M. Lei va in studio, nel suo atelier, ogni giorno: come si coniugano l’esigenza ontologica e l’abitudinarietà quotidiana. Dialogano a vicenda? A volte l’abitudine fiacca la passione della pittura?  

G. M. L’abitudine detta una forma di ritualità necessaria: vado in studio e guardo attorno, vedo cosa ho fatto, rifletto su quello che vedo. A volte non è detto che debba immediatamente mettermi a dipingere. Posso stare anche ore davanti a un quadro solo a guardarlo e a pensare come può essere risolto, quali possono essere i passi successivi che devo fare: possono essere dei motivi di riflessione, non è detto che devono sempre essere dei motivi di lavoro operativo vero e proprio che mi spingono ad andare in studio. Il momento giusto per cominciare ad operare ad un certo punto scatta e quindi è lì che diventa necessario fare le imprimiture, segnare lo spazio, tracciare un disegno, stendere i colori, costruire una trama pittorica: dipingere nel vero senso del termine, mentre nei giorni precedenti ho fatto maturare un’idea che aveva bisogno di tempo e meditazione. 

M. M. Dopo la meditazione, un quadro come nasce? 

G. M. Un quadro è il risultato di un percorso nel tempo fatto di collegamenti, richiami e sedimentazioni che fanno sì che un bel momento tu senti l’esigenza di formalizzare sulla superficie della tela quei pensieri, quelle sensazioni, quelle emozioni che diventano concretamente dati formali e costruttivi. 

M. M. Che equilibrio c’è tra il pensiero e l’emozione nella creazione del quadro? 

G. M. È un impasto tra le due, tra aspetti della memoria e aspetti del rigore razionale, è difficile riuscire a capire dove finisce la ragione e dove entra l’emozione, dove ci sono le ragioni del cuore e dove quelle del pensiero. È un intreccio, ed è bello così. 

M. M. Prima, parlando dell’atelier, ho pensato che è stata molto fortunata la sua mostra che ha avuto come protagonista il suo atelier, «Atelier. Giuseppe Modica 1990-2021». Cos’è l’atelier per lei? 

G. M. L’atelier può essere un luogo in cui mi trovo per meditare e riflettere, dove convergono tutti i miei pensieri, le mie memorie e le annotazioni che faccio nel tempo, ma può essere anche momento magico di metamorfosi e trasformazione in cui la massa dei pensieri prende forma per diventare nuova opera, pensiero visivo. 

M. M. Tra il momento di metamorfosi e il divenire opera si sente condizionato da estrema solitudine o ha bisogno di un occhio esterno che la osservi? 

G. M. No, lavoro in solitudine. Il momento di confronto arriva immediatamente dopo quello della creazione. L’osservazione dell’occhio altrui è importantissimo così come il dialogo; una solitudine separata dal mondo non significa nulla, non porta a niente. La mia solitudine deve trovare un riscontro: un dialogo con una collettività, con un mondo ampio, è linfa vitale. 

M. M. Mi piacerebbe entrare nei suoi quadri: partirei subito da un aspetto che mi ha colpito molto attraversando la mostra: lo studio degli azzurri. È una mostra molto luminosa, molto azzurra. Vorrei chiederle dell’azzurro, che rapporto ha con l’azzurro?

G. M. Ma sai, i colori… i colori un pittore li sceglie così, istintivamente perché ti sono strettamente legati, è un fatto diciamo del sentire intimo, emozionale. E l’azzurro è un colore straordinario perché è il colore dell’aria; l’azzurro accende la luce degli ocra, dei rossi, dà concretezza alle pietre, e alla terra; dà spazialità all’infinito, alle lontananze: l’azzurro è l’atmosfera trasparente ed invisibile. L’azzurro è un colore che misteriosamente crea una sospensione magica, una tensione magnetica; pensa a Giotto, a Piero della Francesca, a Giovanni Bellini e ai loro cieli azzurri sospesi. L’azzurro è un colore che ho sempre amato sin da bambino, lo accostavo alla gioia di vivere. 

M. M. E come dialoga l’azzurro con le, come posso dire…le sfasature del tempo che lei innesta nei suoi quadri? Perché i suoi quadri sono caratterizzati sempre da questo, no? Da un profondo azzurro, una profonda spazialità e poi anche una sfasatura temporale tra le zone dei suoi quadri. 

G. M. Beh l’azzurro è, diciamo, una materia che mette in connessione la struttura misurata dello spazio con qualcosa che è imponderabile, con qualcosa che ha una temporalità altra, indefinibile, imprendibile. È l’azzurro che connette questa energia ritmica e dinamica che sta nell’opera e che transita. Prendiamo ad esempio un quadro fatto di più pannelli, un trittico: da un pannello all’altro questa energia dinamica passa, pur se il quadro è teso, bloccato: attraverso i brandelli di azzurro, le abrasioni e le macchie di ossidazione sulla superficie pittorica transita la tensione magnetica e si crea un ritmo musicale. 

M. M. Io mi concentrerei proprio su questa dimensione del tempo dentro i suoi quadri, perché insiste sulla molteplicità del tempo dentro il quadro? Cioè a volte c’è uno specchio che riflette un certo momento del giorno e una finestra nello stesso spazio che ne riflette un altro. Una finestra riflette il tramonto, l’altra invece l’alba o il mezzogiorno…

G. M. Si, questo si vede bene nell’opera Il pittore nell’atelier-autoritratto (1996-97) dove in uno specchio si riflette una luce pomeridiana e nella parte oltre lo specchio c’è una luce del mattino. C’è questa articolazione del tempo nella sua vastità, nella sua circolarità. È perché sostanzialmente l’essenza della pittura sta nella temporalità: questa articolazione ed estensione del tempo è tipica e caratteristica della pittura e della scultura. La pittura è, diciamo, tempo processuale del fare, addizione di tempi, ed è anche appropriazione di un tempo lontano, che è poi il tempo della memoria e dei ricordi personali, della memoria antropologica e culturale.

M. M. La caratteristica dei suoi lavori è la molteplicità spaziale, è l’uso degli specchi ma anche delle macchine fotografiche che quasi ampliano gli spazi; perché sente l’esigenza di ampliare lo spazio? Una tela non basta? 

G. M. È una mia esigenza interiore avere una molteplicità dello spazio, molto probabilmente perché nella mia realtà poetica non ho una visione assoluta che mi ha dato una certezza definitiva. C’è sempre dentro il mio lavoro un dubbio, una relatività delle cose che sono portato a vedere nella loro trasformazione, nella loro apparizione altra, nella loro dimensione dialettica fra realtà e finzione: è la nostra contemporaneità che è fatta di complessità dialettica. 

M. M. Stavamo riflettendo sulla spazialità e d’altronde, questa diciamo è un’altra parte della conversazione che mi interessa molto approfondire. D’altronde lei si pone in dialogo con due suoi indiscussi maestri, diciamo modelli: da una parte il Velàzquez di Las Meninas e dall’altra de Chirico. Intanto mi piacerebbe approfondire il suo rapporto con Velàzquez…

G. M. Velàzquez, e soprattutto il quadro Las Meninas, ha fatto sì che mi interrogassi molto sul senso della pittura. È un quadro straordinario della storia dell’arte che ha fatto riflettere tantissimi studiosi, artisti e filosofi. È un quadro che ancora oggi crea delle inquietudini, degli interrogativi. È un quadro che ha incredibili e sofisticate implicazioni investigative sul linguaggio della pittura e della rappresentazione. 

M. M. Cosa è che l’ha colpito tanto? Lei ricorda quando la straordinarietà del quadro l’ha catturato? 

G. M. Alla fine degli anni Ottanta ho fatto un viaggio a Madrid e ho visto il quadro al Prado, dal vero. C’è una tensione che aleggia intorno a lui, ti risucchia, ha la capacità di portarti dentro nonostante la distanza. È una trappola per lo sguardo, come diceva Lacan: la circolarità dello spazio è interna all’opera ma anche all’esterno e come fruitore tu vieni trasportato nell’opera. Quindi essa ha la capacità di prolungarsi sia nell’infinito davanti a te che in uno spazio che sta oltre le tue spalle. È un quadro sulla pittura, è stato definito da Luca Giordano la teologia della pittura. Per uno come me che è sempre stato legato alla pittura intesa come fenomenologia del linguaggio, è impossibile sfuggire al fascino di questa imprendibile e misteriosa magia. Li, in quel quadro esplode un universo da indagare.  

M. M. Mi interessava molto questa sua definizione della pittura «fenomenologia del linguaggio», che cosa significa? 

G. M. A volte, nella nostra contemporaneità e con un generico conformismo, si può pensare che aspetti di un linguaggio antico come la pittura siano esauriti e che esistano solo come retaggio archeologico. Si pensa, luogo comune diffuso ahimè anche nelle Accademie, che la pittura o la poesia siano inadeguate ad indagare la contemporaneità. Insomma ci sono degli schematismi ideologici animati da una visione critica all’ingrosso che si organizza attorno ad una sorta di progressismo linguistico: superata una fase se ne crea un’altra; nell’era delle nuove tecnologie è come se un linguaggio si esaurisse, venisse rottamato e se ne cercasse un altro più congruo. Invece non è così perché i linguaggi non sono tecnologie che sono e rimangono supporti e protesi.

La pittura, la scultura, come la poesia, la musica sono linguaggi antropologici di sempre, fondanti e primigeni, che all’occorrenza cambiano e si trasformano nel tempo utilizzando di volta in volta le tecnologie più funzionali all’espressività. Questi linguaggi hanno in sé una specie di mistero imponderabile perché resistono alla temporalità effimera delle mode e sono sempre diversi in ogni epoca, in ogni momento storico. Quindi non esiste un meglio o un peggio nel tempo, esiste solo una trasformazione e la pittura come la poesia ha la capacità di trasformarsi e reinventarsi nella temporalità. 

M. M. Enigma, mistero e soprattutto la reinvenzione, diciamo sono parole che si legano molto ad una definizione che spesso viene data della sua opera ossia di metafisica, di nuova metafisica.

G. M. La metafisica è indubbiamente legata a questo nume tutelare che è Giorgio de Chirico, grandissimo artista. Un grande critico come Maurizio Fagiolo dell’Arco era convinto che il fantasma della metafisica fosse ancora presente nella cultura del ‘900. Anzi, sosteneva che non tanto il linguaggio in sé di de Chirico, ma il pensiero della Metafisica fosse sostanza fondante della cultura artistica del ‘900. Ecco, lui ha curato, nel 1999 a Milano, la mostra De Metaphisica coinvolgendo alcuni artisti che avevano un pensiero di tipo metafisico nel loro linguaggio artistico: Carlo Guarienti, Giulio Paolini, Gianfranco Ferroni, Carlo Maria Mariani, artisti di una generazione più matura e poi più giovani c’erano Claudio Bonichi, Bernardino Luino e il Sottoscritto. Eravamo tutti artisti legati ad un’idea di imponderabile mistero, qualcosa di indefinibile e inafferrabile che si concretizza poi in forma colore luce

M. M. E a lei quanto le si confà e quanto le sta stretto il termine metafisica? 

G. M. Mah! Metafisica… diciamo bisogna intanto vedere…c’è una metafisicheria di genere quella legata agli epigoni di una cultura post-surreale e post-metafisica, e quella non mi appartiene. La metafisica è pensiero poetico che indaga le cose nel loro mistero, nella loro inafferrabilità: questo mi appartiene. Anche gli scritti di de Chirico sono straordinari da questo punto di vista. 

M. M. Certo, perché poi il problema è sempre la ricerca: ma come si fa? Nel suo lavoro sono presenti diversi studi come quelli legati ai piano-terra, agli androni condominiali, a questi luoghi un po’ disabitati, un’altra che invece riflette sulla dimensione della terrazza e la spazialità che c’è oltre, un’altra indaga le finestre. Una delle ultime indaga gli spazi che si creano all’intero di un tessuto urbano. Come si fa a costruire una nuova serie?

G. M. Le opere spesso non nascono da una programmazione voluta ma nascono da una casualità: tu osservi l’ambiente che ti circonda e che piano piano, comincia ad interessarti, e lo osservi e questa osservazione lenta e attenta pian piano entra nel tuo lavoro e così inizia l’indagine.

M. M. Come si gestisce l’ossessione?

G. M. Lei usa il termine ossessione, dietro a delle opere c’è davvero una ossessione, ci sono delle idee e dei pensieri che ritornano e li devi aspettare, far sedimentare, vedere se ritornano ancora. Insomma è un incontro, un dialogo con queste presenze che tornano e che devi indagare. 

M. M. Sono tutte presenze che nel suo atelier sono i veri padroni di casa.

G. M. Penso di si, penso di si. 

M. M. Volevo farle un giro di domande un po’ più assurde però per me molto importanti. Ma prima di questo c’era un’altra cosa che mi interessava indagare insieme a lei che è la dimensione del mediterraneo. Perché abbiamo parlato dell’azzurro, abbiamo parlato della prospettiva e abbiamo parlato di metafisica. A volte al termine metafisica è stato accostato anche l’aggettivo mediterraneo per parlare dei suoi lavori. Ma in che modo il suo lavoro, la sua pittura dialoga con l’aggettivo mediterraneo?

G. M. Mediterraneo per me è relativo ad un fatto di nascita, ai luoghi della memoria, alla luce che ho visto e alle memorie che sono legate al paesaggio, all’archeologia, alla vita vissuta. Queste luci e queste memorie indubbiamente condizionano la visione lo sguardo che è legato alle luci che si sono viste sin dall’infanzia, no? E quindi questo ha strutturato un po’ il sentire, l’immaginario e quindi la mediterraneità è il suolo. Come diceva Jean Clair, un tempo il nome dei pittori era spesso legato al loro luogo di provenienza: Antonio da Crevalcore, Leonardo da Vinci, Pietro da Cortona. Il luogo dove tu eri nato caratterizzava la strutturazione del tuo linguaggio e credo che questo sia ancora vero. Ogni autore ha una sua identità legata al luogo in cui è nato, che si trasforma e si evolve, con le varie acquisizioni ed esperienze.

M. M. Certo, certo, e lei in che modo oggi dipinge il mediterraneo? 

G. M. Il mediterraneo è evocato, lo vedo da mille chilometri di distanza, vero che io vado in Sicilia a raccoglierne la luce e l’emozione, mi piace osservarla anche dal vero. Quell’emozione la integro, la porto con me e la rivedo poi nel ripensarla, quindi è un po’ una rielaborazione del dato visivo, accade tutto dentro l’atelier come si diceva prima.  

M. M. Adesso invece le volevo fare quelle domande più assurde che però ci permettono di fare una riflessione collaterale. Una di queste prime domande è: se i colori non esistessero più, assoluto paradosso, lei come vivrebbe? 

G. M. Se non ci fosse il colore come materia in sé per poter dipingere, questo intende? O il colore…

M. M. Intendo proprio il colore per dipingere, se non esistessero più i colori, in un mondo in bianco e nero. 

G. M. Questa è una bella domanda, forse…se non esistessero più te li dovresti inventare attraverso il bianco e nero. Quando un incisore disegna, in fondo traduce in bianco e nero, pensa sempre al colore, no? quello che poi diventa profondità. Il bianco e nero in fondo è la traduzione del colore, la forza evocativa del colore che poi si traduce in questa profondità della luce e dei mezzi toni. Fino all’ombra profonda, fino agli scuri più profondi. Chissà, forse farei solo delle incisioni; lavorerei con i disegni in bianco e nero. 

M. M. Ma non smetterebbe di dipingere, diciamo? 

G. M. No, assolutamente non penso!

M. M. Altra domanda assurda è: può un siciliano non vivere la sicilitudine? Che è un po’ questo sentimento che lei diceva…

G. M. Io penso che ognuno di noi porta con sé un villaggio della memoria, come lo ha definito Ferdinando Scianna, non solo il siciliano, il villaggio è una angolazione dello sguardo che si è formata, proprio dalla prima infanzia, tu te la porti sempre dietro, qualsiasi cosa osservi la ritrovi in ogni cosa anche se vai nei paesi più lontani dall’area mediterranea.

M. M. È un destino? È un destino o una accidentalità?

G. M. Ma io penso che questa angolazione dello sguardo appartenga un po’ a tutti. Non solo ai siciliani, Quindi non è accidentale. 

ARTICOLO n. 70 / 2021

STORIA DEL TEST DI VERGINITÀ

traduzione di Alice Guareschi

Nel 2017, i ricercatori dell’Università del Minnesota hanno pubblicato una sistematica revisione di tutte le ricerche peer-reviewed disponibili sull’affidabilità dei cosiddetti «test di verginità» in cui viene esaminato l’imene, e anche sull’impatto che hanno sulla persona che viene esaminata. Il gruppo di lavoro ha identificato 1269 studi. Le testimonianze sono state ricapitolate e valutate, per giungere a questa conclusione:

Lo studio ha scoperto che l’esame di verginità, conosciuto anche come delle «due dita», dell’imene, o esame per-vaginale, non è uno strumento clinico utile, e può essere fisicamente, psicologicamente e socialmente devastante per l’esaminata. Dal punto di vista dei diritti umani, il test di verginità è una forma di discriminazione di genere, così come una violazione dei diritti fondamentali, e, quando eseguito senza consenso, una forma di aggressione sessuale.

L’anno seguente, nel 2018, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile hanno diffuso una dichiarazione che chiedeva la soppressione dei test di verginità. Il comunicato affermava che «il “test di verginità” è una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne, e che può incidere in modo negativo sul loro benessere fisico, psicologico e sociale. Il “test di verginità” consolida concetti stereotipati rispetto alla sessualità femminile e alla diseguaglianza di genere». Non esistono test di verginità attendibili. Si può dire se uno ha fatto sesso guardando tra le sue gambe, quanto si può dire se uno è vegetariano guardando il suo ombelico. Ciò nonostante, il fatto che la verginità non possa essere provata, testata o localizzata nel corpo non ha scoraggiato la gente dal sostenere il contrario.

Oggi, purtroppo, la verginità di una donna è ancora altamente quotata in giro per il mondo, il che ha portato, di conseguenza, alla creazione di dannosi rituali legati al mantenimento e alla prova della purezza sessuale, tuttora in vigore ai giorni nostri. Di solito questi test comportano la ricerca dell’imene intatto, o quello che è conosciuto come il «test delle due dita», cioè la verifica della strettezza vaginale. Questa pratica è stata segnalata in molti paesi, tra cui Afghanistan, Bangladesh, Egitto, India, Indonesia, Iran, Giordania, Palestina, Sudafrica, Sri Lanka, Swaziland, Turchia e Uganda. Il fgm National Clinic Group afferma che la mutilazione genitale femminile viene considerata «un mezzo per preservare la verginità di una ragazza fino al matrimonio (per esempio in Sudan, Egitto e Somalia). In molti di questi paesi, la mgf è vista come un prerequisito per il matrimonio, e il matrimonio è vitale per la sopravvivenza sociale ed economica di una donna». L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, su scala globale, duecento milioni di ragazze siano state sottoposte a mutilazione genitale, in buona parte per preservare la loro verginità fino al matrimonio.

L’idea della purezza sessuale femminile come prerequisito per il matrimonio sta alla base di molte culture e religioni nel mondo. In Indonesia, ad esempio, il test di verginità rimane un requisito per le donne che vogliono arruolarsi nell’esercito o nelle forze di polizia. In tutta America vengono organizzati i cosiddetti «Balli della purezza», dove i padri portano le proprie figlie adolescenti a un «appuntamento»; la ragazza si impegna a rimanere vergine fino al matrimonio, e il padre, a sua volta, si impegna a proteggere la verginità di sua figlia fino a che non si sarà sposata (presumibilmente con un fucile e un qualche tipo di sistema d’allarme). Le donne possono ora farsi ricostruire l’imene per il mercato matrimoniale, e il business dell’imenoplastica va a gonfie vele. Nel 2016, la provincia sudafricana del KwaZulu-Natal ha introdotto una borsa di studio accademica per giovani donne che possono provare di essere vergini. E, nel 2017, il Comitato Investigativo russo e il ministro della salute, Vladimir Shuldyakov, hanno suscitato una grande indignazione ordinando ai medici di eseguire il «test di verginità» sulle studentesse, e di segnalare alle autorità chiunque venisse trovata senza imene.

Non solo la verginità è impossibile da provare, è anche piuttosto difficile da definire. Sembrerebbe molto semplice capire cosa sia, ma la certezza non regge poi così bene quando si comincia a titillarla un po’. Per essere più chiari, definire cosa vuol dire fare sesso per la prima volta può risultare più complicato del previsto. Se due ragazze fanno sesso, perdono la loro verginità? E se usano un dildo strap-on? Se una coppia eterosessuale colpisce la prima, la seconda e la terza base, ma viene eliminata alla quarta, in un caos sudato e soddisfatto, i due sono ancora vergini? Si può perdere la verginità da soli? Il rapporto deve per forza implicare una penetrazione pene-vagina? Se sì, questo esclude i rapporti omossessuali? Il gay pride è davvero un raduno di massa di vergini? E se una coppia eterosessuale fa solo sesso anale? Lui perde la sua verginità, ma tecnicamente lei conserva la sua?

Nonostante le numerose ricerche sull’argomento, l’imene è tuttora circondato da molte leggende. Ancora oggi la gente crede che fare ginnastica e andare a cavallo possano provocarne la rottura (non è vero), e fino alla fine degli anni ‘90 Tampax non ha smesso di rassicurare le giovani donne sul fatto che un assorbente interno non avrebbe «colto il loro frutto» (1988).

Persino il linguaggio che circonda la verginità è tendenzioso. Il concetto stesso di «perdere» o «conservare» la propria verginità suggerisce che, una volta persa, a noi tutti mancherà qualcosa e non saremo più interi. Suggerisce anche che la verginità è qualcosa di tangibile che è stato nostro sin dall’inizio. In senso metaforico, si può «dare» a qualcuno la propria V-card, ma questo non vuol dire che uno può appendersela sopra al caminetto di casa, o rivenderla su ebay (anche se molte donne in realtà ci hanno provato). 

Il concetto di verginità è innegabilmente legato al genere, e la ragione per cui pensiamo di sapere cosa vogliamo dire quando parliamo di «perdere» quel suddetto «frutto» (1933) è perché inconsciamente assumiamo che la verginità sia legata al sesso pene-in-vagina. Ecco cosa si intende per «eterosessualità obbligata». Questo non vuol dire che l’eterosessualità sia obbligatoria nel vero senso della parola, ma che i nostri copioni culturali relativi alla sessualità si concentrano di più sul sesso eterosessuale che su qualsiasi altro tipo di sesso: è diventato la nostra «normalità». Ora, non c’è dubbio che questo sia un privilegio cisgender, ma è il risultato di migliaia di anni di condizionamenti culturali. È solo grazie allo straordinario lavoro svolto negli ultimi cinquant’anni dagli attivisti lgbtq se abbiamo iniziato a creare uno spazio per discutere forme alternative al sesso uomo-donna. Ma c’è ancora molta strada da fare.

Quando qualcuno si preoccupa della verginità, quasi sempre si tratta della verginità di una donna. La stessa parola «vergine» viene dal latino virgo, che significa ragazza o donna non sposata. I ragazzi e gli uomini non sono mai stati valutati in base al loro status di vergini come succede invece alle donne. In vari momenti della storia, le donne sono state ripudiate, imprigionate, multate, mutilate, frustate e persino uccise come punizione per aver perso la verginità al di fuori del matrimonio, mentre sui quarantenni maschi vergini vengono fatti dei filmetti comici.

La ragione per cui la verginità femminile, e non quella maschile, è stata così rigidamente punita è oggetto di qualche dibattito, ma alla fine probabilmente è solo una questione di eredità paterna. Non è giusto, eppure nel mondo pre-pillola la gravidanza fuori dal matrimonio era un problema fisico e finanziario molto più impellente per la madre che per il padre; di conseguenza, erano gli intrallazzi di lei a venire controllati, piuttosto che quelli di lui. Ma non solo: in una società paternalista, dove ricchezza e potere vengono tramandati per linea maschile, la castità femminile è fortemente sorvegliata per garantire una discendenza legittima, e perché i beni terreni di tua proprietà passino ai tuoi figli (e non a quelli del lattaio). Questa teoria ha un certo peso se si considera che nelle poche società matriarcali in giro per il mondo, la ricchezza si trasmette per linea femminile. In queste culture, la sessualità femminile è guardata in modo molto diverso.

Oggi, la prova più famosa del test di verginità è il sangue prodotto dalla rottura dell’imene. Ma i nostri antenati non usavano neanche la parola «imene», e di certo per trovarne uno non andavano a frugare all’interno delle vagine come se stessero scavando alla ricerca di un tesoro. I testi di medicina, infatti, cominciano a parlare di imene solo nel xvsecolo. Nessuno dei medici classici (Galeno e Aristotele, per esempio) ne fa menzione. Il medico greco Sorano suggerisce che ogni sanguinamento vaginale post-coito è il risultato dello scoppio di vasi sanguigni, e nega categoricamente ogni tipo di membrana all’interno della vagina. Molti testi antichi riconoscono che le vergini possono sanguinare quando fanno sesso per la prima volta, ma la cosa non veniva ricollegata all’imene. Al contrario, si pensava che il sanguinamento fosse provocato dal trauma della penetrazione del pene e non bastasse come prova di verginità. È stato il medico italiano Michele Savonarola, nel 1498, ad usare per primo la parola imene, descrivendolo come una membrana che «viene rotta nel momento dello sverginamento, così che fuoriesce del sangue». Da questo momento in poi, i riferimenti all’imene e al suo legame con la verginità diventano sempre più comuni. Ma il fatto che i nostri antenati non verificassero l’integrità dell’imene non significa però che la verginità non fosse soggetta a test rigorosi, prima che l’imene diventasse il parametro di riferimento della manomissione.

Le più antiche vergini dell’antichità sono le vergini vestali romane, sacerdotesse consacrate a Vesta, la dea della terra e della famiglia. Scelte in giovane età, dovevano dedicare trent’anni di preghiera e castità alla città di Roma e prendersi cura della fiamma del tempio di Vesta; se una vestale aveva rapporti sessuali, per punizione veniva sepolta viva e lasciata morire di fame. Come verificare quindi la verginità di una vestale? Bene, entra in gioco qualche preghiera. Si credeva che le sacerdotesse avessero un legame speciale con gli dei, così quando la vestale Tuccia venne accusata, le fu data l’opportunità di compiere un miracolo per provare che era ancora vergine. Secondo Valerio Massimo, Tuccia provò la propria verginità trasportando dell’acqua in un setaccio, invocando la dea: «Vesta, se ho sempre accostato mani pure ai tuoi sacri corredi, ottieni che con questo crivello attinga acqua al Tevere e la porti al tuo tempio». Da allora il setaccio è diventato un simbolo di verginità, tanto che la regina Elisabetta I è stata spesso ritratta con un crivello in mano, a simboleggiare che nessuno aveva mai dato un morso alla sua ciambelletta con ciliegia. Ma nel caso non aveste avuto un setaccio a portata di mano, c’erano altri test di verginità a vostra disposizione — bastava avere un serpente, qualche formica e una torta. Lo scrittore romano Eliano (175–235 d.C.) descrive un rituale per verificare la verginità che si svolgeva nei giorni sacri:

Nel bosco vi è una tana vasta e profonda, dove dimora un mostruoso serpente. In determinati giorni dell’anno entrano nel bosco delle giovinette ancora vergini, che recano nelle mani una focaccia e hanno gli occhi bendati. Le conduce direttamente alla tana di questo mostro uno spirito divino; esse avanzano passo passo, senza inciampare, come se avessero gli occhi scoperti. Se sono veramente illibate, il serpente accetta le loro offerte di cibo, poiché le ritiene pure e adatte a un animale prediletto dagli dei. Altrimenti i cibi restano intatti, perché esso conosce in anticipo e indovina la loro impurità. La focaccia della giovinetta deflorata viene allora sminuzzata dalle formiche per renderne facile il trasporto; successivamente le formiche la portano fuori dal bosco e ripuliscono così il luogo. Gli abitanti, venuti a conoscenza dell’accaduto, indagano sulle giovinette che hanno preso parte alla cerimonia e quella che ha disonorato la sua verginità viene punita secondo la legge.

In cosa consistesse esattamente questa «punizione» non viene chiarito, e visto che i serpenti non sono noti per essere proprio amanti delle focacce, questo test sembra piuttosto ingiusto. 

Ma per confermare davvero che il sigillo non era stato rotto, serviva una bottiglia di pipì. Il testo del xiii secolo De Secretis Mulierum spiega che l’urina delle vergini è «chiara e limpida, a volte bianca, a volte frizzante». Il motivo per cui «le donne corrotte» hanno «un’urina torbida» è per via della «lacerazione» della pelle e «dello sperma maschile che compare sul fondo». Pisciare Perrier è un gran bel trucchetto da party, ma ci sono altri indizi a cui fare attenzione. Guglielmo da Saliceto (1210–1277) ha scritto che «una vergine urina con un sibilo molto più acuto» e, se solo si potesse avere un pratico cronometro a portata di mano, «impiega invero più tempo di un bambino».

I test di verginità medievali sono particolarmente concentrati sulle urine; anche il fisico italiano Niccolò Falcucci è stato un profeta del piscio, aveva però qualche altro asso nella manica.

Se si copre una donna con un pezzo di stoffa fumigata con il miglior carbone, se è vergine non ne percepisce l’odore né con la bocca né con il naso; se invece lo sente, non è vergine. Se assume il carbone con una bevanda, se non è vergine immediatamente espellerà urina. Una donna corrotta urinerà subito anche se la fumigazione è preparata con il gittaione. In merito alla fumigazione con il lapazio, se è vergine diventa pallida all’istante; se invece non lo è, il suo umore cade nel fuoco e su di lei vengono dette altre cose.

Il testo ebraico anonimo del xiii secolo intitolato Book of Women’s Love dice: «La sera la ragazza deve urinare sopra dei marshmallow, e riportarli al mattino; se sono ancora freschi, è pudica e buona, se invece non lo sono, non lo è.» Prima che cominciate a pisciare in un sacchetto di toffolette multicolore: il marshmallow a cui si fa riferimento qui è una pianta officinale [l’altea comune]. 

Ma forse vi state sforzando di ispezionare, ascoltare o cronometrare i vostri intenzionali giochi d’acqua. In tal caso, sarà necessario esaminare l’aspetto generale di una ragazza per trovare gli indizi che rivelano se il suo fiore è stato colto. Prima di spiegare che la pipì di una vergine fa le bollicine, il De Secretis Mulierum di Alberto Magno precisa cosa bisogna cercare. «I segni di castità sono i seguenti: la vergogna, la modestia, la paura, un passo e un eloquio impeccabile, l’abbassare lo sguardo davanti agli uomini e alle loro azioni.» (Per la cronaca, se una ragazza avesse ordinato e mangiato il menu formato famiglia di Pizza Hut da sola, e stesse pregando che non vengano trovate le prove nel cestino della spazzatura, i segni sarebbero gli stessi). Magno continua: 

Se il seno di una fanciulla è orientato verso il basso, è un segno che è stata corrotta, perché al momento dell’inseminazione le mestruazioni risalgono verso l’alto verso il seno e il peso supplementare fa sì che si affloscino. Se un uomo ha un rapporto sessuale con una donna e non avverte alcun dolore al pene e nessuna difficoltà ad entrare, è un segno che è già stata corrotta. Infatti, il vero segno della verginità di una donna è la difficoltà di compiere l’atto e il fatto che questo provochi dolore al suo membro.

Naturalmente, da quando l’imene è diventato il test di verginità di riferimento, controllare se la pipì è frizzante e emette un sibilo, cercare tette sode e verificare la capacità di annusare carbone senza farsela addosso sono per lo più caduti in disgrazia. Verificare la verginità è diventata tutta una questione di strettezza e di sangue. Anche se raramente, in giro per il mondo capita ancora oggi che, come prova della verginità della moglie, vengano esibite le lenzuola insanguinate. In alcune regioni della Georgia, la sposa ha una «Yenge», di solito una donna di famiglia più anziana, che la istruisce su cosa l’aspetta la prima notte di nozze. Per tradizione, era responsabilità della Yenge prendere le lenzuola macchiate di sangue dal letto nuziale e mostrarle a entrambe le famiglie per «provare» che la sposa era una novizia della scopata. Nonostante al giorno d’oggi il ruolo della Yenge sia per lo più rituale, in alcune zone la pratica dell’esibizione delle lenzuola insanguinate continua ancora.

Anche il test delle lenzuola insanguinate ha un pedigree molto antico. Lo si trova nella Bibbia, nelle vecchie romanze medievali, e si dice anche che Caterina d’Aragona sia stata in grado di esibire le lenzuola macchiate di sangue per provare di aver sposato Enrico viii da vergine. Inutile dire che sin dal momento in cui è stato sottoscritto un test così profondamente sbagliato, ci sono stati modi per falsificarlo. Vista la posta in gioco nel caso in cui il dono della verginità della sposa fosse già stato spacchettato da qualcun altro prima del «sì», potete capire perché una ragazza potesse mentire sulla propria passera nella prima notte di nozze; e da che i testi medici hanno cominciato a spiegarci come provare la verginità, ci hanno anche fornito consigli su come ripristinarla. Trotula è il nome dato a tre testi italiani del xii secolo sulla salute femminile. Autrice di almeno uno dei tre era una donna, Trotula da Salerno, che praticava la medicina a Salerno, città costiera del sud Italia. Alla ragazza che ha perso la verginità, Il Trotula offre questo consiglio particolarmente subdolo:

Di questo rimedio avrà bisogno ogni ragazza che si sia ridotta ad aprire le gambe e abbia perso la propria verginità per la follia della passione, di un amore segreto e delle sue promesse… Quando arriva il momento del matrimonio, per evitare che l’uomo lo venga a sapere, la falsa vergine ingannerà per bene il marito in questo modo. […] Prendi dello zucchero macinato, l’albume di un uovo, dell’allume, e mescolali in acqua piovana in cui sono stati fatti bollire menta puleggio, nepitella e altre erbe simili. Dopo aver immerso un panno di lino morbido e poroso in questa soluzione, con esso si lavi ripetutamente le parti intime […] Ma il migliore di tutti è questo inganno: il giorno prima delle nozze, fa che inserisca delle sanguisughe in vagina (ma si faccia attenzione a che non penetrino troppo in fondo), così che ne venga fuori del sangue e si trasformi in un grumo. E così l’uomo sarà ingannato dall’effusione di sangue.

Per ripristinare la verginità, il Book of Women’s Love raccomanda quanto segue: «prendete delle foglie di mirto e fatele bollire per bene in acqua fino a che non ne rimane che un terzo; prendete poi delle ortiche senza spine e fatele bollire nella stessa acqua finché ne resta solo un terzo. La ragazza dovrà lavare le sue parti intime con quest’acqua al mattino e prima di coricarsi, per nove giorni.» Tuttavia, se avete molta fretta, «prendete della noce moscata e macinatela in polvere; mettetela in quel posto e la sua verginità sarà immediatamente ripristinata». Nicolas Venette (1633–1698), l’autore francese de L’amour Conjugal, a chi volesse simulare la verginità dà questo consiglio:

Preparate un bagno con ornamenti di foglie di malva e di calderugia, qualche manciata di semi di lino e di semi di erigeron, atriplice, branca ursina o elleboro puzzolente. Fatele sedere in questo bagno per un’ora, dopo di che fatele uscire ed esaminatele due o tre ore dopo il bagno, osservandole nel frattempo da vicino. Se una donna è signorina, tutte le sue parti amorose saranno compatte e ben serrate una con l’altra; se non lo è, saranno cadenti, allentate, e non più rugose e strette com’erano quando aveva in mente di sceglierci.

Come sostiene Hanne Blank nel suo meraviglioso Virgin: The Untouched History, molti degli ingredienti qui elencati sono astringenti o antinfiammatori che si pensava restringessero la vagina. Anche se Venette non lo inserisce nella sua lista, uno dei più noti restringitori era l’acqua di allume. Nel suo Dictionary of the Vulgar Tongue (1785), Francis Grose cita «un’acqua che raggrinza» come «un’acqua impregnata di allume, o altri astringenti, usata da vecchi trafficanti esperti per contraffare la verginità». L’allume è un tipo di composto chimico ampiamente usato oggi nei conservanti e nell’industria alimentare. Incredibilmente, ci sono in circolazione molti siti web che raccomandano ancora l’allume per restringere la vagina. Approfitterò dell’occasione per dire una cosa: per favore, santo Dio, non fate una cosa simile alla vostra povera passera; fate i vostri esercizi di Kegel e abbiate fede.

Oltre a voler fingere nella sua prima notte di nozze, un’altra ragione per cui una ragazza poteva voler passare per novizia è che la verginità era un bonus extra. Nel viii secolo le vergini erano un’attività redditizia, e ogni ragazza del mestiere o tenutaria di bordello sapeva come falsificare un imene per trarne il massimo profitto. Nocturnal Revels (1779) fornisce dettagli espliciti di donne che rivendono la propria verginità più di una volta, e cita una frase della famosa maitresse Charlotte Hayes: la verginità «è facile come fare un pudding». Charlotte continua dicendo di avere venduto la sua «migliaia di volte». L’eponima eroina del primo romanzo erotico, Fanny Hill (1749), racconta con precisione al lettore come veniva falsificata la verginità nell’industria del sesso.

In ciascuna delle testiere del letto, al di sopra dell’intelaiatura, c’era un piccolo cassetto così abilmente nascosto negli intagli del mobile che sarebbe sfuggito anche alla ricerca più attenta; erano cassetti che si potevano aprire e chiudere facilmente pigiando una molla e contenevano entrambi una fialetta di vetro già piena di sangue e una spugnetta pronta per l’uso. Tutto quello che dovevo fare era raggiungerla, tirarla fuori e spruzzarmi in modo opportuno il liquido tra le gambe, un liquido rosso che si trovava lì in quantità molto maggiore di quella necessaria per salvare l’onore di una ragazza.

Altri suggerimenti subdoli comprendevano il fare sesso durante le mestruazioni per assicurarsi la presenza di sangue, e posizionare all’interno della cavità vaginale il cuore di un uccello o una vescica di maiale ricucita con dentro del sangue, così che «sanguinasse» al momento giusto.

Nonostante una credenza storica profondamente radicata nella vergine che sanguina, la cosa non è mai stata accettata all’unanimità dalla comunità scientifica. Ci sono sempre state isolate voci della ragione che hanno riconosciuto che si trattava di un mucchio di idiozie. Un medico come Ambroise Paré non solo ha negato che si potesse provare la verginità con un imene, ma sosteneva che una cosa come l’imene non esisteva nel 1573. Da allora ci sono stati mormorii occasionali sul fatto che l’imene non fosse esattamente quel tanto sbandierato certificato di autenticità. Nel xix secolo, questi bisbigli sono diventati un percepibile brontolio. Il dott. Blundell ha messo in discussione il valore di questa «membrana mistica», e nel 1831 Erasmus Wilson ha affermato che l’imene «non dovrebbe essere considerato un complemento necessario della verginità». Edward Foote ha scritto che «l’imene è un test di verginità crudele e inaffidabile» e che «i medici sanno che è un test di verginità altamente fallibile». Nel xxsecolo il brontolio è diventato un grido assordante e nel xxi secolo le grida sono state rimpiazzate da plateali alzate di occhi al cielo e esplosioni esasperate di «porca puttana! Basta con queste stronzate!» La ricerca a cui ho fatto riferimento all’inizio di questo capitolo ha identificato qualcosa come 1296 studi nelle banche dati elettroniche che indagano la validità del test di verginità e l’attendibilità dell’imene e, nella stragrande maggioranza, arrivano alla conclusione che non si può «provare» che qualcuno è vergine, e che gli imeni non dicono un bel niente sul passato sessuale delle loro proprietarie. Eppure il mito persiste, e le donne sono sistematicamente sottoposte a esami inutili e invasivi per cercare di stabilire la loro esperienza sessuale. Oggi gli esami di verginità sono in gran parte effettuati su donne non sposate, spesso senza consenso o in situazioni in cui le singole non sono in grado di darlo. Test di verginità sulle studentesse sono stati segnalati in Sudafrica e Swaziland, come deterrente per l’attività sessuale prematrimoniale. In India, il test fa parte dell’accertamento di aggressione sessuale per le donne vittime di stupro. In Indonesia, l’esame fa parte della procedura di candidatura per le donne che vogliono entrare nelle forze di polizia. Ma se anche si potesse dimostrare la verginità di qualcuno, il problema in realtà non è l’esame in sé (benché già abbastanza brutto) — il problema sono gli atteggiamenti culturali che valutano le donne basandosi principalmente sul loro essere sessualmente attive o meno. Non è possibile «provare» se qualcuno ha fatto sesso esaminando i suoi genitali, perché la verginità non è qualcosa di tangibile. L’imene è semplicemente un tessuto elastico all’interno della vagina, ma non la sigilla come il coperchio di un Tupperware. Gli imeni hanno forme e spessori diversi — alcuni sanguinano quando vengono lacerati, altri no. L’imene di certo non fa un botto quando viene rotto e non è in grado di provare la storia sessuale di qualcuno più di quanto non possa farlo un gomito. Non si può «perdere» la verginità perché la verginità non è un fatto fisico, è un’invenzione — a prescindere da quanto può essere frizzante la tua pipì.

© 2020, Kate Lister

ARTICOLO n. 69 / 2021

THE OLD MAN IN THE PIAZZA

traduzione di Gianni Pannofino

Ogni giorno, più o meno alle quattro del pomeriggio, quando il caldo del sole comincia a dar tregua, il vecchio si presenta in piazza. Cammina lento, strascicando i piedi calzati in impolverati mocassini marroni. Il più delle volte indossa una giacca blu scuro abbottonata fino al collo e pantaloni blu navy tenuti su da una cordicella annodata in vita. Ha i capelli bianchi e un basco in testa. Raggiunge l’unico caffè della piazza, il Caffè della Fontana, si accomoda su una sedia di legno a un tavolino di legno e ordina un caffè ristretto e forte. Alle sei ordina una birra e un sandwich. Alle otto si alza in piedi, si pulisce la bocca e si allontana, strascicando i piedi, presumibilmente verso casa. Non è indispensabile sapere dove abita. Tutte le cose anche solo minimamente significative della sua vita sono accadute e accadranno qui, in questa piccola piazza.

Prende posto. Lui è il pubblico, unico spettatore. Lo spettacolo sta per cominciare.

Nella piazza sboccano sette anguste stradine, una per ogni angolo e una dal punto centrale di tre dei quattro lati; il lato su cui sorge la chiesa è l’unico che non sia interrotto da una viuzza di ciottoli. Dovrebbe essere un posto tranquillo, una sonnacchiosa piazza di provincia, ma non è così. Tutt’intorno, per sei giorni alla settimana, si sente il clamore di gente che battibecca. Nella maggior parte dei casi, il numero dei presenti in piazza è superiore a quello degli abitanti del luogo. Sembra quasi che la gente arrivi nella pacifica piazzetta di questo pacifico paesino per litigare. Dalla grande città, distante quindici chilometri, arrivano lì per dar sfogo ai loro malumori. Alzano la voce, picchiano il pugno destro sul palmo della mano sinistra; battono i piedi a terra (indifferentemente, l’uno e l’altro in pari misura). Se sono in sella a una moto, suonano il clacson per l’esasperazione o per soffocare le voci avverse. Se litigano seduti sulle rispettive auto con i finestrini abbassati, suonano il clacson come i motociclisti, ma mandano anche su di giri il motore e, quando l’irritazione supera la soglia della sopportazione, chiudono i finestrini.

Il loro disaccordo non ha mai fine. Litigano sulla probabilità degli uragani e sul caso di corruzione legato all’assegnazione delle Olimpiadi estive a una città situata oltre il Circolo Polare Artico, sull’impossibilità dell’amore, sulla futilità della politica e sugli affetti segreti e illegali di eminenti personalità della chiesa cattolica. Si scornano sulla piattezza della Terra e sull’efficacia dei vaccini per il morbillo, la parotite e la rosolia. Sono in disaccordo su quale sia il gusto migliore per un gelato e hanno opinioni nette e inconciliabili sulla bellezza delle dive del cinema. Se hanno letto romanzi di uno scrittore e di una scrittrice che sono – o sono stati – tra loro sposati, prendono con decisione le parti dell’uno o dell’altra, e non c’è verso che cambino idea. Sembra che nulla accomuni la nostra gente se non la passione per il diverbio, il diverbio inteso come forma d’arte pubblica, come cuore ed essenza della nostra civiltà. Il baccano è terribile, si intensifica quanto più il giorno sprofonda nella sera e va avanti fino a tarda notte. Quando arriva la mezzanotte, la gente ha ormai consumato anche un discreto quantitativo di alcolici e questo rende le discussioni in piazza ancora più accese. E non è così raro che voli qualche pugno.

Il vecchio si siede al Caffè della Fontana e ascolta. Poiché, però, se ne va alle otto di sera, si risparmia le ore successive, quando l’alcol fa il suo effetto e iniziano le risse.

Le domeniche sono tranquille. Di domenica, se ne stanno tutti a casa e mangiano oppure vanno in chiesa, chiedono perdono, tornano a casa e mangiano.

Di domenica il vecchio non frequenta la piazza.

Così vanno le cose nella piazza da quando è finita la cosiddetta era del «sì». Quell’età buia ebbe inizio quarant’anni fa, o giù di lì, e per cinque anni discutere divenne illegale. Si era obbligati a essere d’accordo, sempre. Non esisteva enunciato, per quanto risibile – che il pane e il vino possono transustanziarsi in carne e sangue, che gli immigrati si trasformano di notte in mostruosi e sbavanti violentatori, che l’aumento delle tasse per le classi più povere ha effetti positivi, che le anime possono trasmigrare o che la guerra è necessaria – di cui fosse ammessa la confutazione, anche se gli immigrati gestivano la migliore pasticceria del paese e la nostra enoteca preferita, e i più tra noi erano poveri, e nessuno ricordava di aver vissuto vite precedenti sotto forma di tartarughe o stranieri o anguille, e solo un’infima minoranza di noi era di natura bellicosa. Era obbligatorio assentire, sempre e comunque.

Persino la nostra lingua – la lingua con cui tanta grande poesia è stata creata! – finì per uscirne alterata. Non le era più concesso l’uso del «no». C’era solo il «sì», con tutte le sue varianti: «naturalmente», «certo», «senz’altro», «assolutamente», «eccome», «chiaro», «d’accordo». Quando qualche incauto estremista ricordava la parola «no», l’effetto era più che scioccante, più che peccaminoso: era arcaico. Una parola rotta, di un’epoca antica ormai in rovina, come i resti di un tempio costruito per onorare un dio in cui nessuno crede più da migliaia di anni. Il dio del «no». Che dio ridicolo doveva essere stato! In ogni caso, a noi appariva tale.

La nostra lingua, però, era imbronciata. Andava a sedersi da sola in un angolo della piazza e scrollava spesso la testa con aria desolata. Diventò pedestre. Annunciò di non essere disposta, per il momento, a volare o a elevarsi e neanche a viaggiare in treno, in bicicletta o in corriera. Diceva che si sentiva i piedi pesanti come il piombo e che preferiva starsene seduta in silenzio a contemplare le cose che le lingue sono solite contemplare quando sono da sole e si sentono bistrattate. Se avesse avuto bisogno di muoversi, ci disse, avrebbe arrancato. Aveva un atteggiamento ostile. Indossava abiti stretti, che limitavano i suoi movimenti, e scarpe scomode. Rinunciammo a qualsiasi tentativo di approccio.

La nostra lingua non si univa mai al vecchio seduto al Caffè della Fontana. Se ne stava da sola nel suo angolo. Non parlavano.

All’epoca del «sì» universale, nella piazza regnava la quiete. Si sentiva il canto degli usignoli, delle allodole, non ancora decimati dalle battute di caccia del fine settimana. Al centro della piazza sorge una piccola fontana – la fontana da cui il caffè prende il nome, ovviamente – e a quei tempi il silenzio permetteva di ascoltare l’acqua, che dava sollievo ai cuori in pena. Il vecchio era più giovane, allora, e il suo cuore era spesso in pena, per come certe giovani donne dai capelli di svariati colori respingevano ripetutamente le sue sincere profferte sentimentali.

Anche allora, quando il «no» era proibito, quelle donne trovavano il modo di fargli sapere che i suoi sentimenti non erano ricambiati. «Sei carinissimo» dicevano «ma quella sera devo occuparmi dei miei capelli biondi/castani/rossi/neri.» Magari un’altra sera, allora, osava insistere lui, e quelle rispondevano: «La tua generosità è davvero toccante, ma credo che, per quel che posso prevedere, andrò ogni sera dal parrucchiere; a parte la domenica, quando resterò a casa a mangiare o, in qualche caso, andrò magari prima in chiesa per chiedere perdono e poi tornerò a casa a mangiare.»

Dopo un po’, il vecchio smise di chiedere. Non smise, però, di andare a sedersi, quasi tutti i pomeriggi, sulla sua sedia di legno dallo schienale diritto al Caffè della Fontana, ad ascoltare lo scroscio dell’acqua. Invecchiava precocemente, consumato, come un mobile finto-antico, dalla scoperta che anche l’età del «sì» sottintendeva un «no». I capelli gli diventavano bianchi, e lui se ne stava sulla sua sedia di legno a guardar passare il mondo.

Passarono cinque anni. Alla fine, fu la nostra lingua a ribellarsi contro il «sì». Si alzò dall’angolo della piazza dove aveva meditato in silenzio per un lustro e lanciò uno stridio lungo e penetrante che trafisse le nostre orecchie come uno stiletto. Si propagò dappertutto, alla velocità del fulmine. Non c’erano parole nel grido, ma bastò quello a scatenarle tutte. Le parole semplicemente eruppero dalle persone e non ci fu modo di trattenerle. Tutti sentivano enormi groppi di vocaboli che salivano in gola e pulsavano dietro i denti. I più cauti tenevano le labbra strette per impedire che le parole sgorgassero, ma i torrenti verbali riuscivano ugualmente ad aprirsi un varco e traboccavano come bambini all’uscita da una scuola elementare omogenea alla fine di un lungo e faticoso semestre. Le parole rotolavano alla rinfusa nella piazza come bambine e bambini desiderosi di tornare a mescolarsi. Era uno spettacolo a vedersi.

Erano rudi, le parole di questi primi pronunciamenti – «Stronzate!», ad esempio, o «Va’ al diavolo», fino al troppo enfatico «Va’ a farti fottere!» – e una tale crudezza era forse spiacevole, ma queste parole dure, da scaricatori di porto, erano efficaci, bisogna ammetterlo. Erano come mazzate o esplosioni che, abbattendosi tutt’intorno a noi, condussero rapidamente il predominio del «sì» a un’amara conclusione. Il «sì» e i suoi compagni di viaggio (i summenzionati «naturalmente», «certo», «senz’altro», «assolutamente», «eccome», «chiaro», «d’accordo») furono appesi a ganci da macellaio nella piazza, e quella fu la loro fine.

Fu allora che ebbe inizio l’età della diatriba. «Ma!» «Fesserie!» «Fuffa!» «Assurdo!» «Balle!» «Bugiardo!» «Idiota!» «Come ti permetti!?» «Questa è una cagata da fanatico ignorante!» «Togliti dai piedi! Nessuno ha voglia di starti a sentire!» Chi poteva immaginare che sarebbero state queste parole ostili a occupare il proscenio a quel punto: queste, e non la poesia meravigliosa e giustamente celebrata della nostra lingua, cui facevamo prima riferimento? La poesia lirica e quella epica, le odi e i sonetti, pur cercando di mettersi in posa, gesticolavano impotenti, ignorati da tutti.

La nostra lingua rimase nel suo angolo della piazza a guardare, ma si era tolta il corsetto e i deturpanti zoccoli, e i lunghi capelli e la gonna le ondeggiavano intorno, liberi. La gonna era lunga fino a terra, ragion per cui non si vedevano le scarpe, anche se noi avevamo l’impressione che stesse battendo i piedi a terra al ritmo di una sua musica interiore.

Anche il vecchio sentì dentro di sé la pressione delle parole che cercavano di emergere. Provò a frenarle, perché non sapeva quali potessero essere o che cosa avrebbero fatto o reso possibile o generato o distrutto, ma gli uscirono ugualmente, come vomito: parole che a stento riconosceva come proprie traboccavano da lui rabbiose, sprezzanti, accusatorie. Fortunatamente, tutti stavano sperimentando una personale versione di questo stesso fenomeno, e nessuno gli prestava attenzione, e fu così che lui stesso dimenticò presto quelle prime parole e si risistemò sulla sedia di legno per osservare la vita della piazza qual era diventata.

Terminata l’epoca del «sì», cominciarono le liti che sopraffecero i canti delle allodole e il rasserenante gorgogliare della fontana, la quale, da parte sua, se ne sbatteva dei cambiamenti sociali e si teneva occupata, alla sua maniera noncurante, con il suo fontaneggiare. Il vecchio – l’uomo reso vecchio dalla propria tristezza – aveva smesso con le richieste romantiche alle donne, perché già conosceva le risposte, che oltretutto potevano ormai essere formulate in modo esplicito, senza girarci intorno o inventarsi appuntamenti dal parrucchiere.

All’inizio, per un po’, ebbe nostalgia del silenzio dei cinque anni del «sì». C’era qualcosa di rincuorante nel vivere in quel costante stato affermativo, scartando la negatività, accentuando il positivo. C’era un che di – qual era la parola? – un che di umile nell’astenersi da qualsiasi giudizio, per quanto forte fosse la tentazione. E persino un che di rilassante nel potersi esimere da una vita di obiezioni, critiche o addirittura proteste. Ci era voluta una certa riorganizzazione del cervello, questo è vero. Il vecchio aveva dovuto imbrigliare la sua naturale tendenza al dissenso, alla formulazione di frasi che cominciavano con: «D’altra parte…» o «Non è forse vero, però, che…?» o anche «Come puoi…?». Risparmiate il fiato: questa era stata la linea di condotta dell’epoca. Tenete per voi le vostre parole ripugnanti. Per un certo periodo era riuscito a trovare un certo conforto nell’accettazione del «sì». Nel dire l’impronunciabile «no» al «no».

Tutto questo accadeva molto tempo fa. Oggi, il vecchio – vecchio anche di anni, non solo per la tristezza – va ancora a sedersi al Caffè della Fontana, ma è sereno, gli è passata la paura di quelle parole dimenticate che gli uscivano dalla bocca. Osserva la nostra cittadinanza litigiosa come si potrebbe guardare una soap opera in TV o un circo a tre piste o una partita di calcio professionistico.

La nostra lingua è ancora lì, nel suo angolo della piazza, il più lontano possibile dalla sedia del vecchio. Da qualche tempo, lei ha spesso dei compagni, e questi compagni sono immancabilmente molto più giovani di lei, giovanotti di una bellezza fisica quasi oscena. Queste creature byroniane la venerano apertamente, e lei – pensa il vecchio – forse si concede al loro spasimare, in privato, le volte che si allontana per un po’ dalla piazza. I suoi compagni cambiano continuamente. Non si può escludere che la nostra lingua abbia comportamenti promiscui. Può darsi che la sua morale sia fin troppo lasca. Quando gli viene in mente questo pensiero, il vecchio ha l’impressione che sia stato il diavolo a sussurrarglielo all’orecchio. Nessun altro, però, sembra aver avuto quel pensiero: se il diavolo ha sussurrato anche all’orecchio di altri, questi devono averlo liquidato con una scrollata di spalle. Che si comporti pure come le va! Che faccia come le garba! Questa è la mentalità prevalente, al giorno d’oggi. Il vecchio si rende conto di essere in minoranza e tiene la bocca chiusa.

In così tanti anni, non si sono mai scambiati neanche il più frettoloso dei saluti, il vecchio e la nostra lingua. Eccoli lì seduti, in angoli opposti della piazza, lui con la sua sedia di legno, lei su uno sgabellino imbottito, donatole da uno di quei giovani oscenamente attraenti che lei, poi, dopo non molto, ha smesso di favorire, cancellandolo dalla propria mente. Di lui non rimane più nulla, a parte quello sgabello. Di recente, però, il vecchio ha avuto, un paio di volte, l’impressione che lei, la nostra lingua, gli facesse piccoli cenni. Ma potrebbe essersi trattato di un miraggio.

L’eleganza architettonica della piazza è innegabile. La facciata barocca della vecchia chiesa è splendida, e molti degli altri edifici a uso misto affacciati sulla piazza – con negozietti al livello della strada e appartamenti ai piani superiori – sono strutture degne di nota, fatte di pietra dorata, con persiane bordò alle finestre. Sono perlopiù vecchie, le case dorate, e in qualche caso non esattamente ben tenute, ma si reggono, solide, attraenti, con i coppi rossi sui tetti, e conferiscono alla piazza un’aura di grandeur sbiadita, come di nobile decaduta che abbia sperperato il patrimonio di famiglia. A dire il vero, la piazza sembrerebbe appartenere a un contesto più importante di quella piccola cittadina. Sembra quasi presa e trapiantata in blocco da una delle nostre belle città, forse addirittura dalla capitale, distante appena quindici chilometri.

Dirimpetto alla chiesa, sui due angoli della viuzza di ciottoli che sfocia nella piazza, sorgono due strutture che, se fossimo in Italia, potremmo chiamare «logge» – balconate coperte, con arcate e colonnine dal delicato intaglio – e in queste logge il comune ha collocato statue di marmo, imitazioni di statue famose ubicate altrove, copie più o meno riuscite a seconda dell’abilità degli imitatori. Godiamo di questi facsimili come se fossero gli originali. Se il genio latita, la sua imitazione è un surrogato ammissibile. Per il tramite di quelle copie, rendiamo omaggio ai capolavori che non vedremo mai. Tra noi c’è chi arriva a sostenere che gli originali non esistano e non siano mai esistiti, che proprio queste presunte repliche sarebbero i grandi capolavori, e che si debba loro un rispetto corrispondente alla loro grandezza. Questo è uno dei temi di discussione più frequenti, in piazza. La questione resta irrisolta.

(Qui occorre un chiarimento. Non siamo in Italia. Se fossimo in Italia, la nostra lingua, seduta laggiù, sarebbe quella italiana. Assomiglierebbe magari ad Anna Magnani o a Sophia Loren. Ma non è questo il suo aspetto, perché, ripeto, non è italiana, e non è italiana la lingua che noi parliamo. Questa è la nostra lingua, quella che stiamo parlando ora, e noi siamo qui, non lì. Il vecchio in piazza porta un basco, ma questo non vuol dire che sia francese. È uno di noi.)

Ora che ha smesso di provare nostalgia per la pace e la quiete degli anni del «sì», il vecchio ha cominciato a trarre diletto dalla litigiosità dei suoi concittadini. La vanità delle certezze, che danno a chiunque dibatta motivo di insistere con dito ammonitore su una tesi o sull’altra, pare al vecchio la prima fons et origo della commedia. Il fervore con cui molte delle persone presenti nella piazza sostengono opinioni la cui falsità è dimostrabile: il sole, signora mia, non sorge a occidente, per quanto lei si incaponisca ad affermare il contrario, e la luna, caro signore, non è fatta di gorgonzola, e questo non equivale a essere d’accordo con il suo avversario, che la descrive come un elaborato artificio di cartapesta inchiodato in cielo per darci l’impressione di vivere in un universo tridimensionale, fatto di stelle, pianeti e satelliti, invece che su un disco con sopra un gran coperchio, un coperchio simile a un colapasta capovolto, pieno di buchi da cui di notte filtra quella cosa brillante che ci hanno ingannevolmente indotto a chiamare «luce stellare». La piazza è ricolma di insulsaggini come questa, e il vecchio pensa: ma sì, che parlino pure, non fanno male a nessuno, in fondo.

Anche questo tema è oggetto di molte animate discussioni: i concetti erronei sono dannosi per il cervello, per la comunità, per la salute del corpo politico o sono banali errori che vanno tollerati in quanto prodotto di menti semplici? Dato che tutte le persone coinvolte in questa discussione hanno la testa piena di fesserie di ogni tipo, i dibattiti finiscono per non risultare granché fecondi. Il vecchio ha l’impressione che alla fine della giornata la gente se ne torni a casa, ubriaca di vino e di dubbi, sapendone ancora meno che al mattino. In ogni caso, pensa il vecchio, la favella liberata è una gran bella cosa. La nostra lingua, seduta sul suo sgabello imbottito nell’angolo più lontano della piazza con quegli uomini divini ai suoi piedi, è chiaramente più felice di quanto non fosse ai tempi asserviti e acquiescenti del «sì».

Arriva, però, il giorno in cui si presentano dal vecchio, appostato sulla sua sedia di legno, due persone particolarmente polemiche – marito e moglie, a quanto risulta, felicemente sposati da trent’anni – che gli si rivolgono all’unisono: «Non ne possiamo più! Deciderai tu per noi!». Il loro disaccordo, si scopre, è un’inezia. Dove devono andare a trascorrere le loro vacanze estive? Nella isola di A., baciata dal sole e non tanto distante, o nel lontano paese di B., che sarebbe sicuramente una scelta più avventurosa, ma meno riposante. «Non riusciamo proprio a metterci d’accordo» dicono in coro. «Perciò faremo quello che suggerirai tu.»

«Molto bene» dice il vecchio, e con queste due parole abbandona la neutralità di tutta una vita, e la piccola sedia di legno su cui ha trascorso decenni, accontentandosi di osservare il tumulto circostante, diventa – di colpo! – lo scranno di un giudice. «Molto bene» ripete. «In questi tempi faticosi e stressanti, raccomando tanto riposo. Andate ad abbronzarvi sull’isola di A., baciata dal sole.»

Marito e moglie restano lì immobili. Poi si girano e si guardano in faccia. «Assurdo!» esclamano a una sola voce. «Noi vogliamo una vita avventurosa!» E se ne vanno in quel lontano paese di B. Dopo qualche settimana si ripresentano a ringraziare il vecchio per il suo consiglio. Hanno visto enormi coccodrilli, che attaccano svariati bambini ogni anno e se li portano nelle paludi dove poi li sbranano; giraffe che hanno raggiunto altezze da record; axolotl giganti. Hanno sentito parlare lingue che non conoscevano e assistito agli spettacoli più sconvolgenti, una valanga che ha sepolto un intero villaggio e un colpo di stato militare che ha seminato cadaveri per la strada. Per alcuni giorni, nel corso di un safari, si sono entrambi trasformati in ippopotami, ma poi sono ridiventati umani, e gli è stato spiegato che avrebbero dovuto leggere meglio il dépliant informativo per turisti e farsi vaccinare per proteggersi dalle zanzare locali, famigerati insetti che trasmettono molti ceppi del virus della metamorfosi. Dicono: «Fa niente, è stata un’esperienza forte, perciò ne è valsa la pena! Un’esperienza unica! Quanto a rotolarsi nel fango… ci saremmo probabilmente abituati!». Insomma, avevano fatto la vacanza più bella della loro vita.

«Grazie, grazie» dicono commossi, e la loro gratitudine è sincera. Il vecchio fa notare, con pacatezza, che lui aveva consigliato di andare sull’isola più vicina per riposarsi, e loro ridono deliziosamente: «È così che ci regoliamo!» esclamano. «Sempre! Siamo dei bastian contrari! Domandiamo alle persone quello che pensano, e poi facciamo l’opposto. Pensa pure che siamo contorti! Per noi, però, ha funzionato, e siamo felicemente sposati da trent’anni.»

In piazza si sparge la voce: il vecchio seduto sulla sedia di legno al Caffè della Fontana è un giudice che ha la saggezza di un Salomone. Una folla accorre da tutta la piazza per chiedergli altri verdetti. Il vecchio non è mai stato tanto richiesto, in nessuna circostanza della sua lunga e anonima vita. È, lo ammette, un fatto che lo lusinga. Cede.

Chiede ai postulanti di mettersi ordinatamente in fila, dopo di che, ogni pomeriggio tra le quattro e le sei, quando le ore più calde della giornata sono passate, dispensa giudizi, proclamando con un tono di crescente autorità che no, la terra non è piatta, e no, gli immigrati, per la stragrande maggioranza, non sono mostruosi violentatori, non più di voi o di me, e sì, al cento per cento, Dio esiste, così come l’inferno e il paradiso.

La voce si diffonde a macchia d’olio. Nella città vicina si sparge la notizia che nella piazzetta di quella cittadina c’è un sapiente dotato di una profondità che gli permette di risolvere all’istante ogni diatriba. La folla in piazza diventa sempre più numerosa. Ci vuole la polizia per mantenere l’ordine. Ci sono le troupe della televisione. Il vecchio prolunga l’orario delle sue udienze fino alle sette di sera, per poter dirimere più contenziosi ogni giorno (domenica esclusa). Dopo le sette, la seduta è tolta, e lui si rifiuta di rispondere ad altre domande, perché gli piace godersi un’oretta in solitudine, con la sua birra e il suo sandwich. E alle otto, puntuale, lascia il Caffè della Fontana e, strascicando i piedi, se ne va chissà dove.

Si vocifera che i principali esponenti del governo e dell’opposizione starebbero discutendo se presentarsi in visita dal vecchio, per vedere se riesce a risolvere anche le loro divergenze. Per questa gente, però, a sinistra e a destra, è difficile accettare il rischio che il saggio li dichiari in torto. La visita dei politici resta nel novero delle mere ipotesi.

Il vecchio in piazza sta facendo esperienza di una cosa per lui totalmente nuova: la notorietà. Nel gruppo sempre più vasto di bambini e adulti seduti ai suoi piedi, intorno alla sua sedia di legno, nota alcune facce conosciute e capisce che si tratta di alcuni dei giovani bellissimi che fino a poco prima erano tra i più ardenti discepoli della nostra lingua. Quest’ultima, che all’improvviso è quasi sola nel suo angolo della piazza, abbandonata dai sui ex seguaci, che attendono in fila al Caffè della Fontana, non è contenta di questi sviluppi. Annuncia ai suoi due soli discepoli ancora fedeli che quella storia finirà male. Loro la ascoltano con rispetto, ma il suo ammonimento appare dettato dall’invidia. I tempi sono cambiati. La gente, più che della nostra lingua bella e complessa, si interessa delle grandi e raccapriccianti questioni di cosa sia corretto o scorretto. Non siamo più gli amanti della poesia che eravamo in passato, affezionati all’ambiguità e devoti del dubbio, per diventare, invece, moralisti da bar. Il pollice punta verso l’alto? O è voltato verso il basso? Il vecchio in piazza è il nostro arbitro, e i suoi pollici sono diventati questione di interesse nazionale. Ora siamo tutti gladiatori nel Colosseo del Pollice.

La nostra lingua non è interessata al verdetto dei pollici del vecchio (opponibili, ma – almeno per il momento – senza opposizione). Si cura soltanto delle parole dalla bellezza stratificata, delle espressioni raffinate, della sottigliezza di ciò che viene detto e della risonanza di ciò che conviene tacere, dei significati tra le parole e della delucidazione di quei significati, che solo i suoi massimi discepoli sanno offrire. Trova vergognose le dozzinali sentenze del vecchio e ancor più vergognoso il crescente piacere che lui prova nell’essere accolto come giudice di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di cosa è così e di cosa è cosà. Un tempo rideva della vanità delle certezze, dell’ostinazione degli sciocchi e delle enfatiche affermazioni degli svitati. Ora è lui il dispensatore di certezze prive di sfumature, e diventa ogni giorno più vanitoso.

Il tema delle frontiere è da molto tempo assai controverso da queste parti. Nella storia recente, l’introduzione di confini sul nostro territorio a opera di ignoranti forestieri è stata causa di tanto dolore e gravi lutti. Nella nostra mente, le parole «confine» e «ignorante» sono inestricabilmente connesse. Nelle rare occasioni in cui abbiamo provato a superare uno dei pochi checkpoint che ora esistono lungo la nostra frontiera intrisa di sangue, o siamo stati respinti o, se lasciati passare, siamo finiti, dall’altra parte, tra le grinfie degli spacciatori di valuta contraffatta, che ci sapevano incapaci di distinguere la valuta falsa da quella autentica. Nella nostra mente, i termini «confine» e «valuta falsa» sono inestricabilmente connessi.

Ci sono, naturalmente, molte frontiere oltre a quelle che ci separano dai nostri vicini, trasformandoli in nostri nemici. C’è una frontiera invisibile tra ciò che noi, come individui o come gruppi, consideriamo accettabile e ciò che si colloca al di là di quella linea, nel dominio dell’inaccettabile. Quella frontiera è disseminata di pericolose mine antiuomo, e la maggior parte di noi non osa neanche avvicinarsi. C’è poi anche la frontiera invisibile fra azione e contemplazione. Ci sono quelli che fanno e quelli che li guardano. Il pubblico è qui seduto; il palcoscenico è laggiù. La quarta parete è una forza poderosa.

Il vecchio della piazza ha un bel ricordo delle proprie esperienze a teatro, ma non gli è mai venuto in mente di arrampicarsi sul palco e, in quei momenti d’avanguardia in cui gli attori sono scesi in platea, è sempre rimasto deliziosamente scioccato, in una maniera un po’ rétro. Tempo fa, da giovane, andò a vedere uno spettacolo in cui un attore, fingendosi spettatore, se ne stava seduto in prima fila per tutto il primo atto. Nell’intervallo tra il primo e il secondo atto, un telefono cominciava a squillare sul palco senza che nessuno rispondesse, e a un certo punto il finto spettatore saliva sul palco per rispondere. (Era sua moglie.) Mentre questo attore era sul palco, al telefono, cominciava il secondo atto, e lui si ritrovava intrappolato nella commedia. Al vecchio questa trovata parve deliziosa: assolutamente implausibile, ma stupenda a vedersi. Non aveva mai pensato di poter diventare, un giorno, colui che rispondeva al telefono tra un atto e l’altro. Non si era mai sognato di poter diventare lo spettatore intrappolato nella commedia.

Ora che ha varcato quel confine, si è calato con gioia nel suo nuovo ruolo. Non ha nulla contro le frontiere in quanto tali. Anzi, ha cominciato a considerare doveroso da parte sua definire nuove zone di ammissibilità, separando gli atteggiamenti inaccettabili e raccogliendoli nella categoria delle Cose Proibite, mentre gli atteggiamenti ammissibili restano qui, tra noi, nella libertà del nostro paese indubitabilmente libero. Non vuole più limitarsi a rispondere semplicemente a domande binarie, sì o no, bensì cerca di determinare quale delle parti in conflitto sia la più virtuosa, per dare la palma del suo favore a chi ha condotto una vita più lodevole. Nasce addirittura il sospetto che in molte occasioni egli deliberi a vantaggio di un querelante, che è chiaramente in torto, soltanto perché il suo avversario risulta aver avuto un’esistenza meno retta. Insomma, il vecchio diventa giudice non solo in tema di diritto, ma anche di rettitudine. Alcuni di noi sono preoccupati da questo sviluppo, ma nessuno è disposto a manifestare i propri timori, per via della grande popolarità del vecchio.

La nostra lingua langue nel suo angolo, turbata. Prova a far presente che il vecchio ci sta forse conducendo verso una nuova età del «sì», in cui sempre più parole potrebbero essere vietate. Questa è giustizia di frontiera, avverte. Ricordatevi delle mine antiuomo. State alla larga.

E rivela di essere preoccupata anche per sé. Da quando la conosciamo, è sempre stata esuberante, piena di energia, vivace, la migliore delle lingue, ma ammette di aver cominciato, ultimamente, a non sentirsi troppo bene. Certi giorni è febbricitante; altre volte ha disturbi e dolori. Spera che non sia nulla di grave. Potrebbe essere soltanto un effetto dell’età che avanza, perché pur presentandosi giovanile e bella – ci ringrazia per questi complimenti sul suo aspetto! Si mostra riconoscente per il nostro apprezzamento! – è senz’altro una lingua molto vecchia, una delle più vecchie e ricche, anche se lei preferisce non ostentare la sua ricchezza, non ambisce a un trono su cui sedersi e si accontenta del suo semplice sgabello imbottito. Ma è comunque la nostra lingua e, quindi, ritiene sia suo dovere informarci sulle sue condizioni di salute. Teme di essere in declino. È addirittura possibile – anche se per lei è difficile ammetterlo, persino con se stessa – che sia destinata a morire.

Nessuno la ascolta.

A nessuno interessa.

E allora, a un certo punto, si alza in piedi, come solo un’altra volta è accaduto, e lancia uno strillo. Uno strillo ancora più acuto del precedente. Che si innalza sempre di più oltrepassando le capacità uditive umane. In quel momento, tutte le finestre delle case affacciate sulla piazza vanno in frantumi, e cade una pioggia di schegge che feriscono tanta gente, nella piazza affollata, e queste ferite suscitano altrettanti strilli. Si tratta di strilli di un ordine inferiore, rispetto allo strillo d’angoscia lanciato dalla nostra lingua, e non rompono niente.

Vediamo la nostra lingua eretta, con la bocca aperta, ma non riusciamo a sentire il suo strillo, giunto a un tale livello di intensità da crepare i coppi sui tetti e persino la pietra di cui sono fatti i palazzi. Una delle statue delle logge, un’elaborata copia di un originale che si trova in Vaticano e che raffigura il sacerdote troiano Laocoonte con il capo cinto di feroci serpenti, esplode in centomila frammenti.

Ma crollano, quei palazzi a uso misto? E le logge finiscono tutte in macerie? La piazza ne è demolita?

No, questo non si verifica. Malgrado tutti i nostri difetti, non siamo creature melodrammatiche. Preferiamo il dramma, puro e semplice.

La piazza, quindi, resta in piedi. Ma le crepe ci sono. Le vediamo tutti. I palazzi sono fissurati dal tetto alla strada. Le tegole cadute, le persiane bordò che penzolano storte. Questa è la verità. La piazza è rovinata, e noi, forse, anche.

Intanto, lei è ancora lì in piedi, la nostra lingua, a gridare il suo grido silenzioso. E al Caffè della Fontana il vecchio sente che alle sue parole sta succedendo qualcosa. Gli si stanno prosciugando. Si ritirano sempre di più in fondo alla bocca, per rituffarglisi giù per la gola e finire dissolte dai vari succhi gastrici che si trovano laggiù. C’è una folla che attende di sentire quel che lui ha da dire, ma lui non ha più parole.

Le persone che affollano la piazza sono contrariate. Vogliono quello per cui sono lì – essere giudicate – e aprono la bocca per protestare contro il vecchio che non sa più pronunciare i suoi verdetti. Ma le parole con cui protestare non ci sono più. Tutti si volgono verso l’angolo occupato per tanto tempo dalla nostra lingua, la lingua che negli ultimi tempi hanno completamente ignorato, e vedono che ha raccolto le sue vesti e lascia la piazza, abbandonando per sempre l’angolo che era suo da tempo immemorabile. Tiene la testa alta, la nostra lingua, e se ne va. Dopo la sua dipartita, nessuno in piazza è più in grado di parlare. Le bocche emettono suoni, ma sono suoni informi, privi di significato. Il vecchio si alza impotente dalla sua sedia di legno, con la birra in una mano e il sandwich nell’altra. Protende le braccia verso la folla, come se volesse offrire il sandwich e la birra, Tutti gli volgono le spalle e si allontanano. È ridiventato quello che era un tempo: un vecchio insignificante.

Ora, non è chiaro quel che si debba fare. Che ne sarà di noi? Non abbiamo idea di come procederanno le cose.

Le nostre parole non ci aiutano.

© Salman Rushdie 
Used by permission of The Wylie Agency (UK) Limited

ARTICOLO n. 68 / 2021

UNA STAGIONE ALL’INFERNO

Traduzione di Carlo Vidotto

Nel suo capolavoro in forma di confessione, Una stagione all’inferno, Arthur Rimbaud rivela la formula per la trasformazione alchemica dell’anima, pur riconoscendo nel contempo la futilità della sua messa in atto. Nessuno più del poeta stesso potrebbe esigere un’analisi più brutale di questo scarto sublime di coscienza irradiata.

Nel suo personale giardino del Getsemani Rimbaud è a un tempo salvatore e traditore, tende una mano mentre ritrae furtivo l’altra. Sputa su fogli d’oro, sputa di quei veli osceni su cui giacque con l’angelo caduto, Verlaine. Osserva i suoi antenati; deplora i suoi antenati. Alle prese con la guerra civile della sua personalità, supplica amaramente di essere buono, ma non riesce. Deride la sua inventiva, il suo sfinimento, il suo cuore fiorente. Ma non credete! Non è una posa; è uno smarrimento. Ha diciannove anni e all’interno della sua cosmologia rose ed escrementi oltraggiano allo stesso modo. Mentre rotola nel piscio e tra le spine si oltraggia consapevolmente. È Amleto, butta lì soliloqui abbaglianti come non fossero altro che mugugni di collera. Essere consumato, spremuto: è il suo sogno. E come potrà consumarsi? Rimbaud conosce fin troppo bene la spiacevole risposta.

L’alchimista è tenuto a discendere in se stesso, in un viaggio più terrificante dell’attraversamento del White Pass o dell’ascesa alle vette immense e tragiche del Bhutan. Solo navigando il caos del suo essere Rimbaud può iniziare a definire questa piccola guida profana. È un’eruzione di promesse! Sussulta mentre scrive, mutando le pelli in maniera superba e oscena. Travolto da un’onda di nulla, è come un vecchio che non sa più distinguere le lacrime dalle risa. Parla di abbandonare tutto, e infine lo fa, in accordo con chi si confessa, si volta e poi dà alle fiamme le proprie poesie, per purificarsi nel fuoco della sua stessa follia. Acceso dai fuochi d’artificio della sua disperazione, ci strema di bellezza, ma è anche la giovinezza sferzata, una ienaecc. Dà voce ai bastioni dell’anima assediata. Ciò di cui ha più paura è che Dio lo giudichi un impostore. 

Una stagione all’inferno gli ha portato nient’altro che miseria. E in compagnia della miseria lo troverete, mentre, con tutte le sue contraddizioni intatte, calpesta le fogne luminose del proprio sistema circolatorio. Una volta distillato il suo inferno – rubini sparpagliati in luoghi impervi – egli arriva, col suo passo pesante e demoniaco, e si prostra ai cancelli del paradiso. Pensate a me, lamenta – e noi dobbiamo farlo – immergendoci in una relazione infinita. Noi preghiamo per lui, gli offriamo amore. La storia lo acclama, gli offre l’alloro. La pietà canta di lui, gli offre assoluzione. Arthur Rimbaud, con la sua duratura sofferenza, ha ottenuto in ultimo il favore di Dio. 

Introduzione a Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno, tr. it. il Saggiatore, Milano 2021.

© 2011 by Patti Smith. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

ARTICOLO n. 67 / 2021

SCRIVERE L’APOCALISSE

Giorgio Manganelli l’aveva a suo tempo spiegato: «La parola stessa, “Apocalisse”, pare essersi staccata dal libro che designa, come una delle belve volanti che lo affollano, e si muove nel nostro cielo con un messaggio ferreo e angoscioso, è una belva dell’intelligenza, non cerca di colpire le nostre carni, ma introdurre nella nostra mente una immagine rovinosa e sacra, il sigillo di una catastrofe che non è biologica, né ecologica, né nucleare, né epidemica: è l’idea della fine come significato, della morte totale di questo mondo come atto dotato di senso, anzi idoneo a conferire senso a tutto ciò che, fino al momento finale, si vestiva dei panni fastosi della “storia”». 

È il passaggio forse più intenso e vorticoso dell’abbagliante introduzione vergata dall’autore di Letteratura come menzogna per un’edizione oggi introvabile del libro dell’Apocalisse, arricchito dalle xilografie del grande Albrecht Dürer. La pervasività che l’apocalisse ha da sempre registrato nell’immaginario degli scrittori sarebbe dunque legata, a detta di Manganelli, all’idea della fine come atto corredato di senso, in grado di trasmettere tale significato a quello che continua a sembrarci, nonostante tutto, scandalosamente insensato, ossia al momento estremo della Storia, a quell’attimo ferale in cui calerà risolutivamente il sipario sulle nostre spoglie mortali. 

Si tratta, insomma, di una sorta di legittimazione logica. Da qui, probabilmente, il fascino che sprigiona ogni crepuscolo, come rilevava Borges: «Perché ci attrae la fine delle cose? Perché più nessuno canta l’aurora e non v’è chi non canti l’occaso? Perché ci attrae più la caduta di Troia che le vicissitudini degli Achei? Perché istintivamente pensiamo alla sconfitta di Waterloo e non alla vittoria? Perché la morte ha una dignità che la nascita non possiede? Perché la tragedia gode di un rispetto che la commedia non ottiene? Perché sentiamo che il lieto fine è sempre fittizio?». 

Se il lieto fine risulta ingannevole, artefatto, simulato, tremendamente svenevole, il finale tragico ha invece un che di irresistibile e insieme irriducibile, di misteriosamente attraente: esso è l’accordo non risolto in musica che scongiura la più banale armonia empatica, che mette in scacco l’eufonia dei destini e dei sentimenti. 

Il finale tragico piomba alla stregua di un meteorite inarrestabile. A maggior ragione, aggiungiamo noi, quando la parola fine fa rima con catastrofe, sciagura, calamità indifferibile. Il disastro conclusivo ai danni dell’uomo e della natura dove abita, del resto, nel tempo ha attecchito come l’edera nelle opere di diversi autori. Con una progressione inquietante, in ragione probabilmente del grido d’allarme che da più parti si è alzato, e che adesso, trasmutatosi in consapevolezza seppure tardiva, tallona le nostre coscienze. 

Anche se eravamo stati avvisati: dalla sacra scrittura per esempio, sulla base della quale sappiamo già che, a ridosso della fine dei tempi, le acque diventeranno «amare», le creature dell’oceano periranno, si abbuieranno la luna e le stelle e infine il sole, arroventatosi ormai parossisticamente, incenerirà l’umanità l’intera. È chiaro come questo passaggio della Bibbia abbia già a suo tempo enfatizzato la responsabilità umana per la degradazione ecologica, la sua rassegnazione dinnanzi alla catastrofe ambientale, annunciandone oltretutto un’imminente punizione. Lo ha spiegato di recente Carla Benedetti col suo La letteratura ci salverà dall’estinzione: si è creduto che la natura, a lungo avversaria dell’uomo, sarebbe stata ammaestrata dalla nascente tecnologia, della quale sarebbe inevitabilmente diventata serva. In realtà stanno da tempo davanti ai nostri occhi gli esiti effettivi e nefasti di tale convinzione, pur non provocando la reazione adeguata, l’unica possibile: cioè quella di cambiare definitivamente rotta, di non perpetrare, in merito soprattutto alle scelte politiche, l’ennesimo fallimento (Glasgow docet).

Ma torniamo a Manganelli: l’apocalisse è innanzitutto il sigillo di una catastrofe tout court, prima di essere biologica, ecologica, nucleare, epidemica. Certo, ne sappiamo di più oggi, viene da dire, riguardo alla distruzione infettiva: gli uomini si isolano gli uni dagli altri, come aveva messo già in evidenza Elias Canetti in Massa e potere; non c’è miglior modo di difendersi che scongiurare l’avvicinamento perché chiunque potrebbe farsi latore del contagio. C’è chi fugge dalla città, chi si chiude in casa: ognuno schiva l’altro. È il disastro della socialità, il naufragio del vivere in comune. 

A proposito poi della calamità nucleare, sempre Canetti aveva rilevato (riferendosi al disastro di Hiroshima) un aspetto generale, di natura assai inquietante e paradossale: forse solo nella loro massima sventura ci è possibile capire intimamente gli uomini. «È soprattutto la sventura – si chiedeva l’autore di Autodafé – ciò che ci accomuna?». 

Ne era convinto Guido Morselli: «Soffro, dunque sono» è del resto la massima emblematica, l’epigrafe totale della sua produzione, vergata dall’autore di Roma senza papa il 24 novembre 1950. Il più alto addensamento immaginabile, nell’epidermide di uno stringato e tagliente aforisma (ricavato da Cartesio). «Soffro, dunque sono»: Morselli scrive questa dolente verità nel periodo in cui sta leggendo non a caso Il libro di Giobbe, cui dedicherà il capitolo più intenso del suo saggio intitolato Fede e critica (1977), messo assieme tra il 1955 e l’anno successivo, dando in un certo senso ordine e completezza a materiali e chiose raccolti appunto in anni antecedenti. 

La sofferenza, lo sa bene Morselli, è legata al prevalere del negativo sul positivo. Come viene fuori dal bilancio approntato dal protagonista di Dissipatio H.G., un ipocondriaco esponenziale, un inguaribile fobantropo che la notte favolosa tra il I e il 2 giugno di un anno imprecisato decide di farla finita: tale negativo ha «una prevalenza del settanta per cento. Motivazione banale, comune? Non ne sono certo». 

Siamo a Crisopoli, città dell’oro: il suicidio programmato non va a buon fine ma, nel frattempo, è accaduto qualcosa di inatteso e colossale. Il protagonista infatti, ironico e spietato alter ego di Morselli che voleva annegarsi nel laghetto di una caverna, cambia idea alla fine e ritorna sui suoi passi, ma non incontra più anima viva per strada, le edicole sono chiuse, non ci sono treni sui binari. «Tentavo di realizzare la situazione, più specialmente la mia, senza allarmismo, senza illazioni fantasiose. Questa non è l’Antartide, è un fondovalle dove si accalcano quattromila individui». La città con la più alta concentrazione di ricchezza che si conosca adesso risulta deserta, immersa in un «silenzio cimiteriale». 

L’idea di un’apocalisse inevitabile aveva già sfiorato Morselli, poco prima di mettere mano al romanzo in questione. Un’idea che si può dire di matrice leopardiana: del Leopardi, beninteso, avverso alle «umane sorti e progressive» (al cui magistero si sono abbeverati non pochi autori, nel Novecento), autore tra l’altro di due dialoghi significativamente apocalittici: quello di un folletto e di uno gnomo, dal quale si affaccia un mondo deserto, in cui non c’è più traccia del genere umano; e quello che vede confrontarsi Atlante e Ercole: quest’ultimo si accorge che la Terra si è fatta particolarmente leggera e silenziosa, immersa in un torpore simile alla morte. 

Torniamo a Morselli: della sua idea di un’inevitabile, antimoderna, apocalisse, c’è traccia in due pagine del diario, all’altezza cronologica del 26 febbraio 1969: «L’umanità deve finire in una disastrosa apocalisse. Scienza e religione, e del resto anche gli ignari dell’una e dell’altra, concordano in questa previsione catastrofica. (Fanno eccezione soltanto i filosofi; il loro professionale ottimismo non si occupa che del progresso di questo ottimo fra i mondi possibili: non ammette di occuparsi della sua fine). Dunque scomparsa catastrofica e più o meno rapida e improvvisa, della nostra razza, vuoi per cause naturali, ci si immaginava sino all’estate 1945, vuoi per cause artificiali, ossia prodotte dalla forza distruttiva scatenata dall’uomo stesso». 

In realtà questa è l’idea corrente, particolarmente legata alla contingenza storica del secondo conflitto mondiale: il 1945 è l’anno in cui vengono sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Ma Morselli la pensa in maniera diversa: «Per conto mio, direi invece che l’uomo non è destinato a vedere la propria fine. Non precisamente che io condivida la tesi degli idealisti moderni (la razza umana eterna in quanto di fatto identificata con l’eterna Idea, con lo Spirito). Direi che la fine della nostra razza sarà registrata, a modo loro, dai nostri successori. Ossia dalle scimmie. O dai successori di queste, mammiferi inferiori. Perché (ed è strano che nessuno ci abbia pensato, col chiacchierare che pur si è fatto di “ritorni”) l’evoluzione non è un processo ascendente all’infinito, non è un meccanismo che debba seguitare per sempre, a meno che non si ammetta, appunto, che percorra una parabola, nel senso matematico del termine. E che a un certo momento non volga “all’ingiù”. Non si trasformi in involuzione. È l’ipotesi più giudiziosa, come la più normale».

Qui lo scrittore mostra senza infingimenti il suo sembiante anti-darwiniano: l’umanità regredirà progressivamente, una sorta di sindrome del gambero costringerà l’uomo a ripercorrere all’indietro le tappe del suo glorioso cammino: «Secondo questa ipotesi, niente catastrofe finale per chiudere la carriera dell’homo sapiens, o oeconomicus (o comunque si scelga, fra i tanti appellativi che si è inventato). […] Un bel giorno, senza che nessuno se ne accorga, né abbia più voglia o attitudini per rifletterci e impressionarsene, ci rimetteremo a camminare a quattro zampe. Potrebbe essere il ritrovamento dell’età dell’oro. Poi scenderemo ancora, ci sorprenderemo (per modo di dire) a strisciare per terra: rettili. Il mare primordiale ci aspetta, o piuttosto, i laghi o le paludi o le lagune, che nel frattempo si saranno redenti dalle nostre perfide polluzioni. Da ultimo, i protozoi, e le “macromolecole”. Qualche cosa degli antichi istinti (umani) sornuoterà? È probabile o se non altro possibile, così come oggi c’è abbastanza dell’animalesco, residuo, in noi. Saremo tutti solo lucertole, ma qualcuna di quelle lucertole, presa da ataviche nostalgie estetiche, indugerà amorosamente al sole sui muri scrostati dove qualche milione di anni prima c’era la Cappella Sistina. […] Perché no? (Mi accorgo di essere, in fondo, ottimista anch’io)». 

È un vero e proprio apologo infarcito di tragica ironia: l’umanità non avrà la possibilità di assistere alla propria fine. Sadico, Morselli nega all’uomo il podio sospirato. Nessuna onorificenza a fine «carriera». Da quadrupedi a rettili a macromolecole: al diavolo il progresso, la sopravvivenza e il benessere della razza umana sulla terra. Sarebbe, quella preconizzata da Morselli, un’età dell’oro sui generis: quanto meno, a unico senso, relativamente alla duplice metamorfosi immaginata da alcuni filosofi: l’uomo che può trasformarsi in animale e viceversa, senza posa e senza limiti. Qui l’uomo abbandonerebbe la scena definitivamente, ripercorrerebbe all’indietro le tappe del suo cammino evolutivo. Il miracolo stupefacente della civiltà si sbriciolerà rovinosamente e dell’uomo non rimarrà traccia alcuna. Forse sopravvivrà la larva di un sentimento, l’ombra di un empito estetico. L’autore di Fede e critica qui sbandiera trionfante il suo umorismo, si fa vessillifero di un grottesco antiumanesimo.

Quest’idea apocalittica Morselli la innesta nel suo Dissipatio H.G.: «La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima ma non che possano finire dopo di noi. […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro». 

In Dissipatio H.G. l’apocalisse silenziosa è oramai compiuta, avendo però risparmiato un unico essere umano, il quale inizialmente stenta a prendere atto della sparizione del genere umano. Ma di questa latitanza la natura non può che gioire: gli animali sembrano riappropriarsi dei loro spazi senza gli antichi timori. E questo, agli occhi del protagonista, si staglia come la prova che l’evento non sia una chimera, un’invenzione, un sogno. In mezzo ai binari scorge sfilare una famiglia di camosci: due femmine, un maschio e i cuccioli. Ma non è l’unico segno di buon auspicio: gli uccelli fanno baccano, si sono moltiplicati, si vedono le strigi, i gufi, gli allocchi e le civette (è, del resto, quanto abbiamo registrato di recente grazie al lockdown imposto per via del Covid: si è saputo di caprioli che osservavano straniti le vetrine dei negozi del centro in un paesino della pianura piemontese, di lupi stiracchiati sui marciapiedi, di aquile reali sui cieli di alcune metropoli). «L’istinto li avverte di una novità in cui certo non speravano: il grande Nemico si è ritirato. Non ci sono più fumi nell’aria, a terra non ci sono più puzzi e frastuoni. (O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante)». 

Forse l’umanità tutta (tranne uno) è scomparsa perché non ha osservato le leggi della madre Terra? Perché ha diffuso nell’aria fumi, puzzi, ha riempito il mondo di frastuoni? Se la letteratura non ci salverà dall’estinzione, per dirla con Benedetti, soltanto l’estinzione dell’uomo, sembra incalzare Morselli, potrà salvare il nostro pianeta. Non sappiamo se la silenziosa apocalisse che si è consumata a Crisopoli da cosa sia stata generata: verrebbe da pensare a un disastro inevitabile. 

Come quello che prova a immaginare Primo Levi ragionando sugli scarabei, sulla loro diversità irriducibile rispetto a noi umani. Nel caso di una catastrofe nucleare, rivela il chimico scrittore, questi coleotteri sarebbero i migliori candidati alla nostra successione grazie alle mirabili capacità di adattamento a tutti i climi che hanno dimostrato, colonizzando tutte le nicchie ecologiche e mangiando ogni cosa (alcuni di essi sono in grado, si meravigliava lo stesso Levi, di perforare pure il piombo e la stagnola). «Da quando il pianeta sarà loro, dovranno ancora passare molti milioni di anni prima che un beetle particolarmente amato da Dio, al termine dei suoi calcoli, trovi scritto sul foglio, in lettere di fuoco, che l’energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce». 

ARTICOLO n. 66 / 2021

ESISTE IL NUOVO CINEMA ITALIANO?

Nuovo cinema italiano

Nel corso degli ultimi cinque anni a quasi tutti i registi e sceneggiatori italiani, soprattutto a quelli più giovani, è stata fatta la stessa domanda: «Il nostro cinema è cambiato?». Alcuni hanno risposto in modo approfondito e sincero; altri hanno evitato, e altri ancora, invece, sono stati lapidari. Sì, no, forse. Chi lo sa. Qualcuno ha azzardato: il cinema italiano non cambierà mai. 

Quando parliamo di rivoluzione interna dell’industria, scegliamo gli ultimi cinque anni come periodo di riferimento per un motivo particolare. Perché cinque anni fa – quasi sei, in realtà – in sala sono arrivati dei film che hanno cambiato – anche se per pochissimo – l’equilibrio del nostro cinema: Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari; Veloce come il vento (2016) di Matteo Rovere; Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti e Suburra (2015) di Stefano Sollima. 

Tre di questi film sono ambientati tra Roma e la sua periferia, uno è ambientato in Emilia. In Non essere cattivoLo chiamavano Jeeg Robot e Suburra si sono fatti notare due degli attori più famosi e seguiti degli ultimi anni: Luca Marinelli e Alessandro Borghi. E in Veloce come il vento ha fatto il suo esordio Matilda De Angelis, comparsa anche nella serie internazionale The Undoing. Quando questi film sono stati distribuiti, l’età media dei registi era di circa 45 anni, e anche questa è stata una novità piuttosto importante per l’ecosistema italiano.

Ovviamente non è stato un cambiamento radicale. Nei mesi e negli anni precedenti, altri film hanno preparato il terreno. Uno su tutti: Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia, all’epoca poco più che trentenne. Questi quattro film hanno in comune un’altra cosa: raccontano tutti, ognuno con le dovute differenze e con le proprie caratteristiche, storie di genere. 

Il genere all’italiana

Il genere, in Italia, non è mai scomparso veramente. Ma nel 2015 (e nel 2016) l’arrivo di questi film l’ha riportato alla ribalta. A parte Lo chiamavano Jeeg Robot, che è un film che contiene elementi fantastici, un altro punto in comune tra questi titoli è l’estremo realismo presente sia nelle immagini, sia nella costruzione del racconto. In questi film si muore, si soffre e soprattutto si affrontano i problemi di ogni giorno: debiti, dolore, malattia, povertà, droga, corruzione. 

Ognuno di questi film prende una strada diversa, è vero. Ma nonostante l’assenza di un vero coordinamento e di una regia a monte sono comunque riusciti a portare una ventata di novità e di speranza nell’industria italiana. C’è stata poi l’incapacità del sistema di approfittarne, e di innalzare questo nuovo sentimento a un altro livello (non ci sono stati sequel, per esempio; e chi ha provato a utilizzare il genere non è stato in grado di ripetere gli stessi risultati, con lo stesso apprezzamento di pubblico e di critica). Questo, però, è ancora un altro elemento, che approfondiremo a breve. Per ora, soffermiamoci su una riflessione più ampia: quella sul nuovo cinema italiano.

«A che ora è la rivoluzione?»

Prima di tutto: è mai esistita? Alla fine, questa rivoluzione è andata in porto? Risposta breve: in parte. Gli autori e gli attori di questi quattro film hanno avuto un momento di estrema visibilità, e sono andati avanti con le loro carriere. Ma molte delle novità che hanno introdotto si sono perse, e l’Italia – intesa come cinema e come industria – è tornata a un approccio più autoriale: con una figura unica al centro di scrittura e regia, e con una diversificazione molto limitata tra le produzioni.

Tutto è cominciato con Non essere cattivo di Claudio Caligari, presentato in anteprima alla 72° Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Il percorso intrapreso da Caligari, dagli sceneggiatori, Francesca Serafini e Giordano Meacci, e dai produttori, tra cui Valerio Mastandrea, è stato un percorso piuttosto atipico: fatto di tantissime rinunce, di tantissimi sacrifici e di un’alchimia straordinaria tra il regista e gli interpreti principali, Luca Marinelli e Alessandro Borghi. 

Con Non essere cattivo è nato un fortissimo sodalizio tra cast tecnico e cast artistico, e ancora oggi, a distanza di anni, è possibile ritrovarli insieme in attività, incontri e su altri set (Marinelli ha collaborato nuovamente con Serafini e Meacci per Principe Libero nel 2018). La trama di Non essere cattivo si concentra su due amici che provano a resistere e a sopravvivere, sul loro rapporto, sulle difficoltà che devono superare e sulla decisione – presa da uno dei due – di voltare pagina. È un racconto estremamente potente e tra i più belli del cinema italiano contemporaneo. 

Suburra di Stefano Sollima ha fatto un’altra cosa: ha preso Roma e ne ha mostrato i lati più oscuri, tra criminalità e politica. Anche qui uno dei protagonisti è interpretato da Alessandro Borghi, affiancato da una bravissima Greta Scarano e da un cast di prim’ordine (su questo, però, torneremo più avanti). Il tema principale del film non è la profondità della corruzione e del malaffare nell’amministrazione della capitale e nel Vaticano (sì, si parla anche di Vaticano). Sono i rapporti di potere. Sollima, dopotutto, li ha sempre raccontati: a partire da Romanzo Criminale (2008), primissima serie tv di Sky, altra rivoluzione made in Italy.

Le persone, in Suburra, sono appunto persone: non sono personaggi di un poliziottesco piatto e prevedibile; non sono solo luoghi comuni e cliché. In Suburra c’è la complicatezza della vita quotidiana: l’imprevedibilità delle scelte e le incredibili conseguenze che possono avere. Il più forte mangia il più debole: ma il più debole, a volte, riesce ad avere la meglio sul più forte. E anche questa è una delle lezioni contenute nel film di Sollima.

Veloce come il vento di Matteo Rovere è arrivato come un fulmine a ciel sereno: un film di corse, con riprese dal vivo su piste vere, con due personaggi interessanti e mai banali, che ha messo d’accordo pubblico e critica. Stefano Accorsi ha uno dei ruoli più belli della sua carriera; e Matilda De Angelis, che canta anche la canzone dei titoli di coda, Seventeen, dà una grandissima dimostrazione del suo talento. Rovere, come pochi altri registi, ha saputo lavorare con i suoi attori, e ha soprattutto saputo su quali elementi e su quali spunti insistere. 

Il mondo di Veloce come il vento è un mondo sospeso, e tuttavia estremamente credibile. Anche qui, come in Non essere cattivo, gli sceneggiatori hanno giocato un ruolo fondamentale: Rovere ha firmato la storia con Filippo Gravino e Francesca Manieri, ed entrambi in questi anni sono diventati due delle firme più cercate e apprezzate dell’ambiente, dai lungometraggi alla serialità televisiva.

Lo chiamavano Jeeg Robot è stato, tra questi film, quello più inatteso e sorprendente. Gabriele Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone hanno creato una storia semplicemente unica. Di più: hanno plasmato un cattivo iconico, così particolare e innovativo da diventare uno dei personaggi più amati dal grande pubblico nel giro di pochissimo tempo: Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli. Claudio Santamaria è il protagonista, ed è lui a dover rispondere alla chiamata dell’eroe. Ilenia Pastorelli ha un altro ruolo molto importante: è quasi una guida.

Ma Mainetti e Guaglianone non si sono limitati a giocare con i generi, a costruire un nuovo immaginario; sono andati oltre, hanno reso appassionante un tipo di storia fino ad allora piuttosto inedito tra le produzioni italiane, e hanno valorizzato al massimo i loro attori. Mainetti, in particolare, ha trovato il suo posto e la sua visione. Lo chiamavano Jeeg Robot è stato il suo primo film, e fino alla fine, fino all’ultimo giorno in sala, è sembrato una promessa: questo è solo l’inizio. E in un certo senso sì, è stato proprio un inizio. Perché Lo chiamavano Jeeg Robot, più degli altri tre film, è stato in grado di richiamare una parte di pubblico riportandola al cinema. Ma tanto è stato sufficiente?

Non ci sono solo protagonisti

Abbiamo parlato dell’importanza degli sceneggiatori e della divisione necessaria tra la figura del regista-autore e quella dello scrittore. Ma c’è anche un’altra cosa che questi quattro film, così “nuovi” per il panorama italiano, hanno fatto. Hanno dato spazio e spessore ai personaggi secondari. 

Da Non essere cattivo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ogni sequenza e ogni battuta hanno il loro ruolo e ogni personaggio che compare in scena è un personaggio memorabile, da ricordare. Con Lo chiamavano Jeeg Robot è stato particolarmente evidente, per la bravura e il talento di Luca Marinelli. Ma vanno citati anche: Antonia Truppo, Ilenia Pastorelli e Salvatore Esposito nel film di Mainetti; Silvia D’Amico e Roberta Mattei in Non essere cattivo; Paolo Graziosi e Mattei, di nuovo, in Veloce come il vento; Claudio Amendola, Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Adamo Dionisi e Giacomo Ferrara in Suburra.

Insomma, in questi quattro film il lavoro della regia e della scrittura è stato così profondo ed efficace da rendere ogni cosa, anche la più piccola, necessaria e determinante. Per il cinema italiano, questa non è sicuramente una novità. In passato è successo altre volte, certo. Ma un allineamento così forte di intenzioni e di punti di vista è, a suo modo, abbastanza unico. E va tenuto in altissima considerazione. Anche perché non stiamo parlando di film particolarmente ricchi, con super budget o con il sostegno deciso di grossi distributori. Parliamo di progetti pensati e scritti per bene, con una loro identità, con una loro forza, capaci di attirare e di tenere insieme talenti. E nient’altro. Ma cosa hanno fatto, alla fine, questi film?

Il vero cambiamento

Sono riusciti ad appassionare il pubblico; sono riusciti, soprattutto, a superare le dinamiche classiche della promozione, e a essere spinti dal passaparola. In alcuni casi, come in quello di Non essere cattivo e di Lo chiamavano Jeeg Robot, ci siamo ritrovati davanti a dei cult istantanei, ancora oggi apprezzati e consigliati dagli spettatori. Ma c’è stato anche un intervento deciso, da non dimenticare, da parte di chi si occupa della promozione. O meglio: di chi cura i materiali come poster, teaser e trailer. 

Federico Mauro e la società Vertigo, per fare un esempio, hanno giocato – anche perché liberi dai soliti dettami delle distribuzioni – con film come Veloce come il vento, e hanno usato Lo chiamavano Jeeg Robot per fare qualcosa di più: per raccontare la loro storia. I trailer, per la prima volta, non sono stati solo e semplicemente dei biglietti da visita: hanno creato e alimentato l’eccitazione e la curiosità del pubblico; sono stati, a loro volta, dei piccoli momenti rivoluzionari. Ogni nuovo contenuto ha fatto la differenza: ed è stato atteso, ripreso, condiviso.

Attenzione, però: se questi quattro film sono andati bene, e hanno incassato e sono piaciuti così tanto, non è stato merito unicamente delle distribuzioni e di chi ha seguito la fase promozionale. Erano anomalie, e come anomalie sono state trattate. Non c’era un disegno preciso; non c’era l’intenzione particolare di insistere. Il successo è arrivato, ma è arrivato per caso. E anche per questo la promessa di un nuovo cinema italiano sembra essere stata tradita. 

Non abbiamo saputo, in questi cinque anni, costruire un sistema capace di autosostenersi e di autoalimentarsi; non abbiamo trovato una terza via. Continuiamo ad attivarci sempre con una grande fatica. Si produce tanto, e anche oggi, dopo due anni di incertezze e difficoltà, ci sono novità e nuovi titoli ogni settimana. Ma il pubblico lo sa? E soprattutto: il pubblico è intenzionato a vedere questi nuovi film? Questo atteggiamento, questo approccio così vago e largo, ha ancora senso? 

Disney e Marvel, e gli altri colossi hollywoodiani, hanno mostrato chiaramente una cosa: il pubblico va al cinema se è convinto, se sa di potersi fidare; se c’è un brand conosciuto e riconosciuto. In Italia siamo riusciti a fare una cosa simile? Il genere, così tanto apprezzato e ricercato, ha avuto il suo spazio?

Il secondo film di Gabriele Mainetti, Freaks Out (2021), non ha ricevuto la giusta attenzione; ci si è mossi tardi, e questo è un fatto. E anche nel ritardo, non è stata trovata una strategia vincente e condivisa. Mainetti ha finito per spingere e per promuovere Freaks Out quasi da solo, con i suoi social. Aiutato unicamente dal comparto digital.

Punto e a capo

Torniamo alla domanda iniziale. Il cinema italiano è cambiato? Se parliamo di intenzioni, di voci, di nuovi autori, assolutamente sì. Ci sono produttori pronti a rischiare, oggi; produttori che hanno visto, o anche solo notato, il potenziale di determinate storie. Ma sono pochi. Si contano, forse, sulle dita di una mano. Matteo Rovere è un esempio. 

Il sistema, di fatto, è rimasto lo stesso. E quindi un nuovo cinema italiano, una rivoluzione, non ci sono mai stati. Siamo ancora in attesa. La nostra industria, in questi anni, non è stata in grado di fare autocritica, di cambiare, di correggere errori strutturali che vengono ripetuti da decenni. A monte, c’è un’idea da grande editore: questo è il film, questa è la data d’uscita; venite al cinema. Purtroppo però questa visione non basta più. Perché il pubblico e i suoi gusti non sono più gli stessi. 

Serve anche un’inclusività diversa, maggiore e ragionata: bisogna dare libertà alle registe e ai registi, alle sceneggiatrici e agli sceneggiatori; bisogna superare gli schemi tradizionali, ed essere pronti – non a rischiare ma – a investire. Ci sono talenti come quelli di Alice Rohrwacher, di Francesca Mazzoleni e di Susanna Nicchiarelli che si stanno facendo largo a forza, spinte dal successo dei loro film e da un apprezzamento internazionale. Non è una questione quantitativa, ma qualitativa: ci sono ancora molte resistenze, anche sotto questo punto di vista, in Italia.

Per molto tempo la colpa della crisi delle sale è stata data allo streaming: è colpa della loro offerta; è colpa del loro modo di fare e farsi pubblicità; è colpa di un catalogo insuperabile. Ma il resto – e quindi i cinema, intesi come strutture fisiche, la promozione e anche il processo di selezione di nuovi progetti – è rimasto perfettamente identico. Davanti alla minaccia dell’estinzione, il nostro istinto di sopravvivenza non ha fatto niente. Siamo in un nuovo mondo, ma abbiamo la stessa mentalità dell’inizio degli anni 2000.

Il nuovo cinema italiano, forse, arriverà: fa parte della natura ciclica delle cose, e anche dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Oppure questa fase verrà completamente saltata, e l’eredità di film come Lo chiamavano Jeeg RobotNon essere cattivoVeloce come il vento e Suburra sarà condannata a rimanere in secondo piano. Diventerà un promemoria per il futuro, e sarà un ricordo con cui consolarsi.

In questo articolo non vengono citati grandi successi commerciali come Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese ed esperimenti come Mine (2016) di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, e nemmeno l’esordio dei fratelli D’Innocenzo (2018). Abbiamo preferito concentrarci su questi quattro film e su questo periodo (2015-2016) non solo per ridurre il campo di indagine, ma pure per rendere più lineare il nostro ragionamento: Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra, Non essere cattivo e Veloce come il vento sono stati apprezzati dalla critica (recensioni positive) e dal pubblico (buoni incassi); sono tutti racconti di genere (con le dovute differenze, come abbiamo già detto) e hanno tutti dato spazio a nuovi talenti – attori, attrici, registi, sceneggiatori – del cinema italiano. Ancora una cosa: per Lo chiamavano Jeeg Robot va segnalato l’importante lavoro fatto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti.

ARTICOLO n. 65 / 2021

VEGETARIANI, PERCHÉ?

Vegetariani, perché? Gli animali soffrono, ecco perché. Gli animali soffrono, anche se noi siamo così ciechi e così sordi da non rendercene conto, e da non volerlo sapere.

Sappiamo bene che la dieta vegetariana è di gran lunga più salutare di quella onnivora. Sappiamo anche, ormai, che il pianeta non è più in grado di sopportare l’alimentazione carnivora di molti miliardi di umani. Eppure queste consapevolezze non bastano. La ragione potente, e sconvolgente, della scelta vegetariana è e rimane sempre questa: gli animali soffrono, e la loro sofferenza è una ferita irrimediabile per le nostre coscienze.

Quando ero un giornalista alle prime armi, il capocronista del quotidiano per cui lavoravo, a Bologna, mi mandò un giorno a fare un’inchiesta sul mercato-macello della città. Ordine, pulizia, quel grande campo di uccisione di bovini mi apparve subito come una macchina efficiente e perfetta. C’erano dei lunghi corridoi delimitati da sbarre di metallo, che dal piazzale di sbarco degli animali immettevano nell’edificio della mattanza. Gli addetti sospingevano i bovini nei corridoi, e quelli docilmente s’incamminavano verso la morte. Ma a quel punto qualcosa accadeva, sempre. La macchina perfetta s’inceppava. Dopo alcuni passi, gli animali capivano. Sentivano l’odore del sangue e della morte.  S’impuntavano, recalcitravano, muggivano, e nei loro occhi si dipingeva il terrore. Era come se implorassero pietà. Gli adulti cercavano di proteggere i vitellini. Uno degli addetti mi confessò: «Anche se ormai li abbattiamo sparandogli il chiodo nella fronte, e la loro morte è istantanea, a queste scene non ci si può comunque abituare.»

Era l’aprile del 1975, e fu da allora che la mia decisione di diventare vegetariano divenne irrevocabile. Sono passati quarantasei anni, e non me ne sono mai pentito. Si può vivere magnificamente senza mangiare carne! Senza farsi complici di quell’orrore, di quella sofferenza. Perché gli animali sono nostri fratelli, hanno anima, sensibilità e intelligenza. Chi lo nega non sa, semplicemente, quello che dice. E chi afferma che, comunque, il sacrificio degli animali è necessario, è indispensabile, semplicemente afferma il falso. Non mi pongo sul piano dell’ideologia: sto solo parlando di un dato di fatto. Ignoro e detesto ogni forma di fanatismo, di estremismo fondamentalista. Mi appello unicamente al puro principio della non violenza. Principio che, strano a dirsi, non è affatto ideologico, ma fondato su un pragmatismo etico elementare.

Approfondiamo dunque il tema, perché è questo l’unico argomento che, in fin dei conti, veramente conta. C’è nel saggio La persona e il sacro, di Simone Weil, una pagina stupenda, che pone in modo perfettamente concreto la questione della violenza. La Weil si chiede: «Che cosa, esattamente, m’impedisce di cavare gli occhi a quell’uomo, se ne ho il permesso e ciò mi diverte?» E la risposta è di una semplicità disarmante: «Ciò che riuscirebbe a trattenere la mia mano è il fatto di sapere che se qualcuno gli cavasse gli occhi la sua anima sarebbe straziata dal pensiero che gli viene fatto del male.» Ma una forma di questo “pensiero”, di questa consapevolezza del male, esiste anche negli animali: quando quelle povere bestie vengono sospinte al macello, la loro mente percepisce in modo estremamente chiaro la prossimità di quel male, di quella sofferenza, e dell’annientamento della loro vita.

In ciò consiste l’abominio della violenza. Nella negazione di un diritto elementare che non solo gli esseri umani posseggono, ma tutte le creature senzienti e in vario grado coscienti: il diritto a ricevere il bene, e a non subire il male. Il diritto a non soffrire. Estendere questo diritto agli animali non può definirsi un’utopia. Altrimenti che senso avrebbe dichiararsi veramente “umani”? E a chi protesta paventando il rischio di cadere in un “animalismo deviato”, potenzialmente disumano – la tipica obiezione di chi immancabilmente ricorda che Adolf Hitler era vegetariano –  si può sempre rispondere con la dolce ironia francescana di un Aldo Capitini, che alludendo appunto a quel sospetto di ambigua utopia invitava al rigore dell’impegno etico col sorriso: «perché non siamo maniaci e sappiamo la differenza che c’è tra la vicinanza che possiamo stabilire con una persona e la vicinanza con un animale: sorridiamo, ma procediamo con fermezza.»

Ed è questo un pensiero ben presente in tutta la tradizione filosofica fautrice del vegetarianismo, dall’antichità fino ai nostri giorni. Pensiamo solo alle pagine terribili che un Plutarco, o un Tolstoj, ci hanno lasciato per descrivere lo strazio degli animali nei momenti del massacro e dell’agonia. Ecco Plutarco: «Noi crediamo che i suoni e le strida che gli animali emettono siano voci inarticolate, e non piuttosto preghiere, suppliche e richieste di giustizia… che crudeltà!» Ecco Tolstoj, testimone inorridito di una macellazione: «Quando il colpo falliva, il bue s’impennava, muggiva e grondante sangue cercava di liberarsi dalle mani dei macellai… Ogni volta che si prendeva un bue e lo si tirava per una corda attaccata alle corna, il bue, fiutando il sangue,  s’inarcava, muggiva e indietreggiava, sì che due uomini non avevano la forza di tirarlo; allora uno dei macellai gli tirava la coda, gliela torceva fino a spezzarla e la bestia avanzava.»

Eppure è in Porfirio di Tiro, nel suo trattato sulla Astinenza dagli animali – scritto in greco a Lilibeo verso la fine del terzo secolo – che questo tema cruciale trova la sua esposizione più compiuta e forse insuperata. Quello che Porfirio ci vuol dire è che la pietà per gli animali non può derivare solo dalla convinzione che nelle loro anime alberghino delle forme di razionalità, per quanto inferiori alla ragione umana. La pietà di Porfirio travalica la visione antropocentrica; non è soltanto intellettuale, ma deriva essenzialmente da una profonda e viva empatia verso le creature viventi che sentono, vedono, comprendono, e soffrono e gioiscono coscientemente come noi, e patiscono terribilmente il dolore fisico, e l’umiliazione e la paura, il terrore della morte violenta, delle percosse e della lacerazione delle loro membra.

Ecco un passo rivelatore dell’Astinenza: «Gli animali sono per natura così costituiti da avere percezione, soffrire, avere paura, subire danni, e perciò anche l’ingiustizia… Ma quando vediamo molti uomini vivere soltanto guidati dal senso senza far uso dell’intelletto e della ragione, e inoltre molti superare le bestie più terribili in crudeltà, in collera, in avidità… come non è assurdo pensare che abbiamo rapporti di giustizia con essi, mentre non ne abbiamo nessuno con il bue aratore, il cane che partecipa della nostra casa, le pecore che ci nutrono con il loro latte e ci vestono con la loro lana? Come non è tutto ciò assolutamente contrario alla ragione?»

Oltre la pietà, la giustizia, dunque. Come nel nostro tempo diranno Peter Singer (Liberazione animale, 1975) e Tom Regan (I diritti animali, 1983). L’ecologismo, la dietologia, e perfino la gastronomia, possono fornire armi potenti, e ormai forse indispensabili, alla causa vegetariana. Ma senza pietà, e senza giustizia, quella bella utopia continuerà a vivere come un sogno senz’anima.

ARTICOLO n. 64 / 2021

CIBO È CULTURA

Il cibo intelligente non è onnivoro, vegetariano o vegano. Il cibo della nostra strana epoca, l’Antropocene, un soffio umano incastonato nelle età geologiche gigantesche, un intervallo in cui siamo noi a influenzare gli eventi della Terra, è un cibo consapevole. Ne sappiamo abbastanza di scienze della nutrizione per essere certi che la salute dipenda anche da pranzi e cene. E come potrebbe non essere, considerato che in un’esistenza media l’intestino è un filtro attraversato da quel che resta di 30 tonnellate di alimenti e di 50 mila litri di liquidi.

«Siamo quello che mangiamo», rifletteva il filosofo Ludwig Feuerbach. Ma quello che mangiamo, e che non mangiamo, ormai sappiamo anche questo, può cambiare il mondo. A marzo del 2021 la rivista Nature ha pubblicato un’analisi cristallina: le tavole mondiali pesano a spanne per un terzo sulle emissioni di gas serra, cioè di quei gas che avvolgono il nostro globo come una coperta. Gli esperti dell’Onu hanno scritto che il riscaldamento globale non potrà arrestarsi se non si provvederà anche a modificare il sistema alimentare.

La domanda, legittima, è in che maniera pranzi e cene siano collegati alle follie del clima. In diversi modi, ma soprattutto tramite il tipo di digestione dei ruminanti, il disboscamento in favore di agricoltura e pascolo, la lavorazione industriale. Il trasporto ha un’incidenza piccola, con tutto il rispetto per la filosofia del chilometro zero.

Un primo problema è il metano, gas serra potentissimo. Lo producono certi ceppi di batteri che se ne stanno acquattati negli stomaci delle mucche, delle capre e delle pecore: sono loro coinquilini e sopravvivono fermentando i residui della digestione. Per questo ha un senso paragonare le macchine al meteorismo di ovini e bovini. Le quantità di emissioni provenienti dal bestiame sono pari più o meno a quelle di camion, auto, aerei e navi messi insieme, stando alle stime della Fao. Come se non bastasse, ci sono i danni causati dalla deforestazione praticata per ricavare aree destinate alle mandrie o ai mangimi. E gli allevamenti intensivi consumano suolo, energia, acqua.

Nell’ipotesi che tutta l’umanità rinunciasse a ogni tipo di fonte animale, le emissioni legate al cibo scenderebbero del 70% in trent’anni. Ma questo argomento non dovrebbe essere usato come arma contro gli onnivori. La sostenibilità è anche sociale ed economica. La zootecnia impiega oltre un miliardo di lavoratori e bisogna pensare che in alcuni Paesi carne, uova e latte sono vitali per persone con diete limitate.

Diversa è la questione etica, il vero confine che separa carnivori e veg. Non mi meraviglia che i teorici di una scelta o dell’altra discutano, e a volte infiammando i toni, proprio perché in gioco c’è un punto di vista sul mondo, sulla nostra superiorità o meno rispetto agli altri animali, sul loro benessere, sul domani del pianeta. L’empatia ha a che fare con il soggetto prima ancora che con l’oggetto. «Vi sono persone che hanno la capacità di immaginarsi nei panni di qualcun altro, vi sono persone che non ce l’hanno e vi sono persone che questa capacità ce l’hanno ma scelgono di non esercitarla», scrive John Maxwell Coetzee nel suo libro La vita degli animali. Un bel libro, in cui la protagonista, un’anziana romanziera, riflette con scienziati, filosofi e poeti sui diritti degli esseri viventi.

Disinteressarsi al tema «carne sì o no» è diventato impossibile. Per un motivo o per l’altro, prima o poi, veniamo chiamati a prendere posizione: lo richiedono i figli ambientalisti, l’amica che rinuncia al manzo, il dibattito sull’ultimo documentario di Netflix, quel nuovo libro, la crisi climatica, le ricerche sul rapporto tra salute e consumo di bistecche.

All’onnivoro non basta più dire che mangia agnelli e polli perché «è normale». Riannodando i fili della storia, troviamo le nostre cugine, le grandi scimmie antropomorfe, nella sostanza vegetariane, diversamente dai nostri antenati del genere Homo. Per alcuni antropologi, è la masticazione di brandelli di carne ad aver potenziato le mandibole e allargato il cranio, con l’evoluzione che ha fatto il resto e ha premiato lo sviluppo di un cervello strutturato, rendendoci quelli che siamo: intelligenti, dotati di parola, creatori di opere d’arte.

Dunque, continuiamo a nutrirci di bistecche perché lo prevede la natura umana? «Secondo questa logica», come ha notato Isaac Singer, premio Nobel per la letteratura, «non dovremmo neppure impedire l’omicidio, perché anch’esso è sempre stato praticato dall’inizio dei tempi».

Noi non viviamo solo del retaggio di un destino biologico, perché noi siamo cultura, nel senso di appartenenza a una civiltà, a un popolo, nel senso di conoscenze condivise e di patrimonio di idee individuali. Se il Dna e le tradizioni ci ancorano al passato, la cultura può renderci liberi di immaginare il futuro. Decidere di evitare carne e pesce, come nei menù dei vegetariani, o tutti i prodotti di origine animale, com’è per i vegani, fa parte delle possibilità.

Per un occidentale medio, la carne non è indispensabile. È un’ottima fonte di una gamma di nutrienti essenziali, ma di alternative se ne trovano. Per esempio, il consumo di quattro-cinque porzioni alla settimana di legumi contribuisce al raggiungimento del fabbisogno di ferro, che si trova pure in molluschi, sardine, ortaggi, cioccolato o frutta a guscio. La vitamina B12 si prende da uova e pesce (mentre ai vegani è consigliata l’integrazione o il consumo di alimenti fortificati). Quanto alle proteine, è vero che un etto di filetto di vitello ne contiene 20,5 grammi, ma la stessa quota si raggiunge mangiando un piatto di pasta e fagioli, un contorno di spinaci e un frutto. E non è un rimpiazzo triste. Se l’uomo «è un animale che cucina», secondo la definizione (geniale) dello scrittore scozzese James Boswell, si deve soprattutto alle soluzioni che s’è inventato per trasformare in ingredienti commestibili qualcosa come quattromila specie vegetali, dal grano alle patate, dal peperoncino alla borragine.

Non intendo criminalizzare chi ama il gusto dell’arrosto e non vuole rinunciarvi. Tra l’altro, stando alle conoscenze attuali, un po’ di carne non fa male alla salute. È l’eccesso a essere correlato a un aumento del rischio di alcune patologie, come lo è l’eccesso di calorie. D’altro canto, se ancora qualcuno dubitasse che sia possibile rimpiazzare senza danno ogni tipo di prodotto animale con le proteine vegetali, dovrebbe leggere il documento con la presa di posizione dell’Accademia americana di nutrizione e dietetica: ritiene che le diete vegetariane, compresa quella vegana, possano essere benefiche «se opportunamente pianificate dal punto di vista nutrizionale».

Io credo che onnivori di buon senso, vegetariani e vegani, invece di battibeccare tra loro, dovrebbero muovere guerra alla cosiddetta western diet, il modello alimentare occidentale che mezzo mondo ha importato dagli americani. Dilaga in un frullatore di unto, colesterolo e sciatteria culturale che è pari solo ai danni inflitti alla salute e all’atmosfera. Il passato e il futuro sono persi in un mondo in cui i bambini non conoscono il sapore di una pesca perché al posto della frutta scartano merendine, in cui la cena dei loro genitori si riduce al solito hamburger e al pane col salame.

La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un rapporto che ha fatto clamore: se la popolazione dei Paesi industrializzati riuscisse a raddoppiare entro il 2050 i consumi di vegetali e dimezzasse quelli di zuccheri, farine raffinate e carni rosse e trasformate, si frenerebbe il riscaldamento globale e si eviterebbero almeno 11 milioni e mezzo di decessi prematuri all’anno dovuti ad abitudini alimentari malsane.

Il cibo consapevole, qualsiasi sia l’etica a monte, onnivora o vegetariana, rispetta allo stesso tempo la salute, il pianeta e la cultura. Siamo di materia affine a ogni altro organismo, collegati dalle origini, in una comunanza di atomi. In alcuni testi di Platone, pare già affiorare la chiarezza del legame: «Quel piccolo frammento che tu rappresenti, uomo, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il tutto e per la felice condizione dell’universa armonia».

ARTICOLO n. 63 / 2021

VEGANI E NO

Parliamo di veg, ovvero di vegetarianesimo e di veganesimo. Ma devo fare due premesse:

1) Sono onnivoro, del tutto, non c’è piatto che non mangio o assaggio. A patto che… siano «buoni» ovviamente, qualunque cosa voglia dire.

2) Da giovane «scoprii» uno dei più alti testi mai scritti, l’Antigone di Sofocle: che tanto mi colpì che lessi, poi, anche quella di Brecht e di Anouilh. L’anomalia fu che «tenevo» per Creonte! Non per Antigone, come fanno la più parte dei lettori. Fin da allora mi convinsi che le leggi, l’insieme delle leggi fatte dagli uomini e fatte rispettare da un’autorità, siano la base del contratto sociale. E logica conseguenza divenni legista (senza h mi raccomando!) ovvero un devoto seguace delle teorie di Shen Buhai e di Shang Yang che nel IV secolo a.C. le teorizzarono, cambiando per sempre il destino della Cina.

Ma veniamo al tema in oggetto. Quanti siano i vegetariani, in Italia e nel mondo, non si sa bene, in genere chi raccoglie questi dati non è mai obbiettivo del tutto: tanti attivisti e pochi «giornalisti» oserei dire. Sono comunque una minoranza: anche in India dove il vegetarianesimo ha antiche tradizioni per ragioni religiose, l’induismo attribuisce non solo all’uomo ma a tutti gli animali un’anima, si stima una percentuale di vegetariani che va dal 15 al 20%: meno di quanto si pensi, quindi.

Ma una cosa è sicura: In Italia anzi in Europa sono in crescita, negli ultimi anni. Crescono i vegetariani, quelli che non mangiano carne e pesce ma accettano derivati animali come latte, uova e miele ma sono in crescita anche, se non di più, i vegani, che non accettano neanche latte e affini.

Poi, se è vero che in alcuni casi questa scelta è basata sul gusto, sul fatto che gli alimenti animali ad alcuni smettono di piacere, la più parte delle volte la scelta è del tutto etica: non si accetta il principio di uccidere un animale per cibarsene.

Per questo motivo, per me anzi per tutti, non è mai facile dialogare con un veg etico. Da un lato resto convinto che le leggi civili in essere che autorizzano la macellazione di animali per nutrimento siano comunque, per me, prevalenti rispetto a quelle etiche, da buon legista. Poi, sia chiaro, rispetto assolutamente chi fa questa scelta etica. Però se l’etica, detta anche diritto naturale, per qualcuno, per molti, si pensi anche a temi come l’aborto o la fecondazione in vitro, viene prima delle leggi fatte dagli uomini, non sono d’accordo ma capisco quanto per un veg, spinto da un assoluto rispetto verso tutte le forme di vita, sia difficile accettare le leggi in essere, me e la mia scelta onnivora e carnivora.

E quindi cerco, come sempre nella vita, come è giusto fare, un compromesso fra le nostre opposte esigenze. Però non sempre il compromesso è possibile, per esempio proprio in questo caso. Di certo, come io rispetto chi ha fatto questa libera scelta, altrettanto chiedo a un veg di rispettare la mia: se non la rispetta e si considera «superiore» a me in quanto non «contaminato» da proteine animali, non lo accetto e non resta che la lotta. Ma so che è, per lui, oggettivamente difficile. Mentre per me è facile, lo so proprio.

Poi più che mai sono contro chi cerca di imporre il veganesimo per legge, tipo, se n’è parlato, far dichiarare dal Parlamento alcuni animali che si mangiano «animali da compagnia» come lo sono cani e gatti, che come tali non possono essere mangiati, appunto per legge civile. Anche se un agnello di compagnia, che dorma sul letto, anche no…

Ma comunque, qualche compromesso si può sempre fare: lo so che la parola compromesso per alcuni sia uguale a inciucio, quindi intrallazzo, ma senza compromessi le vita sociale si ferma, in un tutti contro tutti foriero del peggio. Per me il compromesso è una buona cosa – anche se non lo si può fare su tutto.

Questo detto, una delle cose che indigna di più i vegetariani e i vegani, ma non solo loro, è l’orrore dell’allevamento intensivo. Come le galline ovaiolo costrette in spazi limitati, le stalle dove i bovini non possono praticamente muoversi, le oche e le anatre ingrassate a forza e tanti altri. Bene, questo è un problema, anzi una lotta, che può essere condivisa da tutti. Dai vegetariani per motivi etici ma anche dai carnivori per motivi di gusto. È certo che esiste una strettissima correlazione fra la vita dell’animale, da come e quanto si è mosso, da come ha mangiato eccetera, e la qualità della sua carne. Più un animale è vissuto libero e si è nutrito bene, più buona sarà la sua carne: non c’è nessun possibile confronto fra un pollo di batteria e uno cresciuto libero in un ampio spazio, fra un maiale che ha visto solo la sua stalla e uno che è andato a caccia di ghiande nei boschi. Per non parlare della cacciagione.

Certo, l’allevatore che ha deciso di cambiare modo di allevamento va incontro a extra-costi, è inevitabile, e quindi noi consumatori finali dobbiamo accettare di pagare i suoi prodotti di più. Ma comunque in linea di massima di proteine animali se ne mangiano sempre troppe, mangiarne meno ma più buone è vantaggioso, integrando poi la nostra dieta con le ottime proteine vegetali, dei legumi ma non solo, di cui se ne mangiano sempre pochi.

Quindi la lotta per dare agli animali una qualità di vita e di cibo migliore potrebbe essere una lotta condivisa da tutti, ed è giusto farla, se i veg accettano di farla: sì, per loro però sarebbe un compromesso…

Comunque sia, benvenute a tutte le leggi propositive che vanno in questa direzione. Ma devono indicare una via, che è al contempo (parzialmente) etica e di qualità. Senza estremismi, senza fughe in avanti che poi, per reazione, riportano indietro. Ma una cosa è importante: la bontà non si deve imporre per legge, deve essere una nostra libera scelta. Bisogna educare ma non imporre. A mio parere, è sacrosanto il diritto di chi vuole di contentarsi di un prodotto non di qualità, sanitariamente – e legalmente – ineccepibile naturalmente.

Siamo da ben poco tempo usciti dalla fame plurisecolare, solo oggi il cibo, carne inclusa, è abbondante e a buon mercato se si pensa che fino a fine Ottocento si spendeva metà del reddito, in media, per mangiare. Limitare questo diritto, più che sbagliato, sarebbe un errore, grave. E come disse il grande Joseph Fouché, ministro degli interni di Napoleone, un errore è peggio di un crimine.

Tutto questo detto, ribadisco che è solo la mia opinione in proposito, di più è solo un piccolo mio contributo a un problema di immensa complessità. Mi piacerebbe che chi è d’accordo con me ma anche chi non lo è intervenissero in questa discussione, con i loro contributi. Sempre con garbo, però…

ARTICOLO n. 62 / 2021

ORA FACCIAMO TUTTI SHOPPING NEL CYBERSPAZIO?

Per il consumismo, c’è un’ultima possibilità di sopravvivere in un mondo che smetterà di fare shopping, ovvero preservare la cultura del consumo nella sfera digitale. Detestate farvi vedere in pubblico con gli stessi indumenti in più di un’occasione? In un videogioco, si può cambiare il proprio aspetto – nel gergo del gaming, la «skin» – tutte le volte che si vuole, per non parlare del diventare un coniglio guerriero o uno zombie in fiamme che balla come Michael Jackson. In un mondo virtuale, si possono possedere e guidare un centinaio di automobili, o indossare un migliaio di paia di scarpe, o costruire una ventina di castelli, tutto usando soltanto una minuscola frazione delle risorse del pianeta che sarebbero necessarie nel mondo reale.

Lo faremmo? Voltare le spalle a supermercati, negozi, ristoranti, stadi, spa, resort e diventare consumatori virtuali? La vita in quarantena a causa della pandemia sembra dare una risposta, ed è un enfatico sì.

La grande espansione dell’attività online durante la pandemia ha preso il nome di «digital surge». In parte era un risultato quasi inevitabile, come per il lavoro da remoto, le videochiamate con gli amici, o la didattica a distanza. Ma improvvisamente, persone che prima non avevano mai fatto cose del genere giocavano anche a poker in casinò virtuali, partecipavano a gare in bici con il loro avatar sullo schermo connesso alle cyclette, o guardavano negli occhi la Gioconda – che di solito è nascosta dalla folla e reclusa sotto una teca di vetro al Louvre – grazie agli occhiali VR. Hanno assistito a concerti di rapper con animazione extralarge su Fornite, DJ set in live streaming e lezioni di pittura ad acquarello, e hanno anche fatto il cosiddetto «shopstreaming», ovvero hanno guardato video di altre persone che fanno shopping per avere consigli sugli acquisti. Le visite private alle case d’asta su Zoom hanno portato alla vendita di alcuni gioielli a prezzi da record; un braccialetto Tutti Frutti di Cartier (che sembrano caramelle Skittles sciolte tra i diamanti, tranne che le Skittles sono zaffiri, rubini e smeraldi) è stato battuto a 1,34 milioni di dollari all’apice del primo lockdown, a quasi il doppio del prezzo stimato.

Abbiamo passeggiato per le strade di lontane città con Google Earth. Abbiamo imparato ad accettare di ordinare frutta e verdura online, senza vederle, annusarle o tastarle. Il videogioco Animal Crossing ha venduto più velocemente di qualsiasi altro videogame nella storia, poi è diventato una piattaforma di moda virtuale, con code di ore nel gioco per partecipare a vendite esclusive – usando la valuta virtuale – di stilisti famosi. Quando la società di oggetti da collezione online CryptoKitties ha pubblicato una tiratura limitata di gatti virtuali dell’artista cinese Momo Wang, questi sono andati esauriti in tre minuti. I nostri beni di prima necessità sono cambiati velocemente: abbiamo comperato meno telefoni e più console e televisori di fascia alta, più sfondi di realtà aumentata che ci mettono ali d’angelo e l’aureola quando facciamo le nostre videochiamate. Abbiamo trasferito talmente tanto tempo della nostra quotidianità online che, mentre l’economia in generale affondava nella recessione, il tasso di occupazione in alcuni tipi di lavoro digitale ha sorpassato i livelli precedenti alla pandemia.

Soprattutto, abbiamo guardato. Maratone televisive, buchi neri di riproduzioni automatica, canali di news ventiquattro ore su ventiquattro. Alla fine di aprile 2020, in seguito al più netto aumento della storia, tre quarti delle famiglie statunitensi si erano iscritte a un servizio di streaming. Un sondaggio sui consumatori inglesi e americani durante la primavera in lockdown ha scoperto che l’80 per cento utilizzava più media del solito, la maggior parte dei quali, di gran lunga, erano televisione e videostreaming. Il tempo trascorso davanti allo schermo è cresciuto così tanto che l’Unione Europea ha chiesto a Netflix e YouTube di peggiorare la qualità delle immagini in modo da ridurre la quantità di dati trasmessi ed evitare che Internet collassasse. L’americano medio guardava ben un quarto di televisione in più rispetto a prima della pandemia, arrivando a quarantun ore alla settimana di fronte – e questo senza considerare il tempo speso a fissare lo schermo di altri dispositivi.

Anche prima della pandemia, stava diventando evidente che il consumo digitale poteva sostituire il consumo di beni materiali. Kenneth Pike, un professore di filosofia del Florida Institute of Technology che ha scritto dell’argomento, mi ha detto di essersi ispirato dalle camere da letto dei suoi quattro figli. «Mi colpisce quanto meno disordinate fossero le loro stanze rispetto a quando ero un bambino io negli anni ottanta», mi ha detto. «Talvolta entro e mi sembrano vuote, come se i miei figli dovessero avere più roba. Ma poi penso che, be’, non è così».

La cameretta che Pike aveva da piccolo era piena di ceste di giocattoli di plastica (lui ricorda le action figure di He‑Man e dei Superamici), ricoperta di poster, piena di libri, adornata di trofei. I giochi dei suoi figli sono per lo più digitali, leggono soprattutto sul Kindle, e molti dei loro trofei e premi esistono solo nei mondi online. Il loro gioco preferito quando ho parlato con Pike era Roblox; cercate online, e troverete facilmente dei video in cui giocatori di Roblox spendono centinaia di dollari veri e propri per comprare, ad esempio, un monster truck virtuale, una Mustang e una Ferrari durante una singola sessione di gioco. «Loro sono decisamente consumatori digitali», dice Pike. La maggior parte di noi ora lo è. Quasi nessuno ascolta ancora principalmente musica dal vivo, per esempio; i servizi di musica in streaming sono diffusi anche nelle parti più povere del pianeta, inclusa l’India rurale e l’Africa intera. La rivoluzione digitale ha lasciato le case meno ingombre di orologi, torce, timer, hi‑fi, calcolatrici, fax, stampanti e scanner, per non parlare di collezioni di libri, album, enciclopedie e mappe. Al contrario, ben prima della «digital surge», le case in tutto il mondo era piene di – o meglio vuote di – app, ebook, videogiochi e album fotografici che esistono solo nel vaporoso spazio del cloud.

Nel luglio 2020, Vili Lehdonvirta, uno studioso di sociologia economica di origini finlandesi e britanniche che si occupa di come la tecnologia digitale influenzi le economie, ha avuto un’esperienza che indicava un futuro più profondamente virtuale. Lehodonvirta viveva a Tokyo, all’epoca una città con poche restrizioni dovute al coronavirus ma con una persistente cautela nei confronti della malattia, quando, una notte, uno dei suoi artisti preferiti ha inizato a fare lo streaming di una mostra in tempo reale su Instagram.

L’artista Taro Yamamoto crea arte moderna basandosi sulla tradizione giapponese: il suo pezzo più famoso emula un paravento di quattrocento anni fa che ritrae le divinità classiche del vento e del tuono, ma li sostituisce con i Super Mario Brothers della Nintendo. Riccamente decorato e prodotto con materiali come la foglia d’oro, che riflette la luce in maniera diversa a seconda dell’angolazione da cui la si osserva, la sua opera d’arte è difficile da apprezzare piena‑ mente nelle fotografie online, e Yamamoto si lamentava che la galleria fosse vuota.

Lehdonvirta, che di solito lavora all’Oxford Internet Institute, improvvisamente si è reso conto che poteva andare a tenere compagnia a Yamamoto; dopo tutto, erano nella stessa città in cui aveva luogo la mostra. Ha attraversato la tranquilla megalopoli in metropolitana, si è presentato alla galleria, e ha trascorso due ore con l’artista. Tuttavia, non hanno discusso se gli spettatori dal vivo sarebbero tornati presto in galleria, o di come riportarli nel mondo fisico. Invece, mi ha detto Lehdonvirta, hanno parlato della possibilità che Yamamoto trasferisse la propria arte sullo spazio tridimensionale della realtà virtuale, come il mondo di Animal Crossing, frequentato da molte più persone di quante se ne potessero trovare quella sera a Tokyo – e nel resto del mondo. La scena era pittorescamente surreale: due sagome che conversavano dal vivo, faccia a faccia, accettando la fine di quell’era.

Questa è potenzialmente una bella notizia, dice Lehdonvirta, che ha imparato a scrivere in codice BASIC a metà degli anni ottanta, quando aveva cinque o sei anni. All’inizio del XXI secolo, lavorava in un laboratorio finlandese per creare abiti e accessori virtuali che si potevano guardare grazie a dispositivi di realtà aumentata come i cellulari con la videocamera. Ricorda che un’altra azienda locale stava studiando come fare lo stesso con i mobili virtuali. Oggi, le app che permettono di fare esattamente queste cose – ad esempio provare una tinta di rossetto con la realtà aumentata, o vedere come dei nuovi scaffali starebbero nell’angolino del salotto prima di comprarli – sono la norma.

Nella realtà virtuale, il «problema economico» di Keynes è stato completamente risolto. È un mondo di totale abbondanza, dove un’infinità di novità, mode passeggere e obsolescenza programmata sono rese praticamente inoffensive. «Si può accelerare il consumo. Si possono buttar via cose. Il ciclo della moda può andare sempre più veloce senza aumentare il fabbisogno dei materiali o l’impronta ecologica», dice Lehdonvirta. L’unica cosa che accade quando si trasforma un abito virtuale in un altro è uno «spostamento di bits», cambiando un tipo di informazione digitale con un’altra.

Lehdonvirta non intende abbandonare la realtà fisica per Matrix. Come molti finlandesi, trascorre parte dell’anno in un rustico capanno («anche se la connessione alla rete mobile è meglio che a Oxford»). Sa distinguere i funghi commestibili da quelli velenosi, e porta con sé in Inghilterra mirtilli e selvaggina finlandesi così da evitare di mangiare cibi prodotti industrialmente. Ciò che lui immagina è un mondo in cui molto di quello che ora facciamo con l’economia materiale – dire al mondo chi siamo, esplorare la nostra identità, mostrare i nostri gusti o le nostre capacità e così via – viene fatto attraverso il consumo virtuale, mentre il consumo del mondo reale si riduce fino a concentratasi soprattutto sui bisogni materiali.

«Si può avere questa condizione stabile dove ognuno ha la connessione, uno schermo e un metodo di input; ed è tutto ciò che serve per il consumo virtuale», dice. «Avrete bisogno di alimentare questi dispositivi con l’elettricità. Dovrete rimpiazzarli quando moriranno. Ma la crescita vera e propria potrebbe accadere tutta all’interno di quello schermo».

Quando, negli anni novanta, una piccola parte della popolazione iniziò a comperare beni virtuali, venne ampiamente criticata. «Soldi buttati», li sbeffeggiavano le stesse persone che avevano senza problemi pagato un extra per una maglietta diversa dalle altre solo per il suo marchio puramente simbolico. «Del tutto inutile», dicevano i critici che stavano già spendendo buona parte dei propri guadagni in settori dell’economia spinti in sostanza da piacere, ansia o status – in altre parole, nulla di tangibile. Un decennio più tardi, quando gli utenti di mondi virtuali come Second Life hanno accumulato collettivamente proprietà digitali (abiti, automobili, case, giocattoli) per un valore stimato di 1,8 miliardi di dollari, la possibilità che il consumo materiale dannoso per l’ambiente potesse essere sostituito sembrava essere una vera promessa. «Sto risparmiando davvero tanto nella vita reale, perché ottengo soddisfazione spendendo in Second Life e questo non mi costa quasi niente», ha detto un consumatore virtuale al Sacramento Bee, un quotidiano californiano, nel 2006.

Second Life ora è in buona parte dimenticato e, finora, la maggior parte di noi non ha sostituito gli oggetti reali con quelli virtuali. Magari proviamo i mobili nello spazio digitale, ma alla fine comperiamo sedie su ci possiamo sederci, scaffali che possono reggere libri stampati e rilegati. Tuttavia, saltare completamente al consumo virtuale potrebbe essere solo questione di progresso tecnologico. Durante la pandemia, quando la quantità di persone che gioca ai videogiochi aumentava in tutte le fasce d’età, molti non si sono resi conto di essere diventati acquirenti regolari di beni virtuali. «Il modello di guadagno di almeno metà dei videogiochi è saldamente legato alla vendita di cose all’interno del gioco stesso», dice Lehdonvirta. Quasi tutto il resto per cui le persone potrebbero spendere quei soldi – cibo, abiti, sport, viaggi – creerebbe più danni ambientali al «mondo corporeo», come alcuni giocatori chiamano la strana terra in cui vivono i loro corpi fisici.

Possiamo già vedere oggetti virtuali nello spazio materiale: la realtà aumentata può fornirci una scultura digitale, una pianta da appartamento che non muore mai, o pitture da parete che cambiano tonalità in un istante. Per ora, tuttavia, possiamo vedere queste cose solo indossando ingombranti occhiali. Se invece potessimo utilizzare lenti leggere, o meglio ancora lenti a contatto, potremmo adottare i beni virtuali con tanto entusiasmo quanto ne abbiamo avuto più di un secolo fa per le voci registrate e incorporee grazie a tecnologie come la radio, il fonografo, e la linea telefonica fissa.

Quando lo faremo, la cultura del consumo sarà lì ad aspettarci. «È così che funziona il capitalismo: vai dove ci sono le persone, e vendi in quello spazio. Se lo spazio è come questo» – Lehdonvirta traccia con le dita la cornice rettangolare in cui è apparso nella nostra videochiamata – «allora c’è molto che le aziende possono fare per rendere quello spazio più commerciale. Non necessariamente migliore, ma di certo più commerciale».

Finora, il consumo digitale ha dimostrato di comportarsi in modo identico al consumo normale, quello che avviene nel mondo reale. È cresciuto illimitatamente. Divora sempre più risorse ogni anno. E sorpassa sistematicamente ogni tentativo di farlo diventare ecologico. Per adesso, è più corretto dire che il consumo digitale è il consumo del mondo reale.

I miglioramenti nell’efficienza energetica per la tecnologia digitale sono leggendari. Il primo computer costruito secondo gli stessi principi che usiamo oggi, chiamato Electronic Numerical Integrator and Computer, o eNIAC, fu sviluppato dall’esercito statunitense negli anni quaranta. Di certo non era possibile acquistarne uno. Il macchinario era lungo come una balenottera azzurra e pesante quanto un carro armato della Seconda guerra mondiale. Secondo i calcoli dello scienziato ambientale Ray Galvin, se costruissimo un computer tanto intelligente quanto il tipico computer odierno, ma usassimo la tecnologia eNIAC, peserebbe cinque milioni di tonnellate e, se iniziassimo a costruirlo a Londra in direzione ovest, alla fine attraverserebbe l’oceano Atlantico fino a raggiungere il cuore delle foreste canadesi. Nel momento in cui lo accendessimo, divorerebbe il 70 per cento dell’energia usata nel Regno Unito.

I computer di oggi ovviamente consumano energia in maniera molto più efficiente, e necessitano di molte meno risorse nella loro produzione. Tuttavia, negli scorsi due secoli sia l’efficienza sia il consumo energetico sono aumentati costantemente, fianco a fianco. Quando i computer e il resto delle cose che chiamiamo «tecnologia» sono diventati meno costosi da acquistare e utilizzare, si sono diffusi in ogni campo della società globale – un effetto rebound trasfromazionale.

«L’efficienza energetica nelle infrastrutture è importante», dice Kelly Widdicks, una ricercatrice di computing science alla Lancaster University in Inghilterra, «ma è resa insignificante dalla vertiginosa crescita della domanda».

Nel 1992, Internet ha trasportato 100 gigabyte di dati al giorno. Nel 2007, quando venne rilasciato l’iPhone, trasportava 2000 gigabyte al secondo. Oggi, muove oltre 150000 gigabyte al secondo. Misurato sulla lunghezza di un anno, si tratta di quasi cinque zettabyte, una quantità che è incomprensibile come sembra. (In forma estesa, si tratta di 5 000 000 000 000 000 000 000 000 bytes).

Negli ultimi anni, il consumo di dati annuale è cresciuto con un tasso composto di circa un quarto, e – ancora una volta in comune con il consumo materiale – i modi in cui consumiamo stanno diventando più, e non meno, dispendiosi in termini di risorse. Il futuro prossimo prevede un’onda crescente di tecnologie che necessiteranno di dati, inclusa l’intelligenza artificiale, la realtà aumentata, la realtà virtuale, le criptovalute, la demotica, le autovetture autonome e «l’Internet delle cose», che mette in rete tra loro tutti i nostri dispositivi connessi a Internet.

Non sappiamo ancora, davvero, quanto dannoso – o non danno‑ so – tutto ciò sia per il pianeta, dice Widdicks. Ironicamente, i dati sui costi ambientali dei dati non sono ottimi. Tuttavia, ci sono alcuni modelli a cui ha senso prestare attenzione. Uno è un ciclo di feedback: nuovi dispositivi digitali e servizi aumentano la domanda di dati, il che richiede network più ampi e più veloci, il che spinge la crescita delle infrastrutture Internet, come cavi in fibra ottica, centri di elaborazione dati, tralicci e dispositivi mobili. Con l’espansione dell’infrastruttura in atto, lo schema si ripete. Il risultato è un costante aumento della domanda materiale ed energetica del mondo digitale.

Internet è ancora pensato come una cornucopia, un pozzo senza fondo di abbondanza. «Molte persone non pensano davvero al fatto che Internet utilizza energia», dice Widdicks. «La gente si preoccupa di più del consumo di energia quando carica il cellulare». Nel frattempo, la domanda elettrica dell’infrastruttura digitale e dei no‑ stri dispositivi è cresciuta all’incirca del sette percento l’anno su scala globale, oltre due volte più veloce rispetto alla crescita economica. Stime prudenti indicano che circa un quinto dell’elettricità globale sarà utilizzata dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione prima della fine del decennio in corso, il che significa, ancora una volta, che per combattere il cambiamento climatico dovremmo non solo produrre abbastanza elettricità rinnovabile per sostituire quasi tutta quella che attualmente pompiamo nelle nostre vite digi‑ tali, ma che dovremo farlo sempre di più in futuro.

Widdicks suggerisce timidamente un approccio alternativo:

«Dobbiamo ridurre la domanda di connettività Internet». Un modo per farlo, abbastanza curioso, è quello di smettere di acquistare beni materiali: da un giorno all’altro, il mercato si restringe per telefoni aggiornati e dispositivi, nuove luci e docce e tostapane e automobili connessi a Internet, e anche per gli stessi dati consumati attraverso lo shopping online. Un’altra parte della soluzione è avere meno esperienze online ma di maggiore qualità.

Deve ancora essere quantificato, eppure molto di quello che facciamo online è «spreco digitale», incluse le attività che noi stessi riconosciamo come inutili o addirittura deleterie per la nostra salute o interesse personale. Combattiamo il vuoto dei sogni ad occhi aperti di quando, per esempio, aspettiamo un amico al ristorante, con la noia distratta di Internet. La nostra terminologia cattura questa condizione: siamo risucchiati in «buchi neri» di «doomscrolling» o diamo linfa vitale al «vampiro temporale» dei video in riproduzione automatica. Non ci siamo limitati a inquinare per guardare video di gatti: ora guardiamo video in streaming da mostrare ai nostri gatti.

Alcuni decenni fa, molte famiglie possedevano un solo televisore; oggi, la tendenza è il «multi watching», in cui persone differenti – o addirittura singoli individui – guardano contemporaneamente diversi programmi su dispositivi diversi. Un’altra pratica recente è il multitasking multimediale: guardare video in streaming mentre si fa shopping online, fare shopping online mentre si controllano i social media, controllare i social mentre si gioca online. Inoltre c’è il «trivial watching», ovvero guardare cose che aggiungono poco o nulla alle nostre vite – che non sono nemmeno un piacere colpevole o evasione dalla realtà. Widdicks e nove dei suoi colleghi hanno fatto un esercizio che consisteva nel «vivere con meno» sul piano digitale. Per due settimane, si sono impegnati a connettersi a Internet solo quando necessario, tramutando il consumo digitale in qualcosa di più vicino a un bisogno che a un desiderio. Ciascuno di loro ha riscontrato che parte del proprio consumo digitale – mettere musica in streaming a casa, guardare video mentre si fanno le faccende domestiche, ascoltare podcast mentre ci si allena, controllare continuamente i social media o cercare cose sul web – potrebbe essere eliminato senza alcun inconveniente o sofferenza, spesso occupando il tempo in più con la lettura, la cucina, le chiacchiere, progetti creativi o addirittura riposando o facendo il bagno. «La gente si adatta alla disconnessione da Internet», dice Widdicks.

Tuttavia ci perdona per non scegliere di astenerci. Una volta, in un periodo in cui stava scrivendo un articolo sui modelli di streaming non sostenibili sul piano ambientale, ha anche guardato in streaming nel tempo libero tutti e sessantadue gli episodi della serie televisiva Breaking Bad. «Davvero bella», mi ha detto. «E ovviamente uno dei fattori chiave dello streaming video è il modo in cui è progettato – in termini di riproduzione automatica – cosicché guardi un episodio e il successivo si carica da sé, e allora pensi, be’, magari me ne guardo un altro.»

I nostri dispositivi e servizi digitali potrebbero essere «sprogettati» per aiutarci a usare meno Internet, dice Widdicks. Invece della riproduzione automatica, ad esempio, le app potrebbero avere l’opzione di spegnimento automatico, o concedere alle persone di scegliere, durante la configurazione, un tempo massimo di utilizzo. Alcuni video streaming potrebbero essere mandati in onda dalla Tv, il che richiede molto meno dispendio energetico, e si potrebbe eliminare tutto il marketing che promuove il binging digitale. («Com’è possibile che l’eccesso in questo contesto sia valutato come neutro o addirittura positivo?», si chiede Widdicks.) Potremmo addirittura scegliere di limitare la domanda di dati per ragioni di salute o di protezione del clima. Tutte queste e molte altre idee votate al rallentamento del consumo digitale implicano lo stesso reindirizzamento della società richiesto se si smettesse di fare shopping; un allontanamento da un infinito di più, verso un senso di sufficienza.

Forse il primo luogo in cui impareremo il senso di sufficienza sarà proprio l’online. Lehdonvirta dice che il ritmo stesso della crescita e del cambiamento possibile con un consumo del tutto virtuale – quello che si verifica interamente nello spazio virtuale – potrebbe portarci a non desiderare sempre più cose.

I progettisti di videogiochi e di altri regni virtuali hanno già notato che agli utenti non piace essere sommersi da troppi beni o troppe opzioni. A differenza degli economisti del mondo reale, che si focalizzano sull’espandere il PIL, i creatori di mondi digitali sono più interessati alla soddisfazione e al divertimento degli utenti. Come risultato, tendono a mantenere stabile il PIL piuttosto che a farlo cre‑scere illimitatamente. L’eccesso di una cosa la rende meno speciale, troppe novità rendono ogni cosa nuova insignificante, e troppe cose smettono di renderci felici. Ciò che accade dopo è che non vogliamo più giocare a quel gioco.

«Il rallentamento non starà nella nostra capacità di produrre beni virtuali o di distruggerli quando non servono più, ma nel continuare a produrre beni virtuali che in qualche modo diano inizio a un nuovo ciclo do consumo», dice Lehdonvirta. «Bisogna che ci sia una sorta di limite alla capacità dei consumatori di seguire nuove mode e tendenze e di esserne entusiasti – credo che ci debba essere un qualche equilibrio. Magari si possono superare i limiti ecologici, ma dubito che ci sia, anche se in un’economia del tutto virtuale, immateriale, un desiderio di crescita infinita.»

Il giorno in cui si smetterà di fare shopping, forse potremmo davvero spostare la cultura del consumo nello spazio digitale, dove può crescere e accelerare finché non saremo finalmente pronti ad abbandonarla. Ma ecco un avviso: forse dovremo aspettare ancora un po’. L’idea che l’avidità dei consumatori un giorno arriverà al suo limite naturale, dopo tutto, non è nuova. Willian Stanley Jevons disse lo stesso sull’economia materiale, più di centocinquanta anni fa.

— Il testo che avete letto è un estratto da Il giorno in cui il mondo smette di comprare di J.B. MacKinnon.

© 2021 by J.B. MacKinnon Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Sterling Lord Literistic, Inc.

ARTICOLO n. 61 / 2021

FATHER TONGUE

father tongue (noun).

  1. separate language for expressing ideas, as opposed to the vernacular (mother tongue) which is employed for everyday speech
  2. The form of language acquired through education and reading, as opposed to the dialect one grows up speakingeducated or formal language. 
  3. second language that one speaks fluently
  4. The language spoken by one’s father, when it differs from that spoken by one’s mother

Italian is my father tongue.

According to the pioneering applied linguist Wolfgang Butzkamm, we only learn language once. In his article with John A.W. Caldwell The Bilingual Reform. A Paradigm Shift in Foreign Language Teaching he argues that the mother tongue is the greatest asset people can bring to learning a foreign language: “As we grow into our mother tongues (1) we have learnt to conceptualize our world, we have become world-wise; (2) we have become skilled intention-readers and communicators, we have learnt to combine language with body language; (3) we have learnt to articulate fluently and use our voice effectively; (4) we have acquired an intuitive understanding of grammar; (5) we have acquired the secondary skills of reading and writing. In acquiring a first language, we have in fact constructed our selves.” Having learned Italian as an adult I find this last statement fascinating. I can’t help but wonder who I’d be and how my life would be different had Italian been in fact my mother tongue.

Italian was never my father’s tongue.

When he was a boy, he came home one day find his own father arguing in some strange language with various workers who’d been hired to build an addition on the house.

Eavesdropping on the angry dispute, my father was astonished: he didn’t know his own father could speak any language other than English, let alone Italian. Who was his father? And by extension, who was he himself? “I’m Canadian,” his father told him when he asked, “you’re Canadian.”

My father’s mother tongue had been silenced.

Growing up, I knew that my great-grandfather Osvaldo had emigrated with his brothers Giacomo, Giovanni and Luigi to Fort William, Ontario, Canada (now Thunder Bay) from Azzano Decimo, Friuli around 1910, but three generations later not a word of Italian was spoken in our house. I vaguely remember helping my father’s cousin make wine once but my grandfather Bruno (who went by Bernie) frowned upon maintaining these Italian traditions. Instead, he’d adopted other, more North American pleasures: he loved to make pecan pie and didn’t complain when his wife Mary, of mostly British ancestry, used ketchup to season the spaghetti sauce. They named their children David, Marilyn, Donald (my father) and Susan. The vicious bigotry Italian immigrants faced in North America is well documented, and the assimilation of their descendants was thus inevitable. Somewhere along the way, perhaps out of shame or simply a wish to make life easier, our family name of “Del Bel Belluz” was shortened to just “Belluz.” It was a kind of self-mutilation, a scar that lasted generations. If a tongue can’t pronounce its own name, how can it cry out? How did we completely lose our identity as Italians? These are two questions I cannot adequately address here. In his elegiac book Danubio, Claudio Magris aptly describes Paul Celan’s poetry this way: “it is a word torn from wordlessness…it is the gesture of one who puts an end to a tradition and at the same time erases himself.”

I left Thunder Bay at age 18 to study violin at the University of Toronto, soon switching my major to vocal performance in my second year. I was drawn to the linguistic aspect of singing, interpreting text in different languages and portraying operatic characters on stage. I rounded out my course schedule with English literature classes and an introductory course in Italian studies where I read translations of Boccaccio, Dante, Petrarch and Machiavelli. Their voices sparked an interest but I was too busy trying to master the art of Bel Canto to let it be kindled. A large part of my rigorous vocal training included a lyric diction class where we learned the International Phonetic Alphabet and language-specific repertoire courses in French, German, Italian and English where we honed our pronunciation of the predominant languages in the classical art song and operatic tradition. I loved trying to get my tongue and lips to shape the vowels and articulate the nasal, fricative, and plosive consonants to capture the nuances of each language. And while I’d go on to perform entire operatic roles in Italian, pouring over Nico Castel’s word-for-word translations of libretti (or producing my own rough translations) to prepare these roles, the Italian language remained elusive to me for many years – a contrived phonetic performance.

Many years pass. I begin to feel an acute yearning whenever I hear someone speaking Italian. Strange voices are whispering in my veins: traditore. I can no longer ignore the (inherited?) shame I feel. I obsessively embed myself in the Italian language: podcasts, language apps, and YouTube videos. A kind of conversion happens. I start following Italian writers and musicians on social media, picking up slang and idiomatic expressions no textbook would print. I sign up for private conversation lessons and watch the classics of Italian cinema. To learn grammar, I translate the lyrics of songs by Battiato, Battisti, Dalla, Mina and contemporary artists from Francesco Bianconi and Giorgio Poi to M¥SS KETA and Mahmood.

On a trip to New York City, I make a pilgrimage to Rizzoli Bookstore, summoning the courage to approach a seller to ask in Italian for her beginner novel recommendations. Back in Los Angeles, I begin to read, frequently pausing to look up unknown words and record them in my notebook. The process is painstaking but I slowly develop a recollection of the meaning of words. The first novels to come alive for me in Italian are Natalia Ginzburg’s epistolary novel Caro Michele and Cesare Pavese’s La luna e i falò – their common exploration of identity and the longing to belong triggers a tsunami of recognition inside me.

I start to follow the contemporary literary scene in Italy and am strangely compelled to buy Luciano Funetta’s 2016 novel Dalle rovine (“From the ruins”). The voice of the narrator, a disquieting “we,” is so riveting that I quietly begin working to render it into English. I stumble through the ruins of my own Italian, each sentence a brick in this new home I’m building for myself. Or is it a prison? Either way, I find profound pleasure in the painstaking discipline of translation. 

The philosopher Paul Ricoeur’s essay Translation as Challenge and Source of Happiness articulates his concept of translation as “linguistic hospitality where the pleasure of dwelling in the other’s language is balanced by the pleasure of receiving the foreign word at home, in one’s own welcoming house.” In his article Linguistic Hospitality: Paul Ricoeur and Translation, Francisco Díez Fischer adds: “translating also means to exile oneself, to inhabit the place of the other in order to understand him. Ricoeur analyzed this paradoxical hospitality by extending it beyond the work of the translator and by turning the question of foreign languages into a question about identity.”

As an emerging translator, I spend my days tirelessly reading and translating Italian literature and navigating the impostor syndrome that threatens my professional identity (You’re not really Italian, you’ll never completely master the language, you’ve failed to capture the nuance of this word etc. etc. etc.). I accept that my recovery of Italian will forever be unfinished; I’ve barely made a dent in the Italian canon and there are always new authors to read. And yet my desire to translate is urgent and inexplicable, my exile self-imposed. I translate samples of novels that I love on spec and I pitch them to publishers with a view to being hired to translate a whole book. I submit translations of short fiction to an array of literary journals and am delighted when one gets published. It is incredibly gratifying to provide English readers with an opportunity to encounter vital, contemporary Italian voices beyond Elena Ferrante. I attend virtual translation workshops and courses, gleaning valuable feedback and honing my largely self-taught craft.  

There is a performative aspect to my translation process which I realize may simply be a way to drown out my voice of the inner impostor. Once I’ve read a full text, I go back and read each sentence of the original Italian aloud, often repeatedly, parsing meaning and weighing structure and stress just as I would when I’m learning an opera aria. I’m trying to get inside the language, to receive the author’s singular voice and imprint the vocal timbre of each character. Once I’ve written down a translation of a sentence, I read the English out loud, listening for a kind of fraternal musicality in the voicing. When I’ve finished a completed draft, I review it aloud to make sure it sings and the register matches throughout. As a singer, I have always struggled with the ephemeral nature of live performance. I can prepare my interpretation but once the performance is underway, I only have one chance to shape the phrase – there’s no going back and unless it has been recorded, no tangible evidence. There are always musical passages I wish had gone better during a performance. As a translator, I can fuss over the sentence, re-shaping it until it finally clicks into place and sings itself. The responsibility therein doesn’t come without trepidation: have I gotten it right? Again, I turn to Ricoeur: “give up the ideal of the perfect translation.” Translation is ultimately about making choices. Certain language resists translation. There is, however, great satisfaction in the act of mediation between languages, of standing between writer and reader.   

Per capire un paese
devi stenderti nelle cantine,
fare il nido nei silenzi,
lasciar affiorare i canti che hai dentro.

To understand a village
you must lie down in the cellars,
make a nest in the silences
let the songs inside you arise.


[Carmine Valentino Mosesso, La terza geografia]

In 1999, my father managed to connect with our sole surviving relative in the village of Azzano Decimo. My brother, sister-in-law and I were all living in England at the time and so my parents flew over to London and the five of us travelled there together to meet Dilio Del Bel Belluz and his wife Mirella. At the time my Italian was rudimentary at best, but an affable neighbour spoke some English, and after a pleasantly awkward conversation in their home, we wandered the local cemetery, studying the faded oval-shaped photographs on the gravestones of our ancestors; those fallen leaves of our family tree. At one point, Dilio chastened us for dropping “Del Bel” from the family name. How would he find his Canadian relatives if he needed us? His mother Marcellina was pregnant with Dilio when she and her husband Giacomo (known as El Jack) returned to Italy around 1922. Dilio proudly showed us the church of St. Giacomo in nearby Praturlone where Jack was dedicated a marble plaque as benefactor of the church and village. How strange to find that the province of Pordenone in the region of Friuli-Venezia-Giulia looked so much like Canada, that our family had always been hard-working farmers, and to hear the bells of the beautiful campanile (belltower) in Azzano Decimo which had been inaugurated over a decade after my great-grandfather emigrated. I can’t help but wonder if Osvaldo might have stayed had he heard them, overcome with ‘campanilisimo,’ a word for which there is no exact meaning in English, but which refers to the intense loyalty and love Italians feel for their town or region. I wonder if he ever questioned his decision to leave or if he ever went back to hear those clarion bells.  

Perhaps more than other European countries, the tendency of Italians to identify and define themselves by birthplace is, unsurprisingly, manifest in the country’s literature. There is as an importance of place in Italian fiction that I find alluring both as a reader and translator. I’ve visited Italy multiple times since that first family visit, north and south, and find the regional differences remarkable. I become porous in Italy, tuning in to the lyrical timbre of the language, my ear mapping dialects and imprinting the sound of these strange voices that populate the fiction I translate.

And then there are those ecstatic experiences that inform my understanding of Italy and colour my translation in ways I can’t adequately express: the sound the earth in Puglia makes as it releases the day’s heat; how time seems to stop in the Caravaggio room at the Villa Borghese. Back home at my desk, I draw from this well of first-hand experiences whenever possible, while still relying on research to accurately render these places.

Translation is transportive. I emerge from an internet rabbit hole having been enlightened on a subject or place I’d otherwise never have encountered. Recently, while on commission to translate a guide to the Royal Madhouse of Palermo originally published in 1835, a description of the kitchen’s Rumford stove led to a deep dive into methods of heat transfer and the now obsolete theory of caloric heat.

Even more than reading, translation is an act of prolonged empathy. I accompany the characters over days and sometimes months, privy to the inner workings of their hearts and minds. I’m right there at the Sagra della Seppia in Abruzzo cringing at a reverb-heavy performance of “Maladetta primavera” beside my heartbroken protagonist Paride, a failed musician who’s just limped back home from Milan and is staring down oblivion at the beginning of Alcide Pierantozzi’s novel L’inconveniente di essere amati.

The act of translation, of course, is inextricable from my quest for identity, for Italianness. But it’s also more than that. Paul Ricoeur addresses the difficulties of translation in the aforementioned essay, and suggests “comparing ‘the translator’s task,’ which Walter Benjamin speaks about, with ‘work’ in the double sense that Freud gives to that word when, in one essay, he speaks of the ‘work of remembering’ and, in another essay, he speaks of the ‘work of mourning’. In translation too, work is advanced with some salvaging and some acceptance of loss.” And so, in lieu of the recommended cellar in Mosesso’s poem above, I sit here at my computer in Toronto, trying to understand, to hear generations of ancestral voices among the torrent of words. I nest in the silence behind every word and between every sentence, letting these long-forgotten songs arise. I do not intend to have children but perhaps by translating from father to mother tongue, I can salvage some kind of linguistic legacy.

ARTICOLO n. 60 / 2021

BÉLA TARR, SANTITÀ SENZA DIO

Nella costruzione le cose restano a metà,
nella rovina tutto è fatto fino in fondo.
László Krasznahorkai

È un tardo pomeriggio di settembre, un viaggio nella profonda Irpinia, scenari tremolanti tra scure vallate e strade sassose. Odore di umido, menta e pioggia. È il tempo dell’estate morente, quando la malinconia inizia a pervadere ogni cosa. La disperata e dolce melanconia della resistenza.

Resiste ai colpi di vento la tovaglia bianca di cotone sul tavolo, sotto la grande quercia. All’improvviso la sua ombra è passata da prezioso ristoro a divenire un abbraccio cupo che mi traghetta verso la nuova stagione. Resistono i personaggi senza tempo che in queste lande desolate trovano rifugio o temporanea quiete. Come la donna apparsa sotto il cipresso, che parla da sola mentre cammina lentamente in cerchio, indossando leginocchiere. Lei davvero indossa le ginocchiere, il che la rende ancora più tragica e vulnerabile: colei che tende alla caduta. Vaneggia numeri e parole a pezzi, mentre io bevo limonata, le butto un occhio ma non me ne curo. Tutto il resto la ignora eppure al tempo stesso la accoglie perfettamente, come su un set impeccabile. Poi sparisce. Così come mille volti e storie che si susseguono senza lasciare traccia se non la religiosità del loro manifestarsi, del loro passaggio.

La luce è sempre filtrata da una spessa coltre di nuvole, una luce piatta spietata e bellissima.

La Nuova Inghilterra, l’Irpinia o l’Ungheria.

È un sentimento dello spazio che mi riporta alla memoria quando, anni fa, vidi un film di Béla Tarr. Al termine di una sequenza che pareva non avere fine – oltre 4 minuti – mi alzai in piedi battendo le mani, soffocando un grido. Ero turbata e mi sono sentita meno sola, riconoscendo ciò che il mio cuore e occhi hanno sempre saputo. E quando si riconosce, è sempre una grande epifania. Violenta ed emozionante, quindi bellissima. Era Il Cavallo di Torino.

Ho riconosciuto il presente amplificato perché anche io lo vivo così e lo capisco ogni volta che diventa lacerante, rivelatore ed infine santo. Ho riconosciuto l’ombra, la putrefazione, la costante dell’immutabilità, la disperazione che muove la vita. Ho visto raccontata nessun’altra legge se non quella del caos e del disordine, unica vera formula regolatrice del cosmo. Ho riconosciuto l’indifferenza degli elementi naturali – il vento, la pioggia – che nelle loro manifestazioni non rivelano mai niente, partecipando solo della distruzione.

Ho infine preso parte alle danze piene di miseria e poesia, ballando fino alla vertigine con quei personaggi disperati, gli stessi incontrati durante alcuni viaggi straordinari, commuovendomi ed emozionandomi, come accade quando, appunto, si riconosce.

E così Béla Tarr, provocatorio e profetico, quella sera d’inverno di tanti anni fa, divenne per sempre parte del mio Partenone. Padrino, patrono e protettore, Béla Tarr è come se mi avesse letto dentro l’anima.

La miseria che racconta è vicina a quella di Alì dagli occhi azzurri, della giungla piena di oscenità e fornicazione di Herzog, quella che si cela dietro a ogni cosa che io vedo e sento. La gloria di tale miseria sta nel suo essere sempre così prossima al disfacimento.

Béla Tarr, profondo osservatore della fragilità umana, ci restituisce il tempo del reale, asfittico e snervante eppure così ampio da stordirci. Ci trattiene nei luoghi che il più delle volte ci limitiamo ad attraversare senza mai realmente comprenderne la portata, così distratti dalla velocità del nostro tempo. Il suo è un mondo lento e apparentemente immutabile che tuttavia pullula di cose inquiete, sempre pronte al cambiamento continuo, che dialogano tra loro in un flusso caotico senza capo né coda. Finché si rivela quell’unica parabola che davvero regola il mondo vivente e che contiene in sé tutte le altre: la lotta, cioè, tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza.

L’umanità che popola l’universo/purgatorio di Béla Tarr è fatta di outsider, incapaci di contrastare lo sgretolamento del loro mondo circostante, a cui assistono inermi e a cui finiscono per soccombere. Gli spazi in cui si muovono sono sempre densi e carichi di grande materialità. Oltre quella della resistenza, c’è un’altra lotta, e cioè la tensione costante e disperata tra il bisogno di fare parte di un certo sistema di credenze e la spinta a distruggere tale sistema. Questa umanità, infatti, non prova mai vergogna né rimorso, tale è la dissoluzione di ogni moralità, tale è la rassegnazione e l’assenza di un fine. Tuttavia i suoi personaggi sembrano ancorati a un tipo di fede molto cupa, attenta ai segni e soprattutto all’apocalisse. L’intento è sempre la resistenza, ma resistere alla naturale tendenza alla rovina è appunto un tentativo inutile. Così come lo è affidarsi alla fede, che risulta sempre basata sull’illusione. L’esempio perfetto è l’apparizione del personaggio di Irimias/Jeremiah, il Messia/falso profeta di Satantango, né Satana né Dio, in quanto privo dello spessore richiesto ad adempiere ciascuno di questi ruoli. Malgrado le sue parole urgenti e quasi salvifiche, egli è semplicemente il risultato di un fraintendimento collettivo mosso dalla disperazione, rivelandosi infine per ciò che è: un’illusione, deludente e senza speranza, come tutto il resto. La dissoluzione del gruppo e il ritorno a un destino miserabile sono l’unica verità.

La natura della cinematografia di Béla Tarr rivela la stessa tensione dialettica tra stabilità e rottura; una coreografia impeccabile fatta di lentissimi movimenti di macchina, lunghi piani sequenza e la quasi assenza di montaggio, che libera il film dalla linearità, sfidando lo spettatore a stabilire le sue coordinate all’interno di un universo mentre ne contempla il suo prossimo sconvolgimento.

Nel mezzo di tutte queste lotte, c’è quella infine più importante: quella della vita che si riafferma e che chiede di essere osservata senza nessun’altra ragione che non il suo puro manifestarsi, nel suo tempo reale, denso, espanso e brutale.

Nel mezzo di queste lotte c’è dunque il presente. Il presente.

E nel presente tutto è santo, il futuro non esiste, Dio non esiste.

Bisogna saperla accogliere, però, questa santità. È alla portata di tutti ma in pochi, come Béla Tarr,hanno davvero il coraggio di fare spazio per tale esperienza. Cioè intuire il Nulla che esiste dietro il tessuto dell’Essere, e accettarlo. Solo così forse, è possibile, alleviare il tormento che viene dalla costante oscillazione tra la concretezza dell’essere e la possibilità dell’eruzione del Nulla.

Ci vuole il coraggio di essere aperti ad ospitare l’altro, il miracoloso, il caotico, il tragico nonsense della vita, le sue epifanie che ci lasciano sopraffatti. Quando si apre quella porta c’è un senso di riconoscimento; non ci si aspettano grandi rivelazioni ma piuttosto dialoghi pieni di amore e complicità con l’Altro, che sia una folata di vento, le crepe sui muri o il fango sulle scarpe. È l’istante – il presente – in cui è come se alla realtà, soprattutto nelle sue manifestazioni più banali, cadesse il velo… e all’improvviso si mostrasse per quello che è realmente: un Nulla, una misera immediatezza e nulla più, più nessun tentativo di concatenare eventi che prima o dopo di quella avranno creato un senso. No. Ogni singola cosa miracolosa il cui motivo di esistere è il suo stesso e unico esistere, così nella sua mancanza totale di ordire e senso. C’è così tanta santità nel presente.

Penso anche ad Emilia, la domestica di origini contadine di Teorema, il personaggio Pasoliniano più prossimo alla santità proprio per il suo essere:

tutta nel presente  
come gli uccelli del cielo e i gigli nei campi,  
tu non ci pensi, al domani.

Santi sono gli uomini, le donne, le bestie, non c’è nessuna distinzione.

Santi sono gli outsiders, messaggeri della terra del sacro, cioè quella al limite, aspra e selvaggia abitata dagli oppressi; santi sono i luoghi non luoghi, su cui si scivola senza mai soffermarsi, così gravi e potenti ma destinati sempre alla dissoluzione; sante sono le facce che contengono tutta la disperazione del mondo. Sante sono le vacche di Satantango, santo è l’occhio della balena e santo è il lacerante primo piano del muso del cavallo che sa di essere prossimo alla morte. Santa è la pioggia incessante. Santo è questo istante imperfetto eppure pieno di senso.

Esiste solo il presente. Dunque tutto santo nella sua caducità. Come se ogni cosa fosse solo un’apparizione, a cui ci si può accostare solo con timore reverenziale.

Per sfuggire al crollo del mondo o al diluvio in arrivo, non resta dunque altro che abbandonarci al presente. Come pare suggerire Béla Tarr, forse il miglior modo di farlo è danzando; nella danza tutti respirano allo stesso ritmo, tutti esistono nello stesso spaziotempo. Una lunga danza… e non importa che sia celebrativa o funebre, piena di speranza o disperata, inutile e dinoccolata come quella degli astri messa in piedi da Valuska. O che si tratti di un interminabile tango satanico.

Purché si danzi fino alla fine.

ARTICOLO n. 59 / 2021

LA LETTERATURA È NATURA

TRADUZIONE DI MARGHERITA PODESTÀ HEIR

Il testo che oggi vi presentiamo è una lectio che Karl Ove Knausgaard ha tenuto nel 2019 alla Fiera del Libro di Francoforte.

Eccoci qui a Francoforte, centro finanziario d’Europa noto per la sua Borsa, una delle più importanti al mondo, dove tutto ruota sulla capacità di agire rapidamente e guadagnare denaro con altrettanta velocità. Ora che ci troviamo alla Fiera del Libro, la più grande al mondo, dove analogamente si parla di vendita e acquisto, seppur di libri e limitatamente ai più recenti, di cui ogni anno se ne sfornano centinaia di migliaia, vorrei cogliere l’occasione per riflettere su una delle peculiarità più importanti della letteratura, e cioè la sua lentezza.

 Non mi riferisco alla quantità di tempo necessaria per leggere un libro, ma a quanto può durare il suo effetto nel tempo e allo strano fenomeno per cui persino opere letterarie scritte in altre epoche, con presupposti radicalmente differenti, a volte profondamente estranei ai nostri, siano ancora in grado di parlarci. Non solo, ma sono anche capaci di dirci qualcosa su chi siamo, qualcosa che altrimenti non avremmo visto, o avremmo colto in modo diverso.

 Non sono molte le caratteristiche che accomunano un villaggio spagnolo di inizio Seicento alla nostra epoca, eppure il romanzo di Cervantes Don Chisciotte della Mancia si lascia leggere anche oggi, pur per altri motivi. Quello più significativo è probabilmente il fatto che il conflitto di fondo sul quale verte l’opera è anche il nostro. Un vecchio nobiluomo che ha letto troppi romanzi cavallereschi interpreta tutto ciò che vede sotto la loro luce. Per esempio, parte all’attacco di un gregge di pecore, credendo che sia un esercito e fa lo stesso con un mulino a vento, convinto che si tratti di un gigante. Don Chisciotte è un’opera comica, ma il fenomeno, il modo in cui ciò che leggiamo o vediamo è in grado di creare una realtà propria che, se non viene corretta e in base alla quale agiamo di conseguenza, non è più comica poiché chi, seduto nelle proprie stanze, sviluppa una visione ristretta del mondo non assalta mulini a vento o pecore, ma esseri umani.

A questo punto perché non spingerci ancora più a ritroso nel tempo, all’Impero Romano, più o meno nel Sessanta avanti Cristo, quando Lucrezio scrisse la sua unica opera nota, il De rerum natura. In questo poema didascalico Lucrezio spiega come il mondo sia costituito da atomi, ma la realtà atomica di Lucrezio non è isolata, come invece ci viene presentata oggi negli articoli e nei libri di carattere scientifico, con i suoi elettroni e nuclei, campi elettromagnetici, particelle e onde. Nel poema di Lucrezio la dimensione atomica coesiste accanto al mondo così come lo vediamo ogni giorno, con le sue pianure erbose e i suoi fiumi, i suoi ponti e le sue case, le sue mucche e le sue capre, i suoi uccelli e il suo cielo. Sono due facce della stessa medaglia, senza l’una non esiste l’altra. Nel mio animo sussistono pochi dubbi sul fatto che oggi il mondo sarebbe apparso diversamente se la scienza fosse rimasta ancorata al mondo stesso e non l’avesse perso di vista, poiché in questo è implicito un obbligo, e di conseguenza una rettifica continua: non siamo più grandi del bosco, non siamo neppure più grandi dell’albero. E siamo fatti degli stessi elementi costitutivi.

Cervantes scrisse il suo primo libro quattrocento anni fa, un’opera che da quel momento in poi è stata trasportata lentamente dal fiume del tempo, comunicando cose diverse a epoche diverse. Il poema che Lucrezio scrisse più di duemila anni fa rimase a lungo nell’oblio, ma quando fu riscoperto all’inizio del Quattrocento, rappresentò un importante presupposto del nascente Rinascimento e, non solo lo si può leggere tuttora, ma continua a parlarci, a dirci cose che abbiamo dimenticato o che forse non abbiamo mai capito esattamente.

La letteratura non agisce lentamente soltanto nella storia, ma anche nel singolo lettore. Ricordo che la prima volta che ho letto la poetessa danese Inger Christensen, e in particolare il suo poema Alfabeto, era a metà degli anni Novanta, quindi venticinque anni fa. Alfabeto è un elenco di cose che ci sono nel mondo e comincia così:

Ci sono gli albicocchi, ci sono gli albicocchi

Ci sono le betulle; e le bacche, le bacche
e c’è il bromo; e l’idrogeno, l’idrogeno

ci sono le cicale; la cicoria, il cromo,
e ci sono le clementine; ci sono le cicale,
le cicale, i cedri, i cipressi, il cervelletto

ci sono i daini; i desideri, i dadi,
ci sono i delinquenti; i daini, i daini;
il deserto, la diossina e i dì; i dì
ci sono; i dì, i decessi; e le descrizioni
ci sono; le descrizioni, i dì, i decessi

Quella volta, venticinque anni fa, pensavo che questa poesia fosse bellissima, che da essa scaturisse un particolare ardore esistenziale, ma il mio non era stato che un infiammarsi momentaneo. Poi, qualche anno fa, mi è ritornata in mente. Non so perché, ma rileggendola, ha acquisito una nuova carica, un nuovo significato. Innanzitutto, perché in questo suo evocare cose, animali e piante ho percepito un dolore, come se adesso su di essi aleggiasse un’ombra. Poteva trattarsi della certezza che un giorno moriremo, lasciandoci tutto questo alle spalle, ma poteva anche trattarsi della certezza che un giorno potrebbero essere loro a morire e a lasciarci per sempre. Sono molte le specie di animali che con il passare del tempo non possiamo più dare per scontate. Secondariamente perché ho capito come la forma stessa del poema si muove intrecciando cultura e natura. Le cose che vengono elencate non sono enumerate in maniera casuale, da un lato sono strutturate in ordine alfabetico, dall’altro seguono la cosiddetta sequenza di Fibonacci, dove ciascun numero è il risultato della somma dei due precedenti: 1,1,2,3,5,8,13,21 eccetera. In natura questa serie numerica è presente ovunque, per esempio nella riproduzione delle api, nel modo in cui gli steli si ramificano, nel numero di petali dei fiori, nell’ordinamento delle spirali esistenti nelle pigne, negli ananas e nei girasoli.

Questa struttura latente, che è stata isolata dalla scienza e che la natura non conosce, ma che si limita semplicemente a seguire, appartiene tanto al misticismo quanto alla matematica e, insieme alle parole isolate dal poema che evocano singoli oggetti e singoli fenomeni, ci rende il mondo al tempo stesso familiare e alieno, sensoriale e astratto, tangibile e intangibile.

Christensen si rifà palesemente a Lucrezio. La parola che Lucrezio usava per «atomo» è la stessa che usava per «lettera dell’alfabeto». Questo valeva anche per i primi greci che scrivevano dell’atomo: anche loro utilizzavano la parola «atomo» per «lettera dell’alfabeto». Lucrezio paragona ripetutamente gli atomi alle lettere – allo stesso modo in cui le poche lettere dell’alfabeto si possono combinare secondo modalità infinite per esprimere tutto ciò che esiste tra cielo e terra, si possono combinare i pochi atomi esistenti per creare cielo e terra e tutto quanto si trova nel mezzo.

Scienza e letteratura leggono entrambe il mondo e, prima o poi, entrambe si imbattono nell’illeggibile, nel confine dove ha inizio l’incomprensibile. Una volta, in uno dei suoi saggi, Inger Christensen scrisse che questo confine sussiste dentro di noi e che nella scienza, il dialogo tra il leggibile e l’illeggibile conduce all’uso di termini come teoria del caos, frattali, superstringhe, soltanto perché ricorrere alla parola Dio parrebbe troppo pressante e invadente.

 Ogni cosa esiste una accanto all’altra
Gli atomi, le lettere dell’alfabeto, la letteratura, la scienza, il mondo.
E la conoscenza e la distruzione.

Anche il mondo, nel cui centro ci troviamo adesso, qui a Francoforte, con i suoi grattacieli e le sue automobili, il suo aeroporto gigantesco e le sue banche, si è creato lentamente e, se si vuole fissarne l’inizio, risulta fondamentale il periodo di grandi sconvolgimenti che ha contrassegnato l’Europa più o meno quando venne recuperata l’opera di Lucrezio. Fu l’umanista Poggio Bracciolini a ritrovare il testo, probabilmente l’unico esemplare esistente, e la scoperta ebbe luogo in un’abbazia tedesca a soli cento chilometri da qui, a Fulda, nel gennaio 1417. Trent’anni dopo, intorno al 1450, Gutenberg inventò il torchio tipografico. Anche questo avvenne in questa area geografica, a Magonza, a soli quaranta chilometri da Francoforte. Sempre in quest’arco di tempo in Germania prese forma la leggenda di Johan Faust, l’erudito itinerante che vendette la propria anima al diavolo e, come sapete, anche la Fiera del Libro che apre oggi risale a quel periodo: la sua primissima edizione è datata 1478.

Non è chiaro come sia nata la leggenda di Faust, ma esiste in ambito storico un Johan Faust che corrisponde alla descrizione. Si dice che sia nato due anni dopo la prima Fiera del Libro, quindi nel 1480, in un luogo chiamato Knittingen, a soli centoquaranta chilometri da qui. Johan Faust viene descritto dai suoi contemporanei come «un dotto ciarlatano che si spacciava per profondo conoscitore delle arti magiche» e che vagava da un’università all’altra della zona. Sappiamo che era a Würzburg nel 1506, a centodieci chilometri da qui, e a Kreuznach nel 1507, a centotrenta chilometri da qui. Sappiamo anche che nel 1509 conseguì un grado accademico all’Università di Heidelberg, a soli novanta chilometri da qui. Non si può quindi escludere che Faust abbia frequentato la Fiera del Libro di Francoforte.

Un altro candidato storicamente esistito sarebbe un certo Johan Fust, vissuto tra il 1400 e il 1466. Era orafo e socio in affari di Gutenberg a Magonza, a quaranta chilometri di distanza da dove ci troviamo adesso.

E il diavolo? Dov’era?

Sappiamo che almeno in un’occasione era al Wartburg, a centonovanta chilometri da qui. Intorno al 1520 il diavolo era stato visto in quel castello da un monaco che a tarda notte era intento a tradurre la Bibbia in tedesco. Il monaco si faceva chiamare Junker Jörg, in realtà il suo vero nome era Martin Lutero, che si arrabbiò a tal punto con il diavolo che lo aveva disturbato mentre lavorava da scagliargli addosso un calamaio.

È stato dunque qui, in questo mondo contrassegnato da una singolare mescolanza di superstizione e raziocinio, magia e scienza, roghi di streghe e stampa dei libri che si è costituita la realtà in cui viviamo adesso. La scoperta del torchio tipografico ha reso possibile accumulare e diffondere il sapere in un ordine di grandezza fino a quel momento sconosciuto. È stato questo il presupposto da cui è scaturita la lenta separazione della scienza dalla religione che ha mutato in modo così radicale la nostra visione del mondo e la nostra comprensione di noi stessi da risultare quasi inconcepibile l’idea che prima non fosse così.

Che cosa ci faceva qui il diavolo, cosa c’entrava nella creazione di ciò che sarebbe divenuto il nostro mondo? 

Naturalmente si potrebbe affermare che la leggenda di Faust rappresenti una narrazione protestante di carattere formativo nata durante il periodo della Riforma, dove la colpa di Faust non è necessariamente quella di ricercare il sapere, ma di farlo al di là di Dio. Per Goethe – originario anche lui di Francoforte – il peccato di Faust era profano: cercava la conoscenza senza conoscere l’amore.

È difficile però prescindere dal fatto che dove sussiste una brama di sapere, c’è anche il diavolo. È stato il diavolo, sotto forma di serpente, a tentare Eva, convincendola a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza e determinando così la cacciata degli esseri umani dal Paradiso ed era sempre il diavolo l’entità evocata da   Faust nei suoi tentativi di penetrare i segreti della natura.

Ma questo cosa significa?

Con tutte le nostre innovazioni tecnologiche, dalla stampa a caratteri mobili all’aeroplano e alla centrale nucleare, è come se ci seguisse un’ombra, invisibile, eppure percettibile perché le sue conseguenze si manifestano davanti ai nostri occhi. Karl Benz, che nel 1885 aveva costruito la primissima automobile in un garage di Mannheim, a soli ottanta chilometri da qui, difficilmente sarebbe stato in grado di prevedere che l’automobile, che avrebbe unito luoghi e persone, aperto e messo in relazione culture diverse e ampliato in maniera radicale il raggio d’azione di una vita umana, in futuro avrebbe ucciso un milione e duecentocinquantamila persone all’anno. E non sapeva neppure che le emissioni di ossido di carbonio provenienti dalle automobili avrebbero causato l’aumento della temperatura globale, contribuito a causare lo scioglimento dei ghiacci, l’elevarsi del livello del mare, la devastazione degli incendi boschivi, l’espansione delle aree desertiche e l’estinzione di specie animali.

Questo fenomeno, per cui le azioni benintenzionate di uno si trasformano in un male incontrollabile quando l’uno diventa tanti, viene chiamato dal filosofo francese Michel Serres «peccato originale». Il diabolico consiste nel fatto che, per quanto ognuno di noi desideri soltanto il bene, tutti insieme commettiamo il male.

Il diavolo è associato alla trasgressione, sì, il diavolo ne è l’incarnazione stessa. Cercare di carpire alla natura i suoi segreti più reconditi è una trasgressione ed è per questo che Faust deve cercare l’aiuto del diavolo.

Il diavolo esiste perché per noi la trasgressione è perniciosa e questa conoscenza è antica quanto la cultura stessa. Faust era rilevante nel 1500 come nel 1800, quando Goethe scrisse di lui, e negli anni Quaranta del Novecento quando Thomas Mann fece lo stesso nel suo romanzo Doctor Faustus. L’opera si apre con una scena che è mi è rimasta impressa nella memoria quando ho letto questo libro all’età di diciannove anni. Due ragazzi, dagli strani nomi di Serenius Zeitblom e Adrian Leverkühn, crescono insieme nel profondo della Germania di fine Ottocento e, all’inizio del romanzo, il padre di Adrian mostra loro alcuni esperimenti di carattere scientifico che riguardano il modo in cui potrebbe comportarsi la materia morta, inanimata qualora fosse viva. Adrian, che in seguito venderà la propria anima al diavolo, ride della reverenza che il padre nutre nei confronti dei misteri della natura, mentre Serenius rimane inorridito.

Non so perché questa scena mi sia rimasta impressa nella memoria a diciannove anni, ma so perché continuo a ritornarci: lì, in quella stanza, si incontrano ciò che è vivo e ciò che è morto, ciò che è autentico e ciò non lo è, l’alchimia e la scienza, il diavolo e la modernità. Nessuno degli elementi presenti in quella stanza è scomparso dopo che li aveva riuniti Mann, anzi, si sono addensati perché da allora è stato scisso l’atomo ed è stato isolato e localizzato il DNA, schiudendo così la possibilità di manipolare il genoma. Le opportunità che si aprono alla scienza sono enormi, si possono migliorare le piante, aumentare la produzione di cibo, coltivare organi, sì, è addirittura possibile creare una nuova vita. Si potrebbe dire che gli esseri umani sono diventati finalmente come Dio, ma in un testo antico che ha richiesto più di tremila anni per giungere qui, possiamo leggere che cosa è successo a un altro che voleva diventare come Dio:

Eppure tu pensavi:
«Salirò in cielo,
sulle stelle di Dio
innalzerò il trono,
dimorerò sul monte dell’assemblea,
nelle parti più remote del settentrione.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all’Altissimo».
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell’abisso!

O, per dirla con le parole del forse più grande poeta tedesco in assoluto, Friederich Hölderlin, nato a centosessanta chilometri da Francoforte: «Ciò che ha sempre reso la terra un inferno è stato proprio il tentativo dell’uomo di renderla un paradiso». D’altro canto, che la conoscenza e la distruzione si trovino una accanto all’altra non dice nulla sulla loro sequenza e, in una delle sue celestiali poesie, lo stesso Hölderlin scrisse anche qualcos’altro, di egualmente veritiero: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».

Nota della traduttrice. In riferimento alla poesia di Inger Christensen e alla citazione di Friedrich Hölderlin si fa fede al testo norvegese proposto dall’autore. Nel caso specifico di Christensen, per mantenere il gioco letterario delle iniziali dei vocaboli sono state utilizzate parole italiane differenti da quelle originali ma allo stesso tempo affini dal punto di vista semantico.

© 2019 Karl Ove Knausgaard
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ARTICOLO n. 58 / 2021

COS’È UN LETTORE ONNIVORO?

Mi viene chiesto di parlare di lettori onnivori. Accetto subito. Poi mi fermo. Ci penso. Cos’è, poi, un lettore onnivoro? Sono io un lettore onnivoro? Di certo, se venissi colto da una simile domanda all’improvviso – che so, da un tizio che lo chiede in un caffè o alla fine di una presentazione –, risponderei di sì, anzi un deciso «Sì certo»,tale quasi da metterlo involontariamente in imbarazzo per aver posto una domanda dalla risposta così ovvia.

La mia biblioteca racconta però una storia differente: per quanto ancora capace di far produrre l’ospite occasionale nel solito «Ma li hai letti tutti?» (la risposta da dare, com’è noto, è: «No, li ho scritti tutti»), a ben guardare – anzi pure a un’occhiata superficiale – mostra una predominanza esorbitante della narrativa sul resto, e della filosofia su quel poco resto. Il che, forse, già mi esclude dai lettori onnivori; o forse no, dato che l’espressione si potrebbe interpretare in altro modo, ad esempio come indicante il lettore che legge autrici e autori da tutto il mondo, oppure sia classici che contemporanea, o sia alta letteratura sia narrativa commerciale, o ancora quello che alla biblioteca di narrativa ne affianca una di poesia, eccetera.

Ma usciamo dalle case, e dalle biblioteche delle case, giacché fatte in realtà per parlare, in un linguaggio privatissimo, solo a chi ci abita. Per trovare un lettore onnivoro, o anche solo immaginarlo, onde poi fornirgli qualche consiglio (se mai ne ha bisogno), è lecito pensare che si debba andare in biblioteca o in libreria. Riduciamo il campo: il lettore onnivoro può essere trovato in entrambi i luoghi, ma evidentemente si forma in libreria, dato che una biblioteca, per via della catalogazione, avrà parole solo per il lettore già avveduto, onnivoro o meno che sia. Riflessione che ne impone un’altra a corollario: il lettore onnivoro già formato è anche per forza di cose avveduto. Si può immaginare, volendo, un Moloch mostruoso che si nutra d’ogni libro senza badare a cosa ci sia scritto, ma sappiamo che si tratta di una chimera, e non solo perché il numero di libri che si possono leggere in una vita è limitato, ma soprattutto perché essi imporranno la loro legge, che sia essa al rialzo o al ribasso, prima ancora di arrivare al crivello dell’ampiezza, escludendo con essa ciò che si trova sopra o sotto una certa linea di galleggiamento.

Siamo allora d’accordo che il lettore onnivoro avrà il proprio habitat specifico e il proprio spawning ground in una libreria. Condizione, questa, che potrebbe essere peggiorata da quando nelle librerie, specie se di catena, è andato decadendo l’uso di ordinare i libri per editore, in favore dell’ordinamento alfabetico per autore (più, sui tavoli, esse pure tutte mischiate, «le novità»). Favorendo ciò il lettore che entra già sapendo cosa vuole acquistare, si limitano nascita e sviluppo dei lettori onnivori, ma nelle librerie più grandi i banchi delle novità sono talmente vasti (e c’è, magari, spazio per una zona classici o per una «selezione dei librai») da permettere ancora di nutrire l’infanzia di questo specifico animale.

Andiamo però ancora indietro. Perché un tempo, quando non esisteva ancora quella compartimentazione dei generi che è poi un’idea dei venditori di libri, e ancor prima dei loro distributori, tutti i lettori nascevano potenzialmente onnivori: tutto era letteratura, e da questo si partiva. In tale momento, in cui già esisteva l’editoria di massa ma non si era ancora specializzata, due grandi basi del lettore onnivoro, almeno stando alle testimonianze di scrittori e letterati (una predilezione in alcuni casi arrivata fino alla fine del Ventesimo secolo – la pensava così, ad esempio, Bolaño) erano quei sublimi zibaldoni che prendono il nome di Pensieri (di Pascal) e Saggi (di Montaigne). Portatori di visioni del mondo che risultano tanto più antitetiche quanto più li si rilegge, avevano e hanno tuttavia in sé un cuore centrale costituito da un’idea ovvia ma vieppiù perduta: per leggere bene (neanche per scrivere: non si era ancora a questo) è necessario aver letto, poiché la letteratura, e più in generale il pensiero, altro non è che rimaneggiamento, aggiornamento, ripresentazione, corollario e correzione (e a volte plagio e imitazione, certo), e senza una base solida atta a dirimere intuitivamente le letture prima ancora di sceglierle (e per capire, dopo, i riferimenti espliciti o impliciti) non si farà altro che andar per lucciole.

Ecco, forse, la differenza tra il potenziale lettore onnivoro di ieri e il potenziale lettore onnivoro di oggi. Un tempo era pacifico che qualunque vita di letture, al di là delle Scritture, prendesse le mosse dai classici, nel senso di classici greci e romani, andasse poi come andasse. Oggi il potenziale lettore onnivoro che non abbia ricevuto una formazione prettamente letteraria (ma chi, oggi, riceve una simile formazione? Forse solo chi ha la fortuna di nascere in una casa in cui c’era già un lettore onnivoro, e di ereditarne dunque volumi e approccio) rischia, soprattutto, di non saper da che parte cominciare.

È l’esperienza a confermarmi quest’impressione: capita spesso che un amico, lettore forte o almeno volenteroso (ma occupato in tutt’altre questioni che non gli permettono certo di seguire tutto quel coacervo di inserti, riviste e blog che rende possibile essere plausibilmente informati sulla cosiddetta attualità letteraria), mi mandi un messaggio che dice «sono in libreria: cosa compro?». Il lettore potenzialmente onnivoro si ritrova ogni volta ubriacato dall’apparente sovrappiù d’offerta, ammutolito dalla (dis)organizzazione dei volumi col loro assurdo ordine alfabetico, e ulteriormente confuso dalla quasi totale esplosione del rapporto tra collane e qualità attesa dei testi: ormai da tempo e volentieri i marchi più prestigiosi hanno accettato il do ut des con chi può garantire un certo venduto, e la collana di una major, a prescindere dalla sua gloria passata, può contenere di tutto, cosa che finisce per scoraggiare il potenziale lettore onnivoro qualora becchi – e può accadere – la sciocchezza invece del capolavoro. Forse viene da questo, e solo da questo, la reputazione scintillante del marchio Adelphi: è rimasta l’unica casa editrice in cui, anche pescando a caso, si può trovare un libro bello o meno bello, ma mai una sciocchezza.

Questo processo, nemico del lettore onnivoro, si sviluppa su più piani: non ci sono, infatti, soltanto libri pessimi che finiscono in buone collane o in buoni editori solo perché vendono (o perché potrebbero farlo), o quei romanzi rosa con packaging letterario che tanta fortuna hanno in questi anni. C’è anche un secondo livello, più insidioso (almeno per il potenziale lettore onnivoro): quello rappresentato dagli autori di medio rango che vendono e sembrano sufficientemente letteratura da non far vergognare chi li legge o se li porta in giro, e che verranno ineludibilmente presentati come i libri da leggere (e vale lo stesso per certa saggistica di divulgazione). Libri che per la maggior parte si leggono, si leggono eccome, ma in ultimo senza vero entusiasmo. E quando decade l’entusiasmo, il lettore onnivoro rischia di non nascere.

È forse allora necessario alzare presidî proprio in quel punto. Lì che dovrebbero agire le recensioni su giornali e riviste (spesso lo fanno, ma altrettanto spesso agiscono in favore delle dinamiche editoriali di cui sopra) e la critica accademica (che lo fa anche più spesso, ma muovendosi con tempi che non possono incidere su quelli ossessivi e assetati di turnover della distribuzione), o ancora le Classifiche di Qualità, per citare un dispositivo a me caro che cerca di dar mano a disincantare le fate morgane del midcult. Si sa però che il lettore (onnivoro o meno che sia) è sensibile prima di tutto al passaparola, e quindi, prima ancora che recensire, analizzare e classificare, è necessario parlare, parlare, parlare di quali sono i libri davvero belli, di dove si muova, oggi, il fronte d’onda della letteratura.

Chi non ha mai sentito questo o quello dire che «non si fanno più libri belli»? La stessa persona reagirà con stupore se le si fanno i nomi, che so, di Mathias Énard (appena uscito per E/O il suo, splendido, nuovo romanzo, Il pranzo annuale della confraternita dei becchini), Olga Tokarczuk (nonostante il Nobel!), Georgi Gospodinov, László Krasznahorkai o Mircea Cărtărescu, solo per citare cinque che questo fronte d’onda lo cavalcano in modo incontestabile (eppure, a parte il francese, fare i loro nomi, visto anche il suono esotico, verrà preso dai più come uno sketch sullo stile di quello di Aldo, Giovanni & Giacomo sul mattone polacco, minimalista, di scrittore morto suicida giovanissimo).

Insomma, se in questa sede si può affermare senza troppo tema di smentita che il libro più importante uscito quest’anno è Solenoide del succitato Cărtărescu (traduzione di Bruno Mazzoni), non sarà così facile far capire al potenziale lettore onnivoro che deve davvero andare in quella direzione. Che dire del più importante recupero dell’anno, Dizionario dei Chazari di Mirolad Pavić (nella nuova traduzione di Alice Parmeggiani)? Forse sto uscendo dai binari, sovrapponendo questo potenziale lettore onnivoro a tutt’altro: a uno specificamente avveduto lettore di narrativa; o forse a una sorta di mio lettore ideale.

Torniamo allora ai libri di pensiero capaci di traversare le discipline: che sia lì la risposta? Di certo alcuni autori ci stanno tornando: allora al lettore onnivoro si potrebbe consigliare, al posto di Pascal o Montaigne, Economia dell’imperduto di Anne Carson, portato in Italia da Utopia l’anno scorso (nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli), in cui gli strumenti della poesia e della critica letteraria vengono usati per parlarci del rapporto tra beni e merci, o L’impensato – Teoria della cognizione naturale di N. Katherine Hayles, appena uscito da effequ (traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini), dove la scienza della mente si incrocia con la critica culturale per raccontarci le nuove modalità cognitive che definiranno il «mondo a esperire». Oppure, ancora da Utopia (che formare lettori onnivori sia utopico?), l’imminente Le cose che abbiamo visto di Luís Fernandez Mallo, che lettore onnivoro lo è di certo, vista l’ampiezza dei suoi riferimenti e delle sue citazioni, che lo portano, nei suoi vertiginosi giochi di rimandi e citazioni, a creare una letteratura onnivora. Il suo primo approdo in Italia, con una traduzione Neri Pozza del primo volume della sua «trilogia della Nocilla», non fu fortunato; speriamo che stavolta trovi i lettori che merita, e vedremo, poi, se saranno onnivori o d’altro genere.

ARTICOLO n. 57 / 2021

LA SOLITUDINE UCCIDE

TRADUZIONE DI LUIGI MUNERATTO

«Mi fa male la gola. Brucia. Mi fa davvero male. Non posso andare a scuola».

È il 1975. La radio trasmette «Bohemian Rhapsody», Margaret Thatcher è da poco diventata leader dell’opposizione, la guerra del Vietnam è appena finita e questo è il mio sesto attacco di tonsillite dell’anno.

Mia madre mi porta di nuovo dal dottore. Di nuovo mi fa prendere il Penbritin, quell’antibiotico stucchevole dal sapore di zucchero filato e semi di anice. Di nuovo mi schiaccia una banana e mi grattugia una mela – è tutto quello che posso mangiare con la gola in fiamme. Di nuovo non vado a scuola.

Per me il 1975 è l’anno dei continui mal di gola e dei nasi che colano, oltre che dei ripetuti attacchi di febbre. È anche l’anno in cui Sharon Putz spadroneggia nella mia scuola elementare. L’anno in cui mi sono sentita più isolata, esclusa, sola. Ogni giorno, durante l’intervallo, me ne stavo in disparte, a guardare dal lato opposto del cortile gli altri bambini che saltavano e giocavano a campana, sperando che mi chiedessero di unirmi a loro. Non l’hanno mai fatto.

A prima vista, collegare la solitudine che provavo allora con le mie ghiandole gonfie e la mia gola di carta vetrata potrebbe sembrare forzato. Ma si è scoperto che la solitudine ha manifestazioni corporee. E un corpo solo, come vedremo in questo capitolo, non è un corpo sano.

Corpi soli

Ripensate all’ultima volta in cui vi siete sentite soli. Può anche essere stato per un breve periodo. Come lo sentivate nel vostro corpo? Dove lo sentivate?

Spesso pensiamo che una persona sola sia passiva, calma, silenziosa. In effetti, quando molti di noi ricordano i periodi più soli della propria vita, non rievocano subito un cuore che batte forte, pensieri che si rincorrono o altri tipici segni di una situazione di forte stress. La solitudine evoca piuttosto l’idea di staticità. Eppure la presenza chimica della solitudine nel corpo – dove risiede e quali ormoni fa scorrere nelle vene – è essenzialmente identica alla reazione di «attacco o fuga» che abbiamo quando ci sentiamo minacciati. È questa risposta allo stress ad alimentare alcuni degli effetti più insidiosi della solitudine sulla salute. Possono essere profondi e, nei casi peggiori, anche mortali. Quando parliamo di solitudine, quindi, non stiamo parlando solo di menti sole, ma anche di corpi soli. Le due cose sono naturalmente interconnesse.

Questo non significa che i nostri corpi non siano abituati a reagire allo stress – ne facciamo esperienza abbastanza spesso. Un’importante presentazione di lavoro, un grosso rischio corso in bicicletta, guardare la nostra squadra subire un rigore, sono tutti comuni fattori di stress. Ma di solito, quando la «minaccia» si esaurisce, i nostri segni vitali – battito, pressione sanguigna, respirazione – ritornano alla normalità. Siamo al sicuro. In un corpo affetto da solitudine, invece, né la reazione allo stress né, soprattutto, il ritorno alla normalità avvengono come dovrebbero.

Quando un corpo solo subisce uno stress, i livelli di colesterolo si alzano più velocemente che in un corpo non solo; la pressione sanguigna si alza più velocemente; i livelli di cortisolo, «l’ormone dello stress», si alza più in fretta. Inoltre, questi momentanei aumenti di pressione sanguigna e colesterolo si accumulano nel tempo per coloro che sono cronicamente soli, con l’amigdala – la parte del cervello responsabile di quelle reazioni di «attacco o fuga» – che spesso mantiene attivo il segnale di «pericolo» molto più a lungo di quanto non farebbe normalmente. Questo porta a un incremento della produzione di globuli bianchi e di infiammazioni, che nei periodi di stress acuto può essere di grande aiuto, ma se mantenuto per periodi più lunghi ha effetti collaterali devastanti. Se infiammato cronicamente, infatti, e con il sistema immunitario sovraccarico e poco efficiente, un corpo solo è soggetto ad altre malattie che di solito sarebbe in grado di combattere molto più facilmente, tra cui il raffreddore, l’influenza e la mia antica nemesi del 1975, la tonsillite.

È anche più soggetto a malattie gravi. Se si è soli, si ha un rischio di malattie coronariche maggiore del 29%, un rischio di ictus maggiore del 32% e un rischio di sviluppare demenza clinica maggiore del 64%. Se ci si sente soli o si è socialmente isolati si ha quasi il 30% di probabilità in più di morire prematuramente rispetto a chi non lo è.

Se è vero che più a lungo siamo soli più l’impatto sulla nostra salute è dannoso, anche periodi di solitudine relativamente brevi possono avere un impatto negativo sul nostro benessere. Quando un gruppo di ricerca della Johns Hopkins University di Baltimora ha condotto uno studio negli anni ’60 e ’70 che ha monitorato dei giovani studenti di medicina per sedici anni, il gruppo in esame ha messo in luce uno schema rivelatore: gli studenti che erano stati soli durante l’infanzia, a causa di genitori freddi e distaccati, avevano più probabilità di sviluppare diversi tipi di cancro in seguito. Un più recente studio del 2010 condotto su persone che avevano vissuto un periodo di solitudine, in questo caso provocato da un evento specifico come la morte di un partner o il trasferimento in un’altra città, ha rivelato che anche se la loro solitudine era temporanea (in questo caso meno di due anni) la loro aspettativa di vita era diminuita. Considerando il periodo di isolamento forzato che la maggior parte di noi ha vissuto nel 2020, tutto questo fa suonare un campanello d’allarme.

Torneremo sul perché la solitudine provochi danni così gravi nei nostri corpi. Ma prima consideriamo quella che è per molti versi l’antitesi della solitudine – la comunità – e il suo impatto sulla nostra salute. Se la solitudine ci fa stare male, sentirci legati agli altri ci mantiene in salute?

L’enigma della salute haredi

Burroso, cremoso, salato, dolce. Il ruggaleh mi si scoglie in bocca. Come anche il mio primo morso di «jerbo», una torta tradizionale ebraico‑ungherese ricoperta di cioccolato, noci e marmellata di albicocche. Sono al Katz’s Bakery di Bnei Brak in Israele, una delle più celebri tappe del tour di cucina haredi.

Gli haredim sono un ramo ultra‑ortodosso dell’ebraismo, le cui origini risalgono alla fine del XIX secolo. Oggi questa comunità con il cappello nero, la camicia bianca e l’abbigliamento pudico rappre‑ senta circa il 12% della popolazione di Israele, un dato che potrebbe arrivare al 16% nel 2030. Trovo che tutti i dolci di Katz’s siano assolutamente deliziosi. Ma queste prelibatezze non sono certo salutari. In effetti tutto quel burro, quello zucchero e quei grassi aiutano a spiegare perché gli haredim abbiano una probabilità di obesità sette volte maggiori rispetto agli ebrei israeliani laici. Quando chiedo a Pini, lo spiritoso ebreo haredi che guida il tour, quanta verdura e fibre ci siano nella dieta tradizionale haredi, mi risponde che sono limitate. La dieta non è l’unico aspetto poco salutare del loro stile di vita. Pur abitando in un paese che ha una media di 288 giorni di sole all’anno, questo gruppo ha una grave carenza di vitamina D. Il loro codice di abbigliamento pudico fa sì che a malapena i polsi vengano esposti al sole. E per quanto riguarda l’esercizio fisico? Tutto ciò che richiede sforzo tende a essere evitato. Secondo tutti gli standard moderni, Pini e i suoi compagni decisamente non conducono una vita sana.

Non sono nemmeno finanziariamente stabili. La maggior parte degli uomini sceglie di abbandonare la forza lavoro per studiare la Torah, e se è vero che il 63% delle donne haredim ha un lavoro, spesso dovendo mantenere le rispettive famiglie, esse tendono a lavorare meno ore delle donne non ortodosse a causa delle loro considerevoli responsabilità in casa (la donna haredi media ha 6.7 figli, tre in più della media nazionale di Israele). Inoltre, spesso lavorano in ambiti quali l’insegnamento, dove la paga è relativamente bassa. Di conseguenza, più del 54% degli haredim vive al di sotto della soglia di povertà, rispetto al 9% degli ebrei non haredi; il loro reddito mediomensile pro capite (3500 shekel), è inoltre la metà di quello della loro controparte ebrea meno religiosa.

Considerati tutti questi fattori, ci si aspetterebbe che gli haredim abbiano un’aspettativa di vita più breve del resto della popolazione israeliana. Dopotutto, la stragrande maggioranza degli studi da tutto il mondo mostra una chiara e sicura correlazione tra dieta e longevità, attività fisica e longevità e anche tra condizione socio‑economica e longevità.

Eppure, in modo affascinante, gli haredim sembrano contrastare questa tendenza; il 73,6% degli haredim descrive la propria salute come «molto buona», rispetto ad appena il 50% degli altri gruppi. È una statistica che potremmo essere tentati di ignorare in quanto autodichiarata e frutto di un autoconvincimento, se non fosse per il fatto che la loro aspettativa di vita è effettivamente più alta della media. Le tre città in cui vivono la maggior parte degli haredim di Israele – Bet Shemesh, Bnei Brak e Gerusalemme – hanno tutte valori anomali per quanto riguarda l’aspettativa di vita. A Bnei Brak, la cui popolazione è per il 96% haredi, l’aspettativa di vita alla nascita è di ben quattro anni superiore di quanto suggerirebbe la classificazione socio‑economica della città. Nel complesso, gli uomini haredi in queste città vivono tre anni in più e le donne quasi diciotto mesi in più di quanto ci si aspetterebbe. Altri studi hanno rilevato che, anche in quanto alle misure di soddisfazione della vita dichiarate, ottengono un punteggio più alto rispetto agli ebrei israeliani laici o moderatamente osservanti o agli arabi‑israeliani.

Certo, potrebbe essere che questa comunità, in cui molti provengono dagli stessi shtetl in Polonia e in Russia e spesso si sposano tra loro, condivida un particolare corredo genetico che li predispone a una buona salute. Ma in realtà è molto più probabile che la limitazione di un patrimonio genetico nel tempo porti a disturbi genetici piuttosto che alla longevità della popolazione.

Si potrebbe anche supporre che gli haredim siano più sani grazie alla loro fede, dati i molteplici studi che suggeriscono che il credo religioso abbia un impatto positivo sulla salute. Tuttavia, si pensa che non sia tanto il credo in sé quanto la partecipazione alla comunità connessa a questo credo a portare a questo risultato. Come suggerisce uno studio molto citato, è la partecipazione alle funzioni religiose, non la semplice identificazione in quanto religioso, che può aggiungere ben sette anni all’aspettativa di vita.

La comunità, il cui valore è stato così ripudiato dall’accento che il capitalismo neoliberista ha posto sull’individualismo e sugli interessi personali, sembra avere di per sé un beneficio sulla salute. E, per gli haredim, la comunità è tutto.

Questo gruppo coeso trascorre virtualmente tutte le ore del giorno insieme a pregare, fare volontariato, studiare e lavorare. Il loro anno è scandito da giorni sacri e festivi in occasione dei quali la comunità si riunisce. Per il Sukkot, le famiglie accolgono gli ospiti nelle loro sukkah, costruzioni temporanee con tetti di foglie di palma in cui dormono e mangiano per una settimana. Per il Purim, le strade si riempiono di festaioli in costume – l’atmosfera è una combinazione tra Martedì grasso e Halloween. Per l’Hannukkah, i vicini, gli amici e gli amici dei vicini si riuniscono per accendere la menorah e mangiare ciambelle alla marmellata. Matrimoni, Bar Mitzvah e funerali riuniscono folle di persone per giorni e giorni. E naturalmente ogni venerdì sera una schiera di nipoti, cugini di primo e secondo grado e suoceri si raccolgono intorno alla tavola per spezzare il pane e dare inizio al Sabbath insieme.

Gli haredim non si limitano a pregare e giocare insieme, comunque. In tempi di crisi o necessità si prestano concretamente aiuto e sostegno l’un l’altro. Che si tratti di badare ai bambini, di cibo, di trasporto per visite mediche, di consigli, anche di aiuti economici se necessario, sono sempre presenti l’uno per l’altro quando i tempi sono duri e la vita è difficile. Non sorprende quindi che solo l’11% dichiari di sentirsi solo, rispetto al 23% della popolazione totale di Israele.

Dov Chernichovsky, professore di economia e politica sanitaria all’Università Ben Gurion del Negev in Israele, studia gli haredim da diversi anni. È convinto che se anche la fede gioca un ruolo nell’aspettativa di vita sopra la media degli haredim, i loro stretti legami familiari e comunitari ne giochino uno più cruciale. «La solitudine accorcia la vita e l’amicizia riduce la pressione», afferma concisamente il professore. Per gli haredim, la cura e il supporto che si forniscono l’un l’altro potrebbero effettivamente essere il segreto per una vita più lunga e più sana.

I benefici della comunità sulla salute

Gli haredim non sono l’eccezione in questo senso. I benefici della comunità sulla salute sono stati identificati per la prima volta negli anni ’50 nella piccola città di Roseto, in Pennsylvania, quando i medici locali hanno notato che gli abitanti avevano un tasso di malattie cardiache molto più basso di quello di una simile città vicina. Dopo ulteriori indagini hanno scoperto che gli uomini di Roseto di più di 65 anni avevano un tasso di mortalità che era la metà della media nazionale, anche se avevano un lavoro massacrante nelle vicine cave, fumavano sigarette senza filtro, mangiavano polpette intrise di lardo e bevevano vino ogni giorno. Perché? I ricercatori hanno concluso che erano i solidissimi legami familiari e il sostegno della comunità prevalentemente italoamericana di Roseto a fornire un maggior beneficio sulla salute. Uno studio successivo del 1992, che ha esaminato ben cinquant’anni di documentazione sanitaria e sociale, ha trovato ancora più prove a sostengo di questa tesi. Nel frattempo, il tasso di mortalità a Roseto era aumentato fino a raggiungere la media a causa dell’«erosione dei rapporti familiari e comunitari tradizionalmente coesi» dalla fine degli anni ’60 in avanti. Mentre i più ricchi iniziavano a mostrare la propria ricchezza in modo sempre più ostentato, mentre i negozi locali chiudevano a causa dell’arrivo di più grandi «superstore» fuori città e mentre spuntavano case monofamiliari con giardini recintati al posto delle abitazioni multigenerazionali, i benefici della loro comunità a protezione della salute si disperdevano. Altri esempi di comunità coese che preservano la salute dei propri membri includono gli abitanti della Sardegna e dell’isola di Okinawa in Giappone, nonché gli Avventisti del Settimo Giorno di Loma Linda, in California. Queste aree geografiche sono note come «Zone blu»: luoghi in cui non è solo la dieta a contribuire all’aspettativa di vita particolarmente lunga, ma anche il fatto che i legami sociali sono forti e durevoli. Luoghi come Bnei Brak o Roseto negli anni ’50 dove, come ha detto Dan Buettner, il membro di National Geographic che ha coniato il termine, «Non puoi uscire dalla porta di casa senza imbatterti in qualcuno che conosci».

È importante non essere troppo romantici quando si parla di comunità. Le comunità sono esclusive per definizione, e come tali possono essere sia eccessivamente chiuse che ostili nei confronti degli estranei. Spesso non ammettono diversità o anticonformismo, che si tratti di interessi diversi, strutture familiari non tradizionali o credenze e stili di vita alternativi. Nel caso degli haredim e degli Avventisti del Settimo Giorno, per esempio, chi non si attiene alle norme della comunità scoprirà che la scomunica può essere brutale e brutalmente rapida.

Eppure, per coloro che si trovano all’interno dell’enclave, la comunità apporta chiaramente dei benefici alla salute. Questo non deriva solo dal supporto pratico che la comunità fornisce o dalla garanzia di sapere che qualcuno ti copre le spalle, ma anche da qualcosa di più sostanziale che ha origine nel nostro profondo passato evolutivo: il fatto che siamo programmati per non stare da soli.

© Noreena Hertz, 2020

— Il testo che avete letto è un estratto dal secondo capitolo del Secolo della solitudine di Noreena Hertz (il Saggiatore, 2021)

ARTICOLO n. 56 / 2021

C’È ANCORA SPAZIO PER LE NOSTRE OPINIONI?

Quando non ci sono le opinioni, non c’è dibattito, e quando non c’è dibattito o c’è conformità o c’è indifferenza. Secondo me, in Italia, siamo in questa situazione: un misto di conformità e indifferenza. È proprio per questo che oggi voglio parlare di opinioni, della scrittura e dell’esprimersi più generalmente come un gesto di dialogo collettivo e quindi di impegno socio-politico.

Per arrivare a parlare di opinioni parto però da tre premesse, da esperienze personali che ho vissuto negli ultimi mesi, che mi hanno dato spunti di riflessione e mi portano oggi a scrivere un pezzo proprio su questo tema.

Pochi mesi fa ho pubblicato il mio primo libro, Volti d’Italia, un saggio di attualità basato su un viaggio che ho fatto nel 2019 attraverso la nostra penisola intervistando gli italiani più disparati alla ricerca della nostra italianità, dei problemi e soluzioni, di una direzione comune come Paese. Insomma, è un un libro che cerca di far parlare la collettività e di rispolverare la voglia di partecipazione per cambiare il nostro Paese. Un approccio che va in controtendenza all’individualismo che domina sempre più la nostra società. Un individualismo che condanniamo a parole ma in fondo ci sta comodo, visto che richiede meno coraggio e messa in discussione che un’implicazione vera nella società in cui viviamo. Ed infatti una prima premessa è questa: l’affermazione sempre più forte dell’individualismo come chiave predominante di scrittura, lettura e confronto nel nostro Paese.

Nella vita ho fatto tutt’altro finora, sono una manager, un’esperta di relazioni e politiche internazionali. Sono quindi nuova al mondo dell’editoria. Per capirci penso ancora che si stia parlando di qualcun altro quando le persone mi presentano come una scrittrice. Ho anche pubblicato negli ultimi anni alcuni articoli nelle testate dei gruppi GEDI e del Corriere della Sera, ma sono nuova anche al mondo del giornalismo: chiaramente non sono una giornalista, scrivo su temi a cui tengo e di cui sono esperta per creare un dibattito, una riflessione, un confronto e – nel mio piccolo – influenzare l’opinione pubblica e dei politici. E, oltre che al mondo dell’editoria e del giornalismo, mi posso dire anche nuova rispetto alla cultura lavorativa italiana in senso più largo. Ho fatto la maggior parte dell’università all’estero, mi sono formata nelle scuole di politica francesi e americane – Sciences Po e Harvard – e soprattutto ho lavorato fino a un anno fa, quando sono tornata in Italia per un ruolo all’interno della Presidenza italiana del G20, esclusivamente all’estero – tra Africa, Medio Oriente, gli Stati Uniti e vari Paesi europei.

Faccio questa seconda premessa perché aiuta a spiegare la mia confusione quando sono diventata parte del mondo del lavoro italiano, tra cui quello dei giornali e dell’editoria, e ho trovato un Paese fatto a scatole. «Sei giovane, quindi non sei una manager», «sei un’analista, quindi va bene la parte dei dati ma cancella la tua opinione», «sei un’intellettuale, quindi non dare opinioni politiche o partitiche sennò diventi di parte», «non sei una giornalista, quindi non puoi…» e così via. Insomma, da quando sono tornata percepisco un bisogno delle persone di «classificarmi» in qualche etichetta, con un ruolo e soprattutto dei limiti precisi: devi essere o carne o pesce e comportarti come si comportano gli altri della tua categoria. Sicuramente influenzata dalla mentalità americana e nordica dove ognuno può essere e diventare quello che desidera, tramite il lavoro duro, il merito e la competenza, ho imparato a essere quello che mi pare, senza dover scegliere tra carne e pesce. E sento che la mia forza sta proprio nel mio profilo ibrido, eclettico, non lineare – caratteristiche che invece disorientano molti in Italia perché non rientro nel rigido sistema settoriale. Ecco, da questo ne evinco un secondo concetto: la nostra cultura lavorativa è dominata da scatole, da settori rigidi e un po’ vecchio stampo, con poca ibridazione e dialogo tra di loro, il che impatta la nostra capacità di confronto e quindi di innovazione, di creatività, come italiani e come Paese.

La terza e ultima premessa ha invece a che fare con le opinioni e gli opinionisti. Mentre scoprivo confusa questo processo di inscatolamento mi sono accorta che – in qualsiasi scatola venissi messa – esprimere il mio impegno e la mia opinione su temi di cui sono esperta (nel senso di conoscenza o esperienza) o a cui tengo era una cosa da evitare due volte su tre: i giornalisti riportano e analizzano le notizie, gli analisti danno i dati ma non le policies, gli intellettuali danno idee alte e teoriche – rigorosamente pure per non cadere nei giochetti politici, i manager tendono a non esprimersi per non compromettere le loro aziende o posizioni, e i politici – loro sì – danno la propria opinione, ma grazie alla sfiducia accumulata negli anni si assume in genere che venga da chissà quale interesse egoistico e quindi non gli si dà una legittimità intrinseca. A parte qualche eccezione – di cui vi parlo tra pochissimo – ho l’impressione che in pochi danno (che si declina in: siano autorizzati a dare, gli sia dato lo spazio di dare, abbiano il coraggio di dare) la propria opinione o parlano del proprio impegno. Da questa terza premessa traggo un terzo concetto, il lusso o la rarità delle opinioni, o almeno di opinioni nel senso in cui le intendo io.

Insomma faccio queste premesse per arrivare quindi all’opinione in sé. Se si guarda ai pochi che hanno la legittimità, lo spazio e quindi una voce da dare alle proprie opinioni, ci sono vari aspetti che con la mia prospettiva forse un po’ da «esterna trovo problematici.

Il primo riguarda la mancanza di diversità. Questi pochi, chiamiamoli «i guru» dell’opinionismo che girano tra TV, radio e giornali, si contano sulle dita di due mani e sono – guarda caso – quasi tutti uomini, ultracinquantenni, etero e bianchi. Ne ammiro alcuni e altri meno, ma questo non toglie che sono un gruppo ristretto e omogeneo che detiene il potere dell’opinionismo: non sono rappresentativi della nostra società e tutt’oggi lo spazio in TV, sui giornali, o alla radio, non viene dato sufficientemente a donne, giovani, persone LGBTQ+, italiani di seconda generazione, migranti e cosi via. Precisiamo, non parlo di show di intrattenimento, ma di dibattiti sociali e politici di livello. Le donne (in parte io inclusa) sembrano relegate ai magazine femminili dove, nonostante il grande lavoro che stanno facendo varie direttrici di questi settimanali, rimane comunque un dibattito prezioso ma tra donne, e i giovani si sono costruiti un mondo dell’informazione parallelo sui social. E così il confronto tra generazioni, generi, gruppi di maggioranza e minoranza viene a mancare. E su questo ho un’opinione molto netta: senza questa diversità si ascolta metà della storia, si perdono prospettive e visioni fondamentali per discutere o risolvere qualsiasi tema che si affronta.

Il secondo aspetto problematico ha a che fare proprio con il concetto di opinione. Quando questi guru condividono le loro opinioni nei vari talkshow o sui giornali o quando gli influencer lo fanno sui social, ho l’impressione di trovarmi davanti ad un confronto il cui scopo non è dibattere, entrare in una dialettica per far avanzare la riflessione collettiva e sviluppare il senso critico, ma piuttosto dare spazio a un susseguirsi di affermazioni, ognuna rigorosamente distaccata dall’altra, che hanno l’obiettivo di dimostrare che si ha ragione e l’altro ha torto o semplicemente di mettersi in mostra.

E, non ultimo, vedo un terzo problema, una sorta di accanimento terapeutico: a poche personalità, quelle che spiccano, gli si chiede opinioni su tutto, dal governo che cade alla guerra in Afghanistan, dal rapimento di un bimbo all’ennesimo femminicidio, dal cambiamento climatico all’ultima partita di calcio. Ai miei occhi c’è un preoccupante distacco tra il mondo dell’opinione e quello della competenza.

Insomma, torniamo quindi al punto di inizio. Con delle opinioni nella maggior parte dei casi non rappresentative della nostra società, elargite non per dialogare ma per asserire l’individualità, e troppo spesso distaccate dalla competenza o dall’esperienza di chi le dà, ci ritroviamo in un Paese che ha un vuoto di opinionismo nel senso vero. Un Paese che ha troppa poca capacità di confronto e dialogo tra generazioni, tra generi, tra settori. Dove un gruppo ristretto e omologato detiene e mantiene il potere di influenzare l’opinione pubblica – spesso tramite scontri più che confronti, restituendo un modello e un ragionamento a cui manca la forza della dialettica intrinseco alla diversità. E il risultato è che una persona come me, come cittadina, come «giovane» (a 34 anni lo sono solo per gli standard italiani), come donna, come esperta di certe tematiche, come scrittrice, trova spazi per spiccare (e già questa è un’eccezione visto la situazione dei giovani in Italia) ma non trova facilmente occasioni per confrontarsi con altri e contribuire al dibattito intellettuale e politico.

Questo spazio rimane ostaggio di vecchi schemi e paradigmi. Tornando in Italia ho trovato infatti una cultura lavorativa, una cultura del pensiero e un sistema Paese disfunzionale, rotto. Ci sono tante eccezioni, tante persone che cercano di cambiare lo status quo, ma di fatto siamo ancora in un grande cortocircuito dove non si riesce a costruire ed evolvere insieme, dove non viene dato lo spazio che si meritano la competenza, i giovani, le donne, insomma gli esperti non-omologati per generare un confronto diverso, vero. Senza questo spazio di ibridazione, di riflessione collettiva e non individuale, di confronto tra gruppi diversi e non omologati, uno spazio che parte e passa dai libri, dai giornali, dai social, dalla TV, dai podcast e dalla radio, dalle scuole, dalle case e dai bar, rimarremo in questo grande corto circuito di immobilità ed indifferenza, di conformità e frustrazioni.

Lasciare il potere (è un potere grande quello di poter influenzare l’opinione pubblica e politica) per chi lo detiene, e pretendere di averlo per chi invece non lo ha mai avuto e non sa di meritarlo, è la dinamica più difficile da cambiare. Ma bisogna cambiare paradigma partendo proprio da questo punto: rispolverare il senso vero delle opinioni, dando spazio e legittimità a chi ha le competenze, la voglia di contribuire e dialogare, per immaginare insieme il futuro e costruire un Paese diverso.

ARTICOLO n. 55 / 2021

RIPENSARE LA MASCOLINITÀ

«Niente roba omo», afferma il ragazzo, appena visibile nella luce fioca della stanza, reggendo delicatamente il mio piede tra le mani. Con i suoi 1,88 m di altezza da riserva del basket di seconda divisione, è inginocchiato di fronte a me, che sto seduto sul suo letto, il piede sollevato poco sopra il tappeto. La testa piegata fa risaltare il ghirigoro della rosa tracciata dai capelli, il sudore tra i follicoli che cattura la luce del crepuscolo autunnale attraverso la finestra. Tutto è possibile, pensiamo, con il corpo. Con il linguaggio, però, non è sempre così. «Niente roba omo», ripete, prima di avvolgere la benda elastica una, due, tre volte intorno alla mia caviglia slogata. Lo scopo della frase oggi mi è chiaro: una password, un incantesimo, un salvacondotto per il contatto fisico. Perché due ragazzi potessero stare così vicini in un territorio regolato dalle leggi nebulose ma severe della mascolinità statunitense, serviva una magia.

Niente roba omo. Queste parole lo autorizzavano a reggermi il piede con l’attenzione e la delicatezza di un infermiere, dopo che, mezz’ora prima, mi ero slogato la caviglia giocando a nascondino a squadre nel giardino dei McIntosh. Correvamo, i corpi argentei nell’oscurità che calava veloce, ragazzini che giocavano alla guerra.

Il ragazzo, che chiameremo K, mi aveva aiutato a rialzarmi e mi aveva sostenuto mentre zoppicavo verso casa sua, che stava proprio dall’altra parte del giardino. La battaglia ferveva ancora tutto attorno a noi, con le voci degli altri ragazzi che ci giungevano sconnesse tra i rovi, mentre una battaglia ben più vasta, la guerra in Afghanistan (era il 2005), amplificava ciò che c’era in gioco nel mondo esterno, oltre il labile tramonto dell’infanzia.

Niente roba omo.

Discosto lo sguardo quasi non fosse una caviglia, quella che ha in mano, ma la carcassa di un animale investito. Mi metto a esaminare la stanza, le pareti coperte di trofei di baseball che rilucono alla luce tremolante dei lampioni appena accesi, fuori. Lo trovo attraente? Sì. Importa qualcosa? No.

«Sei molto bravo a nasconderti», dice rivolto al mio piede e, anche se si riferisce al nascondino, potrebbe benissimo parlare dell’essere maschio. In fondo, non è comunque qualcosa in cui e da cui mi sono spesso nascosto?

Non sono mai stato a mio agio come uomo, nell’essere un lui, perché tutta la mia vita da maschio è stata inestricabilmente legata a una mascolinità egemone. Ovunque guardassi, la maschitudine equivaleva a un atto di aggressione che percepivo come a me del tutto estraneo: peggio ancora, nelle città operaie del New England in cui sono cresciuto, la mascolinità autodistruttiva, ossia ciò in cui l’abbiamo trasformata negli Stati Uniti, spesso si realizza tramite la violenza. Qui celebriamo i nostri ragazzi, che a loro volta si incitano tra loro, ricorrendo al lessico della lotta, della conquista:

Spacchi, amico. Stendili. Falli neri. Li hai davvero messi K.O. Hai battuto tutti a quel concorso. Hai fatto una strage. Li hai proprio massacrati. Quel ragazzo è una bestia. È un panzer. Non se ne lascia scappare una. Passa da una conquista all’altra. Te la sei fatta? Gliel’ho sfondata. Quella tipa è una bomba. Una botta gliela darei comunque. Farei furore. Sono serio da morire.

Per certi versi, sono solo metafore, iperboli, figure retoriche, niente di più. Ma, a mio parere, ci sono forti legami tra questi modi di dire e il passato violento del paese. Dai Padri fondatori al Destino manifesto, l’identità degli Stati Uniti è stata plasmata direttamente dal mito del rivoluzionario che si è fatto da solo, trasformatosi in esploratore e in fondatore di un mondo nuovo, puro, terreno di potenziale colonizzazione. La figura del pioniere, del cercatore stoico e coraggioso, ignora e passa sotto silenzio il genocidio dei nativi americani che l’hanno resa tale. Il paradosso della mascolinità egemone americana è anche un paradosso identitario: poiché la vita negli Stati Uniti si fondava sulla morte, bisognava trasformarla in una prassi, celebrarla. E poiché la morte era considerata un progresso, le relative metafore sono diventate metro di riferimento della vita, della crescita dei futuri uomini. Li hai fatti secchi, per la miseria.

Anni più tardi, in un’altra vita, in occasione di una lettura pubblica, gli organizzatori mi chiesero con quale pronome volevo che mi si presentasse. Non sapevo di avere una scelta. «Maschile», dissi dopo un attimo di esitazione, le mie certezze scosse. Sentivo che si era aperta una porta, anche se di poco, a farmi intravedere una strada che non sapevo nemmeno esistesse. Avevo una via d’uscita.

Ma se non volessi lasciare questa stanza, solo renderla più ampia? I pronomi neutri [they/them in inglese] per i miei amici transgender costituiscono un rifugio, una destinazione raggiunta tramite la fuga e l’iniziativa personale. L’uso di questi pronomi consente di relazionarsi con gli altri presentandosi subito come individui non binari, nella speranza di evitarsi il fastidio e il disagio di una spiegazione o la fatica di rendersi comprensibili, quando il solo fatto di esistere può essere sfinente. Cambiando pronomi, avrei forse rischiato di appropriarmi di uno spazio che ad altri serve per sopravvivere?

Da rifugiato di guerra, so quanto anche una sola parola possa diventare un appiglio fondamentale a cui aggrapparsi.  E, dal momento che come maschio dall’aria cis non ho bisogno di rifuggire la mia maschitudine per essere visto per quello che sono, resterò qui. La fortezza della mascolinità, eretta tanto tempo fa tramite opere di morte e di conquista, potrà mai essere violata, abbattuta, rifondata, o addirittura sanata? In altre parole, ho intenzione di sfidare il concetto di maschitudine. Voglio complicarlo, espanderlo e modificarlo restandoci dentro. E rimango qui proprio per lo stesso motivo per cui, nei giorni no, penso che dovrei andarmene: perché non mi riconosco nelle fila degli uomini dominanti, ma penso che possano allargarsi per farmi posto. Forse, un giorno, la mascolinità diventerà così frammentaria, così malleabile, che non avrà più bisogno di rigidi confini per riconoscersi. Potrebbe addirittura non avere più bisogno di riconoscersi del tutto. Varrà anche questa come creazione di uno spazio queer? Mi chiedo se i ragazzi potranno mai fasciarsi i piedi feriti l’un l’altro in amicizia, senza bisogno di parole in codice, con un semplice contatto, senza alcuna vergogna.

Niente roba omo, ribadisce K, tranciando il bendaggio con i denti e accarezzando la mia caviglia gonfia in tutta la sua lunghezza. Mi rimette le Vans bianche, attento ad allentarne i lacci per far posto al gonfiore. Niente roba omo, ha detto. Ma quello che è arrivato a me, allora come oggi, è Niente più uomo. Come facciamo a non pretendere che il concetto di mascolinità cambi, quando rimanere nei suoi confini ci ferisce così tanto?

«Starai bene», mi dice, con una dolcezza così rara che sembra emersa da qualche parte sepolta nel profondo, dentro di lui. Gli prendo la mano.

Mi tira su e si dirige verso la porta della stanza. «Spegni le luci», mi fa, da sopra la spalla.

Le spengo.

Diventa così buio che potremmo essere qualunque cosa, ben più di ciò che viene stabilito per noi alla nascita. Potremmo essere umani.

© 2019 by Ocean Vuong, first published in The Paris Review. Used by permission of the author.

ARTICOLO n. 54 / 2021

LA SCATOLA

«Il signor Landolfi? Lorenzo Landolfi?…»
«Sono io, con chi parlo?»
«Commissariato di zona.»

Era una mattina lattiginosa e pesante, la cappa di calore che opprimeva da giorni la città non mollava la presa, come un serpente che soffoca piano piano la sua preda. Mi sentivo spossato e con i riflessi rallentati, dovetti chiedere alla voce nella cornetta di ripetere una seconda volta la frase asciutta e lapidaria che non lasciava dubbi alla sua interpretazione: «Dovrebbe recarsi nel nostro ufficio». Malgrado la perentorietà della richiesta, il tono era gentile e ciò fu sufficiente a stemperare lo stato di allerta che sentivo crescermi dentro. Provai a richiedere maggiori informazioni ma il funzionario replicò che si trattava di «una faccenda delicata» e che sarebbe stato meglio parlarne a voce, infine mi ricordò l’indirizzo del commissariato sottolineando che si trovava «a due passi dalla sua abitazione», il che significava: non perdiamo tempo al telefono, venga qui e saprà di cosa si tratta.

Nel breve tratto di strada che conduceva alla mia destinazione provavo a elencare i possibili motivi della convocazione. L’ultima volta che mi ero presentato in commissariato era stato per denunciare il furto dell’ennesimo motorino, l’avevano forse ritrovato? Scartai subito l’ipotesi, non solo perché erano già trascorsi due anni e ritenevo pressoché impossibile l’eventualità di un ritrovamento, ma perché definire «faccenda delicata» il recupero di un motorino suonava inappropriato oltre che ridicolo. Ero incuriosito e infastidito in eguale misura, diviso fra la certezza di avere la coscienza a posto e l’inconscia possibilità di non averla affatto.

Per misteriose ragioni l’ufficio era privo di aria condizionata e i due ventilatori impolverati piazzati all’interno risultavano inspiegabilmente spenti, sicché la temperatura raggiungeva picchi incommensurabili. Non era cambiato nulla dall’ultima volta, l’odore stantio, le pareti sudicie e le voci che rimbombavano da una stanza all’altra. Rimasi in attesa qualche minuto, poi l’usciere mi disse di salire al primo piano, «stanza 5, ufficio armi».

Ufficio armi?

Bussai alla porta socchiusa. L’uomo seduto alla scrivania fece cenno di entrare senza distogliere lo sguardo dal computer acceso che riverberava una luce bluastra sul suo volto. Diede un ultimo colpetto sulla tastiera e finalmente mi rivolse la parola. Riconobbi la voce che mi aveva parlato al telefono.

«Dunque, signor Landolfi» cominciò, come dando seguito a un discorso da poco interrotto, mentre con la mano frugava i fascicoli accatastati. «Il dottor Carlo Landolfi è suo padre, giusto?»

«Sì, certo…»

«Ecco. Ci risulta che suo padre possiede…» e qui prese a leggere: «una pistola semiautomatica Beretta, modello 31 calibro 7,65 con relativi proiettili…»

Lo interruppi esibendo un sorriso forzato: «Ci deve essere un errore, mio padre ha quasi novant’anni e sinceramente non credo…». Mi interruppe a sua volta: «È proprio questo il punto. La pistola è stata regolarmente denunciata dal signor Carlo Landolfi, suo padre, nel 1976, non si tratta dunque di detenzione illegale. Ora però il denunciante ha ottantanove anni e a questa età non è più consentito detenere armi nel proprio domicilio. Dobbiamo recuperarla il prima possibile.» Il tono si era fatto sbrigativo, il fascicolo «Landolfi» rappresentava solo una delle mille pratiche da sbrigare. Quello che c’era da dire era stato detto, ora la rogna passava a me. «Ci parli, gli spieghi la situazione e poi si metta in contatto con noi.» Accompagnò l’ultima frase con la mano tesa in segno di congedo. Avevo le mani sudate, ma le sue lo erano ancora di più.

Carlo Landolfi, classe 1929. L’uomo più mite che abbia mai conosciuto. Non l’ho mai sentito alzare la voce e men che meno le mani su noi fratelli, non ricordo una litigata degna di questo nome con mia madre, o un amico, un collega. Se dovessi associare mio padre a un’immagine mi viene in mente un laghetto di montagna, limpido, placido, immobile. Non riuscivo a trovare un motivo plausibile che giustificasse il possesso di una pistola. Mai stato cacciatore papà, ha sempre odiato la violenza e tutto ciò che la rappresenta. Per anni ha votato repubblicano evitando schieramenti e polemiche, si è visto surclassare da colleghi più scaltri senza mai provare risentimento, accontentandosi di una carriera lenta ma sicura alla Corte dei Conti che gli ha garantito stima, rispetto e una dignitosissima pensione: che diavolo ci faceva con quella pistola, e perché non ci ha mai detto niente? Aveva forse a che fare con il suo lavoro? Con il suo passato? L’ipotesi difesa personale (rapinatori/ladri) non l’ho presa in considerazione neanche per un secondo.

Decisi di andare a casa sua, la casa dove eravamo nati e cresciuti e che ora divideva con mia madre, che invece avrebbe voluto vivere altrove. «Troppo grande e troppo vuota» diceva sempre.

Stava seduto sulla sua poltrona, la stessa di sempre, con un plaid sulle gambe rinsecchite malgrado il caldo e lo sguardo rassegnato di chi sa che la sua unica, vera occupazione, consiste nell’attesa. Non è mai stato un tipo loquace mio padre, mai sprecato una parola. Un atteggiamento che ha trasmesso a noi figli e al quale nostra madre si è pervicacemente sottratta, lei ama parlare povera donna, quante volte l’ho sentita farlo da sola, tanto per assecondare la smania insoddisfatta di un interlocutore. Tempo fa le ho regalato una radio e da allora non è mai successo che entrando in casa la trovassi spenta. Passa il tempo così, e non se ne lamenta. Quel giorno le note del «Concerto del mattino», il suo programma preferito, aleggiavano per le stanze vuote insieme al profumo di un caffè da poco consumato.

«Ciao papà» dissi, sfiorandogli la testa con un bacio.

«Lollino…» (non ha mai smesso di chiamarmi così) «qual buon vento?».

Ero passato a trovarlo alcuni giorni prima e ogni volta mi accoglieva come fossero trascorsi dei mesi. Inforcò gli occhiali per guardarmi meglio, lasciando che la realtà degli affetti lo riportasse nel presente. Da tempo viveva in un mondo distante fatto di pensieri e forse di ricordi, e pur essendo ancora lucido e padrone di sé, non si interessava degli accadimenti mondani, ciò che avveniva fuori dalla sua stanza non aveva importanza, non l’aveva più. Mi capitava a volte di provare invidia per la condizione esistenziale nella quale si era rifugiato, considerando che gran parte degli affanni altro non sono che logorio, inutile consumo di energia. Forse il distacco è la vera intelligenza.

«Hai qualcosa da dirmi?» come avesse intuito che la mia presenza non era casuale.

Gli raccontai della telefonata e di ciò che ne era seguito. Ascoltava in silenzio, senza fare domande. Sembrava sereno, non manifestava alcun stupore. Fui io a stupirmi della sua reazione quando gli dissi che avrei contattato il funzionario per comunicargli l’assenso alla consegna dell’arma. Non so davvero perché lo ritenessi scontato.

«È fuori discussione. La pistola non si tocca.»

Esibì un tono perentorio che non ricordo avergli mai sentito, e addirittura la voce, la sua voce, pareva artefatta, come fosse incisa su un nastro. Provai a farlo ragionare, gli dissi che non poteva tenere in casa una pistola, era pericoloso. Mi guardava come fossi un estraneo, e continuava a fare no con la testa. Più insistevo più aumentava la sua insofferenza, cominciò ad agitarsi sulla poltrona, poi, per mettere fine alla discussione sussurrò: «Sono stanco, finiamola qui. Riferisci pure al tuo commissario che la pistola resta a casa.»

«Ma perché? Che cos’ha ’sta pistola di tanto speciale?…»

Lo vidi trasfigurare, stringeva le mascelle per non dire quello che avrebbe dovuto dire, dirmi. Gli occhi si fecero lucidi e l’insofferenza lasciò posto alla rabbia: «Non insistere Lorenzo, la questione è chiusa».

Soltanto in quel momento mi resi conto di quanto poco sapessi di lui, della sua storia. I nostri genitori non esistono prima del nostro arrivo, non riusciamo a immaginarli bambini, giovani. E nelle fotografie che li ritraggono ragazzi sono i nostri tratti che cerchiamo, non i loro. Chissà quante cose non conoscevo, e se è vero che mio padre ha omesso di raccontarci episodi della sua vita, altrettanto vero è che a nessuno di noi è venuto in mente di chiedere. E anche adesso, non chiesi nulla. Non feci più domande. Nonostante la curiosità decisi di rispettare il suo silenzio e mi pentii dell’arroganza dei miei anni.

Il giorno successivo chiamai Castelli, il funzionario dell’ufficio armi. Gli spiegai la situazione. A dire il vero spiegai ben poco, non avendo argomenti da sostenere. Mi limitai a riferire le intenzioni di mio padre. Forse condizionato dal mestiere del mio interlocutore, mi aspettavo una serie di domande alle quali non avrei saputo rispondere, ma quello non insistette, e anzi, mi offrì una soluzione: «Se suo padre ha intenzione di detenere l’arma è necessario inertizzarla». Confesso la mia ignoranza, non avevo mai sentito prima d’ora il verbo inertizzare. Castelli intuì la mia lacuna e si affrettò a colmarla:

«Deve farla disattivare, renderla inerte, appunto.»

«Ah… e come si fa?»

«È una faccenda piuttosto lunga, se mi dà la sua mail le invio il procedimento per gli adempimenti burocratici.»

Il termine adempimenti burocratici mi provocò un sentimento di sconfitta, la sensazione di trovarmi di fronte a una montagna da scalare a piedi scalzi. Quando lessi la mail lo sconforto fu definitivo:

La disattivazione delle armi da fuoco è regolamentata, per quanto concerne le procedure tecniche, dal Reg. UE 2403/2015 come da ultimo modificato dal Reg. UE 337/2018.

Per quanto concerne gli adempimenti burocratici, bisogna invece consultare il D.M. 08.04.2016, che all’art. 5 rubricato   Disposizioni procedurali e adempimenti per la disattivazione” dispone che il possessore dell’arma deve comunicare per iscritto alla questura competente che intende attivare la relativa disattivazione. La comunicazione deve indicare i dati identificativi e tecnici dell’arma medesima, ovvero tipo, marca, modello, calibro e numero di matricola, nonché i dati identificativi del soggetto che effettua la disattivazione (pertanto l’interessato avrà già preso contatti con l’armeria che poi effettuerà la disattivazione). Entro quindici giorni dalla ricezione della comunicazione, la questura informa il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, rivolgendosi alla Soprintendenza per i beni storici, artistici e demoetnoantropologici competente per territorio, al fine di verificare se si tratti di un’arma antica, artistica o rara d’importanza storica o comunque di interesse culturale e, all’esito degli adempimenti, la questura medesima provvede, entro i trenta giorni dalla ricezione della comunicazione, a rendere nota al richiedente la presa d’atto (quindi l’assenso a procedere alla disattivazione).

Eccetera eccetera eccetera…

Mi girava la testa. Rilessi un paio di volte senza riuscire a trattenere un sorriso di scherno riguardo allo stile grottesco dello scritto che raggiungeva il suo apice nell’espressione: «… che intende attivare la relativa disattivazione» o nel termine «demoetnoantropologici». Cristo santo, mi ero ficcato in una bella rogna.

Spensi il computer, mi accesi una sigaretta e rimandai il problema all’indomani, confidando sul potere dissuasivo dello spettro burocratico, forse più efficace, alle orecchie di mio padre, delle mie sagge ma inascoltate parole.

Lasciai passare due giorni. Volevo dare tempo a papà di riflettere sulla questione, sarei tornato da lui con spirito diverso rispetto alla precedente visita, più accondiscendente e meno intransigente. Pensavo inoltre che la proposta dell’inertizzazione, sebbene complicata, potesse ammorbidirlo nei miei confronti, avrebbe se non altro apprezzato le mie buone intenzioni.

Stava seduto al solito posto, nella penombra del pomeriggio, lo sguardo rivolto alla finestra. Appena mi vide entrare fece scivolare sul lato del cuscino un quadernetto scuro, poi mi rivolse un sorriso. «Ciao Lollino, che bello vederti». Non vi era traccia di ostilità nei suoi occhi, sembrava più rilassato del solito, e felice, sinceramente felice di vedermi. Si capiva, dai suoi gesti, il desiderio di cancellare l’amarezza del nostro ultimo incontro.

«Siediti qui» disse «accanto a me.»

Restammo in silenzio qualche minuto. Dalla cucina proveniva il sonoro ovattato della radio e dalla strada lo sfilare veloce di qualche automobile.

«Mi dispiace per l’altro giorno papà. Non volevo turbarti… io non so nulla di quella pistola, non so da dove viene né perché la tieni in casa, però ho capito che per te è importante e se davvero non vuoi consegnarla, esiste una possibilità… si tratta di riempire un modulo… tu non devi fare niente, me ne occuperò io…». Mi alzai per recuperare il foglio nella tasca della giacca e quando mi voltai, lui stava piangendo.

In oltre quarant’anni non lo avevo mai visto in lacrime.

Non smise di piangere fino alla fine del racconto.

«È successo tanto tempo fa… Avevo quattordici anni, ero un ragazzino. C’era la guerra, ma io quasi non me ne accorgevo perché vivevo nella grande casa che tu ben conosci, distante da tutto. All’epoca non avevano ancora costruito nulla intorno a noi e la villa pareva davvero isolata dal mondo. Passavo le mie giornate in giardino o chiuso nella mia stanza, dovevo fare silenzio, non potevamo disturbare mio padre… tuo nonno… Era molto malato. Leucemia… che brutta parola, vero? Vedevo i dottori che entravano nella sua stanza e subito si chiudevano la porta alle spalle e io li sentivo sussurrare e non capivo cosa stesse succedendo. Ogni tanto provenivano dei lamenti e io mi tappavo le orecchie o canticchiavo una canzone, per non ascoltarli. Non ho mai chiesto nulla a mia madre, non so se era per non sapere, o perché già sapevo. Non avevo voglia di entrare in camera di mio padre, non è bello per un figlio vedere il proprio padre indebolirsi, i padri non possono ammalarsi, non devono… Ero triste, certo, ma facevo finta di niente. Un giorno però fu lui a chiamarmi. Sentii distintamente pronunciare il mio nome, nonostante la voce flebile. Carlo!… vieni… e poiché non rispondevo alzò leggermente il tono. Entrai in punta di piedi. La stanza era semibuia. Ricordo un odore che non mi piaceva. Stava steso nel letto, il corpo avvolto dalle coperte, tranne un braccio che fuoriusciva dal lenzuolo. Era così magro, così… piccolo. Diede un paio di colpetti con la mano sul lato del letto, per invitarmi a sedere accanto a lui. E poi, la mano, la poggiò sul mio ginocchio. Devi fare una cosa per me Carlo. E non devi dirlo a nessuno. Promesso?… Dissi di sì, anche se preoccupato. Cosa stava per chiedermi? Ero incuriosito, e orgoglioso che avesse scelto me.

Vai nel mio studio, e apri il secondo cassetto a destra della mia scrivania… in fondo troverai una scatola, una scatola marrone… portamela. Non farti vedere da nessuno, mi raccomando, è un segreto fra te e me… È importante figlio mio, è una cosa importante… mi alzai dal letto, ubbidiente, ma lui mi afferrò la mano. Carlo, non dimenticarti mai le cose belle. Non dissi una parola, ricordo che il suo sguardo, quei suoi occhi dolenti e folli, e il suo corpo così fragile, mi facevano paura… ma al tempo stesso avevo una gran voglia di abbracciarlo… non riuscivo a mettere in ordine i sentimenti che mi stringevano la gola e mi paralizzavano.  Su, adesso vai, fai quello che ti ho detto. Per raggiungere lo studio dovevo attraversare il corridoio e passare dal salotto. Ci arrivai a passi felpati, come fossi un ladro. Non ci entravo quasi mai in quella stanza, la porta era sempre chiusa ma questo non aveva mai solleticato la mia curiosità. Era un luogo che non mi apparteneva e io sto bene attento a non sconfinare in territori altrui… era tutto in ordine, un ordine definitivo, che non aveva nulla di provvisorio, perché chi avrebbe potuto scombinarlo non ne aveva più facoltà. Frugai in fondo al cassetto e trovai la scatola. La soppesai, più per istinto che per calcolo. Uscii in fretta, ma quando arrivai in corridoio incrociai il dottore che si dirigeva, accompagnato da mia madre, verso la stanza di mio padre. Nascosi la scatola sotto al maglione, salutai il dottore, e mi avviai verso la mia camera, in attesa di un momento più propizio. Li osservai avanzare dalla mia soglia, non si curarono di me. Bussarono e scivolarono dentro la stanza. Mi rimase nell’orecchio il rumore secco della porta che si richiudeva. Se chiudo gli occhi lo sento ancora quel rumore. Non avevo intenzione di scoprire il contenuto della scatola, ma quando la posai sul mio letto, la curiosità fu più forte del mio senso del dovere. Si trattava in fondo di sollevare un coperchio… Penso tu abbia capito di cosa si trattava. Io invece non me lo sarei mai immaginato. Quando la vidi, quella piccola pistola lucente, capii immediatamente, e mi mancò il respiro. Provai un terrore freddo e benedissi il cielo per l’arrivo del dottore che aveva salvato mio padre, sì, ma anche me… Come gli era venuto in mente di chiedermi una cosa del genere? Come avrei vissuto il resto dei miei giorni con quel peso sul cuore? Ero arrabbiato, arrabbiato e disperato. Chiusi la scatola e la nascosi sotto il letto, ricordo che la seppellii sotto altri oggetti per cancellarne ingenuamente la presenza, e poi di notte, non riuscendo a dormire la spostai di nuovo e la ficcai in fondo a una cesta dove ancora erano conservati i miei giocattoli di bambino. Da allora, quella scatola non mi ha mai lasciato, e quel giorno, quel maledetto giorno, fu l’ultimo in cui vidi mio padre. Non sono mai più entrato in camera sua, mai più. Per tre lunghissimi mesi, il tempo che gli era rimasto. E sai perché non l’ho fatto? Perché, per quanto ritenessi giusta la mia azione, mi sentivo in colpa. Avevo paura di guardarlo negli occhi, di vedere la sua pena. Quei tre lunghi mesi di dolore hanno pesato sulla mia coscienza per tutta la vita. Lui voleva mettere fine alla sua sofferenza, era un suo diritto… E io gliel’ho impedito. Ero davvero nel giusto? Cos’era più importante, la sua salvezza o la mia? E poi, ci siamo forse salvati?…  Pensavo fossero i miei quattordici anni a impedirmi di capire, ma tutti questi anni non mi hanno illuminato. Io ancora non so… Ecco, adesso sai perché possiedo quella pistola. Sei la sola persona a cui l’ho raccontato.»

Non ebbi paura di abbracciarlo come accadde a lui tanti anni addietro, e lo strinsi forte fra le mie braccia. «Hai fatto la cosa giusta papà, la sola che potessi fare.»

Il primo pensiero che mi venne in mente fu associativo: padri che dividono un segreto con i figli, poi la simmetria mi parve ancora più incredibile dal momento che anche io, come lui, ero stato prescelto. Anche mio padre aveva dei fratelli. Tre, come me. Ieri lui, oggi io, entrambi depositari di un segreto. A quasi settantacinque anni di distanza si replicava una scena familiare analoga.

«Chiama il commissariato e di’ che possono venirsela a prendere. Adesso.»

Non provai a rilanciare l’ipotesi inertizzazione, e non perché volessi risparmiarmi una scocciatura, ma perché avevo capito. Quel racconto sofferto, tenuto a lungo nascosto nel profondo del suo cuore, lo aveva liberato. E furono le sue parole a rendere inerte la pistola. Non c’era più motivo di nasconderla.

I poliziotti arrivarono poco dopo. Erano in due, uno molto alto con mani affusolate da pianista, l’altro più tarchiato ma scattante, nervoso. Non indossavano la divisa e di questo fui intimamente grato. Si rivolsero a mio padre con garbo e gentilezza, lui disse loro che voleva fossi io a recuperare la pistola, poi mi diede una chiave, sfilata dalla tasca della vestaglia.

«Vai alla mia scrivania, e apri il secondo cassetto a destra. In fondo troverai la scatola marrone…». Di nuovo, la storia si ripeteva: la scrivania, il secondo cassetto, la scatola marrone.

Tutto si svolse in silenzio, come durante una cerimonia. Di questo si trattava, in fondo. Eseguii gli ordini di mio padre e consegnai la scatola nelle mani del poliziotto alto, il quale, dopo aver sollevato il coperchio e afferrato l’arma, mi chiese se fosse stato possibile trasferirsi in un posto riparato (disse proprio così) della casa, «magari all’aperto». Scambiai uno sguardo con mio padre, che abbassò la testa in segno di assenso. «Certo», risposi, e invitai l’uomo a seguirmi in terrazza.

Le tapparelle erano abbassate per via del caldo e quando aprii la porta finestra la luce abbacinante e il calore mi riportarono alla realtà di quei giorni infuocati.

«Rimanga dentro», mi intimò il poliziotto.

Osservai la scena dall’interno. L’uomo si guardò intorno alla ricerca del «riparo».  che individuò in un grosso vaso dietro al quale si accucciò. Vedevo la sua sagoma imponente stagliarsi fra le fronde dell’oleandro. Rimase lì ad armeggiare (è il caso di dirlo) qualche istante per poi rientrare in casa rivolgendomi un mezzo sorriso di soddisfazione. «C’era un colpo in canna».

Un colpo in canna, uno solo.

ARTICOLO n. 53 / 2021

ALICIA E LA STAMPA UNDERGROUND

TRADUZIONE DI SARA SULLAM

Gli unici giornali americani che non mi lasciano preda della profonda convinzione fisica che mi sia stato tolto l’ossigeno dalla materia grigia, con tutta probabilità da un telegramma della Associated Press, sono il Wall Street Journal, il Free Press di Los Angeles, l’Open City, sempre di Los Angeles, e l’East Village Other. Non ve lo dico per apparire come una persona stramba, eccentrica, perversa ed eclettica, per non dire all’ultima moda in tutti i suoi gusti; qui si tratta di qualcosa di più ottundente e curioso, ossia della nostra incapacità di parlarci in modo diretto, dell’incapacità dei giornali americani di «andare al punto.» Il Wall Street Journal mi parla in modo diretto (poco importa qui che molto di quanto dice abbia per me uno scarsissimo interesse), e così anche la stampa underground.

Free Press, East Village Other, Berkeley Barb, tutte le altre testate formato tabloid che riflettono gli interessi dei giovani e di chi non ha un’affiliazione hanno una virtù particolare: sono privi di quelle posture tipiche della stampa convenzionale, per lo più fondate su una falsa obiettività. Non fraintendetemi: tengo in grande conto l’obiettività, ma non riesco proprio a capire come possa essere conseguita se il lettore non capisce la parzialità di chi scrive. Se si taccia di esserne esente, lo scrittore conferisce all’intera faccenda una mendacità che non ha mai infettato il Wall Street Journal e che ancora non infetta la stampa underground. Un autore di stampa underground dice se disapprova qualcosa, spesso in luogo del chi, cosa, dove, quando, come.

Ovviamente i giornali underground non hanno nulla di particolarmente underground. New York, a sud della Trentaquattresima Strada, è tappezzata di East Village Other; a Los Angeles, durante la pausa pranzo sulla Strip, i contabili prendono una copia del Free Press. Replicare che si tratta di testate amatoriali e scritte male (lo sono), stupide (lo sono), noiose (non lo sono), non sufficientemente inibite dall’informazione finisce per essere un luogo comune.

Di fatto, il contenuto di un giornale underground è assai scadente. La notizia di una marcia per la pace o della defezione di un gruppo rock a favore delle forze dello sfruttamento (il gruppo ha fatto uscire un disco, dicono, o ha accettato un ingaggio per suonare al Cheetah), consigli di Patricia Maginnis su che cosa dire al medico specializzando dell’accettazione se si comincia a perdere sangue dopo un aborto in Messico («Sentitevi completamente libere di dire che Patricia Maginnis e/o Rowena Gurner vi hanno aiutato ad abortire. Siete pregate di non incriminare nessun altro. Noi stiamo cercando di farci arrestare. Altri no»), riflessioni di uno spacciatore quindicenne («Devi credere allo spaccio come stile di vita, altrimenti non ce la farai»), avvertenze che la velocità uccide: un numero di Free Press è pressoché identico ai cinque successivi e, per chiunque segua da lontano i vari scismi tra tossicodipendenti e guerriglieri rivoluzionari, non si distingue dall’East Village Other, dal Barb, da Fifth Estate, o dal Free Press di Washington. Non ho mai letto nulla di utile su un giornale underground.

Ma pensare che quei giornali vengano letti per i fatti significa non comprenderne l’interesse. Il loro genio consiste nel parlare in modo diretto ai lettori. Partono dal presupposto che il lettore sia un amico, che sia turbato da qualcosa, e che capirà le cose se gliele si espone in modo chiaro; questo presupposto di un linguaggio comune, di un’etica condivisa conferisce ai quei resoconti una considerevole forza stilistica. Di recente Free Press ha pubblicato un’indagine sull’università di Ann Arbor firmata da una lettrice di nome Alicia, la quale, in tre righe che sfiorano la perfezione di un haiku, dice tutto quel che c’è da dire su una comunità universitaria: «I professori e le loro mogli sono ex-Beatniks (Berkeley, classe ’57), vanno alle marce per la pace, e portano narcisi a U Thant. Certi studenti credono ancora a Timothy Leary e a Kahlil Gibran. Alcuni, tra i loro genitori, credono ancora al Rapporto Kinsey.»

Questi giornali ignorano il codice delle testate tradizionali, dicono quello che pensano. Sono stridenti, sfacciati, ma non suscitano irritazione; hanno i difetti di un amico, non di un monolite. (Monolite, naturalmente, è una delle parole preferite della stampa underground, una delle poche di quattro sillabe). Il loro punto di vista è chiaro anche al lettore più ottuso. Nella migliore stampa tradizionale persistono tacite abitudini, e il fatto che restino tacite, che non vengano ammesse, crea una barriera tra il lettore e la pagina tanto quanto il gas di palude. Il New York Times mi suscita solo sgradevoli aggressioni da contadina, mi fa sentire come la figlia scalza del mercante in fiera in Carousel, che guarda i bambini Snow che corrono alla cena della domenica con McGeorge Bundy, Reinhold Niebuhr, e il dottor Howard Rusk. La cornucopia esonda. La Croce d’Oro risplende. La figlia del mercante in fiera sogna l’anarchia e non si fida dei bambini Snow, quando le dicono che la sera prima era buio. Sotto il livello del New York o del Los Angeles Times, il problema non è tanto fidarsi della notizia, quanto trovarla; spesso sembra che una scimmia abbia preso l’assurda storia per com’è uscita dalla telescrivente e ci abbia buttato dentro un servizio di un altro giornale da una parte, un comunicato stampa dall’altra.

L’estate dei miei diciassette anni lavorai per un giornale nel quale il culmine dello sforzo quotidiano consisteva nel ritagliare e riscrivere il giornale dell’opposizione («Controlla che non sia una trappola,» mi consigliarono il primo giorno); ho l’impressione che questo genere di cose costituisca ancora un florido ramo d’industria locale: Il consiglio dei supervisori della contea elogia gli agenti immobiliari del comparto occidentale per il progetto di abbattimento degli slums, e la costruzione di un albergo Howard Johnson’s. Debuttanti attente al mondo della beneficenza esaminano un macchinario di recente acquisizione per la cura del cancro terminale. Cara Abby. Specchio della tua mente. La lingua penzola, la realtà retrocede. «Seminario, seminario, qui ci vuole un dizionario,» si legge a pagina 35. «PADUCAH, KY. (AP) – «Quando Kay Fowler ha chiesto alla sua classe della scuola domenicale di descrivere un seminario, un ragazzino se ne è venuto fuori con: “È dove seppelliscono le persone”». Se me lo dici a pagina 35, non ti crederò a pagina 1.

Le scimmie ai piani inferiori, il linguaggio in codice a quelli superiori. Quanto alle convenzioni della nostra stampa, ci riteniamo «ben informati» se conosciamo «la vera storia,» ossia quella che non si trova sui giornali. Ormai ci aspettiamo che la stampa rifletta l’etica ufficiale, che si comporti in modo «responsabile.» I giornalisti più ammirati non sono più avversari, ma confidenti, partecipanti; l’ideale è dare consigli ai presidenti, cenare con Walter Reuther e Henry Ford, ballare con la figlia di quest’ultimo al Le Club. Probabilmente Alicia non conosce nulla al di fuori di Ann Arbor. Ma su quello mi dice tutto quello che sa.

1968

Il testo di Joan Didion è ripreso dalla sua nuova raccolta di articoli Let Me Tell You What I Mean.

© 2021 by Joan Didion

ARTICOLO n. 52 / 2021

DEAR MR. JOYCE

A CURA DI SIMONE TICCIATI

Malta, 1899: lord Muskerry (al secolo Hamilton Matthew Tilson Fitzmaurice Deane-Morgan, 4° Barone Muskerry) nota la carena di un piroscafo del Lloyd Austriaco, priva di molluschi e alghe. Scopre che è verniciata con l’intonaco antivegetativo Moravia, prodotto dalla «Fabbrica Vernici e Intonaci Sottomarini Gioachino Veneziani» di Trieste, e non perde tempo. Adotta l’antivegetativo italiano per il suo yacht «Rita», e ne attesta la qualità in una lettera alla ditta che si chiude così: «sono persuaso che se la vostra pittura fosse meglio conosciuta in Inghilterra, i proprietari di yachts ne farebbero uso su larga scala. Pel bagnasciuga il vostro agente mi fornì una vernice grigia del pari eccellente. Con stima Lord Muskerry».

Verità o leggenda (altrove si parla di un ammiraglio inglese, e l’episodio è retrodatato al 1890), è certo che la vernice Moravia – il cui segreto è gelosamente custodito dai Veneziani – già copre gli scafi della più importante compagnia di navigazione del Mediterraneo, e di lì a poco proteggerà gli yacht degli Arciduchi Ludovico Salvatore e Carlo Stefano Absburgo, del Re d’Italia, del Sultano, nonché lo «Shamrock» di Sir Thomas Lipton. E l’agente di Malta della ditta Veneziani non è un semplice travet: è Arthur Kohen von Hohenland, console generale austroungarico a Malta e agente del Lloyd Austriaco. Muskerry con la sua lettera e il suo ruolo politico (come pari d’Irlanda nella Camera di Lord) e Kohen come console in un territorio appartenente alla corona britannica possono facilitare lo sbarco della Veneziani su quel mercato.

Rimane solo lo scoglio dell’inglese ma un neoassunto trentottenne della Veneziani, Aron Hector Schmitz, sembra portato per le lingue; ha insegnato per molti anni corrispondenza commerciale tedesca alla Scuola Superiore «Pasquale Revoltella», e legge senza problemi il francese. Comincia così a prendere lezioni di inglese da Philip Francis Cautley, suo collega al «Revoltella», dove è professore straordinario di lingua e letteratura inglese. Schmitz è cugino di Olga Moravia, moglie del titolare Gioachino Veneziani, e ne ha sposato la figlia, Livia Veneziani.

Nel frattempo c’è bisogno di un agente commerciale in Gran Bretagna e la ditta comincia a sondare il terreno in più direzioni. Si mette in moto lo stesso Schmitz: a marzo 1901 un suo parente che lavora a Venezia gli presenta Salvatore Arbib, console onorario della Liberia e membro della vasta famiglia di mercanti ebrei sefarditi originari di Tripoli. Il fratello e il cugino di Salvatore sono Edoardo ed Eugenio, titolari di una importante ditta di import-export e pionieri del commercio tra Gran Bretagna ed Egitto e Sudan. Ma quello degli Arbib si rivela un abboccamento senza esito e Schmitz se ne lamenta con la moglie: «sono andato in città a parlare fino a sfiatarmi con due impiastri i quali non sanno che cosa io voglia da loro e dei quali non so neppure io che cosa vogliano da me. Mi viene persino il sospetto che mi accettino in loro compagnia per passare meglio una mezz’ora della loro stupida vita».

Ma il tempo stringe perché a giugno bisogna essere a Londra per discutere con la Marina britannica i termini e le condizioni dell’accordo. Così, la ditta Veneziani trova un primo agente (un certo Frantzen) che accoglie Schmitz a Londra, ma che al momento cruciale non può accompagnarlo all’Ammiragliato perché impegnato agli arsenali militari di Portsmouth. Così, Schmitz – che appena arriva in Gran Bretagna si rende conto che il suo inglese non è sufficiente («L’inglese va maluccio, sai. Non solo io non capisco loro, ma essi non capiscono me»; «La più semplice parola d’inglese che dico crea dei malintesi e dei dubbî. Se ne dico poi di più complicate allora rinunziano di comprendere e mi lasciano») – si ritrova da solo a Whitehall, nel cuore del potere politico e militare dell’Impero britannico.

L’avventura però – nel suo divertito racconto agli amici triestini – risulta assai più semplice di quanto temesse: in una stanza «squallida e disadorna», un ufficiale della marina britannica in borghese lo invita a sedersi, gli offre «una sigaretta molto profumata» e gli dice che l’affare è «virtualmente concluso». Nella lettera alla moglie del 21 giugno le conseguenze dell’accordo stipulato con la Royal Navy sono subito chiare: «L’essenziale per noi è che assolutamente pretendono la fabbrica in Inghilterra. All’ammiragliato sono stato accolto magnificamente; tutto va bene ma bisogna fare la fabbrica! Ne sono molto agitato perché certamente la famiglia che verrà a stabilirsi qui sarà la nostra, o molto probabilmente».

Per la succursale della fabbrica di vernici, i Veneziani scelgono Anchor and Hope Lane a Charlton, un quartiere di Londra nei pressi del Royal Arsenal. Poco distante dalla fabbrica, al 67 di Charlton Church Lane, affittano una casa per le esigenze dei membri della famiglia che si recano in Gran Bretagna per lunghi periodi per sovrintendere alla realizzazione e commercializzazione della pittura sottomarina. Schmitz continua a seguire le lezioni di Cautley ancora per qualche anno, forse fino al 1903: i frequenti soggiorni a Charlton (una o due volte l’anno per almeno un mese) sembrano bastare per il momento a colmare le sue lacune linguistiche.

Certo è che dalla primavera del 1907 si è trasferito a Trieste un certo James Augustine Aloysius Joyce. Non è ancora quel Joyce: è appena riuscito a pubblicare a maggio, con fatica, il suo primo libro, Chamber music, e sbarca il lunario insegnando inglese alla Berlitz School e poi a partire dall’autunno facendo ripetizioni private, diventando in breve «l’insegnante di moda presso la ricca borghesia triestina». Schmitz che «oltre ad apprendere la lingua, desiderava trovare un’esperta guida per la migliore conoscenza della moderna letteratura anglosassone» diventa uno degli allievi di quel «mercante di gerundi» (la definizione è sua). E nel corso del 1908 ciascuno dei due svela all’altro il proprio segreto: la scrittura. Schmitz ha già pubblicato a sue spese due romanzi nel 1892 (Una vita) e nel 1898 (Senilità), sotto lo pseudonimo di Italo Svevo, che non hanno avuto pressoché circolazione al di fuori di Trieste; Joyce sta lavorando ai racconti di Dubliners, nonché al Ritratto dell’artista da giovane (che rielabora parte del materiale di Stephen Hero).

Svevo e Joyce si scambiano le opere: Svevo regala le copie dei romanzi, ricevendone un giudizio più che lusinghiero, specialmente per Senilità, e Joyce dà in lettura il manoscritto dei primi tre capitoli del Portrait che Svevo legge tra la fine del 1908 e l’inizio del 1909, e ne scrive – come esercizio di scrittura – una lettera-recensione in inglese il 9 febbraio 1909 («Dear Mr. Joyce, Really I do not believe of being authorised to tell you the author a resolute opinion about the novel which I could know only partially…»).

È l’inizio di un rapporto di circospetta amicizia e di reciproca stima e riconoscimento che si interromperà solo con la morte di Svevo nel 1928; un rapporto che, specialmente per la sua prima fase, può essere ricostruito solo indirettamente. Svevo, oltre a pagare in anticipo le lezioni di Joyce, offre spesso il suo sostegno non solo economico all’amico insegnante che specialmente negli anni a cavallo tra il 1908 e 1915 è in difficoltà. Nel maggio 1909 gli facilita l’incontro con il capocomico di una compagnia teatrale, perché Joyce vuole mettere in scena la sua traduzione italiana di un dramma irlandese; nel giugno 1910 scrive un biglietto di raccomandazione per il «Prof. James Joyce». Ancora nel giugno 1915, quando Joyce – in quanto cittadino britannico – è costretto con tutta la famiglia a lasciare il territorio dell’Impero austroungarico per rifugiarsi a Zurigo, Svevo gli presta 250 corone. Joyce tornerà nuovamente a Trieste dopo la prima guerra mondiale per un breve periodo, tra l’ottobre 1919 e il luglio 1920, quando lascerà definitivamente l’Italia per Parigi.

Ma il rapporto non è affatto sbilanciato: Joyce tenta (inutilmente) di promuovere l’opera dell’amico-allievo tra i suoi studenti triestini, e probabilmente nel suo breve ultimo soggiorno triestino avrà avuto modo di incrociare Svevo e di parlare nuovamente con lui di letteratura, essendo i due scrittori impegnati rispettivamente nella stesura di Ulysses e di La coscienza di Zeno. È Joyce a spedire a Svevo i suoi libri appena pubblicati, come Dubliners nel giugno 1914, e a fornire nel febbraio 1926 due biglietti per la prima rappresentazione a Londra di Exiles. È Joyce, infine, ormai divenuto quel James Joyce, a mettere in contatto Svevo prima con Valery Larbaud nel 1924 e poi con i più importanti letterati contemporanei, promuovendo l’opera dello scrittore italiano senza risparmiarsi e contribuendo a creare il «caso Svevo» che dal 1925 in poi rallegrerà col suo portato di successo e relazioni gli ultimi anni di Ettore Schmitz.

È a questa fase che risale giocoforza la maggior parte delle lettere superstiti tra Svevo e Joyce (14 delle 19 complessive): ed è comunque un epistolario limitato non solo dai problemi di vista dello scrittore irlandese ma anche dal fatto che Svevo, oltre a non voler disturbare («A Joyce non scrivo mai se non ho argomenti importanti», come scrive a Montale nell’agosto 1926), preferiva incontrarlo a Parigi, da dove passava andando a Charlton o tornandone in Italia. La sorte di queste lettere, scambiate in italiano, inglese e dialetto triestino, una delle tante lingue praticate da Joyce, è stata curiosa: la maggior parte è conservata al Fondo Svevo di Trieste (comprese alcune lettere di Svevo che Joyce due anni prima di morire inviò alla vedova); il resto è disperso, come è successo all’intero epistolario joyciano, che ammonta a quasi 4000 lettere conservate in circa cinquanta fondi archivistici in Europa e Nord America.

Durante il lavoro per la nuova edizione dell’epistolario di Svevo, che uscirà a fine anno per Il Saggiatore, ho cercato di mettere ordine in questa che è forse la sezione più importante (insieme a quella delle lettere scambiate con Eugenio Montale). Grazie alla disponibilità ed efficienza delle biblioteche statunitensi che ho contattato, sono riuscito a recuperare non solo l’originale di una lettera già pubblicata sulla base di una trascrizione erronea, ma soprattutto cinque documenti inediti di Svevo: tre lettere, una cartolina e un biglietto da visita usato come lettera di raccomandazione per Joyce. Sono importanti sia per il contenuto (perché illuminano aspetti finora sconosciuti del rapporto Svevo-Joyce), sia per il periodo cui appartengono, tra il 1909 e il 1912, che è quello in cui quel rapporto si consolida e del quale finora possedevamo solo tre lettere, oltre a un altro esercizio di scrittura inglese, il noto ritratto di Joyce (Mr. James Joyce described by his faithful pupil Ettore Schmitz).

I documenti sono stati pubblicati integralmente sulla Nuova Rivista di Letteratura Italiana e compariranno anche nell’edizione delle Lettere: ne presento qui una scelta.

Simone Ticciati

Italo Svevo a James Joyce (5 agosto 1909, Vallombrosa)
James Joyce collection, #4609. Division of Rare and Manuscript Collections, Cornell University Library.

How are you dear Mr. Joyce? Here are two Englishmen who do not speak at all. I hope you enjoy your holydays among your family.

Arrivederci in Settembre

Suo aff.o

E. Schmitz

[Come sta caro signor Joyce? Qui ci sono due inglesi che non parlano affatto. Spero che si goda le vacanze con la sua famiglia.]

Nell’agosto 1909, mentre Joyce è in Irlanda presso la famiglia, Svevo gli spedisce a Dublino una cartolina illustrata da Vallombrosa dove è andato in vacanza con la moglie su consiglio di un collega della ditta Veneziani, Ario Tribel. L’inglese di Svevo è ancora malcerto (holydays) – ed è impossibile fare esercizio con i due inglesi che soggiornano a Vallombrosa, ma il grado di confidenza tra i due scrittori è già alto. Va registrato qui che Joyce non si stava affatto godendo le vacanze: era a Dublino, oltre che per far conoscere il figlio Giorgio alla famiglia, per cercare di pubblicare Dubliners e per tentare di ottenere una cattedra di italiano (che poi si rivelerà un semplice lettorato di italiano commerciale) all’Università Nazionale d’Irlanda. Ma soprattutto il 6 agosto incontra un vecchio amico d’infanzia, Vincent Cosgrave, che gli fa credere che la compagna, Nora Barnacle, lo abbia tradito con lui cinque anni prima. Joyce ne è sconvolto, e arriva a dubitare che il figlio nato nel luglio 1905 sia suo. La crisi si ricomporrà nel giro di pochi giorni e a settembre Joyce rientrerà a Trieste.

Italo Svevo a James Joyce (15 giugno 1910, Charlton)
Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University; James Joyce Collection

Charlton 15.6.1910

My dear Mr. Joyce, I am sorry indeed that I could not take leave from you in a proper manner. On Saturday I did not know yet that I had to start so soon. Be so kind to excuse me. You were so excited over the cynematograph – affair that during the whole travel I remembered your face so startled by such wickedness. And I must add to the remarks I already have done that your surprise at being cheated proves that you are a pure literary man. To be cheated proves not yet enough. But to be cheated and to resent a great surprise over that and not to consider it as a matter of course is really literary. I hope you are now correcting your proofs and not prepared to be cheated by your publisher. Otherwise the book could not be a good one.

We are here in good health. I am working and my wife is enjoying the new surroundings.

By and by she will be caught by her Anglomania and you will have a hard live to speak to her against your oppressors.

Please remember me most kindly to your brother.

I am, dear Mr. Joyce

Yours very truly

Ettore Schmitz

[Mio caro signor Joyce,

mi dispiace davvero di non essermi congedato da lei in modo adeguato. Sabato non sapevo ancora che dovevo partire così presto. Sia così gentile da scusarmi.

Lei era tanto agitato per la vicenda del cinematografo che per tutto il viaggio ho avuto sempre davanti agli occhi il suo volto sconvolto da tanta cattiveria. E devo aggiungere alle osservazioni che ho già fatto che la sua sorpresa per essere stato imbrogliato dimostra che lei è un letterato puro. Essere imbrogliati non prova niente. Ma essere imbrogliati e serbare risentimento per la sorpresa non considerandola una cosa tanto ovvia, è veramente cosa da letterati. Spero che ora lei stia correggendo le bozze e che non sia disposto a farsi imbrogliare dal suo editore. Altrimenti non ne verrebbe fuori un buon libro.

Noi siamo qui in buona salute. Io lavoro e mia moglie si gode il nuovo ambiente. Presto sarà presa dalla sua anglomania e lei avrà vita dura a parlarle male dei vostri oppressori.

La prego di ricordarmi molto caramente a suo fratello.

Sono, caro signor Joyce

il suo molto affezionato

Ettore Schmitz]

Quando Joyce rientrò a Trieste a metà settembre, decise di portare con sé una delle cinque sorelle, preoccupato per la situazione difficile in cui si trovavano. Eva Joyce, appena arrivata a Trieste, fece notare al fratello che la città era piena di sale cinematografiche, tutte frequentatissime, mentre Dublino ne era completamente priva. Joyce si lanciò immediatamente nell’impresa di portare il cinema in Irlanda, proponendo l’apertura di un cinematografo a quattro imprenditori triestini: Giuseppe Caris e Giovanni Rebez che gestivano già il «Cineografo Americano» in Piazza della Borsa e il «Salone Edison – Cinematografo Ideal» in via del Torrente; Antonio Machnich, proprietario di un cinematografo ambulante; e il commerciante Giovanni Rebez. La società, creata il 16 ottobre 1909, e il «Cinematograph Volta» di Dublino, inaugurato il 20 dicembre 1909, ebbero vita brevissima: il 18 aprile 1910 i soci deliberarono la vendita dell’attività a causa delle ingenti perdite, dovute alla cattiva gestione e alla scelta di titoli non graditi dal pubblico dublinese, e il 14 giugno il «Volta» venne ceduto al «Provincial Cinematograph Theatre». Joyce – pur non avendo investito personalmente nell’impresa – lamentò il mancato introito di 1000 corone.

In questa lettera Svevo chiosa l’appena conclusa avventura dell’amico: alla rabbia dell’irlandese oppone una morale che si intuisce essere non solamente personale ma – se così si può dire – imprenditoriale. Svevo, forte della sua esperienza, sa che in affari questi rovesci sono merce comune; e mostra all’amico la lezione che è necessario ricavarne. Non bisogna serbare risentimento (to resent a great surprise over that) proprio perché si tratta di una cosa così ovvia (a matter of course); ma anzi, è bene far tesoro subito dell’esperienza, e dimostrare coi fatti di non essere più disposti (prepared) ad essere imbrogliati. Proprio resent e prepared sono due delle lezioni ristabilite sull’originale manoscritto della lettera; mentre le precedenti (present e frightened) proiettavano una luce di taglio sulla personalità di Svevo, queste – oltre a denotare il suo livello di competenza linguistica, sia pur tra incertezze e costruzioni sintattiche ardite – indicano anche la qualità della lezione che Svevo offre a Joyce a partire dallo sfortunato affare del cinematografo.

Forse non si può credere fino in fondo a certe affettazioni di modestia («Io non sono un letterato», Lettera ad Attilio Frescura del 10 gennaio 1923); Svevo era certamente un letterato, ma altrettanto certamente un letterato «sa sempre di essere composto di due persone». Una di quelle due persone, Schmitz, era uno scaltro commerciante e industriale che, ad esempio, durante la prima guerra mondiale riuscì a opporsi con successo alla pretesa da parte della Marina da guerra austro-ungarica di requisire la ditta Veneziani e di farsi consegnare la ricetta della vernice sottomarina. Molte delle lettere di Svevo sono andate perdute: ma quelle di cui forse più posso lamentare la scomparsa sono proprio quelle che l’impiegato Schmitz inviava alla ditta e ai colleghi-cognati (due mariti delle sorelle della moglie erano impiegati nella Veneziani). Se si eccettuano alcuni accenni all’interno di alcune lettere alla moglie, se ne può avere un’idea dall’unica integralmente sopravvissuta, quella spedita da Charlton al cognato Marco Bliznakoff il 24 febbraio 1924; qui Schmitz spiega con dovizia di particolari e altissima precisione la modalità di realizzazione di un sistema per ridurre i fumi prodotti dalla fabbrica: «Il fumo delle caldaie ha da passare per tre torri irrorate d’acqua, quadrate, alte 10 piedi larghe 6; tutte di legno meno la bacinella su cui poggiano ch’è di una pietra resistente ad acidi e che costa Lst. 3»…

Italo Svevo a James Joyce (13 marzo 1912, Charlton)
James Joyce collection, #4609. Division of Rare and Manuscript Collections, Cornell University Library

Charlton, Kent,
Church Lane, 67

Dear Mr. Joyce,

I am a little late in writing to you and present you my best compliments for the lectures you have hold at Trieste. Here in this country are – I am told – about 1.000.000 of workers unemployed. Unhappily I am not one of them and I have to work every day.

I thaught very often of my Irish friend delivering lectures surely a bit at a higher level than the audience but I never reached a pen to tell him that I did. That bit is put there only in order to indulge in my patriotic feelings.

You will know by the papers that we are here starving and freezing. If you have some spared coal you may make a splendid bargain by sending it to Newcastle where is at present the greatest need. I must say I am here curiously watching what this people will do to stop all the disorders which threaten the Empire. And then we shall discuss quietly the question if they did well or not. I shall deliver speaches on the question which will bore you and Mrs. Schmitz (who reads what I am writing and wants to be remembered to you most kindly).

I hope, dear Mr. Joyce, we shall meet within three weeks.

I remain yours truly

E. Schmitz

[Caro signor Joyce,

con un po’ di ritardo le scrivo e le presento i miei migliori complimenti per le conferenze che ha tenuto a Trieste. Qui in questo paese ci sono – mi dicono – circa 1.000.000 di lavoratori disoccupati. Purtroppo io non sono uno di loro e devo lavorare ogni giorno.

Ho pensato molto spesso al mio amico irlandese che teneva conferenze sicuramente a un livello un po’ più alto di quello del pubblico ma non ho mai preso la penna per dirglielo. Quel po’ è messo lì solo per assecondare i miei sentimenti patriottici.

Saprà dai giornali che qui stiamo morendo di fame e di freddo. Se ha del carbone da parte potrebbe fare uno splendido affare spedendolo a Newcastle dove c’è al momento il maggior bisogno. Devo dire che sto qui a osservare con curiosità cosa farà questo popolo per fermare tutti i disordini che minacciano l’Impero. E allora discuteremo tranquillamente se hanno fatto bene o no. Terrò dei discorsi sulla questione che annoieranno lei e la signora Schmitz (che legge quel che scrivo e domanda di esserle ricordata cordialmente).

Spero, caro signor Joyce, che ci incontreremo di qui a tre settimane.

Resto il suo devoto

E. Schmitz]

La chiave di questa lettera è nello sciopero nazionale che i minatori britannici avevano indetto il 1° marzo 1912 per ottenere un salario minimo garantito. In pochi giorni un milione di lavoratori perse il lavoro e ci furono pesanti conseguenze sui trasporti e quindi sugli approvvigionamenti di generi alimentari (oltreché ovviamente di carbone). Lo sciopero si concluse con successo il 6 aprile 1912, perché il Parlamento approvò il Coal Mines Act che per la prima volta fissava un salario minimo garantito per i minatori. In questa lettera Svevo, oltre a scherzare sulla situazione, approfitta dell’occasione per complimentarsi con Joyce per le conferenze su Daniel Defoe e William Blake da lui tenute il 27 e 28 febbraio per l’Università popolare di Trieste, e insieme per alludere allo scarso livello dell’uditorio, sicuramente non all’altezza dell’oratore.

Qui (I shall deliver speaches on the question which will bore you and Mrs. Schmitz), come nella precedente lettera (you will have a hard live to speak to her against your oppressors), è evidente il riferimento all’abitudine presa da Svevo e Joyce di conversare sui più diversi argomenti, in italiano, inglese e triestino, nei caffè di Trieste, a Villa Veneziani, o nelle molte case che Joyce prese in affitto; e di cui resta in queste frasi e in queste lettere una debole, scolorita traccia.

Le informazioni e le citazioni sono tratte sia dalle lettere di Svevo sia dai seguenti volumi:

Fulvio Anzellotti, Il segreto di Svevo, Pordenone, Studio Tesi, 1985.

Umberto Saba, Italo Svevo all’Ammiragliato britannico, in Prose, Milano, Mondadori, 2001.

Livia Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1958.

Brian Moloney, Friends in Exile: Italo Svevo and James Joyce, Leicester, Troubadour Publishing, 2018.

Italo Svevo, Racconti e scritti autobiografici, Milano, Mondadori, 2004.

Le lettere inedite di Svevo a Joyce sono state pubblicate integralmente in Simone Ticciati, Cinque lettere inedite di Italo Svevo a James Joyce (e una nuovamente edita), «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», a. XXIV, n. 1 (2021), pp. 119-136.

ARTICOLO n. 51 / 2021

CHE COS’È L’AMORE

Il mio interesse per il tema «amore» è sempre stato tiepido. Al punto che, per quel che mi riguardava, la faccenda poteva essere liquidata con un paio di citazioni ad hoc.  La prima è il folgorante incipit de L’erotismo di Georges Bataille, libro che lessi nel 1979, a diciassette anni: «Dell’erotismo possiamo dire, innanzitutto, che è l’approvazione della vita sin dentro la morte». La seconda è una frase del Viaggio al termine della notte di Céline, letto nel 1995 a trentadue: «L’amore – Arturo – è l’infinito messo alla portata dei cani».

Parto da Bataille, dunque. Di L’erotismo mi colpì molto, al di là di quella frase, la riflessione che sempre nelle pagine introduttive Bataille sviluppa attorno al concetto di «continuità», asserendo che noi umani, esseri discontinui, non smettiamo proprio per questo di desiderare una «continuità perduta». Ebbe un effetto simile, quell’osservazione sulla continuità, all’«Io è un altro» della Lettera del veggente di Rimbaud: una di quelle cose che a diciassette anni sembrano cambiare all’improvviso e in modo definitivo il tuo sguardo non solo sulla realtà ma anche – senti con un misto di entusiasmo e allarme – su te stesso. Ecco dunque cosa cercavamo, io e la mia fidanzata Cristina, quando amoreggiavamo per finire avvinghiati in un abbraccio che presto rivelava un’urgenza erotica, un bisogno di sconfinamento e di fusione: la continuità perduta. Ma allora perché il nostro primo rapporto sessuale mi era parso così difficile, macchinoso, il piacere finale un lampo che non pareva giustificare il protratto travaglio? E perché anche nei seguenti compiuti senza più timori, pudori, goffaggini, ancora quel residuo di perplessità: «Tutta qui, la faccenda per cui gli umani spasimano e a volte perdono la testa, tutto qui l’esito del desiderio più potente, fuoco che continua ad ardere sotto la brace della vita sociale, sotto il lenzuolo lindo e stirato delle sue forme?».

L’aveva dunque sparata grossa, Bataille? Non è che la «continuità perduta» era qualcosa che stava solo nella sua testa di mistico intemperante, di asceta intermittente? Uno che voleva tutto e il contrario di tutto: il bordello e l’altare, la preghiera e l’orgasmo, la bestemmia e la benedizione?

Seconda scena. Dopo le prime, deludenti, esperienze sessuali ho l’occasione, nell’estate del ’79, di passare un periodo in totale solitudine, a casa. Animato dal desiderio di assomigliare il più possibile alla figura eletta a mio alter ego, David Bowie, provo il digiuno vero, radicale, ad oltranza. E scopro che alla mattina del quarto giorno, spariti di colpo spossatezza e affanno, in una sorta di gioioso commercio d’amore mente e corpo si sono scambiati parti e connotati: il corpo è più che mai etereo ma al tempo stesso traboccante di energia, la mente così potente da riuscire a scartare come regali a lei destinati le cose che le si manifestano – oggetti, finestre, pareti – per guardarci dentro e attraverso.

Alla fine dell’estate rivedo la mia fidanzata – «Cris, ho un segreto pazzesco da rivelarti» – e così cominciamo a digiunare insieme, inventandoci di volta in volta scuse per fugare sospetti e sotterfugi per depistare controlli. Finché un giorno, fuori dal liceo, le vado incontro sventolando un libro: «Cris, ho finalmente capito chi siamo!» e apro il libro – Dopo Nietzsche di Giorgio Colli – nel punto di un aforisma cui l’autore ha dato un titolo intrigante: «Aristofane e Freud».

Partendo dal mito dell’androgino contenuto nel Simposio di Platone, in poche righe folgoranti Colli confronta il sentimento d’amore dei Greci con quello di noi moderni influenzati dalla lettura di Freud, confronto a tutto vantaggio dei primi. Per chi non conosca il mito, ecco una sintesi: racconta Aristofane che anticamente i mortali appartenevano a tre generi – maschile, femminile e androgino – e che tutti erano di forma sferica come gli astri loro progenitori: il sole del maschio, la terra della donna, la luna dell’androgino. Avevano dunque ciascuno quattro braccia, quattro gambe, una testa con due facce rivolte ai lati e due organi sessuali rivolti anch’essi all’esterno. Allarmato dalla loro sfrenata ambizione, Zeus decide un giorno di tagliarli in due, ed ecco apparire gli umani così come li conosciamo: due gambe, due braccia, un volto. Ma, come impazzite, le metà separate cominciano disperatamente a cercarsi e quando hanno la fortuna di ritrovarsi e riconoscersi si abbracciano per non staccarsi più, ricomposte e felici. Al punto che, perse nell’estasi dell’unità ritrovata, dimenticano persino di mangiare e muoiono. Ecco allora il secondo intervento di Zeus, questa volta pietoso: volge all’interno gli organi genitali in modo che quando le metà si ritrovano l’abbraccio sia in grado di generare. La specie umana è salva e, con lei, le offerte e i sacrifici destinati agli Dei.

Giorgio Colli, con micidiale affondo, commenta che l’eros non ha nulla a che fare con la sessualità perché «la precede e la sovrasta». Più nello specifico, eros è desiderio di oltrepassare l’individualità e, se possibile, estinguerla in quanto ostacolo alla pienezza del Tutto, mentre la sessualità evocata da Freud come presunta regista di ogni nostra azione e omissione, semplice artificio per consentire la conservazione della specie e ribadire la subalternità – diciamo pure la sudditanza – dell’umano al divino. Ero troppo acerbo per capire che quell’analisi spiegava con implacabile esattezza il mio controverso rapporto con la sessualità, sicché a Cristina dico solo che noi siamo le due metà di un androgino, metà che si sono ritrovate per non lasciarsi più nel segno di David Bowie, il nostro androgino ideale di bellezza. E mentre lo dico penso a certi pomeriggi passati insieme, al terzo o quarto giorno di digiuno: io e lei distesi sulla moquette – arredo tipico, in quegli anni, delle case dei borghesi benestanti – che ascoltiamo Bowie o il suo selvatico doppio Iggy Pop. Siamo seminudi dopo esserci scambiati vestiti e biancheria intima, leggiamo frammenti dell’Eliogabalo di Antonin Artaud e, pur strusciandoci l’un l’altro come due gatti, non sentiamo il bisogno di fare l’amore: ci basta l’abbraccio, la penetrazione delle nostre anime, di cui il corpo è ormai pura appendice. Non siamo mai stati così felici. Non potevo immaginare che presto nemmeno la sublime unità erotica non carnale rivelata dal digiuno, unità che secondo Colli «precede e sovrasta» la sessualità, mi sarebbe bastata. E che il dio del digiuno avrebbe lasciato il posto a un dio ancor più immediato e potente: quello della droga.

Terza scena. Agosto 1981: è più di un anno che m’inietto eroina, ma avendolo fatto saltuariamente, mai più di due giorni di seguito, non ho ancora sviluppato una dipendenza fisica. Psichica però sì, e più di quanto non immaginassi. Trangugiato l’enorme rospo di una mia passeggera infatuazione per la ragazza che mi avrebbe iniettato la prima dose, Cristina, pensando mi sia pentito di colpe ed errori – il tradimento e la droga – mi convince a partire per una vacanza in Grecia con gli amici del liceo. Grecia è nome che non mi lascia indifferente: è infatti in Grecia, tre anni prima, che ho vissuto la mia prima vacanza per così dire in libertà condizionata, affidato ad amici dei miei. Per la prima volta, sull’isola di Skiathos, ho incontrato le meraviglie della solitudine crogiolandomi in emozioni che risuonavano come mai prima, specchi della mia profondità e unicità. È iniziato lì, il narcisismo tragico che connota alcune adolescenze e che di certo ha segnato la mia. Fatto sta che per quaranta giorni rigo dritto, anche perché non è facile trovare eroina a Paros, Ios o in altre isole delle Cicladi. Ma durante il viaggio di ritorno, mentre il traghetto attraversa lento lo Stretto di Corinto, accade uno di quei fatti che dividono la vita in un prima e in un dopo. Cristina mi chiede che cosa intenda fare una volta rimesso piede a Milano, visto che ho perso un anno e ne devo recuperare ormai due per conseguire la maturità. «Ci penserò, ancora non lo so, Cris – le dico affettando impazienza – una cosa però so di certo: appena arrivo a Milano vado a comprare un po’ di roba perché ho una voglia matta di farmi». Scoppia il finimondo: Cristina prima mi copre d’insulti, poi m’insegue impugnando una forbice da parrucchiere. Alla fine, stremata, si accovaccia in un angolo del traghetto, lontano dagli amici e dai turisti che hanno osservato la scena esterrefatti. Mi avvicino cauto, ma prima ancora che spiccichi parola mi blocca: «No, non dirmi nulla, Fabio. Tanto a questo punto non mi restano che due possibilità». «E quali sarebbero, se posso sapere?». «Ti lascio… Oppure ti seguo fino in fondo». Quindici giorni dopo, il 13 settembre 1981, timorosa e trepidante Cris mi porge il braccio sinistro e si fa iniettare la prima dose d’eroina: aveva deciso di seguirmi fino in fondo, pur di non perdermi. Cristina non c’è più: è morta di Aids il 9 aprile 1995. Ma sarà sempre in me, con me, finché non ci riabbracceremo e, pur dimenticandoci di mangiare non moriremo d’inedia, abbracciati per l’eternità come le due metà dell’androgino nel mito di Platone.

Cristina è stata la prima – non l’ultima, per mia fortuna – a mostrarmi l’amore incondizionato. L’amore che ama l’altro integralmente, per quello che è e anche, a volte, nonostante quello che è. La prima ad avermi mostrato che non può esserci amore senza rischio, messa in gioco, coraggio. Un altro che mi ha amato coraggiosamente è stato Vincenzo Muccioli. Ci vuole un enorme coraggio per assumersi la responsabilità di un reato grave come il sequestro di persona per cercare di salvare una persona in pericolo di vita, tanto più se non hai con lei legami di sangue o amicizia. Solo l’amore incondizionato te lo fa fare. L’amore di chi ama l’altro non come sé stesso – secondo precetto evangelico – ma al di là di sé stesso.

E qui vengo al punto cruciale di questa mia spericolata riflessione sull’amore. «Amore» – per quello che la mia limitata esperienza mi ha fatto capire – è parola che sta al posto di un’altra, e quest’altra parola che dice davvero l’essenza dell’amore è: autotrascendenza. L’amore è quella sensazione di pace, beatitudine e cosmica compiutezza che proviamo quando andiamo oltre noi stessi, quando la baldanzosa corrazzata dell’io diventa il «battello ebbro» di Rimbaud. È il bene che ci pervade quando ci abbandoniamo alla vita che c’incarna e ci attraversa, l’estasi del divenire – del ritornare – «aria nell’aria, acqua nell’acqua», come diceva Bataille. Vita nella vita, mi permetto di aggiungere… L’amore, in tal senso, ha a che fare col sacrificio, a patto di non intendere la parola come una privazione o una rinuncia ma, letteralmente, come un «rendere sacro» o meglio rendere al sacro, cioè riportare l’io che s’abbandona alla sua sorgente e alla sua foce, alla sua origine e destinazione divine, come la vita.

Non ci può essere insomma compatibilità tra l’amore e l’io: l’amore senza autotrascendenza non è amore ma possesso e, fatalmente, violenza. È assoggettamento dell’altro da parte di chi non ha compiuto il passo decisivo per accedere alla conoscenza fondamentale, base di ogni altra: riconoscere l’altro in sé, l’altro che noi stessi siamo, come scrisse Rimbaud. 

Chiudo tornando alle due citazioni iniziali. Bataille e l’erotismo come «approvazione della vita sin dentro la morte». Affermazione forte, affascinante e profondamente vera a patto di comprendere che, per chi ha trasceso l’io, l’opposizione vita e morte non sussiste più. È solo per l’«io» che vita e morte si contrappongono. Per chi è andato al di là dell’«io» l’essere esplode come divenire, metamorfosi, evento che muore e proprio perciò rinasce a ogni istante. A costui, come allo Zarathustra di Nietzsche, è accaduto nell’«ora senza voce» di ascoltare la voce del silenzio chiedergli: «Che importa di te, Zarathustra!». A costui è capitato di tornare alla solitudine e ai silenzi dell’adolescenza, dove in embrione c’era già tutto.

Infine Céline: l’amore come «infinito alla portata dei cani». Ci sono foto meravigliose che ritraggono Céline a Meudon, negli ultimi anni di vita, insieme ai suoi cani danesi. Céline amava molto gli animali, li amava più degli uomini, si sarebbe tentati di dire: cani, gatti, il pappagallo del Gabon che pure visse con lui e la compagna Lucette, insegnante di danza, a Meudon. Mi piace dunque pensare che quel «a portata dei cani» sia da intendere come un «all’altezza» o «alla capacità di». Come un innalzamento e non un abbassamento o, peggio, una riduzione. Mi piace pensare che nell’amore – anch’esso incondizionato – che un cane arriva a sentire per un essere umano, il solitario, scorbutico ma generoso Louis Ferdinand Auguste Destouches detto Céline – quante visite mediche gratuite ai poveri del circondario! – abbia visto l’amore di cui ogni umano dovrebbe essere capace.

ARTICOLO n. 50 / 2021

DONNE E UOMINI

TRADUZIONE DI ANDREW TANZI

Ricordiamo già cosa succede.

Il come è un altro discorso.

Non è un’ombra quella là sulla strada che corre parallela a noi o al nostro sogno? È carica?—arriva pure da una qualche direzione opposta, in cerca di una luce da far sua. Dategli un’occhiata. È da condividere e, così ci pare, con noi. Meritiamo di sapere cosa si avvicina da fuori? Davvero, non ricordiamo se faceva parte delle profezie, c’è così tanto da fare ora.

Una volta una madre che non raccontava storie mandò via i due figli. Per essere umana, disse di sicuro a uno di loro. Ma ciascun figlio sentiva che ad andarsene era stata lei, non lui. Anche se il suo movimento verso il futuro era concreto: per cui relativo a quello della madre come quello della madre al suo.

Per continuare, una volta c’era questo vuoto di potere. Un vuoto ancora indefinito che implorava al potere di riempirlo alla svelta. Questo era pacifico. Tra persone sedute insieme, tutte con le gambe accalcate sotto un tavolo. Di mese in mese, di anno in anno, il tavolo assumeva una certa forma—rotondo oblungo ovale rotondo—di secolo in secolo, ci capitò di sentire—mentre sotto il tavolo tutte le gambe definivano i protocolli. Un nuovo modo di sgambettare. Si trattava, così fu stabilito, di un livello di energia elevato. E non ne siete responsabili? ci domandammo—e la risposta fu, Delle gambe o delle persone? (Sgambettate, disse uno). Ma mentre una parte di questo era da discutere a tavolino, in linea di massima si concordava sull’eventualità di un vuoto di potere. Come la coscia umana, si era evoluto nella mente. Come femore per «coscia». Ma un vuoto di potere—pensateci.

Le parole attecchirono. Una figlia aveva tra queste parole un nome per Padre. Ma pensate che, nel bel mezzo di un’epoca che ci avrebbe fiondati nella bastardaggine, pure noi avevamo un nome tutto per noi che ci fece decollare bam bam uuushh grazie-babbo; giacché da vuoto di potere si ricavò Power Vac che divenne l’etichetta cui aspiravamo per vendere il nostro sogno. E allora fallo questo viaggio per smerciare, o almeno fanne una tratta, tesoro. Il Vuoto di Potere era l’unico appiglio cui ci serviva aspirare.

Ah appiglio per cosa?

So cos’è successo, dice un figlio ignoto a un adulto in via di cambiamento. Del tipo, non credere che non sappia.

Maneggiare con cura. L’ombra sulla strada, la strada maestra, è quella di un Carico Pesante, lo dice il cartello stesso, e questo Carico Pesante (una casa o altro recipiente) che credevamo viaggiasse parallelo a noi sembra che non riusciamo a superarlo né a non superarlo. Eppure dopo un sorpasso tanto audace quanto pericoloso, non ce l’abbiamo di nuovo lì davanti? Esatto. Non poteva fermarsi per noi quindi, così come non potevamo fermarci noi? Aveva le finestre e le persiane semiaperte. Aveva i cartelli con la scritta CARICO PESANTE e il ricordo del retro è così vivido che quasi ce lo vediamo davanti ed era largo quanto il paesaggio oscuro che attraversavamo sul nostro veicolo indigeno di ultima generazione, le bici fissate come montagne sul tettuccio con i raggi sfolgoranti come le immense ruote posteriori gemellate di questo Carico Pesante ora davanti a noi che pian piano girano all’indietro come nel riflesso degli uffici specchiati ai piani bassi di una compagnia di simil-assicurazioni appena fuori da un villaggio nuovo.

Ricordiamo cosa succede. Ricordiamo già quanto si trova qui con noi da così tanto che abbiamo avuto il tempo di vederlo ma ora pare che aspettiamo di ricordarlo. Giacché chi siamo per non farlo? Eppure ci concediamo anche di dimenticare.

Dunque, un pensatore del secolo in questione, il ventesimo tra i tanti secoli recenti che lo circondano e respinti a volte dal ventesimo stesso, disse che Significare qualcosa è come avvicinarsi a qualcuno. Se è così, cos’è questo che intendiamo trasmettere, e già che ne abbiamo qui un altro, chi è questo qualcuno che intendiamo condividere, noi che probabilmente non siamo stati i primi qui ma che siamo altrettanto indigeni almeno in rapporto a questo movimento. Meritiamo di sapere cosa ci viene incontro.

C’è una pausa qui? O è il nostro respiro congiunto? È quel che c’è tra noi, o che condividiamo. Un congiunto, lo siamo tutti. E che tempismo questo respiro o questa pausa. E abbiamo a malapena iniziato. Cosa che facciamo sempre, no? È il momento migliore. Un attimo di respiro ora.

Ecco, sentiteci cadere. Verso l’orizzonte per quanto obliquo, giacché immaginiamo non sia la nostra condizione naturale. Che potenza che siamo per essere qui e per aver deviato verso la vita riuscendo persino a pensare in modo distinto da questi angeli che ultimamente sentiamo speculare dentro di noi come se imparassero a sperare. Meritiamo di sapere cos’abbiamo dentro.

Ora, allontanati da una madre quando sembrava lei a essersene andata, quei due figli ricordati erano di nascosto sia uno sia due. Ossia, proseguiamo ma non proseguiamo; ce ne andiamo ma siamo ancora lì. Mayn si chiamavano, e dei due figli quello che alla fine se ne andò davvero si chiamava James.

E per continuare: un vuoto di potere su misura trovato da una figlia al posto del padre ancor prima di sentirne parlare là fuori nell’hinterland restò fisso con lei e in tarda età divenne fonte d’ispirazione. Cos’avrebbe fatto con un padre meglio definito? Chiamatela Grace Kimball e lei vi udirà.

Uditeci mentre cadiamo verso l’orizzonte. È il vento dall’altro lato di un ostacolo che ci tira verso di sé. Ma il vento è nostro tanto quanto l’ostacolo che abbiamo sentito come semplice preludio di qualunque cosa ci aspetti dall’altra parte. Udite cosa c’è nel vento. Una canzone, dice qualcuno (di sicuro un adulto). Ma, intessuto nella canzone, udite il rumore. Il rumore, di per sé una città dove non tutti si conoscono. E ogni secolo è una persona che giunge in quella città. Del tipo, per ogni riferimento futuro, una donna sempre giovane, sposata una volta, divorziata una volta, senza figli ma con i suoi seguaci, di nome Grace Kimball, che inevitabilmente si sarebbe fatta sentire; e da un altro punto di vista, per ogni riferimento (leggasi insediamento) futuro, un uomo di famiglia e viaggiatore, pure lui sposato una volta, divorziato una volta, un uomo di nome Mayn, James Mayn, ha udito il rumore. E se anche non dovessero mai incontrarsi, siamo stati invitati lo stesso: come se in ogni caso fossimo noi la notizia—incontro o non incontro—così come siamo i loro anelli di congiunzione. E non ci sembra di essere qualcosa di più?

Gli angeli incaricati di farsi sentire ogni tanto da qui dentro all’inizio non c’erano. A volte non sappiamo bene cosa siano.

Una volta tanto tempo fa una madre disse a uno dei due figli che doveva andarsene ed era ancora giovanissimo sebbene fosse un ragazzone forte e maturo. Ma poi fu lei ad andarsene prima di lui e così gli sembrò che fosse stata lei a partire, non lui.

Di storie sua madre non ne raccontava mai, sua nonna invece sì e le storie della nonna s’ispiravano a un’avventura di tanto tempo prima, addirittura del secolo precedente. Questi vecchi resoconti sembravano riflettere a volte la vita del nipote ma lui non ci faceva troppo caso e si fidava delle storielle della nonna.

Lui fa parte di tutto questo, dove amore e separazione vanno a braccetto e si distinguono a fatica. Purtroppo ha lasciato moglie e figli. Ma non ha vissuto, quindi, un po’ come aveva sempre fatto? È un periodo in cui cambiamenti del genere si susseguono. Dei cambiamenti nella vita si parla tanto e lo sentiamo e lui probabilmente vi dà più peso del dovuto, quindi deve guardare piuttosto avanti— forse è troppo tonto per spaventarsi, dice scherzoso. Persone importanti di passaggio che più o meno conosce vanno e vengono qui—fanno forse parte del suo lavoro? Sono notizie?—su nascita, innamoramento, tenacia, vita privata, i figli?

Di tutto questo fa parte anche una donna che lui forse non incontrerà mai. Se non tramite altri. Al contrario di lui, lei questi altri li considera parte del suo lavoro: non stanno, infatti, scoprendo il proprio corpo e il proprio sé? non progettano la propria vita? non esplorano le varie possibilità? Giacché il mondo intero va e viene intorno a lei come tanti mercanti. La storia passa dalla sua voce e dalle sue mani servizievoli, le viene rivelata ventiquattro ore al giorno cosicché nei ginecei che ha creato e con cui si guadagna da vivere a metà degli anni settanta del secolo in questione lei gestisce le cose con una fede frutto del potere più che il contrario. La si può far fessa ma non a lungo.

Tutto questo si verbalizza. In tanti corpi oppure, come hanno detto i nostri condottieri, su base individuale. E da quel che abbiamo capito si verbalizza anche in questo «noi» che abbiamo udito. Cos’è? una specie di comunità? La nostra. Va a regime ridotto e poi di colpo si supera. Cosicché nel framezzo abbiamo questa voce dei congiunti—è così?—anche dei congiunti possibili.

Una verità qui è che gli angeli esistono nel pensiero. In grandi numeri, pare, ed entro un raggio limitato, a quanto ci risulta. Ma poiché gli angeli vengono invocati per fungere da custodi o messaggeri, intermediari vascolari o luce fine a se stessa, sembra sia concesso loro più potere che potenziale. Eppure, gli angeli non hanno il diritto o quantomeno l’abilità di essere altro oltre a se stessi, o meno, o di più, in quanto accasati nel pensiero? Cosa succede se pian piano s’infilano dentro, s’infiltrano, si trapiantano, trovano l’essere già presente lungo la curva dell’umano che si dice sia la loro nuova curva evolutiva—ma per diventare noi oppure gli angeli che, di fatto, possono essere?

Ma questi angeli sono nostri e basta? S’infilano e si defilano dai nostri discorsi come una specie di consiglio avanzato che riconosciamo perché ne serbiamo il ricordo. E cos’è questa comunità— questo grande Noi cui siamo noi stessi a dar voce? Sarà anzitutto una comunità capace pure di accogliere angeli veri abbastanza da crescere tramite mezzi umani.

Dio, l’interferenza! Non la udiamo come in passato, quel che abbiamo udito una volta—il dio che si libera, suona le sirene, come la nostra nave meteorologica sotto la livrea bianca della Guardia Costiera.

Il dio, s’era udito? Il dio? Non la dea, quindi. La sirena che risuona quindi con il soffio del dio o della dea; il soffio che si fa soffiata—la nostra soffiata. Le soffiate fanno notizia. Ma erano tutte notizie. Il vento che articoliamo per produrre il suono delle caverne. Suoni sulla pelle. Lo sapevamo, il suono di ossa che vivono sotto la superficie, visibili come la caviglia e la mascella e poi tutto quello che collega le ossa del collo a quelle delle cosce che maschili o femminili sono comunque i soliti femori sotto la pelle. Non possiamo trovare quindi, per esempio, una domanda che possa accogliere due o più risposte? Non c’è abbastanza respiro perché tutti noi possiamo tirarne uno qui?

Dunque, se maschile sta a femminile allora morale sta a femorale, ma poi ci trovammo subito con la testa scagliata oltre tutto questo verso un luogo dove, ad ascoltare la coscia del divino (la carne non è d’ostacolo) cogliamo—meno tendiamo l’orecchio, più ci sentiamo—le vibrazioni di un modo d’agire migliore—costato, a rischio costo—cogliamo cos’altro se non la volontà di un verme lì dentro che si muove pian piano. Nella coscia divina (e carne sia).

Tuttavia cogliamo solo l’impronta della tenia, l’impronta lasciata dall’eco derivante dal suo progresso altrove, ben lontano da qui. Vibrazioni che risalgono dalla pancia dove il verme è agganciato, ebbene sì, oltre il divario a volta dell’inguine.

E questa tenia stazionaria assorbe grazie alle molteplici microunità che costituiscono i segmenti del sistema nervoso il menù omogeneizzato della dieta suprema—leggasi sacra—divina—leggasi all’improvviso diva che nel linguaggio della lirica sta per dea. Aspettate però: che dieta è questa? Dobbiamo saperlo. Ah è il cibo digerito che ospita la tenia il cibo poi trasformato dalla tenia ospite con l’aggiunta di una nuova paraplacenta che riveste le pareti dello stomaco di questa diva—leggasi uccellina canterina—leggasi cantante lirica: e così, mentre il verme si fa strada e la strada fa il verme, la diva va per la sua strada, una strada che consuma l’eccedenza conferendole il potere del calo ponderale, varie fonti parlano di oltre cinquanta chili insensati. Tanto meglio allora, con la sua estensione sbalorditiva può andare in scena da soprana muscolosa e teatrale qual è, da madre, amante, barista, principessa o se stessa, per la musica—se quella musica la chiamate rumore vero.

E così la tenia mangiò a lungo e data l’abbondanza di cibo continuò a mangiare incurante del rumore delle acque, acque correnti, acque correnti lontane e vicine, con le molecole che cozzavano, speravano, si attaccavano e si combinavano, giacché quanto poteva far presa lo faceva e il verme volenteroso tutto preso con il pasto giunto dall’ambiente circostante non fa mai caso al rumore sovrastante costituito da divari di potere bruciato, bruciato fino a diventare musica, bruciato per espellere la canzone di questa cantante attiva ben felice di mettere all’opera la propria volontà tanto ventilata, dopo aver introdotto un mese fa questa tenia specialissima nel suo organismo, il suo peso, la sua fame, il suo desiderio, attraverso la carne di un pesce predatorio—un luccio del Mille Lacs nel Minnesota—un luccio giratosi dalla parte sbagliata al momento sbagliato, catturato, identificato quale portatore di tenia e trasportato vivo in aereo per mille miglia fino al ristorante giapponese preferito della diva presumibilmente sovrappeso, trasportato da uno stregone ojibway con gli occhi a losanga—una tenia (di provenienza ittica) prescrittale dal suo medico di New York, tanto affezionato ma in gran segreto molto schizzinoso e comunque consapevole di dover fare qualcosa o lasciare il posto a qualcuno capace.

Credeva di poterla leggere come un libro. Ma quale libro?

«Confusa», così una volta aveva firmato un bigliettino consegnatogli a mano una mattina, un bigliettino in cui implorava un consiglio: significava «innamorata» e due mesi più tardi gli avrebbe confidato che era solo una storia di sesso. Quando lui le diceva più d’una volta «Sono confuso» era chiaro che significava «morale» e «arrabbiato» ma anche (non dichiarato, come sempre) «innamorato» (ma di lei, la sua paziente, la sua cara amica), anche se lei a volte i suoi umori si rifiutava di coglierli. Conta qualcosa lui tra questi elementi elementari? Ne sappiamo abbastanza perché la domanda sia lecita. Sapeva di contare per lei ma non come il pubblico nel teatro buio, un pubblico che contava al punto di essere quasi invisibile e quindi importava quasi più della sua famiglia (se ne avesse avuta una in quest’America straniera—aveva un padre assai lontano).

Sulla vita privata la lirica sensazionalistica ne getta poca di luce, ma come si fa a pesare la luce gettata dai suoi soli e paradisi battuti dal vento dove l’avrà scordato per ore, il suo medico, eppure sapeva, come il più adorabile impaccio infantile all’interno di questo corpo bellissimo e amabile, che questo amico amorevole era lì. Né era nostra intenzione gettare luce sulla vita privata della grand opéra. Accadde, in buona fede, che ricontrollammo il dio e proseguimmo da lì; ci facemmo guidare dai suoni, lungo una coscia divina e su fino a un verme solitario che scoprimmo essere bisessuato. A sua volta, la volontà di vivere e crescere di questo verme solitario faceva a sua insaputa la volontà dell’ospitante (la ospitante) di snellirsi. Eppure anche lei cedette a una volontà o a una sensazione di vuoto più grande. Che non è, qualche potere fresco dentro di noi lo intuisce, il vento oltre l’ostacolo bensì un ostacolo oltre il vento.

Ispirati. Sbucati dal nulla. Con un occhio girato da quella parte come per collocarci non solo dentro a chi riceve le nostre onde di congiunti ma addirittura come ricevitori. Si tratta, dunque, di una vera e propria reincarnazione? Grandiosa, di sicuro; forse abominevole, questa vaga incarnazione intimataci. Era angelica, animale, minerale, chimica, chemioterapica? Domanderemo di nuovo.

Per continuare, un ostacolo. E motivati dal tentativo di recuperare quel che abbiamo scelto di scordare. Queste parole appartengono a un parlante di quel secolo e di quello prima e forse in virtù di quello che tenne per sé si dimostrò consapevole della luce gettata dall’oblio. Ma come? domandiamo. E una risposta ce la troviamo dentro: la luce piegata dalla passione supera gli ostacoli concepiti dalla luce stessa: sì, nel vuoto finissimo della nostra possibile intelligenza che un giorno d’un certo peso annuncia come un gufo che non sapevamo cosa fosse la luce ma che ci era stato promesso un certo potere e pensavamo servisse per scoprire che nei giorni giusti quella luce eravamo o potevamo essere noi.

Se c’è bisogno di risolverlo, parlatene durante il simposio. La primadonna del nostro vuoto, Grace Kimball, che a quanto ci viene riferito ha gli zigomi da nativa americana, ci vede lungo e intuisce che c’è un modo migliore di fare le cose, di fare noi. Ricordiamo già che Grace Kimball ha trovato la storia nelle donne: nelle donne contenute dagli uomini e negli uomini che conservano un fluido femminile segreto di cui non volete assumervi la responsabilità e questo in tutte le persone che lei ha aiutato, sicché a volte nei suoi sogni (perché lei e questa storia passavano tutto il tempo a farsi a vicenda) era invisibile quanto il grido d’aiuto degli stuprati e a volte accadeva pure nei suoi sogni non-importanti come un futuro mostruosamente spalancato e non pianificato (e da altri non-stessi). Grace ci vedeva lungo fin dentro a un futuro che le ricambiava lo sguardo attraverso lo stesso occhio con cui lo vedeva lei, in una stanza senza mobili. L’avrebbe chiamata la sua Sala del Corpo, come se gli altri locali dell’appartamento non fossero dedicati anch’essi al corpo, ma se in quest’epoca gli spazi lunghi impariamo a conoscerli grazie a capsule brevi, poiché abbiamo inteso che eguagliano gli spazi lunghi ai tempi brevi e altre volte semplicemente, tesoro, lasciando (ossia lasciando che accada—come nella vita) lasciando (già dimentichiamo) lasciando che un manico di scopa sia uguale a una palla da baseball perché se non riusciamo a costruire a tavolino la nostra vita su misura allora non dobbiamo forse guardare oltre quello che crediamo di sapere e semplicemente dire che questa curva dalla molteplicità accecante eguaglia quelle diverse brevità lunghe una vita? Ma cosa l’abbiamo domandato a fare?

La Sala del Corpo, ecco come l’avrebbe chiamata. Ma pure gli altri locali dell’appartamento servivano a quello. Sala del Corpo. Rinominata dai tempi in cui transitiamo, celebrata da Grace, oscura come Mayn e trasformata nella sua «Sala del Corpo» svuotata del fardello del viaggio, lo strappo da una vecchia casa lontana verso una casa nuova. E quanto ai mobili di famiglia rimasti nella vecchia casa nel bel mezzo del Middle West, scordateveli: giacché al pari del leggendario Carico Pesante a norma lungo le nostre highway ha tenuto saldo al momento del lancio ma con una differenza: scordatasi subito dell’inerzia lei era partita a razzo una volta trasferito quel paesaggio interiore della sua vita senza mobili di famiglia da uno dei tanti mid americani alla New York d’un tempo.

Ma già dimentichiamo il suo matrimonio avvenuto tra un fatto e l’altro e responsabile di tutti i mobili moderni se non a New York almeno nel suo appartamento in città; lei aveva cercato di percorrere la via più breve, di fare tutto per bene, ma stavolta lontano da casa; poi, in un sogno, aveva colto il suo matrimonio come se, nel ricordo, fosse l’acqua o la pietra semipreziosa che filtrava la luce e aveva avuto luogo non nella città di New York ma nel suo paese (leggasi paesino) natio dove potevi appartenere a qualcuno e non accorgertene finché non ti trasportavano alla tomba dopo averti ridotto a un segnale o a un messaggio (leggasi letteralmente massaggio) impossibile da consegnare e suo padre tornò a casa dal lavoro ed era papà e la chiamava Gracie e, le venne un giorno in mente, non le aveva mai davvero domandato nulla di lei (a parte il quasi sempreverde «Dov’è che sei stata?»—ora? oggi? negli ultimi anni!). Ma questo è quanto sappiamo di cosa lei provava. Era monotono lui? È solo l’inizio. Lo trovava nel salotto attaccato allo spazio vicino alla porta della sala da pranzo, immobile tra i mobili della povera madre come un passeggero su un treno e fuori dalla finestra il paesaggio si sposta pressoché alla tua stessa velocità e nella tua stessa direzione.

E così una successiva Sala del Corpo a New York si svuotò della poltrona bassa quadrata massiccia e iperimbottita di suo padre che se ai tempi lì dov’era cresciuta entravi dalla cucina e dalla sala da pranzo dovevi superarla per usare gli altri mobili in quel salottino, la coppia di sedie di Grand Rapids con lo schienale a lira e la sedia verde e la sedia rossa, il divano-letto grigio che non si apriva e, di fronte, il divano-letto azzurro nuovo che invece si apriva, i tavoli che raramente si riusciva a passar sotto e dovevi invece girarci intorno, il portariviste a V «appeso» tra un piano del tavolino e un ripiano basso di pari dimensioni; una poltrona di cuoio brunito con i bottoni in ottone, fresco nei pomeriggi d’estate quando il calore proveniente dalle miglia—o verste, come le chiamava il professore di Chicago al Browning Club—di campi appiattivano la città e i colori e si gonfiava come una piena che esondava intorno alle case fino a vent’anni più tardi quando lei ormai se n’era andata da così tanto che era tornata da New York ed era andata diverse volte a trovare i genitori e poi la madre, l’esondazione sovraccaricava tutti i circuiti dei condizionatori e capitava che la corrente saltasse alle quattro del pomeriggio in tutto il quartiere così all’improvviso che ti accorgevi dell’erba ferma là fuori. Grace aveva svuotato la sua futura Sala del Corpo nella sua adottiva New York anche di—non era andata così?—un divario che risiedeva in quel vecchio spazio abitativo lì a metà degli Stati Uniti da dove proveniva lei stessa con il suo trentaduesimo di sangue pawnee, dove suo padre se ne stava seduto nella poltrona bassa qualunque fosse il tempo e sempre con in mano una bottiglia marrone di birra o un bicchiere rastremato di blended whiskey finché un anno non si materializzò un televisore, piazzato a volte sul tavolo accanto così non c’era mai bisogno di guardarlo né serviva distogliere lo sguardo dal giornale locale fino a quando il bicchiere prendeva il posto del nasone del bevitore al momento di essere svuotato e questa era l’Ora delle Decisioni—così come papà non aveva mai bisogno di respirare («respira» disse lei diversi anni più tardi a un uomo vestito a rombi che aveva sposato); ma suo padre cantava ad alta voce nella vasca da bagno, molesto nel garage buio; cantava un successone americano: «Oh what a beautiful morning… The corn is as high as an elephant’s eye» dopo aver attraversato in auto con tutta la famiglia settantacinque miglia di campi di granturco per vedere uno spettacolo itinerante del musical Oklahoma!, uno stato confinante. Ma non cantava in salotto, dove c’era il pianoforte, in quel vuoto di potere menzionato solo a metà da lei che era in tutta la casa, era lui o era la stanza?, un nome o un altro, per anni, ricordava che si apriva un varco tra tutti i mobili della madre disseminati per il salotto per raggiungere il padre che in realtà non era in fondo alla stanza soprattutto perché per infilarsi dentro quel quadro dove non ballavano nemmeno le pulci non si finiva con lui ma semmai s’iniziava, s’iniziava uscendo dalla sala da pranzo superando papà e i suoi silenzi imprevedibili e i rombi color rosso e marrone tenue che lei gli aveva cucito una volta per Natale, completando l’opera così come aveva fatto con il matrimonio e con l’eccezione delle due gravidanze (a seconda del nostro punto di vista) aveva completato tutto quello che aveva iniziato—uno di due paia di calze cucite a parte qualche esperimento artigianale nei rapidissimi anni settanta.

Piuttosto grande come paese. City limits, «confine urbano» recitavano i cartelli. Fai le cose una per volta, diceva sua madre, prima questa e poi la prossima; c’è tempo per tutto. Era sua madre a dire tutto questo, seduta ben dritta al tavolo in cucina con il ripiano metallico dipinto di bianco. Suo padre stava cambiando l’olio all’auto. La lattina di birra accanto allo pneumatico anteriore, il sedere in aria mentre trascinava la ghiotta piena da sotto l’auto, poi in ginocchio prendeva un sorso di birra, si sdraiava di schiena e s’infilava di nuovo sotto l’auto per avvitare il tappo. Era questo modo di fare le cose una per una, ciascuna con i suoi tempi, lei non poteva pensarci sempre se non per rendersi conto di dover trovare un modo non per fare le cose in ordine ma per girarci intorno così come un giorno centinaia di donne appresero di lei a spizzichi e multipli della sua storia come Eleanor Roosevelt o Helen Keller. Come Curie, giacché, l’aveva sempre saputo, le cure erano un pericolo. (Sempre, Grace? Anche alle superiori, anche davanti al lavandino con qualche ragazzo, anche durante le nuotate notturne nel Middle West prima di New York?) Come la leggendaria Donna Gufo che secondo un’esplosiva professoressa di sociologia di nome Ruby Foote presso la scuola superiore frequentata da Grace curava gli abitanti del deserto sudoccidentale con materiale terreo e una magia d’intesa (ecco cos’è la magia, in fondo!) e con parole canterine che spesso proseguivano pure in assenza della cantante e compositrice (la Donna Gufo) la quale si trasformava in un gufetto del deserto con la stessa facilità con cui dilatava il tempo passato insieme, sempre secondo Ruby Foote, lei stessa una specie di missionaria solitaria dalla zona costiera sudorientale, transitata per il North Carolina (dove una volta si era sposata); ora nel vero Midwest una sessantenne che sfrecciava su una Cadillac lungo il viale del tramonto (così lo chiamava); un’abile nuotatrice notturna che studiava gli indiani (quelli rimasti) e filosofa dello stupro già nel 1950—sì, come la Donna Gufo, cui Grace pensava sempre finché un giorno anni più tardi la pensò al punto da promettere di proteggerla in un futuro in cui la Donna Gufo fosse sbucata come un doppio reincarnato.

Da prendere comunque a modello e Grace sapeva che in una certa misura sarebbe stata la via stessa a venirle incontro. Si trasferì nella magica Manhattan—e nuotava in piscina; incontrò «suo marito» (così lei e un’intervistatrice lo chiamarono facendo dietrologia) e lui aveva le iniziali RR sul lucchetto della ventiquattrore (prima che l’autodistruzione divenne di serie); sfrecciava con gli occhi fissi sulla sua corsia dipinta sulle piastrelle sul fondo della piscina ma a volte virava oltre il divisore come un motore senza barca; lavorava nel commercio, era (no) lavorava nelle ricerche di mercato, ecco come si divertiva lui, e vendeva—leggi viaggiava—e nei fine settimana studiava per diventare un agente immobiliare accreditato a Long Island; ma come ricercatore di mercato era bravo; lei lo sapeva; ne era sicura e il tempo finiva sempre per darle ragione.

© 1986 by Joseph McElroy

Oggi abbiamo voluto pubblicare un estratto di Donne e uomini. Lo troverete in libreria, nelle sue 1984 pagine, dal 23 settembre.

ARTICOLO n. 49 / 2021

CARMELO BENE: IL PULPITO E IL FOGLIO

Non si può parlare, per C.B., di «lettura» nel senso classico della parola, né di «recita» né di «proferazione», anche se c’è tutto questo. Con lui, «dire un testo» diventa un atto, un «fatto in proprio», un evento definitivamente occasionale che continuamente ritraccia e risitua elementi disparati colti in nuove configurazioni, quasi conflittuali, tutte esteriorizzate.

Tali elementi sono numerosi e bisognerebbe cominciare col descrivere appunto l’esteriorità, spinta al suo grado estremo, dei luoghi in cui la performance avviene, in quanto spazi di affabulazione creativa: Torre degli Asinelli a Bologna o Théâtre de l’Odéon a Parigi col pieno sala per la Divina Commedia, Palasport di Milano per Majakovskij, l’Accademia di Santa Cecilia o la Basilica di Massenzio a Roma o la Scala di Milano o il Teatro greco di Taormina per Manfred, il Campidoglio di Roma per Egmont, ancora la Scala per Adelchi di Manzoni, la Piazza Centrale di Recanati per i Canti di Leopardi, l’Arena di Verona per Hamlet Suite. Luoghi certo importanti, ma il cui interesse non risiede nelle possibilità di sfoggio dell’individualità particolare di un «personaggio-attore», né nella volontà implicita di un accesso più largamente popolare o populista, né nella spettacolarità di una folla-marea in ascolto o dei riferimenti poetici la cui classicità è incontestabile. L’esempio stesso dei Canti orfici di Dino Campana testimonia questa capacità intrinseca a «far sorgere dall’ombra» il dimenticato e lo sconosciuto a forza di essere dimenticato. Si può anche dire che, grazie a lui, l’«opera» impegnata «esce fuori di sé». Ogni volta, l’opera viene strappata alle reclusioni, libresche, accademiche, di costrizione e di oppressione – in tutti i suoi lavori, del resto, la «cosa» testuale è mostrata materialmente, in quanto «illeggibilità» dalla quale scartarsi, o piuttosto da eliminare «divorandola», letteralmente.

L’opera dev’essere liberata dalla sua intimità laconica e spossata e scagliarsi nella potenza di una massa pulsionale che non le si supponeva, che essa stessa non supponeva in sé, forse perché taciuta. È già trasformarla in atto, dato che in questo passaggio da un supporto all’altro, dallo scritto alla voce, ha cambiato natura, si offre ormai in una nuova resistenza materiale, fino ad allora sconosciuta. Da qui la «stupefazione» del pubblico che ascolta, non più attraverso il filtro passivo di un vano gesticolare della parola infinitamente detta, ridetta e ri-conosciuta – della «dimostrazione» altamente accademica e classica (si pensi a Gassman, ad Albertazzi, a tutti coloro contro cui C.B. si è messo in gioco) –, gesticolare incluso ormai in un percorso di cui non sa più determinare il punto di arrivo né l’a priori. La voce che «legge» o «proferisce» o che «recita» si transustanzia in un vero e proprio corpo che non ha più niente a che vedere con la «persona» dell’attore, né col testo: è diventata, diventa, nell’istante occasionale del suo passaggio, la totalità esteriore che dà a vedere la sua elaborazione immediata, l’inarcarsi che costruisce la spina dorsale della sua nuova vita, vita nuova instancabilmente ripresa.

All’esteriorità del luogo colto nella sua più grande ampiezza corrisponde dunque la vastità dell’esteriorizzazione, l’ostensione della materia creata in cui il testo non è più testo, l’attore non è più attore: ciò che viene captato è allora la singolarità dell’opera materializzata nel proprio fabbricarsi, per mezzo di una testura o tessitura vocale ancora in-audita, che offre a un immaginario qualunque, con una modestia eroica e potente, la possibilità di ascoltare e intendere l’evento proprio della creazione dell’opera, e che ritende momentaneamente l’integralità della sua capacità plastica, privata, dallo stesso gesto, della sua natura apparentemente definitiva, immersa nel magma dei suoi imprevisti. Nel momento stesso in cui il testo nella voce e la voce nel testo perdono la loro configurazione espressivamente storica – quella, per lo meno, che veniva loro assegnata o che si prestava loro, che era a loro destinata a ogni istante: Dante e La Divina Commedia, Byron e Manfred, Majakovskij e Majakovskij, Laforgue e Hamlet Suite – la stessa voce e lo stesso testo perdonoin realtà la strettezza, sempre in agguato, della narrazione e dell’ascolto che ne deriva, la falsa apparenza di «giustezza» attribuita loro in a priori imperiosamente controllati, per acquisire l’insieme delle velocità che li riferiscono. L’opera non appartiene più che nominalmente al suo autore, è diventata una «situazione secondo C.B.». In questo senso va perfino al di là della stretta riconfigurazione di un puro significante sorto da un significato ormai inattivo; va al di là, con la sua pratica capace di riconoscere che la materia di cui dispone e in cui si ridispone non può essere sottomessa o assoggettata a una ennesima trasformazione dualistica della forma, ma che (l’uno o l’altra) è slittato, invece, in uno spazio e in un tempo in cui la voce è ormai sprovvista di quantità e di segni. Non è più che pura potenza in opera.

Il problema della lettura si trasforma allora in una questione di affetti e di percetti, di vibrazione sonora, di ricezione traumatizzante, di ampiezze e amplitudini mirate in un costante andare e venire dell’atto di «dire», all’infinito, all’interno dell’esteriorità dei luoghi, cioè nella costruzione progressiva della sonorità e del suono come emissione e come ascolto, l’una nell’altro, all’interno del tempo e dello spazio di quell’occasione specifica, ma all’esterno dei meccanismi che ne hanno costruito il passato. È questo forse mirare al suono come a un presente. Si capiscono allora i sovvertimenti operati dall’amplificazione strumentale, la volontà acustica, il sistema che rende conto, con una precisione meticolosa e maniaca, delle minime pulsioni nell’esercizio vocale che si mette in movimento, o in posta, più che in gioco. La costruzione classica, che si dava come definitivamente compiuta – e dunque conforme alle norme –, viene impegnata nella deliberazione dell’inachèvement costante, dell’incompiuto continuo, contro tutte le conformità possibili, dell’incompiuto dell’opera che, spaccata, non riesce più a richiudersi – su cosa del resto? Dove il finale e l’applauso non sono più che l’accettazione di una semplice misura musicale, di un semplice accordo. D’altronde: leggeva forse, recitava a memoria o in spirito? Avrebbe potuto dire che «era letto».

L’affondare nel nero vasto degli esterni che si connettono, la notte fonda del teatro, l’inseguire se stesso in immagine fissa, il volto incompiuto nelle mezze tonalità di ciò che è compiuto solo perché fa qualcosa, il pulpito e il foglio dove giacciono i testi, lo sguardo e l’infinità del «dire»: l’impressione è grande, oggi ancora e a cose fatte, che non c’era lettura possibile. Lasciar sorgere una voce come potenza vocale che sprofonda nelle materie della lingua per «manifestarne» il fondamento tellurico, la forza minerale, la tensione presa nello sgomento. Ad ogni altra «dimostrazione» faceva posto il gesto «in proprio» dell’attore, la voce diventata gesto.

LE RADICI DEL GHIACCIO

Sono sveglio prima degli altri, come spesso accade. Il silenzio attorno a me è assoluto.

Le notti nell’Artico hanno qualcosa di speciale. Non dimenticherò mai la prima volta che ho dormito qui: l’emozione di essere a diretto contatto con il ghiaccio maestoso, la luce del Sole che non sparisce mai, vera e propria compagna di vita di chi fa il mio mestiere. Ho sempre avuto l’abitudine di svegliarmi presto e una volta sveglio non sono in grado di riaddormentarmi; un’inclinazione che con la paternità si è acuita ancora di più e che non mi ha più abbandonato.

Il primo «esercizio» mattutino in mezzo ai ghiacci dell’Artico è quello di vestirsi, e non è così semplice come si potrebbe pensare. Per affrontare il mondo che ci attende al di fuori della tenda occorre infatti indossare più di uno strato. Qualcuno la chiama vestizione a cipolla: diversi strati dal diverso spessore e dalla diversa funzione, uno per il vento, un altro che serve come base a contatto con il corpo, un altro ancora come strato intermedio.

È un esercizio di contorsionismo puro: la tenda non è più alta di mezzo metro, perciò tutte le operazioni devono essere coordinate. I pantaloni vanno infilati dondolandosi sulla schiena, quindi, seduti a gambe incrociate, si infilano i diversi strati superiori; poi, è la volta dei calzini, doppi e spessi, che fanno fatica a scivolare sui piedi ormai freddi. Primo comandamento: mai usare cotone. I nostri abiti ci tengono al caldo perché intrappolano l’aria calda vicino alla pelle, ma quando il cotone si bagna cessa di funzionare poiché le sacche d’aria nel tessuto si riempiono d’acqua. Quando camminiamo e sudiamo l’indumento di cotone assorbe il sudore come una spugna e se l’aria è più fredda della temperatura corporea (come accade in Groenlandia), sentiremo un certo freddo, con i vestiti ormai saturi e incapaci di fornire l’isolamento necessario. Ecco perché i nostri abiti sono sempre di materiale isolante, che sia lana, oppure sintetico.

Mi avvicino alla cerniera lampo dell’ingresso della tenda. Ci metto un’attenzione estrema per non svegliare i miei compagni di viaggio e di ricerche: quel fruscio metallico in una situazione normale sarebbe quasi impercettibile, ma qui ogni piccolo rumore viene amplificato. Le nostre tende sono quelle da campeggio, «quattro stagioni» come si dice in gergo. Sono leggere e si montano in meno di venti minuti, con il materiale esterno impermeabile che ci protegge dalla pioggia, presente anche in Groenlandia. Molti pensano che le tende siano fredde, ma in generale, non è così. Specialmente quando il cielo è limpido, il forte Sole della Groenlandia ne riscalda l’interno a tal punto che dobbiamo tenerle aperte per favorire la circolazione dell’aria fredda prima di andare a dormire. Ciò è ancora più vero in piena estate, quando il Sole non tramonta mai. Il nostro accampamento, come dicevo, è immerso in un silenzio siderale; il sibilo del vento – a volte costante, a volte ritmato – è l’unica sorgente di inquinamento acustico, se di inquinamento possiamo parlare. Tiro infine giù la cerniera e il rumore che fa mi sembra quasi quello di un’esplosione. È normale: il suono in fondo non è altro che la trasmissione di onde di pressione che, una volta raggiunto l’orecchio, vengono ricodificate dal cervello; in Groenlandia la rarefazione dell’aria e l’assenza di altre fonti sonore danno l’impressione che i suoni più comuni della quotidianità acquistino un timbro differente, altrove inaudibile. Forse è la stanchezza, forse solo un’allucinazione sonora; forse il freddo che gioca con i nostri sensi.

Esco carponi, mi allungo sullo stuoino di materiale impermeabile che abbiamo lasciato all’ingresso. Mi siedo. Serve un ultimo sforzo, quello di infilare gli stivali sui calzini di lana, troppo spessi, ma necessari. Mi sento già stanco. Stanco, e però allo stesso tempo eccitato all’idea di ciò che ci aspetta: ogni avventura, ogni imprevisto dovrà essere risolto solo ricorrendo agli oggetti che abbiamo portato con noi. Quando si è in mezzo al ghiaccio della Groenlandia non si ha il lusso di andare al supermercato o dall’elettricista nel caso qualcuno avesse dimenticato di portare un cacciavite o un rotolo di spago.

Se gli altri si sono svegliati non lo danno a vedere; sotto la tenda si percepisce solo il ritmo di respiri diversi. È stata una di quelle notti che mi piace definire «interessanti», quando qualcuno si sveglia e ti sveglia, ponendo a bruciapelo una domanda, facendo balenare un’idea o – più frequente – avendo sentito qualcosa che lo ha messo in allarme. Questa notte è toccato a Patrick. È stato uno dei miei studenti di dottorato, non ha mai lasciato New York e ha studiato la Groenlandia esclusivamente dai satelliti o sui modelli. L’ho invitato a unirsi a noi non solo per offrirgli una (meritata) possibilità di crescita professionale ma anche perché la potesse sperimentare dal vivo. Sono convinto che tutti coloro che studiano questa immensa e meravigliosa distesa polare debbano, almeno una volta nella vita, visitarla di persona. Patrick mi ha svegliato che saranno state le tre. Era un po’ agitato, mi ha domandato se avessi sentito un forte rumore, come un rombo, qualcosa di strano proveniente dal ghiaccio sotto di noi. «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno non farti scrupoli, svegliami anche fosse notte fonda» gli avevo detto appena atterrati. Ed ecco che lui mi aveva preso in parola.

Ho cercato di rassicurarlo, gli ho spiegato che spesso il ghiaccio genera rumori, che a volte, visto il silenzio assoluto che ci circonda, si tratta solo d’impressioni. Ciò che si sente, di solito, è un rumore cupo, come ci fosse qualcosa che si sta spaccando sotto di noi; ricorda il suono di una pietra enorme che atterra su un terreno montuoso. Gli ho detto di tornare a dormire, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Non che io fossi convinto al cento per cento delle mie parole, ovviamente: in mezzo all’Artico occorre stare attenti a qualsiasi piccola cosa. Dopo pochi minuti dalla chiacchierata con Patrick ho iniziato a sentirlo anch’io, il rumore di cui parlava: è il ghiaccio che scorre sotto di noi, potente, inesorabile, con una velocità che in estate, in superficie, può raggiungere anche diverse centinaia di metri al giorno. Per intenderci su quanto sia rapido tale spostamento, è come se stessimo a Roma, piantassimo la tenda in piazza di Spagna e ci svegliassimo il giorno dopo a piazza del Popolo. Patrick ha colpito nel segno. Io non sono più riuscito a prendere sonno: da un lato sono preoccupato, dall’altro eccitato. Ho i muscoli tesi, l’udito attento a ogni rumore, anche il più impercettibile. Mi sembra quasi di stare auscultando il respiro di un dinosauro, solo con i miei pensieri.

Il fluire del ghiaccio è un fenomeno poco noto; molti credono che il ghiaccio della Groenlandia (così come quello degli altri ghiacciai) sia immobile, statico. Materiale inanimato. In realtà è il contrario. Come gli antichi greci ci insegnano, panta rei: tutto scorre. E anche il ghiaccio scorre, come un fiume denso che fluisce per effetto del proprio peso. Rallenta d’inverno, quando è più freddo ed è meno fluido. Ma d’estate è come discendere una collina su una strada bagnata, non c’è freno che tenga. Durante la stagione «calda», l’acqua penetra nel ghiaccio attraverso crepe e fratture e, una volta raggiunta la roccia sulla quale quest’ultimo scivola, ne lubrifica la superficie, favorendone un’ulteriore accelerazione.

A questo stavo ripensando mentre guardavo gli stivali che finalmente sono riuscito a infilarmi. Quelli che indosso adesso non sono gli stessi che userò per la nostra escursione, sono alti fino al polpaccio e poco adatti a camminare, ma perfetti per la vita al campo. Hanno un’imbottitura tale da proteggere i piedi da temperature fino a −40 gradi centigradi. I miei, di piedi, non sentono ragioni e sono freddi dal momento in cui esco dalla tenda fino a quando rientro a fine giornata. Spesso mi sento dire: «Tu devi essere abituato al freddo e non ci fai caso». Ahimè, è invece vero il contrario: io sono di costituzione longilinea e ho poca massa che mi può aiutare a mantenere il calore del corpo. Gli stivali che utilizziamo durante l’escursione sono scarponi da montagna o da ghiaccio. Hanno una struttura più rigida che favorisce la stabilità delle caviglie e riduce il pericolo di distorsioni ma, al tempo stesso, proteggono meno contro il freddo.

Una volta fuori mi accomodo sulla sedia pieghevole vicino l’ingresso della tenda. Ho una gran voglia di una bella tazza di caffè bollente, ma meglio aspettare che siano tutti svegli. Continuo a vagheggiare, quasi fossi ancora tra veglia e sonno. Penso a come sia impossibile quantificare, dandole un valore economico, la fortuna – non trovo una parola migliore per definirla – che ho nel ritrovarmi al cospetto del paesaggio che sto osservando. Qui, in silenzio, circondato da neve e ghiaccio.

Chi non è mai stato nell’Artico avrebbe di certo delle sorprese, anche solo a un primo sguardo. Quello che mi trovo di fronte è tutt’altro che un paesaggio monotono o piatto. Dune di neve dalle dimensioni di pochi metri sono allineate lungo la direzione principale del vento, più o meno come in un deserto. Quando abbiamo sistemato le tende siamo stati costretti a tenere conto anche di questo: capire da dove soffiava il vento, per evitare che riempisse i nostri alloggi con la neve che luccica, come fosse ricoperta di piccoli preziosi diamanti. Il luccichio, che mi ricorda le grandi onde cavalcate dai surfisti nelle Hawaii o sulle spiagge di Rio de Janeiro, nasce dalla frammentazione dei fiocchi di neve dopo che sono caduti al suolo. È dovuta al vento e ad altri fattori che li spezzano, letteralmente, in piccole parti e li orientano in maniera del tutto casuale. Questi fiocchi di neve – o meglio ciò che ne rimane – agiscono quasi fossero una moltitudine di minuscoli specchi che, sparsi sulla superficie, riflettono la luce del Sole in tutte le direzioni. Ecco perché vediamo il luccichio.

Continuo a osservare ammirato. Il velo di neve che è stato soffiato via dal vento dipinge figure circolari che seguono il profilo della brezza polare. È come se dietro di me ci fosse un pittore che avesse deciso di aggiungere questi dettagli al quadro che sto guardando. Qualcuno che, dopo aver posto del colore su alcuni punti dell’orizzonte, abbia deciso di stenderlo usando il pennello come una spatola. Il cielo turchese – un turchese unico a causa dell’atmosfera più sottile e meno umida rispetto alle latitudini meridionali – fa da sfondo ai miei pensieri: è un colore maestoso, che seppure non sia dotato della potenza delle nubi cariche di pioggia nelle campagne inglesi o di quella repentina violenza tipica dei temporali equatoriali, si manifesta come una grande onda di colore. Maestoso ma fermo, consapevole della propria grandezza e della propria forza senza alcuna necessità di ostentarla.

La vastità che il cielo abbraccia in queste zone è ciò che lo definisce. I due elementi, il cielo e il ghiaccio, condividono lo spazio, autocrati cromatici che non lasciano il campo che al blu e al bianco. Ho un flashback. Mi viene in mente quando, tornando in elicottero dal mio primo viaggio tra i ghiacci della Groenlandia, ho rivisto – dopo tante settimane – il verde della tundra, il rosso e le varie sfumature del terreno brullo. È stato in quel momento che ho capito, che mi sono sentito come se, durante quei lunghi giorni passati sul ghiaccio, fossi stato in grado di ascoltare e pronunciare solo alcune parole. Come se qualcuno avesse tagliato una parte del mio vocabolario cromatico e della mia stessa persona.

È una piacevole desolazione quella che il ghiaccio mi propone di fronte agli occhi. Infonde un senso di pace, di tranquillità. Mi lascio avvolgere da questo stato a metà tra il sogno e la veglia, come fossi su una scialuppa che dondola in un mare calmo. Qui non esiste il tempo come lo intendiamo altrove; è qualcosa che mi ricorda il tempo «geologico» della mia terra d’origine. Non mi serve un orologio; non posso e non ha senso controllare le ultime notizie, scaricare un nuovo album. Qui lo scorrere delle ore per come siamo abituati a viverlo non ha nessun valore.

Il ghiaccio è un elefante, io una cellula. Quello della Groenlandia impiega migliaia di anni a formarsi: anno dopo anno, la neve che si ammassa e che non fonde durante l’estate viene letteralmente sommersa da altra neve. La Groenlandia nasce e si sviluppa grazie all’azione di milioni di minuscole particelle, grazie ai fiocchi di neve che si accumulano gradualmente con il passare del tempo. Sotto il proprio peso la neve si comprime, espellendo l’aria e trasformandosi in ghiaccio fino a raggiungere la densità il cui valore è dogma per gli addetti ai lavori: 917 chili per metro cubo. Novecentodiciassette. Questo è il numero magico, cabala polare: la struttura geometrica del ghiaccio lascia meno del 10 per cento del volume all’aria, mentre il resto è occupato da acqua in stato solido. È un processo costante quello della formazione del ghiacciaio, che va avanti per decenni, per secoli, per millenni. Non appena raggiunta una massa «critica», il ghiaccio comincia letteralmente a «fluire» sotto il proprio peso. Ancora una volta la gravità, questa misteriosa e affascinante forza naturale, forgia il mondo che ci circonda.

A fondersi il ghiaccio impiega poco tempo: il lavoro lento e certosino della natura viene reso vano in una giornata, forse anche meno. La vasta distesa congelata si muove seguendo un ritmo naturale, a dispetto di noi, cellule impazzite nella società moderna, che ci spostiamo frenetiche, cercando di afferrare tutto prima che il prossimo stimolo digitale appaia sullo schermo del nostro telefonino. Come un virus che attacca tutto e tutti, noi, piccoli esseri umani, siamo riusciti, con le emissioni di gas serra e il riscaldamento globale, a minacciare e mettere in ginocchio persino la maestosa Groenlandia.

Al centro di questa terra polare, lì dove è più spesso, il ghiaccio ha un’altezza che può arrivare fino a circa 3 chilometri, per poi ridursi fino ad alcune centinaia di metri lungo la costa, dove confluisce verso l’oceano come un fiume di lava perlato. Le sezioni di ghiaccio più profonde sono le più antiche, quelle che hanno subito la maggiore pressione e che giacciono sulla roccia granitica da migliaia di anni. A mano a mano che il ghiaccio scorre verso l’oceano, e si prepara a tornare alla propria fonte d’origine, fonde in superficie, diluendo una parte della sua memoria con il mare stesso. Gli strati di ghiaccio depositati in periodi diversi vengono deformati, ondulati, fusi insieme dal continuo scorrere, così che la superficie si confonde con le radici.

Ripenso agli ultimi dettagli degli esperimenti, ripetendo a mente le diverse azioni da fare e non fare. Stiamo per raccogliere i dati che ci aiuteranno a capire quanto il cambiamento climatico stia influenzando la fusione di questi ghiacci e come ciò stia, a sua volta, influenzando l’innalzamento del livello dei mari. Studieremo non solo l’impatto dell’aumento delle temperature sulla formazione e sull’evoluzione dei sistemi di fiumi e laghi contenenti l’acqua derivata dalla fusione, ma anche come il Sole – e il fatto che il ghiaccio stia diventando più «scuro» – giochi un ruolo fondamentale. Sappiamo, però, che la Groenlandia è molto più di tutto questo. Noi siamo qui anche per scoprirla, per assaporarla, per assorbirla.

Guardo e sogno, sogno e penso. Penso alle mie origini, alle mie radici, che a volte temo siano state sradicate quando ho lasciato l’Italia. Ripenso a quella parte del Sud dalla quale provengo: terra dura, ricca, dove le radici – per tutti coloro che vivono ancora lì o che sono rimasti legati a doppio filo pur non vivendo più là da molto tempo – van‑ no in profondità. Radici che rappresentano un punto cardine della mia esistenza: qualcosa che mi definisce e mi influenza anche nel mio paese d’adozione, gli Stati Uniti, dove risiedo da ormai molti anni. Le radici legano, trattengono, avvolgono, stritolano; ci danno più stabilità, ma ci rendono anche più difficile concepire un vero cambiamento. Ci si trasforma lentamente, a poco a poco, come seguendo il pulsare di una linfa che dal terreno inerte irrora il tronco, i rami e le foglie.

Il torpore del mattino, la stanchezza accumulata e quella grande voglia – o meglio, quel bisogno – di caffè, per un brevissimo istante, mi rendono quasi allucinato. Immagino radici che sprofondano nel terreno gelato, radici mobili, che si spostano seguendo lo scorrere del ghiaccio e insieme lo scorrere del tempo. In questa mattina fredda dell’Artico mi sento a mio agio seguendo questo pensiero: anch’io in fondo mi sono spostato lontano dal mio luogo d’origine. Un movimento necessario per far nascere nuovi rami e nuove fronde che, a loro volta, hanno potuto crescere succhiando la linfa dalle radici originali, irrobustendosi e allargandosi grazie a spore e altri materiali seminali.

Il ghiaccio, con il suo statico dinamismo, mi ricorda un po’ me stesso.

— Il testo di Marco Tedesco con Alberto Flores d’Arcais è ripreso dalle pagine di Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare

ARTICOLO n. 47 / 2021

IL BACIO DEL PESCE RAGNO

Tutto questo blu da vicino è trasparente e una volta dentro, multicolore.

Ci conoscevamo appena quando ti portai nell’oasi. Quel tratto di sabbia lasciata allo stato brado da chi si erge a protettore della natura. Senza una pulizia quotidiana attenta a lasciare al suo posto solo frammenti di conchiglie e alghe putrescenti, plastica, vetro e ferro la fanno da padroni. Frequentata da gente che per stare nuda si fa largo tra gli umani rigurgiti del mare e gente come noi: estranei ai cui occhi nuovi il mondo sembra da scoprire per la prima volta.

Non ci eravamo parlati molto e neanche il mare grigio accompagnando i granchietti morenti a riva faceva rumore.

Mano nella mano camminammo per più di un chilometro a balzi come fanno le coppie di pattinatori sul ghiaccio e, a grandi falcate, sorridendoci l’un l’altro, prendemmo il largo.

Ti fidasti di me da subito come se con me non potesse succederti nulla di male, anzi come se insieme potessimo affrontare qualunque cosa uscendone incolumi. Trovavi romantiche le avventure che ti proponevo. Mi trovavi romantico, fino a quando tutto questo non diventò patetico ai tuoi occhi e finì per diventarlo anche ai miei. Avrei dovuto iniziare a capirlo molto tempo fa ma ero troppo concentrato su me stesso per vedere che la tua vita andava avanti anche senza di me e che il mio sogno d’amore era soffocante e granitico, un macigno che non volevi ti trascinasse a fondo.

Come quella volta che mi ero incaponito e avevo organizzato tutto per portarti a dormire nella capanna del pastore sulla scogliera. Avevo provato a chiamarti al telefono quattro, cinque, sei volte perché se non fossimo partiti prima che avesse fatto buio non saremmo mai riusciti a percorrere il ripido sentiero di pietra e sterpi che portava al piccolo casolare a picco sul mare. Ti eri trattenuta in laboratorio fino a tardi come altre molte volte e la cosa mi aveva fatto infuriare. Non ti risparmiavi, per te il lavoro era una questione personale e rimanevi lì ben oltre l’orario concordato. Prendevi appunti minuziosi, stendevi relazioni accurate fino a notte fonda, e sono certo che fossi molto brava. Schietta e sincera, pragmatica. Mi era chiaro quanta importanza avesse per te il tuo lavoro. Ma era un’altra delle cose che rubava tempo a noi.

Quella sera ti aspettai in auto; mi dicesti, uscendo dalla Luccicante, che volevi passare in foresteria un momento, e dentro di me prese subito a montare la rabbia per il tuo ritardo. Mi sentivo messo da parte eppure, stolido e ostinato al limite dell’infantile com’ero, non rinunciai al mio progetto di portarti alla capanna. Perché tu non perdessi troppo tempo a cambiarti, ti seguii fin dentro, ma non eravamo soli. Ti infilasti nella stanza lavanderia e mi dicesti di aspettare, ancora. Io, spazientito, giravo intorno trattenendomi a stento dallo spalancare la porta socchiusa. Dallo spiraglio sbirciavo le tue mani massaggiare le mani dure della donna delle pulizie che intanto con voce sottile farfugliava qualcosa di indistinto tra i singhiozzi. Basta la nostra avventura ci aspetta! dicevo tra me e me. Attraverso la fessura della porta rifuggivi il mio sguardo impaziente e invece posavi il tuo, amorevole, su quello della donna. Una signora alta e secca, con i capelli raccolti malamente tinti di un rosso bordeaux che alle radici aveva sbiadito in arancione, più giovane di quanto la sua fatica potesse rivelare, trasandata e vestita con gli abiti che usava per andare a servizio, pantacalze fiorate, t-shirt con la pubblicità di un autolavaggio e ciabatte di plastica.

Ruppi quel raccoglimento urlandoti che ti avrei aspettato in macchina.

Lamentava la sparizione di sua figlia, mi avresti detto dopo. Di quella sua unica figlia bionda, preadolescente, longilinea e cavallina come lei, che non sarebbe più tornata.

Con il mio urlo a ogni modo raggiunsi lo scopo: la donna si era distratta, aveva staccato le sue mani dalle tue, ripreso possesso del carrello con secchio e detersivi e tu mi raggiungesti.

Appena saliti in macchina rimasi in silenzio e anche tu non pronunciasti una parola. Una volta arrivati nel punto in cui incominciava il sentiero, parcheggiai e scendemmo. Bisognava camminare e, mentre seguivi la luce della torcia qualche passo indietro, arrancando per il crinale del costone litorale profumato di erbe selvatiche e spruzzi di mare, mi urlasti il tuo disprezzo per me, insensibile e noncurante anche del dramma della giovane scomparsa e del dolore di quella madre perduta. Mi dicesti che ero egoista e insensibile, disinteressato al tuo lavoro e ai tuoi progetti. Che ero incapace di dedicarmi a qualcosa, di impegnarmi in qualcosa. Nullafacente senza aspirazioni. Fosti feroce e rabbiosa, e forse avevi ragione; forse per questo rimasi in silenzio senza controbattere.

Poi, una volta arrivati, piangesti e ti facesti abbracciare e consolare. Ti promisi che le tue parole non mi avevano sfiorato ma mentivo. Rimanemmo nella capanna di pietra fino alla mattina seguente, avremmo visto sorgere il sole.

Affondavano i piedi nella sabbia, a tratti dura e compatta, a tratti increspata dalle onde, a tratti molle come melma.

Volevo portarti nel posto più lontano in cui ancora potevamo toccare. Non era più possibile riconoscere i nostri vestiti lasciati a riva, né vedere davanti a noi la sponda opposta a decine di miglia oltre. In piedi in mezzo al mare come in un’enorme piscina, solo noi.

Fu allora, quando cauti iniziammo a staccare i piedi da quel limite di sabbia così lontano da tutto, che fui colpito. Il dolore lancinante rimase bloccato, concentrato, nel punto esatto in cui l’aculeo era entrato scattando come il meccanismo di una trappola dall’esile groppa dell’essere nascosto sotto la rena. In quello spazio sconfinato il mio piede lo aveva trovato e lui, sempre proteso in difesa verso l’alto, non si era tirato indietro.

Annaspai, e fosti tu a portarmi a riva, ad adagiarmi sulla sabbia, a trascinarmi all’asciutto.

Intanto il dolore mi riempiva, gonfiando il mio piede sinistro di veleno, lo strazio che si stava irradiando da sotto il secondo dito fino al cervello si sarebbe trasformato in un dolore mangia-carne. Sempre di più da lì alle prossime ore, lo sapevo. Fosti tu a passarmi la fiamma dell’accendino bic scovato scuotendo i miei pantaloni a rovescio per tentare di neutralizzare il termolabile fluido tossico. Sempre tu a recepire le mie indicazioni studiate sui libri o per sentito dire su come affrontare la situazione. Tu a reggere il mio peso a stampella fino alla macchina. Tu a guidare fino alla farmacia prima, alla guardia medica poi in quella domenica di fine settembre. Tu a prendere le mie chiavi dal cruscotto.

Varcammo così la soglia di casa mia per la prima volta insieme.

Rimasi a letto tre giorni e tre notti.

In preda alle dracotossine deliravo e facevo sogni agitati, ma quando aprivo gli occhi c’eri tu. O il tuo volto, i tuoi occhi bellissimi che mi scrutavano da vicino erano parte dei miei sogni? Avrebbe forse dormito placido per millenni non visto da nessuno il triste pesce drago nascosto in fondo al mare, se con il mio tocco di bacchetta magica non lo avessi risvegliato dal suo atavico torpore.

Più simile a un’iguana per la pancia schiacciata a terra, le pinne laterali con le quali sembra tenersi stretto alla sabbia e la nera cresta dorsale velenifera che incornicia il grosso volto di rana come una corona, gli occhi a palla sempre socchiusi e la smorfia della bocca verticalmente rivolta all’ingiù più che pauroso lo fanno sembrare triste e ottuso. Come cane alla catena se ne sta in perenne attesa, raggomitolato a guardia dei suoi piatti fondali pronto a scacciare chiunque non ne voglia capire la regalità. Con la sua aggressività ostentata, unico suo modo di essere, che cosa vuole proteggere? A chi porge i suoi meschini servigi? È di suo dominio il regno della melma?

Sei rimasta ad accudirmi per tutto il tempo, per te un quasi estraneo, muovendoti liberamente in casa in una casa in cui non avevo fatto in tempo a invitarti.

Mentre imparavo il cerimoniale del duello col pesce ragno fatto di affronti fieri e spettacolari danze intimidatorie, di sguardi fissi, balzi e contorsioni, tu trovavi dove tenevo il caffè, prendevi le misure con i serramenti e gli interruttori, curiosavi forse nei miei cassetti, riempivi il frigo con fugaci uscite verso l’alimentari di paese. Eri bella in casa mia.

Se quando aprivo gli occhi non incontravo i tuoi, bastava volgere l’orecchio verso la cucina per sentire il rumore di qualcosa che stavi preparando o della tv che tenevi a fil di voce per non svegliarmi.

Così, mimetica, ti sei infilata in una vita non tua per amor mio. Così, mimetica, sei entrata nella mia vita e nelle mie stanze facendole tue. Mi crogiolavo nel piacere di averti lì con me, premurosa e preoccupata per il mio stato di salute.

L’incubo del pesce ragno non mi ha più abbandonato per giorni, sdraiata al mio fianco, mi tamponavi la fronte madida di sudore a causa del veleno e io ti raccontavo la sua storia. Me lo immaginai custode del grande vulcano e iniziai dicendoti che c’era una volta il luogo remoto in cui giace addormentato un colosso degli abissi e che io una volta volli andarlo a trovare. Tu, la mia piccola attenta con gli occhi spalancati dalla curiosità, io il tuo cantore di storie.

Al centro esatto del mare, protetto della curva dolce che la punta della penisola forma con l’isola grande, nel punto più remoto un colosso degli abissi giace addormentato.

Andai a incontrarlo qualche tempo prima di conoscerti, quando il mio unico interesse era capire come e quanto e perché appartenessi al mare. 39°15’00″N 14°23’40″E centoquaranta chilometri dalla costa est, centocinquanta dalla costa sud, le coordinate precise che da allora per abitudine recito a memoria neanche fosse una cabala o una formula magica. Andai sfruttando un viaggio organizzato dal Centro per rilasciare i brevetti istruttori. Eravamo quindici tra esaminatori e esaminati, per congedarci decidemmo di raggiungere la città sommersa; era dicembre.

Arrivammo con un pullman affittato apposta, troppo grande per noi, viaggiammo di notte e all’alba ci facemmo largo nelle strade strette ricavate tra antichi templi e i moderni impianti di depurazione dei molluschi fino a fermarci davanti alla sbarra di accesso.

Avevamo tre giorni; i primi due li avremmo passati a completare le esercitazioni per il rilascio del brevetto professionisti, il terzo avremmo partecipato alla realizzazione del presepe subacqueo. Ma io avevo altri piani, avrei disertato la deposizione della Madonna per raggiungere il mio centro del mondo.

E così al porto trovai qualcuno che potesse accompagnarmi e mi misi d’accordo per un’escursione in barca.

La Sirena dei Mari, così si chiamava, non aveva grandi attrezzature e trovare il punto corrispondente all’apice non fu semplice. La giornata era tiepida e l’energia che sentii avvicinandomi fu enorme. Mi preparai come se dovessi incontrare il mio Dio: una forza magnetica mi attirava e mi tratteneva. Scesi in immersione sapendo che sarebbe stato un incontro virtuale, eppure mi bastava. Cinquecento metri sopra la sua testa, non vidi neanche un granello della roccia che lo formava, ma sentii comunque forte la potenza del magma solidificato nei millenni che si innalzava mastodontico dal fondo per quasi quattro chilometri.

Il più grande vulcano d’Europa, cuore nascosto del nostro mare, probabilmente il maggiore responsabile delle fattezze della porzione di mondo in cui le vite nostre e dei nostri antenati hanno proliferato. Divinità dormiente posta nel punto più profondo, tana magica e incarnazione del pesce-incubo che avrebbe animato i miei deliri di fine settembre. Giorni sospesi in cui tu facevi incursioni salvifiche nei miei sogni e soprattutto nella mia realtà.

Un dito mi sei costata.

Il secondo dito del piede sinistro, che da allora non posso più piegare, ho sacrificato al pesce-drago, dio di tutti i fondali che osai calpestare, per ricevere le tue cure e i tuoi baci d’amore.

L’immersione sulla sommità del vulcano durò poco, il cielo bianco di dicembre di colpo si rannuvolò e il mare viola e opaco in cui ero iniziò subito ad agitarsi. Tornammo al porto sulla più che traballante Sirena dei Mari. Sapevo di essermi avvicinato all’essenza salvifica dell’acqua, l’origine delle cose. Arrivai giusto in tempo per rituffarmi nelle placide acque della città sommersa.

Con gli allievi istruttori ci muovemmo in bassi fondali antropomorfi incontrando gli sguardi di marmoree popolazioni a guardia della città balneare più in voga dell’antichità che, complice un’esplosione di fuoco del mio padre vulcano, il mare volle fare sua. Ci infilammo nei discorsi bloccati da secoli di creature ibride, ormai colonizzate da attinie e alghe, crostacei e policheti fissili, coralli e gorgonie; esseri curiosi di carpire gli umani segreti forse nascosti nelle espressioni di quei volti fieri e nelle gestualità auliche di statisti e guerrieri valorosi. E soprattutto tra i riccioli scolpiti delle splendide capigliature di divinità terrestri.

Trovai i miei compagni sul fondo, in uno spiazzo mosaicato più o meno circolare rubato al moto naturale della rena nello sforzo coprire tutto ciò che era stato il pavimento di una villa imperiale, adagiati come le statue che contemplavano e mi aggiunsi a loro, mentre dall’alto, ben imbragata, la statua della Madonna veniva lentamente calata in mezzo a noi.

Vorrei essere tornato con te nell’abisso, averti portata a conoscere l’energia vulcanica sommersa che dà vita alla terra e al mare, perché tu per me sei stata quella precisa forza vitale, il mio vulcano sommerso, la mia tana magica.

Ho provato a trattenerti, a offrirti la bellezza e l’immortalità dell’esistenza, ma ti mentivo come fanno tutti gli innamorati perché nulla è immortale qui. Per qualche tempo tu sei stata la mia eroina salvifica ma poi sei andata via con forza, hai reagito in modo così poderoso all’aborto ricoprendo di lava incandescente il nostro rapporto, scuotendo con violenza la mia esistenza. Forza che genera e che distrugge. Tu sei sempre stata la forza mentre io evidentemente non ho mai saputo dimostrartene. Ma se riuscissi a trovare la ragazza scomparsa in questa profondità che ribolle di energia mortifera, forse potrei provarti che anche io so reagire ma che la mia energia è simile a quella delle onde che poi si disperdono, inafferrabile come la fissità del mare.

— Il testo di Caterina Mazzucato è ripreso dalle pagine di Io sono il mare.

ARTICOLO n. 46 / 2021

MI TROVO BELLISSIMO

INTERVISTA DI LAURA REGGIANI

Secondo un sondaggio Doxa, nel 1981 Dalla è il cantante più popolare d’Italia (un elemento che sarà al centro della trama di Borotalco di Carlo Verdone, nelle sale l’anno successivo). In estate parte l’ennesimo tour, e la routine del palco sembra ora farsi sentire. Se solo pochi anni prima il live era per Dalla il momento centrale del rapporto con il pubblico, ora «la vera comunicazione non la si crea al momento dei concerti, ma all’atto di scrivere una canzone». Ma d’altra parte Dalla ormai rilascia moltissime interviste, e come ammette lui stesso, «non c’è nessuna ragione per cui io, a tutti i costi, debba confermare quello che per me ieri era vero».

Lignano Sabbiadoro, agosto. Ama la gente e lo champagne. La gente, coloratissima e abbronzata, già poco prima del tramonto di un pomeriggio d’estate al mare sta ad aspettarlo nella piazza antistante lo stadio in cui si esibirà. Lo champagne, invece, è atteso con apprensione da cuoco e troupe al seguito. Perché il signor Dalla Lucio, di professione cantautore di successo, è «goloso» di champagne: soprattutto d’estate, in queste estenuanti tappe forzate canore che sono le tournée e che costringono lui, il suo gruppo e una ventina di tecnici a un giro d’Italia da forzati. «Mi corrobora, mi sollecita l’umore, è quasi un tonico» dice Dalla sorridendo, «lo champagne è uno dei pochi sfizi che si concede quella parte di me che ha scoperto i vantaggi del successo.» Trentotto anni, bermuda sfilato e collana rosa intorno al collo, l’eterno basco di lana blu e due occhialini piccoli, tondi, quasi a sfuggire uno sguardo diretto. Lucio Dalla, che un recente sondaggio Doxa ha dichiarato il cantante più popolare d’Italia, è di nuovo, a due anni di distanza dalla clamorosa tournée con De Gregori, in giro per concerti.

LAURA REGGIANI: Essere in tournée, affrontare quotidianamente un pubblico diverso: che significato ha per te?

LUCIO DALLA: Credo che le tournée ormai siano un fatto promozionale, un appuntamento che ci si dà, una stretta di mano, un contatto voluto e dovuto. Ci sono serate meglio riuscite in cui mi diverto e serate in cui non mi diverto. Le sere in cui mi diverto piaccio di più anche al pubblico, le altre un po’ meno, ma io credo che questi incontri siano una specie di replay, la vera comunicazione non la si crea al momento dei concerti, ma all’atto di scrivere una canzone.

E l’emozione? Il famoso «feeling» tra l’artista e il suo pubblico?

L’impatto col pubblico, almeno per quanto mi riguarda, non è mai diretto, avviene sempre per gradi, sempre un po’ dopo. L’emozione è una cosa che non provo più, forse non l’ho mai provata tranne in due o tre occasioni, non so, a Torino per esempio, con Banana Republic, davanti a sessantamila persone. Avrei dovuto essere una macchina per non provare niente. Ecco, io ero là su quel palco e pensavo ai calciatori e a quello che gli passa per la testa mentre giocano, la domenica, davanti a tanta gente; pensavo che nell’arco di un’ora noi avremmo potuto commettere cinquanta piccoli errori, e invece loro… Tutte considerazioni strampalate che facevo da solo io, ma al di là di fatti come questo, sporadici, la cosiddetta emozione del debutto non c’è più. Se mai c’è stata.

Il tuo pubblico, Lucio, quello che accorre ai tuoi concerti, che compra i tuoi dischi…

È un pubblico eterogeneo, senza età, ci sono ragazzi, ma anche adulti. Sino a quattro anni fa ero uno che aveva un certo seguito, un certo consenso, ora questo consenso s’è allargato. Qui, ai concerti, vengono tutti quelli che usano, che utilizzano le mie canzoni.

In che senso?

Nel senso che io credo di scrivere delle canzoni rivolte a tutti, non dirette a un pubblico particolare. Una canzone nasce libera, si stabilisce un rapporto dal momento in cui io la scrivo al momento in cui la gente l’ascolta. Ma con ciò non voglio essere il padre o il fratello maggiore di nessuno. Posso raccontare delle cose, ma non lancio teorie o problematiche esistenziali. Una canzone nasce viva, leggera, affascinante, proprio per quello che è: la raccogli per strada, come un pacchetto di sigarette perdute da un altro o non la raccogli, ed è questo il suo aspetto più interessante.

Parliamo d’ispirazione. La tua da dove nasce? Da un bicchiere di champagne?

O da un bicchiere di vino, da un incontro felice, da un sorriso, è un miscuglio di tante componenti. Non che io creda nell’alcol o nella metodologia dell’alcol per avere ispirazione, ma metti una sera particolare, bevi un bicchiere in più e ti scatta uno stato di percezione che ti permette di fare. Oppure, una sera senza vino o un’altra di grande allegria o di grande tristezza; insomma tutto nasce dalle cose che si muovono, è la vita, il quotidiano che diviene in te sensazione. Ecco, io credo a questo tipo di cose: gli uomini si sono conosciuti raccontandosi, cantandosi delle storie, dei sentimenti: il problema non è quindi quello di essere poetico, quanto quello di farsi capire.

Tu hai risolto questo problema?

Credo di sì, cercando una maniera nuova, più profonda, di comunicare.

Chi è Lucio Dalla per Dalla?

Un inguaribile e incorruttibile voyeur. Decisamente, la mia visione della vita è voyeuristica. A me piace raccontare, manipolare quel che vedo. In realtà, sono le cose che vedo che parlano da sole. Ci può essere un’invenzione nella ricerca del linguaggio, del racconto, ma il racconto è quello che è, nella sua interezza.

Che cosa non ti piace?

I vecchi saggi, non ho mai avuto simpatia per loro. A un vecchio saggio del passato preferisco un uomo medio di oggi. E poi il passato non mi va…

Il passato, perché?

Perché è una cosa che brucia in un secondo e mezzo e poi ci sono i ricordi, la loro precisazione, più fastidiosa che altro.

Un tempo nelle tue canzoni parlavi di automobili. Oggi parli dell’uomo quasi a volergli infondere nuovo vigore, a differenziarlo dalle macchine, dal tecnicismo spinto

L’uomo, come me del resto, lo vedo sempre proiettato, nelle mie canzoni. Parlo sempre di futuro, ma un futuro legato all’uomo, non un futuro tecnico. E la differenza tra una macchina e l’uomo sta essenzialmente nella sua memoria, perché la memoria nella macchina esiste in quanto programmata, mentre quella dell’uomo è una memoria ideologizzata, fatta di rapporti tra date, sentimenti e ragioni di vita. Esiste in questo senso una percezione di coscienza collettiva per il passato che solo la memoria può tenere legato.

Parlavamo di futuro. O meglio ne parli spesso tu.

Il futuro mi esalta, c’è fascino in tutto quello che deve accadere. Un uomo a parer mio non vive per quello che sa ma per quello che ancora deve imparare. Se dovessi sintetizzare con una parola il mio atteggiamento nei confronti del futuro sarebbe «chissà»… perché il mio è un rapporto col mio domani divertito, possibilistico, interessato, forse un po’ infantile.

Il successo, Lucio. È stato difficile arrivarci?

È stato lento, almeno fino a un certo punto, ma mai difficile. Non ci sono stati slittamenti, nessun compromesso. Ho sempre fatto, cantato, scelto repertori che volevo io, e che ho vissuto nel modo che mi piaceva. I compromessi, se ne ho fatti, li ho fatti per amicizia. Allora sì, qualche volta è capitato di fare qualcosa controvoglia.

Il tuo miglior amico?

Me stesso. C’è una grossa complicità tra noi due, ci si conosce da tempo, ci si sopporta, ci si arrabbia, un rapporto vivo, dunque. Se poi esco dalla mia sfera, be’, ce ne sono parecchi, Ron soprattutto, di cui ho prodotto l’ultimo disco e con cui, da oltre dieci anni, c’è un’intesa perfetta, una simbiosi di gusti da sembrar magica.

Ti guardi mai allo specchio?

Sì, a volte mi guardo allo specchio e mi trovo bellissimo, o perlomeno piacevole. Non sto scherzando, sai? Non possiedo, certo le physique du rôle classico, ma sono convinto di avere un certo fascino. Al di fuori comunque di questo rapporto tra me e me, puramente narcisistico, la mia concezione estetica è completamente diversa, mi piace il contrario, siccome però amo e mi piace il contrario del contrario che sarei poi io, mi piaccio anch’io!

A che cosa attribuisci il successo che ti accompagna da anni?

Credo che sia da attribuire alle mie canzoni, alla mia comunicazione col pubblico. Quando compongo è come se avessi tutta la gente davanti a me, con me, insieme a me, in un rapporto assolutamente diretto: il momento di scrivere è l’autentico rapporto con gli altri, ed è in quel momento che mi emoziono, che vivo ansie, esaltazioni. È lì che il mistero nasce, quando scrivi, e poi fai il disco, e il missaggio. È tutto qui, non ci sono sotto, nel mio caso, grandi operazioni promozionali; io vado pochissimo in televisione, la mia casa discografica non ha mai speso una lira per propormi come personaggio del momento; per quel che mi riguarda, il successo è solo forza, la forza trainante delle mie canzoni.

C’è, secondo te, un requisito essenziale che si deve possedere per raggiungere la popolarità?

Non essere stupidi, questo credo sia il requisito fondamentale e primario per fare qualsiasi cosa.

Oltre a non essere stupido, come sei?

Incoerente. Mi piace moltissimo esserlo e mi piacciono le persone che lo sono. Non c’è nessuna ragione per cui io, a tutti i costi, debba confermare quello che per me ieri era vero; al contrario, vivo nell’attesa quotidiana di cambiamenti, di novità. L’incontro di domani, se ci sarà, la scoperta di un posto nuovo, l’incerto di un’ora prossima, questo è il mio mondo. Il presente è come sabbia nelle mani, fugge via, scivola. Il domani te lo immagini, lo costruisci, è un’incognita. Non posso perdere le innumerevoli possibilità di vivere in modo diverso solo per darmi connotati precisi, certezze che non ho e non vorrò mai avere.

Torniamo alla canzone: quest’estate ricca di tournée tasta il polso a un’Italia canora in fermento…

Non so bene chi ci sia in tournée, sono stato in sala sino al mio debutto, il 31 luglio scorso, ma è innegabile, c’è una continua evoluzione sul piano musicale, ci sono molte situazioni, diverse tra loro, ma tutte contribuiscono ad arricchire il pubblico…

Non pensi che ci siano comunque situazioni anomale? Che forse ci sono stati o ci sono artisti che meriterebbero più successo e altri meno?

Secondo me il pubblico, anche se ripeterò la solita frase che sembra scontata, ha sempre ragione. Sono convinto che oggi non esista un grande talento che non abbia la possibilità di arrivare. E se questo talento non arriva, vuol dire che ha sbagliato qualcosa. Tra l’altro, il pubblico italiano è uno dei pubblici più attenti e colti; in Germania, dove io, come molti colleghi, vado spesso, sono attentissimi alla nostra musica, per loro è cultura.

Non credi però che il pubblico vada ai concerti non solo per la musica, ma anche per un fatto di moda, perché il cantante del momento è un divo che balla o che fa spettacolo?

Io ho un gran rispetto per il pubblico, non credo che sia così sensibile a certi dati esteriori come può anche sembrare. C’è di vero che tu puoi fronteggiarti col pubblico anche attraverso la bellezza, il divismo, attraverso messaggi più labili, più esteriori, ma in questo caso sono convinto che il canale di comunicazione sia di breve durata, limitato. Quella che aggancia l’artista al pubblico è un’operazione sui sentimenti, la corrente sotterranea di certe sensazioni, di certi linguaggi: la gente lo avverte e ti amerà sempre. Non che tutto il pubblico sia così, c’è anche una fascia, quella di supergiovanissimi o degli indifferenti alla musica, che può pretendere o accontentarsi di meno, c’è la molla della curiosità che stimola alle novità, di qualsiasi tipo siano, c’è il fatto promozionale, importantissimo. Tutte queste cose sfornano realtà musicali non propriamente affini alle mie o a quelle di un De Gregori, di un Venditti, ma sono realtà anche queste. Se un fenomeno musicale esiste, per il tempo che esiste, vuol dire che in parte il pubblico ne aveva bisogno.

Quindi fenomeni come quello di Zero…

Fenomeni imposti, è il caso di dirlo, dal pubblico. Zero ha una corte di giovanissimi coi quali ha trovato la complicità di un linguaggio, di un atteggiamento. Anche questo fenomeno, sempre musicale se pur legato a una forma di divismo, è cultura.

A proposito di Zero, c’è stata la sciagura di Milano.

Ti riferisci a quanto è accaduto al Castello Sforzesco. Mi ha addolorato vedere come Zero sia stato coinvolto e responsabilizzato in questa vicenda. Lui era là, insieme ad altri venticinque artisti come lui, in una situazione di cui non era minimamente responsabile. E, invece, giornali e televisione l’hanno fatto apparire quasi come un colpevole. Zero ha sofferto per questo; è un artista che organizza concerti da cinque anni e gli è sempre filato tutto liscio.

Però a Milano c’è scappato il morto…

Quello che più mi impressiona non è solo il fatto che si muoia ai concerti, perché disgraziatamente si muore dappertutto, ma l’utilizzazione che la stampa fa di un fenomeno così spaventoso come la morte, associandola necessariamente alla musica. In quello che è successo a Milano c’è stata secondo me una faciloneria che è perlomeno sorprendente. E che non è da attribuire a Salvetti, che è uno che organizza da dieci anni l’Arena di Verona e il Festivalbar senza aver mai avuto incidenti.

Evidentemente ci sono responsabilità di gente che non sa organizzare questo tipo di spettacoli, se non altro per aver relegato una manifestazione così imponente, zeppa di nomi famosi, in un luogo come il Castello, disadatto a ospitare questo tipo di concerti.

Tre anni fa, ricordo che andai anch’io al Castello, c’era moltissima gente e un ragazzino tirò una bomba molotov sul palco, ne parlarono anche i giornali. Fortunatamente si era alla fine dello spettacolo, all’ultimo bis, il pubblico stava sfollando, nessuno si accorse di nulla. Ma se l’avesse fatto prima sarebbe dilagato il panico, tutti sarebbero corsi verso una delle porte dell’uscita di sicurezza e sarebbe successa una catastrofe analoga a quella di quest’anno.

A me, fortunatamente, in tanti anni di spettacoli non è mai successo niente, sto attentissimo all’organizzazione e poi forse non ho un pubblico così esuberante, ma la fatalità esiste dappertutto. Dopo questi ultimi fatti sono nati molti problemi: sindaci che ci rifiutano gli stadi, una specie di caccia alle streghe che non giova a nessuno.

Come vivi in tournée?

Come una mosca su una fetta di carne, nel senso che non mi stacco mai dal luogo in cui mi fermo. Ci sono cantanti che arrivano all’ultima ora o anche in ritardo, io no. Non so se questo sia dovuto al fatto che mi annoio oppure se è perché mi reputo un professionista pignolo e controllo ogni particolare prima dello spettacolo. Comunque quando sono in città di mare in genere vado anche a fare i bagni oppure leggo o vado a giocare al flipper.

E al di fuori della tournée?

Sono forse più impegnato. A parte il momento dello spettacolo, la tournée è un momento di svago, di riposo. Negli altri mesi lavoro continuamente, in modo ossessivo, sono quasi sempre in sala di registrazione.

Quindi, hai poco spazio per il tuo privato.

No, no, riesco a non crearmi angosce e a vivere abbastanza normalmente: vado allo stadio, seguo il basket che dopo la musica è la mia grande passione, vado spesso al cinema. L’unico problema, ma è cosa da poco, è fare in modo che non mi riconoscano per strada, non so mai cosa dire alla gente che mi ferma, non so cosa scrivere sui pezzetti di carta di chi chiede un autografo, m’imbarazzano la curiosità, le occhiate, i sorrisini degli altri. Io sono uno che fa un mestiere, il cantautore, per il resto sono un tipo comune, con interessi comuni.

E la televisione? La guardi spesso?

Sono un maniaco della televisione, la guardo continuamente quando non lavoro; mi piace tutto, dai cartoni animati ai vecchi film, alle inchieste.

I giornali, li leggi?

Fino a qualche mese fa li leggevo tutti, adesso li sfoglio, se proprio sono costretto, ma mi annoiano, penso sia di gran lunga meglio la televisione come mezzo di comunicazione. Anche se, in definitiva, credo che si sarebbe potuto fare a meno dell’una e degli altri. Certo, tv e giornali danno un’accelerazione vertiginosa ai fatti, ormai è inimmaginabile un mondo senza di loro, troppo tardi…

Quanto guadagna Lucio Dalla?

Che Dio lo benedica! No, senti, anche lì bisogna vedere il parametro. Sembra assurdo, ma io non mi posso permettere tante cose che vorrei permettermi. La ricchezza addosso non me la sento, non mi sento un uomo ricco. Sono già molto contento di potermi permettere tutto quello che mi chiedo, ma mi rendo conto che mi chiedo poi poco: che so, se devo andare in un albergo o al ristorante vado nel migliore, se devo andare al mare scelgo il più bello, ma finisce lì. Di mio, ho una «132» e una casa a Roma e una a Bologna che mi sono comprato quest’anno. C’è gente molto più ricca di me, ma non mi sento un frustrato per questo. Credo che tra l’altro fare il cantante non faccia arricchire come si dice. Le tournée, ad esempio, sono fatti promozionali più che investimenti economici. Un apparato rischioso e con tali spese che ti va bene se ne esci in pareggio.

Tornando un attimo al panorama musicale italiano, c’è un fenomeno, quello delle donne protagoniste della musica

Credo che la situazione delle cantanti donne fosse sicuramente migliore anni fa con personaggi quali la Vanoni, la Ferri, la stessa Patty Pravo. Oggi, nonostante che ci siano ottime cantanti, la Nannini per esempio, non mi pare si sia alla stessa altezza. Io stesso, se volessi provare un’emozione ascoltando una cantante, andrei a risentirmi la Vanoni o la Ferri. Mina no, non mi è mai piaciuta granché.

L’amore, per te, che cos’è?

È soprattutto tenerezza e incontro con gli altri, rapporto immediato, sensazione. Io vivo l’amore ogni giorno, comunico ogni giorno, mi esalto ogni giorno. Ed è attesa del giorno dopo, del nuovo incontro, della prossima sensazione…

Nella tua vita hai avuto un grande amore, tua madre…

Sì, è sempre stato un rapporto bellissimo, di tenerezza e di grande stima, di rispetto e di fiducia. È una donna che mi ha sempre fatto fare quel che volevo, sin dall’età di quattordici anni, quando cominciai a lavorare e ad andare via da casa: un rapporto ideale.

E tuo padre?

Mio padre è morto quand’ero piccolo, avevo sette anni. Oggi non so dirti se sia meglio o peggio non aver avuto un padre, ma sicuramente la sua mancanza non mi ha creato vuoti o traumi. Sono troppo proiettato verso il futuro per guardarmi indietro.

Hai una casa a Roma e una a Bologna, ma stai spesso a Milano. Dove vivi in realtà?

Se ci sono le ragioni valide per vivere bene, vivo bene dappertutto: Bologna è la mia città, un fatto sentimentale più che altro; Roma è bellissima e ci sto bene; Milano è il posto dove lavoro, faccio dischi. Poi c’è Napoli che adoro perché mi piace il Sud, e poi le Tremiti che in assoluto è il luogo dove sto più volentieri. Insomma, ci sono riferimenti dovunque. E poi ci sono le piazze, come stasera: un pezzetto di vita se ne va anche qui, davanti a migliaia di persone.

Sei un assertore della libertà, dell’indipendenza. T’è mai venuta voglia di fermarti, di smettere di fare il «senza famiglia»?

Sono un voyeur, l’ho detto, mi piace di più stare a vedere che fare il protagonista. E poi la solitudine non è ancora un momento di aggressione verso me stesso, forse perché vivo così poco da solo, la solitudine mi piace. Non credo, oggi, di essere in grado di pensare a una situazione stabile: un’emozione al giorno e via.

Ma c’è qualcosa di fermo, di stabile in cui credi?

In Dio. Sono un cristiano praticante.

Un’indagine Doxa ti ha definito il cantante più popolare d’Italia. Sei anche il più bravo?

Chissà…

 – Questa intervista, apparsa su La Domenica del Corriere il 29 agosto 1981, è ripresa dal volume E ricomincia il canto, a cura di Jacopo Tomatis.

© il Saggiatore S.r.l., Milano 2021

ARTICOLO n. 45 / 2021

ARRASSUSIA

ESTATE A NAPOLI

Arrassusìa. Formula scongiurativa.
Si usa all’inizio della frase per dire
speriamo non accada. Speriamo
che resti lontano. A volte invece
è scaramantico, e significa
magari non accade, magari
non resta lontano, ma se arriva
se accade, poi vedi se accade
che succede, noi cosa facciamo.

Negli ultimi mesi ho guardato spesso di notte la schiera di gabbiani sopra il tetto verde di Santa Chiara. Con un po’ di sorpresa, da qualche mese riesco a osservarli senza troppa angoscia. Ho sempre avuto paura di ciò che vola e di ciò che sembra pensato per farlo. Adesso però è più facile, perché oltre i vetri delle finestre ci sono le impalcature che la pandemia ha lasciato davanti al palazzo. Tre piani di ponteggi, forse quattro, e una rete azzurra a ricoprire tutta la facciata. Nei primi mesi di confinamento: marzo, aprile, maggio duemilaventi, la gabbia in metallo acuiva il senso di claustrofobia, alimentava fantasie di arrampicate, di evasioni notturne. Poi la sensazione d’estate si è attenuata, con il caldo si poteva comunque uscire sui balconi e sistemare il basilico sui ponteggi accanto alla malvarosa. Si poteva soprattutto vedere meglio tra le linee di tubi e le lamine forate lo spazio che si apre tra le case e le vetrate della basilica. Un’eccezione lasciata dalla guerra nel dedalo dei vicoli. Nel silenzio dei mesi di confinamento, in un centro storico imploso, di case vuote senza turisti, ho iniziato a studiare nel cielo le forze nemiche, soprattutto i piccioni e gabbiani che la mancanza di cibo, cioè di rifiuti, costringeva a continui scontri aerei.

Nello spazio d’aria che sorvegliavo dal balcone puntellato, gli inseguimenti tra le due specie erano all’ordine del giorno, e i piccioni alla fine avevano la peggio. La partita dei pedoni bianchi e neri finiva sempre allo stesso modo. Marcature in volo della preda, accelerazioni in picchiata e poi brandelli di ali lasciati cadere da decine di metri sulle auto ferme da mesi. E ogni volta che accadeva, che assistevo alla scena, posso dire di non aver sentito pena o disgusto. L’impressione che i piccioni fossero tutti uguali, che uno in meno non contasse nulla. La consapevolezza che era solo la legge di natura. Che non aveva senso averne paura.

Penso a questo, mentre è luglio e guardo i piccoli stormi di turisti tornati nell’afa di una città che per un’altra estate sarà più vuota del solito. Percepisco la stessa indistinzione tra gli individui in sandali e pantaloncini. Guardo gli ambulanti aggressivi che provano a vendergli qualcosa, a prendergli dei soldi, ai camerieri che fanno i buttadentro, con lo stesso distacco con cui ho assistito alle manifestazioni aeree delle leggi di natura. La negoziazione di uno spazio a un certo punto invaso. La prova di forza degli uccelli più grossi e più veloci, che hanno abbandonato l’approvvigionamento di pesce in mare, e adesso mangiano rifiuti o i loro simili più lenti, più stupidi.

Decido che però è gioco facile parlare male dei turisti d’estate, e che invece voglio saperne di più di loro, i gabbiani, mentre sono ancora protetta da reti e ponteggi. Cerco un libro preso molti anni fa su una bancarella, e che non avevo mai aperto per paura delle figure. L’Atlante degli uccelli nidificanti e svernanti nella città di Napoli. Solo che il libro è degli anni Novanta, e probabilmente leggerò la mappa di un cielo che non esiste più, che è già cambiato. Ma non è molto diverso da ciò che fanno gli astronomi con le stelle, dunque forse vale la pena. Mentre cerco notizie sui pedoni bianchi, scopro che la popolazione aviaria della città è piuttosto complessa. La città storica in cui vivo, e che si estende da Posillipo a Sant’Erasmo, ospita colombi, rondoni, balestrucci, merli, codirossi, spazzacamini, capinere, taccole, e fringuelli. Il balestruccio, si legge, è la novità più interessante perché prima di allora non era mai stato schedato. La situazione è ancora più variopinta e per me spaventosa nell’area industriale di San Giovanni a Teduccio e dintorni dove invece abbondavano poiane gheppi, scriccioli, tordi, usignoli di fiume, occhiocotti, beccamoschini, luì piccoli, passere varie, cardellini, verzellini. Su tutti dominano i colombi, tantissimi dall’immediato dopoguerra, forse forme randagie sfuggite al controllo diretto dell’uomo (allevamenti, attività sportive, ecc.). E poi, eccoli, ci sono i gabbiani, comuni e reali.

I gabbiani comuni come i turisti sono estivanti, oltre che nidificanti e migratori. Trascorrono cioè l’estate in Campania. A Napoli frequentano le aree più antropizzate della costa, come i porti, gli sbocchi fognari, e le aree di mare dove i venti e le correnti concentrano i rifiuti galleggianti. Si trovano lungo il litorale, e anche intorno alle vasche per il raffreddamento degli impianti dismessi dell’Ilva di Bagnoli e nei prati dell’aeroporto di Capodichino. Ogni tanto si spingono all’interno dove si alimentano nelle discariche e i campi coltivati nelle piane del Casertano e dell’agro-sarnese.

I gabbiani reali invece non sono estivanti, ma sedentari, e svernano alla foce del Sele. Non si incrociano mai con i gabbiani comuni, come hanno dimostrato le indagini sul dna (c’è anche un classismo aviario, pare). Prima si trovavano solo su piccole isole del Tirreno, della Sicilia e della Sardegna, ma la specie ha subito una forte espansione demografica grazie alle risorse alimentari che sono i centri storici urbani pieni di rifiuti. A differenza del gabbiano comune, forma stormi di centinaia di esemplari nei porti, alla foce dei fiumi e di altri sbocchi a mare come le fogne.  Hanno una straordinaria adattabilità a nidificare in ambiente urbano. Non nidificano solo in posti irraggiungibili della costa, a Capri, nella penisola sorrentina, e a Nisida, che è poco distante dallo scolo fognario di Coroglio, ma anche in pieno centro storico. Negli anni Novanta, una coppia nidificava sul campanile della Chiesa di Sant’Agostino alla Zecca (nella strada dove è cresciuta mia madre), e altri nidi si trovavano sul tetto di Santa Croce al Mercato e ancora a San Gregorio Armeno, Santa Maria La Nova, San Marcellino, Piazza del Gesù. «È probabile che in quest’area si siano già verificati dei tentativi di nidificazione, come farebbero supporre atteggiamenti di tipo territoriale da parte degli adulti come l’allontanamento degli immaturi, grida e altri atti aggressivi osservati». Decido che questa frase ha qualcosa di profetico, e senza nessun riscontro scientifico mi convinco che i gabbiani che vedo di fronte non sono gabbiani comuni estivanti, ma gabbiani reali, sedentari, che si radunano in centinaia e che nidificano lì, sul tetto di rame ossidato di Santa Chiara. Forse gli attacchi ai colombi non sono allora per il cibo, che non scarseggia più, ma per segnare il territorio, per difendere il loro spazio aereo e l’esclusiva sui rifiuti nell’area. Improvvisamente li riconosco come abitanti di questa città, e nonostante i vetri adesso chiusi della finestra, e i ponteggi ancora al loro posto, mi fanno per un attimo di nuovo molta paura, e con loro la spietata legge del difendere e del sopraffare. E non so più se augurarmi che restino lontani, ancora per un po’, dietro l’armatura di ferro che mi protegge. O se invece sperare che lo schermo che ci separa venga rimosso, e che impari anche io a proteggere e negoziare il mio spazio con le altre specie bipedi di questa città, sia le estivanti che le sedentarie. Arrassusìa che questa pandemia continua ancora. Arrassusìa che finiscono i lavori sulla facciata. Magari non accade, però se accade.

ARTICOLO n. 44 / 2021

TESTIMONI

ESTATE A TORINO

Il portico è uno spazio a due dimensioni1. Le volte grigie lasciano entrare il cielo e la notte. Il marmo pavimentato, liscio, granuloso nelle pozze scheggiate, gelido quando febbraio sembra crudele. Le colonne del portico sono un riparo per nascondere i cartoni, il piumone sudicio. Al buio, quando la dimensione del giorno è scomparsa, i corpi stesi sul marmo diventano sagome che tossiscono, che si asciugano le labbra bagnate dal vino acido, dalla birra bruna, dall’acqua nella bottiglia di plastica spanciata. Le ronde entrano nelle parentesi di sonno, chiedono documenti e nomi comunicati via radio alla centrale. Sagome coperte dal buio ascoltano i passi allontanarsi: un’altra notte in cui è concesso restare. Gli schermi illuminano le coperte finché il respiro diventa profondo e materico: fiato nella notte ghiacciata.

Il fronte popolare di liberazione senza liberazione, in una città da mille miliardi di euro, dove i clan acquistano proprietà e congelano beni. Nei sotterranei ci siamo noi, che elemosiniamo per un trancio di pizza. Senza soldi, affamati di tabacco e aspirine.

Queste potrebbero essere le parole sognate da un mio omonimo, un uomo sui quarant’anni che mi viene a trovare in libreria tutti i giorni, tra le 12 e le 13. Gli offro una presa di tabacco e lo ascolto. Parla degli eventi accaduti nella notte precedente, degli uomini che barcollano ubriachi e si addormentano con le gengive scoperte sul selciato. Parla delle zuffe, mi racconta dei furti tentati e di quelli riusciti. Spesso subiti. Un giorno, a metà giugno, lo incrocio in una zona d’ombra magnifica accanto agli scalini della galleria Subalpina, un punto da cui mi godo spesso la vista sulla piazza e sulle facciate che rigurgitano luce. Il naso è tagliato da uno squarcio, una crosta di sangue già raggrumato, un minuscolo lago rosso. Una testata inferta a metà del naso, a metà della notte, dopo un diverbio assurdo con un uomo che conosce da anni, un tizio che accusava una donna – stesa come tutti gli altri su cartoni e coperte – di avergli rubato i documenti.

Scrivo queste pagine in un momento in cui il dolore si diffonde nel corpo che mi ha generato. Il dolore fisico della persona amata si riflette nella mia psiche, entra come brace nei sogni, scava nelle ossa e pungola l’epidermide fino a farla sanguinare. Rifletto sulla natura egualitaria del dolore, su quanto possa essere universale e individuale allo stesso tempo. La faglia che divide molti esseri umani può essere collegata da un ponte che conduce il dolore dell’uno al dolore dell’altra. La lontananza, la protezione, l’annullamento e la rimozione del dolore non aiutano a comprendere che ogni essere vivente è destinato a farci i conti, a misurarsi con il buio e con il vuoto. Il dolore tramutato in linguaggio assume forme che non siamo in grado di decifrare, spettri geometrici che rigettiamo.

La città vive il dolore nella sua scomposizione, nelle sue fratture che si ricompongono tra una distanza e l’altra. I singoli corpi devastati non comunicano, o lo fanno soltanto in un insieme strettamente sorvegliato, quasi monastico, che conduce il vicino al vicino, il segmento al segmento. La tifoseria del dolore non compiange l’avversario, ma lo deride. Invece di creare una comunità del dolore, montagne di divisioni fanno retrocedere ogni etica possibile, quasi tutti gli spazi bianchi in cui alcuni si occupano degli altri. Eppure i casi personali contano qualcosa. Se possiamo immedesimarci nel trauma di una persona amata possiamo farlo anche con lo sconosciuto, con il corpo dell’altra.

«Da molto tempo mi sembra che l’unica cosa che valga la pena descrivere sia la luce, le sue trasformazioni e la sua eternità», scrive Andrzej Stasiuk ne Il mondo dietro Dukla. Attraversare la luce e contarne i particolari, ho pensato una volta varcato un ponte che mi ricorda le acque del fiume dell’infanzia, un’ansa che si flette dolcemente e che non rivedo da anni. I particolari che fluttuano come particelle invisibili nel tempo, che indicano i luoghi contaminati dalla memoria finché qualcuno ne abbraccia il ricordo. Nella non linearità del tempo, in un ipercubo possibile, non riusciamo a decifrare i messaggi perché ascoltiamo una frequenza diversa.

Dieci giorni fa, a qualche chilometro da dove scrivo, in una stanza abitata dal caos dell’abbandono, silenziosa come tutte le case in cui qualcuno è vissuto finché è stato possibile, F. ha trovato uno scatolone di cui aveva sentito parlare. Negli anni del dopoguerra l’area in cui si trova la casa è diventata una zona industriale. La scatola conteneva lettere e cartoline dall’Etiopia, un paese devastato dai coloni fascisti. In una di quelle lettere si comunica il decesso del soldato. In un’altra lettera, di qualche settimana prima, il soldato scrive ai genitori e alla sorella raccontando la vita al fronte. In un’altra lettera, a metà strada tra le due missive, i commilitoni scrivono alla famiglia riferendo di una pallottola prodotta dagli autoctoni, un corpo esterno che avrebbe ferito di striscio il soldato.

Le cartoline, nota la donna che sta aprendo una dopo l’altra le lettere vergate con una splendida e minuscola calligrafia, sono fotografie di ragazzine e donne che trasportano acqua da una fonte al villaggio, che sorridono, che cantano, che saranno schiave domestiche e sessuali dei colonizzatori fascisti2 nell’assurda follia imperialista.

Cosa rivelano delle lettere scritte intorno alla morte di un soldato inviato a uccidere civili nel 1936?

Cosa significano quelle lettere per una persona nata e cresciuta nel posto del ritrovamento?

Cosa significano quelle lettere per una persona nata e cresciuta nel posto del ritrovamento ma legata alle radici di quei fatti, di quegli eventi?

Che cosa possono dirsi queste persone, che hanno in comune eventi macroscopici e ricordi differenti?

Il 26 ottobre del 2020 sono comparsi video su Instagram, Twitter, Facebook e TikTok. Le immagini sgranate, riprese dai notiziari e dai talkshow, hanno in sottofondo le sirene e un vociare indistinto che cresce e diminuisce in base all’intensità degli eventi. Quella sera, in piazza Castello, gli esercenti protestano per le chiusure, per la lunga sequenza di dpcm, per le norme anti Covid e per il destino crudele. La foschia avvolge Torino, nasconde gli angoli e dimentica la visuale limpida che collega una retta alla sua perpendicolare. Per lunghi mesi il centro cittadino si è rivelato nudo e impotente, non irrorato dai flussi di passaggio, dai corpi che rendono vitali le architetture disegnate nel passato. Le abluzioni quotidiane si sono spostate nelle aree periferiche, nei quartieri che hanno assaggiato le potenzialità del centro scomposto e frazionato in nuove identità provvisorie. Se prima del Covid la dicotomia centro/periferia era obsoleta e inefficace, con l’avvento della crisi epidemiologica le città sono state costrette a reimmaginarsi.

«Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio/di una nuova,/L’afflato dell’odio per bellezza lirica,/La forza cieca per forma compiuta.»

In questi versi di Czesław Miłosz si nascondono domande che è lecito porre. Se la memoria è fallace, contano molto i particolari, le interazioni che riusciamo ad avere, le connessioni che conducono tra ciò che sappiamo e ciò che ignoriamo.

Durante gli scontri della sera fumosa, mentre gli esercenti tornavano a casa e decine di giovani vestiti con tute, piumini e sneakers entravano nell’area protetta dei negozi di lusso, i vetri sono stati frantumati, la merce rubata, i colpi inferti, la rabbia è esplosa e si è materializzata nei lacrimogeni lanciati dalle squadre della polizia.

Non sembrava una protesta simbolica, né una violenza che puntasse a dare voce alle ingiustizie che separano i figli dei precari, dei marginalizzati, dei nuovi schiavi dai figli degli abbienti, né sembrava soltanto un riflesso condizionato dal desiderio di avere qualcosa e di averlo subito. Il giorno dopo e in quelli a venire, sui giornali e nelle reti tv, è comparso lo sconforto di quelli che hanno pagato un prezzo molto alto in termini economici. Subire violenza e fare violenza: in questa storia di oggetti ritrovati o distrutti e di persone che fuggono o piangono, entra anche la breve assenza di una targa. Quasi tutti i testimoni ammettono che quella targa, dedicata ad Andrea Piumatti (partigiano ventiduenne ucciso dai fascisti all’imbocco della galleria Subalpina il 16 marzo 1944), sia stata in effetti divelta durante gli scontri. Altri testimoni, lettori e commentatori delle pagine locali, dicono il contrario.

Passo tutte le mattine in quel punto e credo di ricordare che anche quel giorno, il 26 ottobre 2020, la targa fosse al suo posto, esattamente nel punto in cui Andrea Piumatti fu colpito da due colpi di rivoltella alla tempia. Se la memoria è fallace e chiunque potrà sempre dichiarare il contrario di ciò che ricordiamo, contano molto i particolari e le riflessioni che siamo in grado di fare sugli eventi che dividono.

Quindi qualcuno ha deciso di sradicare una targa dedicata a un ventiduenne assassinato dai fascisti, un giovane uomo che da marinaio in servizio si era rifiutato di arruolarsi nella repubblica di Salò e che si era unito alla Brigata S. Magnoni della 43a Divisione «De Vitis».

Ci si chiede se a compiere un gesto del genere siano stati i nostalgici del duce, i fascisti che abitano il nostro tempo e che non hanno mai fatto i conti con le conseguenze del loro mito, con gli strascichi terribili che sono stati concessi da generazioni di cerchiobottisti della memoria. 

Se fosse vero potremmo darne una giustificazione politica. Se fosse falso dovremmo ripartire dal significato di quella lapide in un contesto in cui la polarizzazione della storia italiana non conta nulla, in un paesaggio in cui fascisti e partigiani non esistono più.

Quello spazio neutro dipende dal nostro modo di guardare e da quanto sia difficile esercitare una pressione sulle nostre certezze. Quella targa non è stata sradicata per ragioni politiche, ma soltanto perché un facile bersaglio. Un oggetto privo di significato per la folla nella sera fumosa. Materia e basta.

Possibile che sia andata in questo modo? Possibile che qualcuno che vive e cresce nello stesso spazio in cui mi muovo e respiro sia così lontano da ciò che sento?

Possibile che la sua distanza non sia motivata da ragioni politiche ma da differenze identitarie? Possibile che una persona nata e cresciuta in un luogo non dia nessun significato particolare a una targa e che ne dia invece a oggetti e date di cui, nello stesso tempo, ignoriamo l’esistenza?

Possibile, scrive Martin Pollack3. Lo scopre quando viene invitato a leggere dei brani tratti da un suo libro nel teatro cittadino di Hallein. Davanti a lui ci sono 300 studenti con un grado di istruzione piuttosto basso, lo informano i suoi ospiti. Quei ragazzi hanno una storia di migrazioni che collegano la Turchia agli stati dell’ex Jugoslavia fino a terre e lingue di cui l’autore ammette di saperne poco. Mentre legge la storia del padre, ufficiale delle SS e capo della Gestapo a Linz, si rende conto che la maggior parte del suo pubblico lo ascolta annoiato, senza nessun tipo di coinvolgimento. Pollack si rende conto di aver parlato e letto di avvenimenti che non avevano nessuna connessione con le storie di quei ragazzi. Le loro memorie famigliari non avevano punti di contatto con il suo novecento europeo, con eventi che sembrano monoliti identitari. Le loro esperienze erano legate ad altre date, ad altre vicende. Nessuno, neanche l’autore, si era posto il problema di differenziare il discorso su memoria e identità a seconda dell’interlocutore, in relazione all’altro.

Gli Altri.

A distanza di mesi, Pollack conosce un giovane austriaco di origine libanese. La sua famiglia è fuggita dal Libano tre generazioni prima, per salvarsi dalla grande carestia che durante la prima guerra mondiale uccise 200.000 persone. Il trauma storico in cui si sono identificati i componenti della sua famiglia, generazione dopo generazione, è sempre stato ignorato da tutti gli interlocutori con cui hanno parlato nel corso degli anni. Lo stesso Pollack ammette di non averne mai letto, né sentito parlare. Il giovane austriaco di origine libanese è abituato all’ignoranza dei suoi connazionali. Pollack risponde a questa mancanza con riflessioni che vale la pena condividere: «La frammentazione della nostra società è uno dei grandi problemi che dobbiamo affrontare, cela dei pericoli, ma anche grandi opportunità. Ricoprirà un ruolo importante anche il nostro atteggiamento nei confronti dei vari ricordi all’interno della società frammentata, se non ne prenderemo atto e li negheremo, o se li accetteremo e ci confronteremo con essi in modo aperto e non prevenuto».

Si può essere lontani da chi è altro nella tua terra natale, nel luogo in cui dimori, lavori, sopravvivi, ti ammali e ti curi. Siamo legati da fili che non riconosciamo, e ignoriamo chi ci circonda perché non abituati ad ascoltare le altrui memorie, quelle degli Altri.

Mentre aspetto di incontrare S., un attivista del comitato di quartiere Aurora, rileggo le pagine scritte da Luca Rastello4 nel corso degli anni. Siedo sotto la volta dei portici interrotti, in via Po, davanti a un bar che ricorda la fine degli anni ottanta e le insegne luminose dell‘epoca. L’ombra accoglie i piccioni che passeggiano tra i tavolini e nasconde i fagotti dei senzatetto agli angoli delle colonne. Leggo le pagine preziose, incise con ironia e grazia, e penso che a Torino Rastello non è ricordato abbastanza.

Le sue parole mi ragguagliano sul perché: «Ho l’impressione che si trovino centinaia di professionisti della cultura disposti a mobilitarsi per la vita, la libertà, la circolazione delle idee, ma che se ne trovino ben pochi interessati concretamente alla vita, alla libertà, alla circolazione degli umani (soprattutto se appartenenti ad altri ceti)»5.

S. appoggia la bicicletta a una colonna del portico e mi raggiunge al tavolino. Lo ascolto parlare di Barriera, Aurora, della zona nord di Torino, di quartieri in cui la dimensione multiculturale è vista e immaginata (da chi non la frequenta, da chi non la vive) come un territorio irrecuperabile. La realtà, mi dice, è che l’associazionismo in quelle aree è una risorsa preziosa, capace di creare aggregazione e socializzazione. La spinta dal basso di cittadine e cittadini, persone che si battono per migliorare il quartiere in cui vivono, mi ricorda centinaia di esperienze simili nel mondo democratico e autoritario, dal Brasile alla Grecia. Le amministrazioni comunali hanno smantellato il presidio ospedaliero Maria Adelaide, hanno eliminato la zona franca del commercio cittadino al Balôn – l’area di libero scambio – e hanno eradicato quell’eversione che durava da secoli e che rappresentava un moto libertario e salvifico per la moltitudine che non riesce a sopravvivere altrimenti. Inoltre stanno cedendo spazi a società che hanno un’idea piuttosto singole del concetto di ospitalità6.

Nella dicotomia decoro/indecenza traspare tutta l’ipocrisia di un modo di concepire la varietà di cui si compone il tessuto umano: se è vero che decorum significa vestirsi e agire in modo conveniente alla propria condizione sociale, allora è anche vero che ignorare la maggioranza della popolazione che non può permettersi decoro e lusso o privilegi equivale ad accettare l’ingiustizia sociale e l’abbruttimento lavorativo che si abbattono sul cuore pulsante del paese. Si aggiunga il prezzo che pagano i lavoratori precari, le aule scolastiche tradotte in lavoro nero, l’inchiostro simpatico che riempie le prime pagine dei giornali e che racconta le faglie di un’epoca attraversata da crisi complicate, dai crolli vertiginosi del valore salariale, dai tassi di occupazione viziati da statistiche incomplete, fasulle, fallaci.

Vale quindi la pena di ignorare ogni cosa e portare una bandiera qualsiasi. Torna la fretta di richiudersi, di riaffermare un ego collettivo, un nazionalismo da manuale, violento e ricorrente con i più deboli, con gli ultimi della fila, che vomita bile su ogni minoranza e che riafferma ogni volta, ad ogni occasione, un’incompleta visione della storia umana, del travaglio che conduce Neanderthal al Rinascimento: la scena artistica italiana, tanto decantata da politici in trasferta in zone oscurate da poteri dispotici, è stato un esempio della potenza delle aperture e della bellezza dell’ignoto.

O. è nato a Belgrado alla fine degli anni settanta. L’ospedale in cui ha visto la luce, GAK Narodni front, è rimasto operativo durante gli anni della guerra e nelle fasi difficili della transizione. Lo incontro in una calda giornata di luglio da Parola, l’enoteca di via Cesare Battisti:  

«L’Italia è stata molto affettuosa con noi, nel 1987. C’era una certa curiosità verso chi veniva da fuori: ero un bambino a cui doveva essere insegnato tutto da capo e mi scontravo per la prima volta con termini e usi che tutti si preoccupavano di spiegare con molta pazienza: la prima comunione; il panino con la mortadella; la Juventus; il carnevale. Le donne si scambiavano le ricette, i compagni di scuola ci portavano in giro per la città e ci coinvolgevano in ogni attività sportiva, perché era facile, eravamo jugoslavi. Tutto cambiò nel 1994, quando tornammo a Torino. L’immigrazione era esplosa, proprio come era accaduto all’Europa dell’Est, e noi ci trovammo ad avere a che fare con pregiudizi e paralisi sociale: i torinesi sostituirono la curiosità col dubbio e i valori umani con i luoghi comuni. Questo mi manca della fine degli anni ottanta: con mio fratello sperimentavamo la conoscenza di un’intera città, senza nessun tipo di pressione sociale, politica o culturale. Eravamo immuni dai pregiudizi perché eravamo bambini e perché la gente apprezzava e abbracciava il nuovo, coltivava la passione per tutto quello che non aveva ancora visto, sentito, annusato. 

Non posso dimenticare, però, che cosa ha fatto questa città per me. Nei momenti più bui, tra il 1992 e il 1993, quando a Belgrado andavo a scuola in un‘atmosfera tetra, fatta di disagio e code per il pane, nei miei pensieri esisteva un solo angolo di paradiso su questo pianeta e si chiamava Torino». 

ARTICOLO n. 43 / 2021

COMPARSE

ESTATE A ROMA

Spettri, miraggi, riflessi del passato nella città svuotata di agosto. Nel silenzio elegante del pomeriggio di via Giulia dove ormai hanno dimora solo stranieri e ricchi, tra gli angeli di pietra del Gonfalone e i putti di gesso di Santa Maria del Suffragio, ho visto galleggiare nell’aria bollente la lupa della bandiera della Roma campione d’Italia 2001. Lontano, il canto eroico di una voce ormai roca per lo sforzo e la solitudine: «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Itaglia siamo noi…». Un uomo magrissimo in costume da bagno, berretto e canottiera giallo-rossa. Agita lo stendardo, avanza al passo della vittoria, mi guarda. Ha gli occhi rossi. Forse per la soddisfazione di quelli che non sono abituati a vincere e che ancora non si è sciolta nel calore estivo, forse per lacrime di nostalgia: il campionato è finito da molti mesi. Per un attimo ha vergogna. Scompare in un vicolo verso la Moretta. Di quell’uomo e della sua magrezza rimane il canto che torna ad alzarsi, a rimbalzare sulle mura dei palazzi del Seicento sino a degradarsi in un’eco, in un sussurro, e finalmente nel silenzio per lasciare il palcoscenico sonoro all’urlo dei gabbiani che seguono il corso stanco e secco del Tevere.

Pochi passi più a Nord, in via del Consolato, ho visto una coppia di giovani, lei italiana e bianca, lui straniero e nero. Soli nel cuore della solitudine di agosto, appoggiati al cofano di un’automobile incandescente. Il ragazzo piangeva. Scosso dai singhiozzi, il viso lucido di lacrime. La ragazza tentava di consolarlo, una carezza sulla nuca, un braccio sulla spalla. Con un fazzoletto gli asciugava il pianto nella speranza che coagulasse nel silenzio della rassegnazione. Ma li ragazzo non riusciva ad arginare il lamento del suo cuore spezzato. Dall’amore finito? Da un’offesa? Da un tradimento? Non lo saprò mai. Per pudore, per non turbare l’intimità di quel mistero anch’io sono scomparso perdendomi in un vicolo.

Sul ponte degli Angeli ho visto comitive di stranieri sfuggire per curiosità al controllo della guida turistica, abbandonare il sentiero di sicurezza della fila indiana per affacciarsi sul Tevere: nel fiume qualcosa attira la loro attenzione. E non capiscono se sia verità o l’ennesima, patetica attrazione di questa Roma Disneyland con gladiatori e antichi romani in costume che sudano sotto gli elmi e gli scudi, fumando e addentando pizza bianca farcita. Un corpo a faccia in giù galleggia nella corrente annoiata di agosto. Le canne emerse per l’assenza di piogge lo rallentano, lo fermano, e, a contrastare la corrente, gli impongono evoluzioni, capriole, giravolte.

I turisti pensano al partigiano del film Paisà ucciso dai nazisti trascinato dalla corrente del Po. Immaginano un set, si guardarono intorno, cercano le cineprese, le comparse, il regista. No, non è finzione.

Altra gente si accalca sul ponte Vittorio Emanuele. Accolgono il corpo che avanza su un versante e poi si allontana sull’altro. Attraversa le campate dei ponti Principe Amedeo, Mazzini, del ponte Sisto, Garibaldi. Indugia all’altezza dell’isola Tiberina non sapendo se scegliere il ponte Cestio o il Fabricio, per qualche attimo scompare tra le rapide delle cascate per poi tornare in superficie e continuare la sua lenta corsa attraverso tutta Roma con la testarda volontà dei cadaveri che vogliono arrivare sino al mare per trovare pace. Il raccapriccio della città a poco a poco diventa semplice curiosità. Al tramonto si è ormai spento nella noia mentre il fiume continua a scorrere per versarsi nel Tirreno.

Li ho visti. Si offrono agli sguardi solo per sottrazione degli altri diversivi nella città che si svuota e per moltiplicazione nello sconforto demografico. Sono gli anziani, i vecchi di Roma, fossili come le pietre dei Fori, silenziosi come le catacombe chiuse ai turisti, forastici come i gatti di Torre Argentina. Animali mimetici che si confondono nella città operosa. Come tutti i consumatori certificano l’esistenza in vita sugli scontrini degli acquisti nei supermercati glaciali di aria condizionata e nelle botteghe di quartiere. Solo nella luce piena di agosto, senza altri nascondigli e distrazioni, è possibile registrare la loro presenza. Soli di una solitudine che lievita e tutto inghiotte durante la giornata nella città estiva: dall’illusione della luce del mattino all’estasi del pomeriggio soffocante, dal pasto serale al tavolo della cucina con il balcone spalancato per invitare a cena le voci della città, sino al sonno come un anticipo di morte. Ma i vecchi vivono l’esistenza dei fantasmi in carne e ossa, spettri senza trasparenza.

Li ho scoperti a villa Celimontana mentre cercano fresco e riparo sotto i salici piangenti, li ho notati per contrasto con i bambini privi di villeggiatura che giocano a rotolare come cadaveri senza governo dalle pendici del parco giù giù sino alla pista di pattinaggio. I vecchi osservano i bambini e i bambini guardano i vecchi dai vertici opposti dell’esistenza. Riflessi nello specchio dell’altro ciascuno contempla il mistero di essere al mondo nella parabola indicibile e assurda della vita. I vecchi sopportano i bambini solo nello spazio neutrale dei giardini pubblici.

Proprio per le ferie di agosto i figli tornano dalle residenze lontane per un breve soggiorno di visita e di saluto nelle acque morte delle ferie agostane. Si appoggiano nella casa del nonno in attesa della coincidenza del volo, per comprare i costumi e i giochi d’acqua ai nipoti, per una cena di commiato alla pizzeria ai Marmi di Viale Trastevere che in romano chiamano l’Obitorio.

In casa c’è solo il nonno perché la nonna è morta. È lui che nell’accudimento degli ospiti si sbraccia nei servizi di casa, lava i piatti, rassetta. E quando la nuora gli grida «Papà, riposati», lo invita  a mollare la presa sulle attività quotidiane, lui risponde che invece è contento di quella fatica perché da quando è vedovo lava solo un piatto, una padella e una piccola pentola.

Ma è troppo prossima la convivenza con i nipoti bambini, troppo pervasivo il fracasso dei loro giochi, dei litigi e delle zuffe. I bisogni  e le speranze della famiglia del figlio non gli appartengono più.

Nemmeno il loro odore. Colonie e deodoranti, il sudore dei bambini, hanno cancellato il profumo della moglie che ancora riesce a riconoscere a folate di pochi istanti. Lo ha sentito appena sveglio al mattino. Il rumore del ventilatore gli ricordava l’elica del Fokker del viaggio di nozze. Costiera amalfitana. Un’altra estate. Sotto il lenzuolo l’erezione fastidiosa di istinti abbandonati, sogni che non ricorda più. E il profumo della moglie nel sentore di sudario dei cuscini.

Lo ha sentito ancora, a ora di pranzo, sventolando la tovaglia sul tavolo della cucina. E ancora, aprendo l’armadio per cambiarsi: l’odore dei vestiti della moglie che non ha cuore di regalare. «Potresti portali alla Caritas per chi ne ha davvero bisogno: papà, sono ancora in ottimo stato», suggerisce la nuora.

Coglie ogni scusa per uscire, per fare la spesa, per attività di fantasia inventate al momento. Per sottrarsi, per fuggire. Non ama che quella donna, la moglie del figlio, in fondo un’estranea, lo chiami papà. Ricorda i commenti della moglie sul letto a pochi giorni dalla morte: quella non era la donna adatta per il figlio, così formale, così altezzosa negli sguardi, così diversa.

Al supermercato scopre di avere dimenticato la lista della spesa. Attraversa i corridoi con gli scaffali domandandosi: cosa mi manca? Il pensiero della spesa era il pensiero della moglie. Lei regolava tempi e modi degli acquisti. Lui spingeva il carrello e guardava il mondo. Adesso deve governarsi da sé, inventariare, stabilire la gerarchia delle necessità, distribuire gli acquisti dei generi più pesanti nella misura accettabile per le sue forze. Ma la memoria è sgomenta: nessuna lista della spesa, nessun acquisto riuscirà a riempire il vuoto, a ripristinare la routine della sua vita.

Oggi ha comprato solo una busta di biscotti secondo il consiglio della pubblicità in tv: una donna anziana, una nonna, che sforna per i nipotini la fragranza della sua pasta frolla. Sarà il suo pranzo.

Non vuole tornare nella casa assediata dalla famiglia del figlio, dai loro odori, dai loro rumori, dalle loro urgenze, dai loro progetti che hanno il respiro del futuro. Lui ha solo la contingenza. E la memoria. Con la confezione dei biscotti in una mano sale sull’autobus. Eccola la città vuota. Stremata dall’assenza, dalla fatica delle carovane dei turisti, dalle saracinesche abbassate. I compagni di viaggio sono come lui: anziani con una sporta in mano. Non sopporta quel riflesso della propria condizione. Gli sembra esausto, così prossimo al capolinea che non arriva mai. Scende alla fermata della Chiesa Nuova, in corso Vittorio Emanuele. Il mercato di Campo de’ Fiori sussulta di calore e di folla: si addensano stranieri e romani che ad agosto possono permettersi di non lasciare la Capitale e di acquistare mazzi di tuberose. È troppo anche per il suo bisogno di distrazione.

Piazza Navona sembra congelata di calore nei suoi riverberi di luce. Si spinge sino a piazza del Popolo che sembra ricoperta d’asfalto bollente. Poi il Pincio nella fatica della salita, incrociando in processione turisti e ragazzi. I ragazzi. Quanto volte, proprio lì, tra i viali di villa Borghese senza malizia li ha osservati pomiciare, baciarsi a bocca aperta come a sfamarsi, toccarsi e abbracciarsi simulando l’accoppiamento. Con tenerezza avrebbe voluto avvertirli, avvisarli che l’amore, la vita, è una caduta senza ritorno, un volo senza paracadute, un’equazione senza soluzione. «Vecchio sporcaccione» gli ha urlato il ragazzo cogliendolo assorto nelle effusioni con la fidanzata. Ha minacciato di chiamare i carabinieri. Adesso sta alla larga dalle coppiette di giovani.

Attende l’autobus del ritorno in viale Washington. C’è un altro anziano all’ombra del tiglio. Come lui. Uguale a lui. Gli chiede se riesce a vedere il numero del bus che sta arrivando. Quello gli risponde: «Perché, c’è un autobus?». È quasi cieco. Un naufrago d’agosto. Ha perso la strada del ritorno. Senza rotta come una tartaruga di mare. Le porte si aprono ma nessuno dei due sale a bordo. Ha deciso: accompagnerà lui stesso quel vecchio più vecchio di lui.

Li ho visti stanchi, claudicanti, uno accanto all’altro avanzare lungo Muro Torto, sfiorati dalle automobili che cercano refrigerio nella velocità a ogni costo. Ai guidatori sembravano un’allucinazione nel deserto di Roma. Li ho visti mano nella mano entrare nella galleria all’altezza di Via Veneto, nel buio sotterraneo del tunnel. Finalmente liberi dalle illusioni e dalle promesse della città. E non avevano paura.

ARTICOLO n. 42 / 2021

RESTI

ESTATE A PALERMO

Ho ritrovato guanti da giardinaggio e una cesoia, una vanga e sacchi condominiali. Ho cominciato dalla strada di casa. Ho prelevato immondizia, rasato aiuole, spalato escrementi di cani e guano di strada, quelle stratificazioni di rifiuti da asporto che sole e pioggia impastano e solidificano, qui, fino a farne una crosta, una seconda pavimentazione a bordo marciapiede, dove pure fiorisce una flora informe, sterile e furiosa di vivere. A fine giornata, la strada di casa era sgombra di tutto.

Ho dormito come il primo giorno, dopo la fatica di nascere. Oggi ho attaccato le vie circostanti, le traverse. In poco tempo, ho riempito tutti i sacchi: dieci in un giorno e mezzo! Ma ovunque, agli angoli, agli incroci, si accatastano ante dismesse, divani in attesa di prelievo, stazionano cassoni di camion zeppi di detriti, braccia e gambe di stoffa fuori dai contenitori e il resto a mucchi a terra, fra reflussi di fogna e rami di palma venuti giù da cinquanta metri e rimasti a impedire il transito, come barricate. Prima camminavo a testa bassa, adesso che non c’è più nessuno da cui difendermi ho aperto gli occhi.  

I primi ad andarsene sono stati quelli di casa. È già successo. Aspetta e vedrai, gridano. Hai il potere di allontanare tutti! E  spariscono. Tre, cinque, dieci ore. A tarda notte rientrano, i grugni, gli occhi a terra. Ognuno in camera sua. Così non mi sorprende più trovare la casa deserta, rientrando dal lavoro. Tardi, come sempre.

Dopo il lavoro, vado nell’unico posto della città senza città: il Tribunale. Qua, finestre senza voci e senza panni. Strade lisce. Auto niente. Niente fantasmi d’alberi, stracci di aiuole, balconi carichi, colori, immondizia niente qua, e i rancori del traffico arrivano lontani. Pochi passanti, tra un corpo e l’altro degli uffici. Simulazioni di strade: via del Lume, via dell’Altare, via dei Quattro Coronati. Sono corridoi a cielo aperto, li interrompono doppie porte a vetro per l’accesso controllato alle aule. In via dei Quattro Coronati si può arrivare fino al cancello. Sono contento di trovarmi di qua, come si guarda il leone dentro la gabbia.

Di là, auto sequestrate fatte tana e cassonetto. Frigoriferi a bocca aperta, lavelli e water divelti, accanto a lattine mezze vuote con la cannuccia dentro, carcasse di bestie maciullate da un’auto in corsa o integre, le pance enfiate, le zampe stecchite, ronzanti nugoli di insetti. Di qua, attendo che il ringhio si plachi, che la città si faccia di nuovo percorribile. E torno a casa.

A casa, apro il mio barattolo e la mia bottiglia, poi annego. In piena notte rumori di chiave, di porta. Tornano, mi dico. Ma i rumori non concludono, così mi alzo. Nessuno, all’ingresso. Allo spioncino inquadro i vicini che, senza accendere la luce, carichi, lasciano il pianerottolo.

Tempo di ferie. In ufficio siamo in due da una settimana. Una mattina una mail mi avvisa che il collega è in malattia. È stato male fuori città, e ci resta. Seguono istruzioni su come aprire, attivare e disattivare l’allarme, dove lasciare le chiavi. Non posso fare io tutto il lavoro, ho replicato. Nessuna risposta. Ma la mia non era una domanda. Neanche una mail. L’ho detto al muro, ad alta voce.

Non sono più tornati. Neanche i vicini. Il palazzo sembra deserto. Tempo di ferie. O merito mio. Prendo il mio barattolo e la mia bottiglia e la pulsazione torna regolare, il cervello è imbottito di silenzio. Poi all’improvviso un lampo mi taglia la testa. Mi sveglio. Mi guardo intorno. La solitudine mi assale sotto forma di euforia. Mi precipito al supermercato sotto casa. Dentro, solo una commessa alle casse, una guardia giurata poco aitante al cellulare si fa gli affari suoi. Prendo il primo barattolo e la prima bottiglia che mi capitano e li faccio passare sul nastro: – Che fa stasera? – La donna solleva le palpebre cariche di nero, la stoppa bionda. – Roba pronta. Non ho tempo, io.  – E alza il piombo sulle palpebre: – Parto. Lei no? – Così pago e l’aspetto all’uscita del personale. Il fragore delle saracinesche in chiusura copre il fracasso che facciamo, perché all’inizio reagisce, e il mio barattolo e la mia bottiglia vanno a terra. 

Non ho voglia di tornare a casa, dopo. Ho daccapo la nausea e l’ovatta nel cervello. Barcollo fino al Tribunale. Fisso gli ultimi passanti, di ciascuno pensando che stia per aggredirmi. Poi non passa più nessuno, si accendono le luci sui nomi dei caduti per mafia, sulle colonne in acciaio e granito che stanno a rappresentare le ferite dello Stato. Fino a quando non noto un movimento ai piedi di una vetrata. Scatto in guardia. Un grosso uccello. Un gabbiano? Ci minacciano a stormi, ci gridano furiosi, scendono in picchiata in cerca di cibo. Lo fisso. Non ne so nulla di pennuti. Ma è troppo grigio, picchettato, il capo spelacchiato, gli occhi tutta pupilla: precipitato da un’era aborigena. La punta ricurva del becco tocca la vetrata. A ogni soffio di vento, ogni sospetto di vita, zampetta, si assesta. Non accenna a volare, ma non pare infortunato, piuttosto instupidito davanti a quell’altro riflesso nello specchio. Grrrgnau, faccio. Lui trema, zampetta, non si leva, incantato. M’incanto anch’io. Non può finire così. 

Così ho preso l’auto. Ho cominciato dal quartiere. È vero che è notte, ma i palazzi hanno le orbite cave, tutti. Non una festa, un insonne. Sono andato oltre, verso i quartieri nuovi. Qua e là ancora qualcuno, pochi. Così riprovo l’indomani, e l’indomani ancora. Mi acquatto agli angoli. Passo la notte a controllare, prendere nota. Tengo il conto. Hai il potere di allontanare tutti, tu. 

E notte dopo notte i conti tornano, soltanto loro. Le luci che si spengono nel buio corrispondono alle auto in meno, ai parcheggi disponibili, ai negozi serrati, gli uffici chiusi. Ai semafori che cambiano solo per me. Fortuna che esistono i distributori automatici, mi dico ogni notte, facendo rifornimento. Di diesel, cibo. Di bibite e caffè. Farmaci. Sigarette. Fortuna o questione di tempo. Ho perlustrato la città quattro volte in modo da ripercorrere le stesse zone in quattro fasce orarie diverse. Ci ho impiegato dieci giorni e adesso ci credo. Il silenzio per le strade su cui la mia auto fila senza intoppi mi sfila la garza dal cervello: Palermo emofiliaca, finalmente.

Così ho ritrovato vanga e sacchi, e ho incominciato dalla strada di casa. Il mio lavoro inizia adesso! Ma oggi mi vien voglia di morire come ieri l’ebbi di nascere. La città vuota mi appare aumentata, ingigantita, elevata a potenza dalla merda che la ricopre a strati da secoli e lasciata lì a seccare, a farsi nuovo cemento, contro me solo. Getto vanga e guanti. Mezzogiorno di sole implacabile e di sega nel cervello. Se almeno fossimo in cento, penso, in dieci, o anche in due… Poi ripenso all’uccello incantato dal suo riflesso e accelero verso il Tribunale.

Ma sono passati giorni ed è ancora là. Non ha bevuto, né mangiato. Non ha lasciato lo specchio che lo incanta e con la punta del becco sfiora come se scottasse. In fondo al buco nero della pupilla registra la mia presenza, e zampetta avanti e indietro, avanti e indietro come in un nastro che s’inceppa, un singhiozzo del presente. Così prendo una pietra da un’aiuola, la liscio, la scaglio, un’altra, un’altra ancora. Il buio sbarrato nella pupilla lo fa zampettare freneticamente avanti e indietro ma niente, non vola e non lo prendo. No, non può finire così. E mi rialzo come un albero che cresca a vista d’occhio: se fossimo in cento, in dieci o in due, sarebbe solo peggio.

Non dispongo di camion e ruspe, e i corpi bozzoluti dei sacchi che ho riempito nereggiano agli incroci. La città sulla città, l’architettura di scarti umani, vegetali e minerali che ha costruito edifici sugli edifici, che rovescia le case sulle strade e popola i marciapiedi di carcasse di plastica e latta è lì immobile, come avesse messo radici, come un’immensa blatta letargica, sorda, morta su tutto. Ma l’ultima pietra che avevo raccolto e non ho scagliato la lascio andare e rotola. La fisso. Palermo è in discesa.

Così cerco su internet, ma su internet si trova poco o niente. Decido di entrare negli uffici dell’Amap, è un edificio antico e dopo tre calci ben assestati spacco un’anta, ci entro. Ci passo giorni a fracassare vetrine di archivi, rovesciare tutto. A trovare, leggere, capire.

Il secondo atto è procurarmi una chiave di manovra. Entrare in un centro commerciale non è come all’Amap. Quando spacco il vetro d’ingresso aiutandomi con un ferro e l’allarme scatta, corro in un angolo a tremare. Vengo fuori mezzora dopo che tace, e tacciono gli ululati dei cani tornati randagi, tutto intorno. Ne prendo di varie misure. Ora devo solo studiare la mappa trovata e aspettare.

Il giorno lo deciderò incrociando le previsioni meteo di tutti i siti: non posso permettermi di sbagliare. Comincerò dalle periferie di nord-ovest, quelle ai piedi di Monte Pellegrino e della Piana dei Colli. Poi correrò a Passo di Rigano, che è ai piedi di Bellolampo, e in via Pitrè, che è ai piedi di Baida, e in corso Calatafimi, che scende da Monreale. Da Altofonte e Villagrazia invaderò Pagliarelli, da Monte Grifone Falsomiele, da Gibilrossa Ciaculli e la Bandita, da Villabate Acqua dei Corsari e Ficarazzi. La mappa parla chiaro, e i punti di attacco li so fradici, è il caso di dirlo. E allora rido. Palermo ai miei piedi, finalmente.

Ma la notte prima non ho dormito. Alle cinque ero pronto, e anche il cielo lo era, carico, furibondo. Mappa alla mano, ho raggiunto uno a uno gli idranti indicati, soprasuolo, sottosuolo, quartiere per quartiere. Il primo di ogni tipologia mi ha richiesto uno sforzo da levarci mano e buttarsi a mare, per la smania di rinfrescarsi e farla finita. Poi ho capito il verso. E ho acceso una a una le luci. Palermo incoronata. Ogni polla schizza come una fontana imbizzarrita, una cascata invertita, una gioia pazza di devastare. Ma non c’è tempo per contemplare. Corro in auto, schivo il lago che cresce, slitto sul fango, attacco il prossimo. Il cronometro mi insegue, minuti 54 secondi 35, incluso il tempo per mettermi in salvo, ma ce la faccio, sì. È quando apro l’ultimo a Villabate che trasalgo.

E guido contro la fiumana che cresce, sbando e riprendo, sbatto fiancate e me ne fotto, solo bado a non morire, devo arrivare, adesso. 

Al Tribunale risaia e palude fermo l’auto. L’uccello aborigeno è ancora là, mezzo sommerso, ma non vola e non nuota, è l’uccello del non. Ho l’acqua alla cintola quando senza esitare piego un braccio, lo prendo, e lui ritira le zampe, si accovaccia come se lo aspettasse. 

Contro l’acqua del cielo, che adesso scende sempre più fitta sull’acqua di terra, scavalco onde e mi schermo, schermo lui che non fugge. Raggiungo il rifugio preparato nei giorni come un nido: è in cima al grattacielo INA che scopro accarezzandolo che sotto le piume grigie ne spuntano di bianche, che anche la testa sbianca e il becco si fa giallo. Guarda con me, cucciolo.

Ai nostri piedi, l’acqua del cielo gonfia l’acqua di terra e tutte insieme insorgono le acque di ogni tempo, i cinque fiumi che questa città interrò premono contro il tetto d’asfalto, sboccano dalle fogne mentre la città romba sotto il loro straripamento. E mentre il temporale infuria, la pressione sotto si fa incontenibile, come uno spirito evocato in pieno sonno eterno si adiri d’essere destato e s’infoia di tornare al mondo, non fosse che per rabbia, per portarci via tutti. E tutto freme intorno: crolli e voragini erano nel conto. Ma lo spettacolo migliore non è questo: l’acqua che ora scende a marosi dalle colline trascina con alberi e case frigoriferi e cassonetti, strappa radici alla jungla di netturbe, gratta l’antico fondo di scorie e fecce, e il galoppo delle correnti va dove tutto va quando non sa dove, a mare. Se fossimo stati in cento, in dieci, anche in due, non si sarebbe fatto. 

E tu crescerai, bianco e potente, le zampe ferme, il becco giallo, il candido piumaggio, e imparerai senza paura a volare sul Cassaro rinnovato, sulla Cattedrale splendente, sui tetti che specchiano il cielo, sulle facciate ritinte, sulla città spogliata fra il mare e la Conca, ora timida e linda sotto il sole che spunta, che ho cambiato per te, Palermo appena nata, lucida e salva.

ARTICOLO n. 41 / 2021

GUERRA

ESTATE A VENEZIA

Sei arrivato a Venezia che faceva già caldo, era inizio giugno. Venivi da Milano che non ti rispondeva più al telefono, venivi da quella piatta e desolata città priva di sentimenti dove nulla accade e nulla si muove, ma l’avevi imparato troppo tardi. Milano è ferma, statica, perenne nella sua immobilità, l’unico modo per darle vita è agitarsi, muoversi, avanti e indietro in continuazione, dentro e fuori in continuazione, come un massaggio cardiaco, l’unico modo possibile per darle vita, un cuore. Te l’eri immaginata come Parigi dove è possibile stare fermi e guardare, dove è possibile vedere il mondo che invecchia mentre tu nemmeno te ne rendi conto. I caffè a Parigi servono a quello, a guardare cosa succede, dimenticandosi finalmente di se stessi, ma lasciando se stessi sopra al palco.

Sei venuto a Venezia che l’estate già si palesava nell’umidità ossessiva che non ti abbandona mai, nemmeno quando sembra che una leggera brezza possa salvarti la camicia. Prima, poco prima, venivi da Roma. Caterina ti parlava a voce bassa e sorriso sempre aperto e dolce, avevi amato il suo tono di voce, elegante e accogliente. Quella sera nel trambusto del Perù lei parlava con quel movimento tranquillo delle labbra e tu invece ti domandavi se i suoi genitori l’avevano chiamata così per quella canzone, quella di De Gregori, l’età dei suoi corrispondeva, pensavi e intanto non l’ascoltavi più.

A Venezia è impossibile mettere a fuoco, ma è obbligatorio guardare, mai come lì osservare e capire corrispondono, mai come a Venezia nulla è mai del tutto comprensibile, tutto è sempre aperto e passibile di correzione e cambio di rotta. Dipende dal tempo, dalla marea, dal fatto che qui tutto si muove, tutto è vivo e in mutazione. Faceva caldo e tu avevi trovato un posto dove stare, una casa dove vivere. La città verso sera tornava vuota e il bacino di San Marco all’imbrunire ti ricordava una natura morta di Giorgio Morandi, nessun contorno definito, solo oggetti sospesi. Pensavi di sentirti libero, ma sapevi di aver scelto un posto dove terraferma e campagna, Mirano e New York sono sinonimi. Per sentirti libero quell’estate avevi scelto di essere esterno e altro, solo con gli occhi.

A Venezia non ci si perde, anzi ci si ritrova sempre al punto di partenza. Lo avevi capito dopo pochi giorni, giravi e giravi, ma giravi troppo, tanto che sempre in quelle quattro calli finivi, ma senza mai capirne il senso. E così stremato dal caldo che da sempre ti ammazza, tu uomo di montagna (negato per la montagna) ti sei seduto e sei tornato da dove eri partito, lontano da chiese e da musei, lontano dalle persone se possibile. Già perché non capivi nulla di quello che ti dicevano. A Venezia il dialetto è lingua, è corpo puro. E prima di arrivare alla lingua la strada è lunga e passa quasi sempre per le mani.

Ti sei seduto in un posto perché era vuoto, non che i turisti non ci fossero, ma se inizi ad abitare a Venezia scompaiono come umani e restano come ingombri, fastidiosi come i piccioni. Elementi di una guerra in corso che non lascia tregua. D’estate Venezia diventa una città in perenne resistenza, non che i turisti siano gli invasori, ma ricordano molto i sacchi di sabbia alla finestra, il segnale più evidente di una lotta che vada come vada farà più male che bene.

Ti sei seduto e non hai capito più niente, hai smesso per una volta nella vita di lottare contro i mulini a vento che girano come pazzi in vestaglia nella tua mente. Pensavi di bere acqua e hai bevuto vino, pensavi di mangiare insalata e hai mangiato pesce, pensavi di non prendere nessun dolce e lo hai preso. Ti sei imposto per avere il caffè e hanno riso come fosse uno scoppio e te lo hanno offerto. Ma sei restato, hai provato a non badare a tutta questa confusione a non confondere l’accoglienza con l’ostilità. E hai imparato a guardare le mani che a Venezia sono legni grossi, di quelli che si trovano alla deriva sulle spiagge, legni contorti, ma buoni per fare barche. Erano mani grosse che avevano movimenti leggeri, buone per accarezzare, per cucinare e offrire, per darti improvvisamente – non richiesto, ma ben compreso – rifugio, che sia per mezz’ora che sia per la notte.

Sei stato fermo e hai iniziato a capire che dovevi mettere distanza per mettere un po’ a fuoco prima che il movimento ti sorprendesse nuovamente e ti lasciasse ancora una volta perduto. Avevi capito che non dovevi inseguire che dovevi lasciar scorrere perché a fissare le cose, a dargli un nome e una casella rischiavi solo di costruirti schemi e pregiudizi, e a Venezia in calle chi ha pregiudizi poi cammina solo.

Poi un giorno è arrivata Eleonora, non la vedevi da mesi, ti è sempre piaciuto il suo sorriso. Non tanto quando ride e subito chiunque capisce che è di Roma, ma quando sta come sul tram e la linea della sua bocca diventa irregolare come quella che Schulz disegna come bocca ai suoi Peanuts. Di solito quando Eleonora è così o si è dimenticata qualcosa o qualcosa la sorprende. Subito ti ha fatto l’elenco delle cose che avevi visto in oltre un anno che eri lì, ma tu non avevi visto nulla e giusto per non incorrere nella classica domanda, «Ma allora cosa hai fatto?», hai finto e anche se lei probabilmente se ne è accorta ha fatto finta di niente e ti ha trascinato alla Scuola Grande di San Rocco.

Era passato un anno dal tuo arrivo, e ora la pandemia iniziava a mollare un poco la presa, ma la città restava straordinariamente deserta e i piccioni con cui avevi ingaggiato – secondo te – una relazione emotiva e sensoriale erano sempre più affamati e aggressivi. La Scuola Grande era vuota, ci eravate solo tu, Eleonora e pochi altri. Tu vagavi, lei sembrava più sistematica, a te piacevano le sedie rosse.

Vi siete trovati entrambi a fissare il pavimento e avreste voluto attraversarlo a quattro zampe, almeno tu avresti voluto, come quando d’estate a casa giocavi sul pavimento di marmo freddo e liscio al giro d’Italia con dei piccoli ciclisti in plastica e un paio di dadi. Attraversavi dalla sala alla cucina, dalla camera da letto alla lavanderia e sudavi fino a scivolare e a restare stremato a «fine tappa» con il caldo addosso e tutto madido di sudore.

Siete usciti, lei ti ha parlato e tu l’hai ascoltata, ma fino a quando non siete entrati in una vecchia bottega di carte marmorizzate non è che hai capito molto, tuo solito. Di fronte alle carte ebru Eleonora ha iniziato a perdere la testa, il signore, l’artigiano che le faceva era elegante e affilato, le parlava con un tono di voce lento e accarezzava con delicatezza i fogli. Le ha mostrato dei quaderni rilegati e anche delle cornici. Non le diceva più di quanto fosse necessario e lei sembrava essere in apnea, mentre tu iniziavi a capire cosa lei ti aveva tentato di dire per tutto il giorno, ma hai deciso comunque di tacere. Eleonora ha comprato due quaderni e una piccola cornice, era felice come una bambina e si vedeva. «Mi chiamo Alberto», ha detto il signore, tu gli hai stretto la mano, Eleonora ha detto «Mi chiamo Eleonora» e gli ha baciato la guancia come fosse in un tempo eterno.

I nomi a Venezia sono sempre i nomi propri così che anche i cognomi, se proprio servono diventano nomi propri. I nomi a Venezia resistono e pesano, si riconoscono subito e si sa subito a chi appartengono. Non ci possono essere dubbi. E non perché siano nomi strani o particolarmente originali, ma perché in mezzo alla laguna il suono di un nome diventa subito anima. Anche qui ci è voluto tempo, ma poi hai capito.

Hai capito con il tuo passo lento che inciampa comunque, con la tua espressione ottusa che concede sempre così poco all’allegria. E allora Agnese che è Agnesetta, Alberto, Alberta e poi Albertina, Gigi e Toni, Giorgio e Carlo e poi certo Franca e Franco e poi ancora una volta come se non ti fosse bastato Enrica ed Enrico. Hai lasciato a santa marghe Eleonora che partiva. La stazione non ti piace, in stazione non ci vai, Venezia è in mezzo alla laguna e di vie di fuga non ne vuoi più sapere.

I nomi quindi, quelli che ti hanno fatto ridere come quando eri bambino: Aldo Strasse, Denti d’oro. Bisogna stare attenti con il passato a Venezia perché è ineluttabile quanto il futuro, qui tutto è in equilibrio non si parteggia per una parte o per l’altra se no si finisce in acqua. E il passato è numeroso a Venezia e procura quel sottile e irresistibile piacere che non è altro che annegamento, il piacere sottile che arriva poco prima del soffocamento totale.

E tu che sei venuto a Venezia per non farti corrodere dall’euforia di futuri fatti di parole e di corpi vecchi, hai iniziato a giocare pericolosamente con il passato, fino ad innamorarti delle schiene: un uomo alto che ti precedeva tutte le mattine a comprare i giornali e che seguivi lungo le calli, un ponte e poi un altro.

Lo riconoscevi dall’odore del fumo della sua sigaretta, lo sentivi arrivare fino a te e stranamente non ti infastidiva. Non hai mai avuto la curiosità di guardarlo in faccia, ma ti piacevano le sue camicie ampie e a scacchi e il rumore dei suoi passi: un giorno siete andati a tempo con i piedi e hai temuto che si voltasse, non l’ha fatto e hai avuto l’impressione che anche lui fosse del gioco.

E poi la schiena di bambino che avevi visto neonato e poi crescere inseguendolo per farlo ridere, prima i suoi passi incerti poi sempre più veloce. E poi hai smesso, non sai perché, ma hai smesso. 

Se hai mai abbandonato qualcuno, quelli sono stati sempre i figli non tuoi: li hai visti crescere o in alcuni casi li hai fatti crescere con pazienza e parole inusuali per il tuo carattere, ma poi arriva sempre un punto che diventi estraneo e li lasci. Lo hai già fatto troppe volte e lo hai fatto anche a Venezia dove ti salva giusto la luce, dove è sempre possibile coltivare una distanza ottica accettabile, sai che non lo perderai di vista anche se hai perso il suo affetto. Chiedi di lui in continuazione come fosse un parente lontano mentre corre a qualche centinaia di metri da te lungo le Zattere, esagitato ed euforico come ricordi di essere stato tu alla sua età. E questo ti fa nuovamente paura.

Altro che Parigi, Venezia sì che non finisce mai e hai imparato cosa è il Lido, cosa sono le isole e cosa è quel lungo viaggio lento che è stare in barca in mezzo alla laguna. Hai imparato come impari tu: addormentandoti mentre altri remano, coprendoti quando c’è il sole e scoprendoti quando tutti sanno che pioverà. Hai capito, hai capito male, ma qualcosa in testa ha iniziato a suturare e poi piano piano le cicatrici si sono levigate fino a lasciarti solo un’ombra sul corpo. Quando hai iniziato a comprendere che non è sempre necessario ferirsi per capire qualcosa, sei arrivato in piazza San Marco, avevi bisogno dello stupore, avevi bisogno di vederla come per caso. L’hai lasciata per ultima pur sapendo che ci sarà sempre altro ancora, ma intanto sei arrivato come si arriva al desiderio, con concitata noncuranza. Ci sei arrivato e per te è stato come tornare a casa, senza bisogno di ribadire a te stesso chi sei perché tutto è lì da vedere. Che è anche l’unico modo possibile per stare in mezzo ad una piazza senza occuparne lo spazio, diventando tu stesso quella pietra o quel coppo, quella porta o quella maniglia. Eccola lì piazza San Marco con la sua bottiglia dal collo lungo, con la brocca panciuta e l’anfora con le curve sinuose, la tazzina senza manico davanti a tutto. Ecco la linea del mare su cui si stagliano tutti questi oggetti, slegati da te, dalla tua storia e dalle tue ridicole noie quotidiane. Vorresti un kipferl come ti ha spiegato in un vecchio documentario Goffredo Parise che forse in maniera un po’ troppo compiaciuta, ma divertente se ne mangia più d’uno tra i piccioni e l’orchestrina in una giornata di fine anni Settanta. Vorresti capire come si fa a restare senza ingombrare, ad amare senza opprimere, a domandare senza pretendere una risposta. Guardi l’orizzonte, ascolti i rumori e tutto riconduce all’acqua, anche il caldo che proprio ora sembra darti un po’ di tregua. Chiudi gli occhi e li riapri, sei a Venezia e non hai visto nulla, puoi esserne felice.

ARTICOLO n. 40 / 2021

LEGGERE È UN GESTO POLITICO?

C’è un piacere segreto che deriva dal leggere i diari degli scrittori. Non è quello intrusivo di chi scava nel dolore degli altri. È piuttosto quello della coincidenza, della sincronicità, del potersi rispecchiare non tanto nelle vite di chi scrive, quanto nelle sue letture. Questo senso di meraviglia per me ha raggiunto un picco nei diari di Susan Sontag che vanno dal 1947 al 1963, raccolti nel volume Rinata. In quasi ogni pagina, dai 13 ai 30 anni, Sontag registra soprattutto le sue letture e il rapporto con gli autori. Scoprire di aver letto o di stare leggendo, proprio ora, lo stesso libro che in un certo momento ha letto anche Susan Sontag è una gioia indescrivibile. I suoi diari sono anche pieni di liste: libri da comprare, libri letti, libri da leggere. Anche io, scrivendo Il capitale amoroso, sono partita da una lista. Le liste di libri sono uno strumento imprescindibile per lo scrittore, a patto di non seguirle per davvero. Si comincia con il primo volume, che rivelerà una verità inaspettata, che a sua volta richiede una lettura inaspettata. Così ho scritto questo libro, ma soprattutto così mi sono sempre rapportata con le cosiddette letture di impegno: dall’una dipendono tutte le altre.

In Italia, il dibattito su letteratura e impegno sta conoscendo una nuova fioritura, testimoniata anche dall’uscita del dibattuto libro di Walter Siti Contro l’impegno, che mette in discussione l’uso del bene in letteratura a partire dalla critica di alcuni autori impegnati, come Roberto Saviano e Michela Murgia. In un momento di transizione (e polarizzazione) come quello che sta vivendo la società italiana, con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, è normale e necessario che gli scrittori prendano posizione riflettendo sulla propria funzione. Ma ben poca attenzione si rivolge al di fuori del perimetro della finzione: che ne è di tutti quegli autori e delle autrici che hanno come unico fine, dichiarato e inequivocabile, quello dell’impegno? Se qualcuno percepisce come un problema il fatto che non esista più una letteratura nuda, capace di esistere senza alcun secondo fine, allora bisogna riconoscere anche l’assenza della sua controparte, una saggistica militante che sceglie da che parte stare.

Oggi le letture che faceva Susan Sontag a vent’anni non sono affatto comuni (ma non ho dubbi che lo stesso valesse anche in passato) e il piacere della sincronicità si è fatto più raro. Le motivazioni di questo fenomeno sono tante e complesse: la più immediata è che è venuta meno la necessità di maturare una coscienza politica. La mia generazione è cresciuta nella convinzione di avere a portata di mano tutti gli strumenti necessari per affrontare il mondo, missione tutto sommato facile se si è ben organizzati e volenterosi. Nonostante le continue evidenze di questa fallacia, siamo portati a credere che il nostro destino, di esseri umani e di società, dipenda esclusivamente dalla responsabilità individuale. In questa prospettiva di progettualità, dove all’apparenza non esistono ostacoli se non quelli che ci auto-imponiamo, è chiaro che maturare una coscienza politica non serva a granché.

Le occasioni di confronto e di dibattito politico a partire dai testi sono poi diventate sempre più rare, persino in ambito accademico, dove il ritmo delle lezioni è talmente serrato da non lasciare alcuno spazio per questioni che esulino dal programma d’esame. Tralasciando l’ormai proverbiale «corso sul marxismo» promosso dagli inarrendevoli militanti fuori dalle facoltà umanistiche, non riesco a ricordare un solo momento in cui mi sia stata proposta una lettura impegnata al di fuori della bibliografia d’esame all’università. Può darsi che sia stata sfortunata io, ma non ho motivo di dubitare che questa versione possa essere confermata dalla maggior parte delle persone che hanno frequentato l’università negli ultimi anni.

L’assenza di questi momenti di confronto pesa anche al di fuori dell’ambito accademico. Gli unici luoghi che mi vengono in mente che sono adibiti a un ruolo simile sono i club del libro, che sempre più di frequente scelgono di analizzare la saggistica, e gli spazi militanti, soprattutto femministi, dove l’analisi dei testi teorici ha un ruolo imprescindibile per l’attivismo politico. A questo proposito, non posso che ripensare alla mia storia di coscienza politica femminista, che di fatto è coincisa con la lettura d’impegno. Il mio primo incontro con il femminismo non è stato con qualche femminista o con qualche circolo, ma con i libri. E ho cominciato proprio dal libro più difficile, non per pretenziosità, ma perché era il primo della lista, di ogni lista: Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Mi ero consapevolmente imbarcata nella più impegnativa delle letture femministe perché sentivo che senza la direzione che de Beauvoir poteva indicarmi da sola non ce l’avrei mai fatta. E infatti ancora oggi quel libro faticosissimo per me rappresenta l’unico punto di partenza possibile.

Il rapporto particolare tra il femminismo, l’impegno politico e le letture d’impegno si riflette in ciò che il femminismo, di fatto, è: una teoria che è anche prassi, e viceversa. La teoria femminista è parte integrante dell’essere femministe e, allo stesso tempo, è l’esperienza delle donne e dei soggetti marginalizzati che informa la teoria femminista. Le letture che il femminismo mi ha permesso di fare rispecchiano la concezione di letteratura impegnata che Elio Vittorini formulò sul primo numero del Politecnico: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenza, che le combatta e le elimini». Questo è possibile perché le sofferenze che hanno innescato l’elaborazione teorica delle donne – non solo personali, ma collettive, sistemiche – non sono mai state considerate come un torto da riparare o come una pena da alleviare, ma come un «tentativo di evadere dalla sfera loro finora assegnata», come scriveva Simone de Beauvoir. Ciò che non smetterà mai di stupirmi e affascinarmi della letteratura femminista è proprio questo senso di trascendenza: non è mai fine a se stessa, non è mai proiettata verso l’interno, non è mai solipsistica, pur partendo dalle questioni più intime e marginali della vita delle donne.

Forse è proprio questa tensione verso l’esterno a rendere le letture di impegno così inattuali in un momento in cui la saggistica mainstream consiste quasi del tutto in libri di self help e manuali di crescita personale. I libri sui temi sociali non mancano, ma spesso finiscono col ricadere nella trappola del sé, costruendo un rapporto verticale tra autore e lettore che non ammette spazi di condivisione. I conflitti politici, dalle questioni di genere a quelle razziali, vengono letti solo nell’ottica dell’autorealizzazione: cosa posso fare per essere meno razzista? Quali comportamenti adottare per essere meno sessista? Interrogativi legittimi, ma dalla prospettiva molto limitata. In fondo, è letteratura che consola nelle sofferenze: prendo coscienza di un problema (ed è già qualcosa) che nuoce agli altri ma soprattutto a me, che mi rendo conto così di essere una cattiva persona, e provo a rimediare nell’orizzonte del privato. A volte, anche solo leggere un determinato libro che parte da queste premesse, ci sembra un atto politico eccezionale.

Molti libri femministi muovono da questa prospettiva, ma hanno anche la capacità di oltrepassarla criticamente. Un ottimo esempio è Tutto sull’amore di bell hooks, uno dei libri che più mi sono stati utili nella stesura de Il capitale amoroso. bell hooks è un’autrice prolifica che ha scritto più di trenta libri su femminismo, razza, classe, marginalità, pedagogia. In tutti vi è un punto di partenza imprescindibile: bell hooks parla sempre di sé, della sua famiglia, del suo matrimonio, della sua educazione, delle sue condizioni economiche. Ma lo fa per instradare la lettrice verso un discorso molto più vasto, dove il personale è solo un pretesto e mai un punto di arrivo. Nei suoi libri, hooks usa il suo piccolo vissuto per parlare dei problemi più grandi che ci siano. Tutto sull’amore a prima vista sembra un libro di self help, a maggior ragione perché tratta dell’argomento che in quelle pubblicazioni va per la maggiore, ma finisce con l’essere tutt’altro, un libro militante che rivendica la centralità dell’amore come azione e come pratica quotidiana di resistenza.

Scrivendo Il capitale amoroso, hooks mi ha ispirata non solo nei contenuti, ma forse ancora di più nella postura. Mi ha mostrato, pur senza mai dirlo esplicitamente, come rompere il meccanismo della singolarità, confutando l’idea che il mondo inizia e finisca con la propria esperienza e l’ha fatto proprio a partire dalla sua. Se la letteratura contemporanea, e la non fiction in particolare, non riesce più nell’intento di incidere sulla collettività e di orientare il cambiamento, è perché spesso manca di questa visione necessaria per uscire dall’impasse dell’antipolitica. Già solo il risvegliare una presa di coscienza, non nell’ottica della crescita personale ma della politica nel senso più ampio, è il miglior intento che un pamphlet, un manifesto, un saggio possa darsi al giorno d’oggi. 

Scriveva Susan Sontag il 20 settembre 1963, in una delle ultime annotazioni di Rinata: «Leggere per me è fare incetta, accumulare, immagazzinare per il futuro, riempire il vuoto del presente. Fare sesso e mangiare sono attività completamente diverse – piaceri in sé, per il presente – che non sono al servizio né del passato né del futuro. A loro non chiedo niente, neppure un ricordo».

ARTICOLO n. 39 / 2021

FANTASMI

ESTATE IN GIAPPONE

Nagoya, Giappone centrale. Primo mattino.

Il caldo aumenta attimo dopo attimo e la luce che oltrepassa i vetri è intensa: il sole sorge presto da questa parte del mondo. Ogni cosa che tocco è già tiepida, il piano di acciaio della cucina, la caraffa di vetro, il miscelatore del lavandino e persino l’acqua che apro fredda. Esco sul balcone per annaffiare le piante e Ōtake san, il mio vicino di casa, sta facendo lo stesso. Ci salutiamo attraverso l’intreccio di gelsomino che ci separa. Lui sta per andare a dormire dopo aver trascorso la notte a suonare malinconiche melodie blues alla chitarra e ad accendere molte sigarette. Il suo locale, un piccolo bar notturno frequentato prevalentemente da musicisti, è chiuso a causa dello stato di emergenza, il più severo dall’inizio di questa pandemia. Dichiarato a Nagoya a partire dal 12 maggio 2021, si aggiunge a una serie di disposizioni che hanno interessato il Paese nel tentativo di limitare la diffusione del contagio. Il Giappone non ha mai previsto veri e propri lockdown, preferendo per lo più misure che si basano sulla cooperazione dei cittadini e delle attività. Ci sono però alcune restrizioni imposte che riguardano in particolare ristoranti e locali, come nel caso di Ōtake san. Nonostante il riposo obbligato, il suo bioritmo resta uguale, mentre la mia giornata inizia ora: voglio andare al mercato che allestiscono nello spazio del santuario a fare un po’ di spesa. Mentre mi preparo, realizzo che questo è il primo anno – dei nove trascorsi qui – in cui ho presenziato a tutti gli appuntamenti ortofrutticoli mensili: la pandemia ha reso la dimensione del quartiere la mia dimensione. E se da un lato ha ridotto il mio raggio di esplorazione dall’altro mi ha fornito una sorta di lente, capace di ingrandire dettagli finora ignorati.

Varcato il grande torii di legno, mi accoglie la bandiera delle buone pratiche in fase di pandemia: oltre ai classici «distanziamento», «indossare la mascherina», «parlare a bassa voce», il divieto di mangiare in loco è sancito dal pittogramma di un omino con un onigiri nella mano destra, uno spiedino nella sinistra e la bocca spalancata, il tutto barrato da una diagonale stentorea. In effetti, rispetto alla consueta moltitudine – soprattutto nella stagione estiva – di banchi dedicati allo street food come yakisoba, dango, taiyaki, e rinfrescanti cetrioli crudi sullo stecchino (!) ce n’è solo uno di takoyaki che non ha nemmeno acceso le piastre. Se fosse un normale mese di giugno non solo le mandibole dei visitatori sarebbero già in azione, ma tra il verde brillante degli aceri vedrei i giochi dedicati ai bambini, come la pesca di pesci rossi o di piccoli palloncini che galleggiano sull’acqua, accerchiati da un mattiniero e nutrito pubblico.

La venditrice del banco delle verdure per un attimo dimentica la consueta compostezza, si sbraccia, vuole che mi affretti perché sono rimasti gli ultimi germogli di bambù. Oltre che buoni, i germogli di bambù freschi, hanno una sinistra bellezza: sembrano corni di un qualche animale fantastico. «L’anno prossimo vieni con noi a raccoglierli,» mi dice lei, nascosta da un cappello di paglia e da una mascherina con motivi floreali. «È un po’ faticoso ma dà molta soddisfazione, vedrai. Speravamo di poterti invitare già questa volta, ma con il covid…» reclina la testa e stringe gli occhi in segno di vero rammarico.

Io sorrido, sperando che lo capisca dal mio sguardo.

I germogli di bambù si raccolgono tra aprile e maggio, periodo in cui il Giappone ha vissuto una delle fasi peggiori per la diffusione del virus COVID-19. I contagi giornalieri, che dopo un incremento acuto a gennaio erano andati scemando grazie alle restrizioni, sono aumentati in modo lento e inesorabile in marzo e aprile, costringendo il governo a intervenire nuovamente: il 16 maggio si è raggiunto il picco di casi attivi nel Paese. Imprudente quindi organizzare uscite di gruppo nelle foreste di bambù per raccogliere e degustare germogli grigliati. Nonostante la pandemia in Giappone non abbia mai raggiunto i numeri spaventosi di Europa, Stati Uniti, o di altri Paesi del mondo, la situazione, in un alternarsi di restrizioni e riaperture che si susseguono ormai da più di un anno, non è mai stata davvero sotto controllo. Anche in questo principio d’estate, a causa del numero dei contagi, della pressione sul sistema ospedaliero, dei vaccini iniziati con serio ritardo, non è possibile dimenticare l’emergenza e provare il tanto atteso sollievo.

Carica di mele, germogli e radici, attraverso il santuario e raggiungo il parchetto adiacente: aiuole curate, una tigre da cavalcare, una sfera di esagoni su cui arrampicarsi, il saliscendi, la sabbiera. Una donna vestita d’azzurro spinge la sua bambina sull’altalena: visto l’orario e lo sguardo assonnato di entrambe più che un gioco sembra un modo per cullarsi al fresco delle canfore. La panchina accanto a loro è occupata da una bottiglia vuota: è una rarità incontrare immondizia abbandonata e attira la mia attenzione. Mi avvicino, è una ramune, bevanda gassata al sentore di limone, oggetto iconico e simbolo dell’estate giapponese. Creata in Giappone nel 1884 da un medico-farmacista scozzese, venne in origine promossa per la sua capacità prevenire il colera. Credo che la sua imperitura popolarità sia dovuta più che al gusto al design particolare della bottiglia in vetro. Brevemente: a sigillare l’imboccatura c’è una biglia; per aprirla bisogna usare un aggeggio apposito che spinge all’interno la biglia e lascia uscire il gas; al termine della bevuta la biglia rimane nel collo della bottiglia (grazie a una doppia strozzatura) trasformandola in un simpatico sonaglio. Lì, vuota e sola sulla panchina, è così bella che decido di fotografarla. E appena riguardo lo scatto l’effetto reverie si attiva: se ai mercati si è soliti mangiare passeggiando, durante le sere estive, soprattutto dopo un matsuri – celebrazione tradizionale che coinvolge la popolazione con feste, rituali e cortei –, la ramune rappresenta un classico rinfrescante e tintinnante. Ma neanche quest’estate con tutta probabilità ci saranno matsuri, se non in versione ridotta. E si sentirà – di nuovo – la mancanza di questi eventi solenni, conviviali, danzanti, affollati, talvolta selvaggi e sempre ricchi di fascino. Ricordo ancora, durante il mio primo anno a Kyoto, la grandiosa sfilata dei carri e dei palanchini sacri del Gion matsuri, uno dei più importanti del Paese, iniziato nell’869 come evento propiziatorio per scacciare le epidemie. Era il mese di luglio, le vie colme di persone, colori, simboli, flauti e percussioni. Un’umanità che si ritrovava nella celebrazione di un mondo per me ancora indecifrabile ma la cui vitalità dirompente riusciva a coinvolgermi in profondità. Lo scorso anno è stato il primo da parecchio tempo senza i grandi festeggiamenti, e anche in questo luglio 2021 la manifestazione si terrà in forma molto limitata.

Nonostante sia appesantita dalle borse e accaldata, decido di allungare di poco la strada per passare davanti a una delle case tradizionali che preferisco: ha delle bellissime ortensie blu appena fiorite, un albero di cachi e una lanterna di pietra. La proprietaria è l’anziana signora Ikeda, e non esce spesso. L’ultima volta che ci siamo incontrate era appena passato il Capodanno, lei era sul marciapiede, intenta a sistemare il suo sacchetto della spazzatura per il ritiro settimanale: conteneva una manciata di resti, quasi vivesse di nulla. Faceva molto freddo e, rimanendo distanti, ci siamo scambiate gli auguri e poche parole – i suoi famigliari, giustamente prudenti, non erano venuti a trovarla dalla capitale per le celebrazioni di hatsumode, ma le avevano comprato un cellulare con lo schermo grande. Ogni volta che raggiungo l’ingresso con i bassi gradini di muschio, mi fermo e do uno sguardo al giardino della signora Ikeda – le piante, le ombre, la parete tutta finestre. E ogni volta immagino la casa come poteva essere un tempo, abitata da una giovane famiglia – padre, madre e due bambini – che si riunisce sulla veranda a guardare le stagioni cambiare. Nel rovente pomeriggio estivo i due bambini sono seduti con le gambe penzoloni e mangiano spicchi di costosa anguria. Appena cala il buio accendono stelline scintillanti, candele magiche che rendono ampi e luminosi i loro sorrisi. E poi, insieme ai genitori, si avventurano al porto per lasciarsi incantare dai fuochi d’artificio.

Il forte rumore pneumatico e metallico che sento prima di svoltare l’angolo dovrebbe allertarmi e invece no, avanzo spensierata con il blu delle ortensie già negli occhi.

Ecco, qualcosa che questa pandemia non ha per nulla rallentato in città è il moto distruzione-ricostruzione: vecchie case per nuove case o vecchie case per terra in vendita o vecchie case per parcheggi. Nel quartiere sono diverse le dimore addormentate, chiuse, inghiottite dai rampicanti, coperte dalla polvere e consumate dalla ruggine. Qualcuna è abitata da persone sole, anziane, spesso invisibili, qualcuna è abbandonata. La loro presenza non è una prerogativa del tempo della pandemia ma credo che ultimamente le cose stiano andando un po’ troppo veloci. Solo negli ultimi due mesi ho assistito alla demolizione di un ryokan, di uno storico ristorante di udon, di un complesso di mini appartamenti, di due case signorili, di un barbiere vintage ma ancora in attività, di una pasticceria e di una grande villa con un vecchio ciliegio. Al ciliegio hanno concesso un’ultima fioritura fra le macerie, ma poi è sparito anche lui.

La casa delle ortensie, dell’albero di cachi e della lanterna di pietra è sventrata, posso vedere le piastrelle bianche del bagno, il wc sradicato, i tatami per metà sospesi nel vuoto. Distolgo lo sguardo il più rapidamente possibile e accelero il passo: è un’intimità rivelata con troppa crudezza. E la signora Ikeda? Ad agosto in Giappone si festeggia Obon – occasione in cui le famiglie si riuniscono per onorare gli spiriti degli antenati che tornano fra i vivi – e voglio pensare che i suoi figli abbiano colto l’occasione per portarla a vivere con loro a Tokyo. Mentre io scopro la forma dei suoi lampadari di vimini, lei si troverà in un appartamento al tredicesimo piano di un grattacielo, immersa nella densità urbana di Shinagawa, oppure in una villetta della tranquilla e residenziale Minami-Nakano. Immagino la signora Ikeda rivedere Tokyo dopo tanti anni e ritrovare la megalopoli in un frangente così particolare, senza turisti, con il traffico umano ridotto.

Non vado a Tokyo da molti mesi, è uno dei periodi più lunghi di separazione dalla capitale pur trovandomi a poche ore di Shinkansen. Questa estate avrebbe dovuto finalmente essere quella dei Giochi olimpici e paralimpici, e invece, nella migliore delle ipotesi, si terranno a porte chiuse o con pubblico contingentato. Un danno economico, una ferita. A marzo 2020, quando è stato deciso il rinvio dei Giochi al 23 luglio 2021, eravamo tutti convinti che le cose, arrivati a questo punto, sarebbero state molto, molto diverse. E invece no, o almeno non proprio. A oggi circa l’80% della popolazione non vuole le Olimpiadi, e da più parti sono state avanzate richieste di posticiparle nuovamente o addirittura cancellarle. Tra queste spicca una petizione proposta da Utsunomiya Kenji, avvocato e più volte candidato sindaco di Tokyo, che in soli due giorni ha raccolto più di 200.000 firme. I motivi riguardano principalmente la sostanziale impossibilità di garantire la sicurezza di atleti, personale coinvolto, e popolazione durante un evento che, anche senza pubblico (straniero e forse nemmeno giapponese), mobiliterebbe comunque migliaia di persone, e il fatto che il sistema sanitario del Paese, già sotto grande stress per la carenza di medici impegnati nella gestione dei pazienti covid e nella campagna vaccinale, non potrebbe coprire anche le esigenze derivanti dai Giochi.

Matsuri, street food, caldo umido, ramune, anguria, fuochi d’artificio. Per completare in maniera soddisfacente il quadro dei simboli dell’estate giapponese ne manca almeno uno, per me imprescindibile, ed è il frinire delle cicale. Colonna sonora di ogni scena estiva, sia in campagna sia in città, la loro voce è insistente, esasperante e bellissima. Le cicale che stanno per nascere e che sanciranno l’inizio della stagione, hanno trascorso gli ultimi due o tre anni sotto terra a sperimentare la trasformazione. Vivranno poche settimane durante le quali, come sempre si nutriranno, canteranno e daranno origine a nuovo ciclo. Mentre mi allontano dal fragore della demolizione e dal pensiero di un’olimpiade così complessa, mi fermo sotto i ciliegi e resto in ascolto: le chiome sono ancora silenziose.

Nagoya, Giappone centrale. Al tramonto.

I germogli di bambù li cucino seguendo le indicazioni della signora del mercato: prima bolliti interi nell’acqua torbida di lavaggio del riso, poi sbucciati, tagliati a spicchi e cotti in brodo dashi, salsa di soia, mirin, e infine cosparsi di fiocchi di bonito essicato. La loro consistenza tenera mi sorprende sempre e anche il loro sapore, simile a un profumo da inghiottire. Intanto la sera avanza, calda e densa. Appena sento Ōtake san uscire sul balcone per una sigaretta lo raggiungo e gli chiedo quando, secondo lui, arriveranno le cicale.

«Manca poco» mi risponde attraverso il gelsomino. Il verde è quasi nero nel buio, e il bianco dei fiori è opalescente.

«Sarà un’estate di nuovo strana, di nuovo a immaginare la prossima» dico io.

Lo sento aspirare fumo, espirare, esitare «Però le cicale del prossimo anno, da qualche parte, ci sono già» aggiunge.

E allora speriamo di ascoltarle con un animo più lieve, durante una stagione in cui le icone tutte si manifesteranno pienamente, senza più rinvii, cancellazioni e troppe solitudini.

Ōtake san sta per rientrare, fa scorrere la zanzariera.

«Credo che tu abbia dimenticato un simbolo, uno importante» mi dice. «L’estate è la stagione dei fantasmi. Non hai mai partecipato a un hyakumonogatari kaidankai? Cento storie per cento apparizioni soprannaturali, una candela viene spenta a conclusione di ogni racconto. E al termine dell’ultimo, forse il più spaventoso, si resta nella completa oscurità.»

Questa notte nel cielo non ci sono stelle, non si vede la luna. Ōtake san lascia il balcone. Riprende la chitarra, le note sono quelle di Rambling on my mind.

ARTICOLO n. 38 / 2021

PIETÀ

ESTATE A MILANO

«Ah… gli intellettuali» pensò Ransom.
«Devono essere loro, anche se in modo occulto, a comandare.»

C.S. LEWIS, LONTANO DAL PIANETA SILENZIOSO

Seduto per terra con le spalle al muro, origlio i vicini.

«Sei sicura?»

«Senza» dice lei. «Scopami senza…»

Ma non è il profilattico. La parola deve riferirsi a un’altra specie di premura. Naturalmente, la mascherina non può essere.

Anche se a Milano c’è chi per fare sesso occasionale, dall’inizio della pandemia, se la mette.

È il neurologo a ragguagliarmi su certe stramberie meneghine, durante i nostri colloqui via Skype.

Quando non fa il lombrosiano non lo ascolto. Il suo mestiere e la sua milanesità si riassumono in un empirismo cui non consento nessun commento sussidiario, nessuna superstizione psicanalitica. Che scherzi pure sulle crisi fobantropiche post-quarantena e sui tic freudiani degli altri reclusi. Che interpreti pure l’ininterpretabile. Che si occupi di lubrificare il torcolo dei neurotrasmettitori nel mio cervello, di cambiare le gomme, di lucidare il parabrezza – ma di giri turistici, nell’Area 51 della mia mente, non se ne fanno.

È preoccupato perché sono rimasto da solo a Milano con una terapia psichiatrica di cinque farmaci al giorno durante tutto il lockdown, e sono dipendente dalla marijuana. Spacciatori di erba buona non ne troverò nemmeno adesso, anche se in città i delivery della coca hanno ricominciato a fare quelle che lui chiama, con insoffribile sarcasmo, consegne a «domicidio». Purtroppo, l’aumento dei posti di blocco li ha costretti a una scelta precauzionale delle sostanze, e l’erba è sacrificabile perché ci si guadagna meno (o, forse, perché gli Dèi la preferiscono nelle libagioni loro rivolte).

Come se non bastasse, il mio nuovo romanzo è uscito il giorno prima che chiudessero le stazioni del mondo e le librerie. Sebbene sia passato un anno, io sono rimasto là. A quel marzo marziano che mi ha pestato sotto il tacco come un ciuffo di capelli in una macumba africana, ma ad ammazzarmi non ci è riuscito.

«Dovresti toglierti subito la dopamina» mi aveva detto sempre lui, il neurologo, già il secondo giorno di clausura, spaventato come ogni medico più per sé stesso che per questo sfigato.

Sarei potuto ricadere nell’alcol, nell’autolesionismo, o avrei potuto gettarmi dalla finestra. La coincidenza del libro appena uscito non ci voleva. «Potresti avere un eccesso di energia e una slatentizzazione delle psicosi» non ha fatto altro che ripetermi. «Almeno aumenta lo stabilizzatore dell’umore. Potresti non reggere, potresti fissionare.»

Potresti, potrebbe, potrà. Più di un secolo di teorie scientifiche, di congetture e ricognizioni subito smentite, di «poi» che assassinano il «prima», e abbiamo cominciato a renderci conto solo su Facebook e su Twitter, nel 2021, che la scienza è un’ipotesi, a prescindere dal fatto che una tantum riesca a ottenere risultati.

È il Dio Covid, sconosciuto, a farci svegliare nell’ignoto che si apre al di là del sogno scientifico.

È per questo che la città italiana tecnologica per eccellenza non si sveglia per niente con la fine del lockdown, ma si riaddormenta nel bosco. Nel grottesco di una selva irreale, dove le prospettive della logica sono diventate paraconsistenti.

Per paura di togliere il farmaco, tuttavia, ho preferito allenarmi a casa, scaricandomi per sfinimento alla vecchia maniera.

Quattro ore di esercizi al giorno, davanti ai workout total body di YouTube.

Nel mondo di prima avevo due personal trainer che cinque volte a settimana si davano il turno per addestrarmi alla stabilità umorale, poi avevo un’ora di sauna e bagno turco al giorno. Ero uno di quei milanesi americanizzati al grado massimale dell’americanità, una cavia degna di Palahniuk. Per non morire, mica per diventare un culturista. Se non mi massacrassi di piegamenti e trazioni, non saprei come smaltire questa quantità di eccitanti e andrei in giro a prendermi a botte con tutti. In caso contrario, se cioè non assumessi i farmaci, dormirei diciotto ore al giorno o forse per sempre, come Rosaspina in attesa del suo bacio necrofilo, e sarei vessato dalle ossessioni per il tempo restante (un tempo che percepisco da sempre come un vettore dalle spirali infinite, piuccheterno, ma dal quale sento che di tempo può avanzarne ancora, e ancora…).

I virologi nel frattempo hanno stipulato accordi di fortuna con gli economisti, e Milano si desta al suono abietto di un corno davanti al quale io mi tappo le orecchie, perché non ci credo.

Credo fermamente nel Covid-19, nelle sue sataniche varianti, nelle polmoniti interstiziali e nella carenza di ossigenazione, nei vaccini e nella distanza di due metri, credo nel lavarsi le mani a fondo e nel fatto che su di me gli psicofarmaci hanno «quasi» sempre fatto effetto. Ma non ripongo la benché minima fiducia negli individui che me li hanno prescritti e in quelli, appartenenti alla stessa genia, che adesso tripudiano per il ritorno alla normalità.

È una lunga storia quella dei medici spaventati più per sé stessi che per me, imparanoiati dal giuramento di Ippocrate, indecisi sulla diagnosi di depressione maggiore, bipolarismo, paranoia, che mi hanno rimbalzato ogni responsabilità addosso con un colpetto di ciglia, oppure l’hanno cordialmente inoltrata a un altro medico; ed è una lunga storia anche quella dei loro tripudi davanti ai miei miglioramenti spontanei, magari perché avevo letto un libro illuminante di Chatwin o avevo rivisto Il posto delle fragole.

La storia della medicina è, per quella che è la mia esperienza, una storia di tentativi a casaccio che ha fatto acqua da tutte le parti, di scarichi e tubature ostruite che, prima ancora che sulla fragilità di anima e corpo, ha agito nella mia immaginazione un calcio in culo alla volta, fino al marzo dell’anno scorso.

Ora che ci penso, dentro di me questa storia aveva cominciato a schiudere le sue illascivendole uova di serpente già con la scemenza dei medici online. Non si può fare una diagnosi online, mi sono sentito rispondere per anni a ogni richiesta telematica d’aiuto, come se questa non fosse una deliberata ammissione di inutilità da parte loro. E poi il matto sarei io.

La dopamina non l’ho tolta per protesta, anche se Milano è rimasta fuori dalla mia stanza non ho ascoltato il medico e non ho smesso di folleggiare al ritmo indiavolato della vecchia città.

Ora che c’è il rituffo nelle strade, continuo a stare a casa per allenarmi, per nascondermi dalle plaghe del cielo infetto e per leggere le poesie di Magrelli che tento di imitare, seduto per terra con le spalle al muro, mentre i vicini…

«Senza» continua lei.

A causa del chiasso esterno, riesco a capire solo che la parola finisce con una «a» accentata. I suoni più pungenti, acuiti da una neuropatia cronica, hanno ricominciato a diluirsi nello stridio del tram sulle rotaie, che a sua volta si fonde con i versi dei piccioni, che a loro volta si amalgamano con lo squittio dei sorci nel solaio in un intreccio di fischi simili a una lamentazione paleolitica.

Immagino allora di diventare così grande da sovrastare il palazzo, di prendere la mia Milano con le mani dall’alto, di metterla in un sacco durante il concerto del Primo Maggio, di intrappolare il suo impero senza fine e la sua sete di avere sete in una piccola città di provincia come Macerata.

Come è successo alla città, il lockdown ha scagliato anche me post mediam noctem, nell’ora immobile in cui i sogni diventano reali. Ha chiuso Golia in un guscio di noce, e amen.

Avvinto nella penombra delle latebre di un bilocale, tra gli zufoli incessanti delle sirene e le astinenze rapinose, ricolmo di energia come una parete di uranio, sono stato tra i primi sifni che la Metropoli-Pizia ha messo in guardia dagli araldi della scienza: un po’ perché sono avvezzo da un decennio, e a ragione, all’ipocondria, un po’ perché, dovendo fare a meno della droga, la reclusione forzata mi ha costretto a svegliarmi subito dal sonnambulismo, a rimanere lucido come un matematico davanti alla mia follia.

In fondo è per questo che adoro Milano, perché da quando sono arrivato la mia follia si è sempre mossa alla stregua della sua.

Milano è una città che si muove e si è mossa sempre anche da ferma, dettando a chi la abita il suo folle scopo. I milanesi sono convinti di abitare una città, invece abitano uno scopo. Per questo non ha importanza se Milano è bella o brutta, se piove sempre o se ci sono quaranta gradi. Lo scopo non è quello di fare soldi, o carriera, o bella figura con gli altri. Non è nemmeno lo scopo di avere potere o di guarire dalle malattie. Il nostro scopo è quello di avere scopi.

Ecco perché c’è chi continua a urlare «ce la faremo» e a sventolare falde di stoffa scarabocchiate di cazzate dai balconcini malsicuri, uomini e donne sconturbati da ogni retorica possibile che ancora abbaiano allo smog come cani da punta, impossibilitati a catturare qualsiasi altra cosa che non sia una porzione di sostanze venefiche. Uomini e donne che non ce la faranno mai, nemmeno se sparissero tutti i virus del mondo.

E io?

Nemmeno io ce la farò mai, penso mentre mi tiro il pisello fuori dai boxer e ne verifico le reazioni nervine in risposta ai boccheggi dei due sconosciuti. Sono terrorizzato che da un momento all’altro non mi si drizzi più. Il neurologo ha precisato anche questo: tornando a uscire, potresti avere un incremento di… Come quando mi sono chiuso dentro, in sostanza.

Sul cellulare, mentre i vicini indugiano nei loro ansimi, ripasso gli effetti collaterali del Lamictal, del Wellbutrin, del Sereupin… li so a memoria. Sono la mia tabellina del due, la mia prima declinazione.

«Scopami senza pietà» sento che dice la donna.

Era la pietà, ma tu pensa.

Chissà poi come si fa ad amare qualunque cosa senza provare un minimo di pietà per lei.

Nel mio palazzo di via Plinio, oltre la finestra, un nuovo cordone di voci conduce alla portineria.

Dopo un’assenza gestazionale di nove mesi è tornata Nella, mi dico, e dispenserà buste e pacchi ai rimproveranti.

Anch’io dovrei scendere.

Cinque piani a piedi senza ascensore.

Devono essermi arrivati dei libri. Comunque sia, il box della guardiola è vuoto.

Un tizio spiaccica il naso sul vetro per guardare dentro.

Un sole extraterrestre spazza il patio e la fontanella per metà. Questo sole che dalla fine di marzo si affaccia dagli smerli dei tetti e si congeda imbarazzato, come un esattore delle tasse, come un assicuratore timoroso.

L’anno scorso, proprio oggi, c’era uno scatolone per terra, addossato alla parete, sigillato da quattro giri di scotch.

Altra posta lo circondava. Altra posta arrivata per gli altri, come ogni giorno, come sempre. Una posta fiscale, come si conviene alla quiete dei tempi profani.

Tasse, affitti, ricette mediche, pubblicità e libri che non è affatto scontato siano per me.

Perché nel palazzo c’è un altro scrittore. Abita due piani sotto il mio e più di una volta mi ha chiesto di abbassare la musica, altrimenti non riesce a concentrarsi.

«Sei un maleducato» mi ha detto l’anno scorso, credendo che il pacco fosse destinato a lui e non a me.

Così patetica, la vendetta di dirgli che dentro c’erano le copie del mio libro, che soprassiedo.

Mesi fa l’ho sentito confidare al tipo dell’Amsa che scrive poesie. Con una faccia come la sua, ho pensato. A una cena Moresco lo disse di uno scrittore che lo perseguitava: “Vuole scrivere, ma come si fa a scrivere con una faccia come la sua?”.

Per tutto l’inverno ho provato a impedire, con ogni mezzo in mio potere, che lo scrittore si permettesse di scrivere versi con una faccia come la sua. Ho ascoltato Thom Yorke al massimo volume, ho cantato i Cure a squarciagola nella notte nutrendomi di canapa legale come una capretta. È così che scrivo io, come un ragazzo normale andrebbe a una festa al Macao, facendo il possibile per non assomigliare a uno scrittore.

Forse, se non prendessi tutti questi farmaci, farei meno fatica a definirmi tale. Ma di fronte ai libri che ho scritto, come d’altronde di fronte a questa città, si erge una piramide di disappartenenza, perché gli psicofarmaci sono chiavi, ma per porte sconosciute che danno su aree altrettanto sconosciute di spazio, dalle architetture inedite, e alla fine non si è più in grado di riconoscere chi è entrato dove e da dove.

Le mie passioni, le mie conoscenze, le mie capacità l’anno scorso sono diventate di colpo un mattatoio di animali morti e di alimenti inscatolati. Poi scaduti.

E più che su un virus, è su una psiche che può esserci una data di scadenza.

A quanto pare, la mia scadeva il 21 marzo del 2020.

Vado a cercare il mio libro per la città. Copro chilometri a piedi in preda alle rimanenze psichiche di un meccanismo motore.

È passato troppo tempo dall’uscita. È troppo tardi per trovarne più di due copie a scaffale.

Chi scrive non ha che questo desiderio: cercarsi, come in uno specchio, sulle vetrine e sui tavoli delle librerie. Oltre al desiderio di vendere. Ma vendere, in questa città, è molto meno importante che stare sul mercato. Quello che conta è esserci. Quando non si lavora, si esce e ci si incontra o per scopare o per millantare, le sole due azioni che a Milano sembrano non coincidere mai. Il fatto di risiedere nell’unica città italiana in cui succedono realmente le cose è in fondo un possente scudo. Soprattutto quando non succede niente. E a me, col nuovo libro, non è successo niente.

Certo, mi sono risparmiato l’inutile tortura del confronto con i colleghi, e ho la scusa che se non ho venduto abbastanza la colpa è del virus. Posso anche pensare che il libro non sia mai uscito, posso anche pensare di essere già morto.

Ai milanesi in fondo – e io mi sento tale – basta trovarsi sempre a un passo dal plauso altrui, dai big money e dal successo, basta raccontarti cos’hanno in programma per l’anno prossimo, quali novità sbalorditive all’orizzonte, e credono di guadagnarsi così la tua ammirazione (e se la guadagnano). Tanto il tempo qua è più veloce che altrove, e nessuno verrà mai a controllare davvero se ti hanno promosso in azienda o se hai recitato in quel film. Ai milanesi piace dire «pazzesco» proprio perché la pazzia spensierata è del tutto estranea a questa città. Milano è una città dove succedono molte più cose che a Roma, o a Parigi, o a Londra, è una città che si regge su un’illazione cronica dei propri obiettivi e delle proprie capacità, su una follia lugubre e imperturbata, ma di «pazzesco» non ha proprio niente. Soprattutto adesso che dovrebbe sprizzare gioia da tutti i pori, Milano è semplicemente irreale, e l’irreale non si merita di essere ridotto alla banalità del «pazzesco».

Al parco Montanelli, ad esempio, si rincorrono i cani. Confusi, tentennanti, non compiono più gli ampi cerchi dell’abitudine. I padroni si sono tolti le magliette ed espongono la pelle lattiginosa, di un bianco sclerotico, alla luce pietosa, vischiosa, ultravioletta e puntinata di moscerini. Apparentemente non c’è niente di insolito rispetto a due anni fa. Ma l’insolito, come un virus, non è mica detto che appaia. Bisogna saper guardare per capire cos’è che trasgredisce dal solito.

A una prima occhiata, mi sembra che vittime e proscritti della Realtà reiterino le annose abitudini più per partito preso che per diritto di natura. La fila stracca alla cassa del bar Bianco, il sassolino scagliato sull’anatra del laghetto, il fitto degli alberelli rossi dove gli universitari si danno appuntamento per fumare non fanno altro che confermarmi la dimensione oniromantica di sempre, il congegno genetico che spinge tutti a vivere anche il tempo libero come se fosse un meeting aziendale.

Adesso i movimenti sono dettati dalla labirintite, certo, dalla mancanza d’ossigeno dovuta alle Ffp2, dalla pressione degli elastici contro le trombe di Eustachio, dalla secchezza delle mucose. Ma prima, non era forse la stessa scena di Stalker?

Fortunatamente l’edicolante davanti all’Oberdan non parlava ancora di scienza.

Tutti, persino il prete di Santa Francesca, che adesso parlano della miracolosa concretezza della scienza.

Divinità monocentriche, senza volto e appena sorte, vengono invocate in un groviglio di nomi futuristici.

AstraZeneca dalle dita di rosa.

Pfizer dai lunghi pepli.

Moderna che mai si stanca di combattere.

Johnson & Johnson.

Un cicaleccio insostenibile, un politeismo d’accatto, un fantaolimpo giocato tra i negozi di corso Buenos Aires al solo scopo di difenderci dalla potenza del fantastico (questo, però, è un complotto troppo galileiano per allarmare i giornalisti, e lo vedo solo io).

C’è una ragazza che legge un libro di Walter Siti con la schiena appoggiata al monumento di Montanelli e vorrei dirle di spostarsi subito perché con la quantità di ratti che ci pisciano attorno potrebbe prendersi la leptospirosi. È peggio del Covid.

C’è un arabo principesco con un involto di tappeti in spalla e crede di essere reale. Come se fosse realistico essere un figo che se ne va in giro con dei tappeti persiani addosso in una città post apocalittica.

C’è un altro, un palese ubriacone (e un palese sondrasco) in astinenza che non crede nel virus, nei vaccini, nel potere tecnocratico e nella classe dirigente – ma crede di essere reale. Anche se, al pari del sottoscritto, non si è mai realizzato in altro che nei suoi squallidi abusi. Per realizzarsi bisogna entrare in seno alla realtà, ma dalla porta di quale mondo?

Di sicuro la statua di uno che ha scritto la storia d’Italia non aiuta. Il complottismo, che è poi lo scetticismo, è una scienza che mette in discussione qualunque avvenimento storico, ma mai la possibilità che non ci sia stata alcuna Storia.

Che vana speranza è stata credere che, da ingenua, l’idiozia di chi ha trascorso un anno a blaterare sui social sarebbe diventata più tollerabile. Come no. Mi appare semplicemente ignobile, irrimediabile. Ancora più circoscritta dalla mancanza di pensiero profondo.

La cosa peggiore sono quelli che, tra un’omelia e l’altra ancora vogliono renderci partecipi della propria abominevole quotidianità. Prima la quotidianità veniva spacciata solo sui social, tra una gattomachia e l’altra, adesso è a voce: «Sì, con il lievito madre… un’oretta di lavoro e poi Netflix… mi fai una foto mentre ordino il deca?». Se facessi io la stessa cosa, se mi mettessi pornograficamente in piazza, dovrei commentare il dosaggio dei miei psicofarmaci o il mio ultimo ricovero in un reparto psichiatrico. Se aderissi con l’anima alle povere cose di ogni giorno che mi circondano, a questa povera nostra vita, impazzirei del tutto.

In uno spettacolo del Cabaret Voltaire, o al Circo Orfei, o in una delle Bizzarrie di Bracelli, l’Irreale non è esplicito. Così come non è esplicito in un reparto d’ospedale infestato dal Covid.

L’irreale si esplicita meglio al centro di Milano, al bar Basso, quando sento invocare da un signore incravattato di Lugano prima la necessità di una ripresa economica e poi la Madonna di Lourdes perché gli arriva un sms che lo avvisa della morte di un suo conoscente.

Anche dal barbiere, l’Italiano, l’economista in attesa della tinta vorrebbe vendere l’aria un tanto al chilo, e il prof. di fisica e chimica del liceo Volta, seduto sul divano a due metri d’ordinanza, gli dice che l’aria non si tocca; allora l’economista, uno che lavora coi supermercati francesi, accampa un ragionamento da politico anni Ottanta per vendergliela lo stesso, e il prof gli dice che, una volta venduta tutta, l’economista non respirerà.

L’unico ragionamento non irreale che sento dopo un anno di social, l’unico esempio che significa qualcosa.

L’irreale, infatti, se è tale, è proprio perché non significa nulla. E la gran parte di quello che viene detto in questi giorni, per come la vedo io, ha l’unico pregio di non significare nulla, di essere il commentario non già del nulla (il che rappresenterebbe una svolta epocale), ma di un significato nullo, di un’interpretazione nulla, e perciò inutile, della realtà concreta attorno a noi.

Se è vero che tutti se ne vanno in giro per dire la loro, la pandemia fa a pezzi ogni contributo personale, ogni opinione che vuole essere sensata, ogni interpretazione catechistica alla Agamben, ogni soluzionismo immediato e, fortunatamente, ogni magniloquenza sulla nostra presunta libertà. L’essenziale si riduce al discorso dei due signori in attesa dal barbiere e basta.

Di solito quello che ci uccide non resta con noi, ma se ne va. A Milano, però, a Brescia e a Codogno è avvenuto qualcosa di culturalmente enorme. Qualcosa che ha fatto afflosciare la realtà del sogno imperialistico, e che è impossibile rimuovere con un massaggio thailandese. Qualcosa di vicario dell’assetto abitudinario del mondo. Qualcosa che va oltre l’aleggiare intermittente del virus, la tragicità della morte e le congetture del clan dei virologi. Sono stati questi i primi a dare a piena testa contro il capitale, senza manco accorgersene. Il problema è che se metti quattro scienziati a parlare della scienza non stanno facendo scienza, ma filosofia, e se metti quattro imprenditori a parlare di economia non stanno facendo economia, ma filosofia.

D’altra parte non potrebbero fare altro, visto che del virus non sanno niente. Credere che si sappia qualcosa di un evento solo perché in una certa misura, e per un certo periodo, si riesce a gestirlo è come credere che un pompiere conosce i meccanismi fisici del fuoco. Sono i virologi a confermare al mondo l’inattendibilità della scienza e di sé stessi, e di questo gli va reso merito, anche se chi tra loro alza le mani lo fa più per deresponsabilizzarsi che altro. È però fondamentale che agiscano, perché è da loro che gli idolatri dell’economia pretendono una soluzione, e immediata. Come se un ragazzino chiedesse al papà di uccidere qualcuno se la cosa gli farà aumentare la paghetta settimanale. Vagli a spiegare, a Sala e a Zingaretti, che la medicina non è la verità e che la cosa non implica l’inesistenza di un’altra verità. Pur trovandosi davanti al valico di frontiera tra due visioni contrapposte del mondo, ti risponderebbero che non c’è tempo di perdersi in chiacchiere, di disperdere le forze in litanie inutili, e che il paese non può permettersi un fermo ulteriore.

Loro si sono permessi di fare a pezzetti il pianeta, di trasformarlo in una discarica invivibile per i loro porci comodi e per i prossimi trentamila anni, ma il virus non può permettersi di fare la stessa cosa con noi. E poi il matto sarei io.

Anche i filosofi professionisti si piegano al riduzionismo più villano, pena l’ammutinamento. Non mi fido più nemmeno di Massimo Cacciari: se non semplificasse ogni suo pensiero fino all’osso, Lilli Gruber non saprebbe che farsene. Gli scrittori si limitano a fare figure di merda. Una scrittrice esordiente scrive un tweet per gridare al mondo che il nostro paese non può abbassare le serrande per evitare la morte di quattro vecchi. Dall’alto della sua malvagità, non si rende conto di essere l’unica a non delirare. Per quanto bastarda e nazistica, invera l’unica etica possibile. L’etica dello sterminio, dell’andare avanti tanto per andare avanti, tanto per navigare a vista dentro un fiume di contraddizioni. Anche se non si sa a che scopo, è fondamentale avere altri scopi, avanti marsch. Come dire che se non ammazzi qualcuno per arrivare a fine mese sei un immorale, e, fino a prova contraria, per il mondo in cui viviamo è esattamente così.

Milano, però, non è solamente così. Ci sono posti che, se uno volesse usare la più orrificante delle parole in voga, definirebbe «resilienti».

C’è solo un locale che è rimasto quasi identico a prima, e dove apologie d’olocausto non se ne sentono, e dove quindi non c’è etica, tranne quella del bicchiere.

È il Picchio, dove risiedono gli industriali dell’immaginazione.

Può arrivare Perseverance su Marte, può riaccendersi il corium dentro il Sarcofago di Chernobyl possono verificarsi fenomeni di spillover e ibridazioni di specie, ma il Picchio resta il wormhole di sempre. L’unico vero locale di Porta Venezia. L’omphalòs degli artisti, dei musicisti e degli studenti di cinema, la ribellione emotiva alle insufficienze immaginali dei lounge bar attorno e, in un certo senso, di tutta la città. Lounge bar che stanno al Picchio come un cantante di pianobar sta a Amy Winehouse.

Il Picchio è Leopardi. Leopardi e Amy Winehouse sono le persone che più stimo al mondo. La cortina-tripode utilitarie parcheggiate davanti ai tavolinetti esterni è la siepe. La siepe non cela le basse colline recanatesi, ma i sorseggiatori di cocktail del Botanical, la boulangerie parigina, e le allucinazioni di chi è convinto davvero che si ricomincia e che il virus è sparito. Quelli che bevono oltre il Picchio sono invecchiati di due anni e si vede. Hanno due anni di più, hanno sprecato due anni e li hanno persi per sempre.

Il Picchio, invece, è un mitologema, potrebbe essere il Caffè Giubbe Rosse o il Leoncavallo. E, in quanto tale, un mitologema non invecchia, anzi, con lo scorrere del tempo si salda ancora di più. Due mondi separati da un’arcadia di cinque metri, che non si incontreranno mai, che non devono incontrarsi mai.

Vado a mettermi al centro della strada, a metà tra questi due mondi, e provo a concentrarmi sul punto a mezz’aria dove cozzano le voci. Il caldo zanzaresco si impregna di suoni molesti per l’urto dei contenuti espressi.

Da una parte i monoglotti dal contenuto nullo di cui sopra, gli archeologi della pratica che usano frasi come «hai bisogno di uno bravo», ma se dici «frocio» o «puttana» sgranano il rosario e gli occhi credendo sia più offensivo. La pandemia li ha colpiti nel fatturato e nella convivenza con il partner, ma, visto che il mito del «lavorare» è notoriamente l’altra faccia della poltroneria, hanno saputo procrastinare meglio degli altri. Hanno fatto yoga, hanno letto I leoni di Sicilia, hanno infornato pagnotte buone solo per essere mipiaciute da altri dodici fornai avventizi. Gli altri, invece, i picchi, sono gli sfaccendati che per i consimili davanti «avrebbero bisogno di uno bravo», salvo che se esiste non puoi che trovarlo fra loro. Gli infermieri e gli studenti del San Raffaele vengono qui, per mischiarsi agli studenti di Brera.

L’unico rischio, tra un artista naïf e l’altro, è quello di incontrarne uno che fa lo scettico, e che a sua volta si incontri con uno scienziato.

Gli artisti scettici mettono in discussione tutto ciò che produce risultati «concreti», proprio come me, ma se si scagliano contro il metodo scientifico non sono diversi dagli altri. E io mi fido più dei virologi, dei carabinieri e di De Luca. Mi rendo conto che il virus ha invertito la rotta del realismo fino all’estenuazione anche per loro, e che non è facile lavorare sull’astratto quando non si sa più cosa è il concreto (De Luca? Concreto?); ma hai voglia a ignorare che un virus è un animale, un alieno in terra che disperde le proprie cellule nell’invisibile. Perché invece di blaterare non ci fanno un’opera d’arte?

Insetti che crediamo ci si posino addosso per caso, dico a Carmen quando passa a raccogliere i bicchieri vuoti, l’unica che mi dà ragione. Insetti che ci scelgono, desiderano, si muovono, volano, ripeto a un mio amico osteopata. Non essendo attaccati ad alcuna presa di corrente, sono animali animati che «fanno anima». Se provi a dire una cosa così al barista sul lato opposto della strada indovinate che risponde?

Che avresti bisogno di uno bravo.

In palestra, intanto, per me sono i giorni della rivalsa. I finti pompati sono riemersi dalla quarantena ischeletriti e facendo mostra dei loro immensi occhi bovini. Alzano trenta chili di bilanciere sulla panca piana, non reggono nemmeno una trazione senza il supporto dell’elastico.

Nello spogliatoio si coprono il pacco con la mano. Prendere il testosterone a cicli regolari e poi lasciarlo quando non ci si può allenare equivale a distruggersi il pene, uno dei drammi peggiori di questa città, dove le diete detox convivono tranquillamente con cocaina e steroidi ma nessuno pensa di avere bisogno di uno bravo.

Quando poi arriva Carlo, che per due anni non ha fatto altro che ripetermi «secco», gli scoppio a ridere in faccia. Peserà sessanta chili, ma mi dice «stecchino» lo stesso, per un automatismo. Anche se sulla bilancia a gettoni della farmacia proprio stamattina facevo novanta chili. Non avendo mai usato il Diana, il mio corpo non si è modificato di una virgola, e nemmeno i miei organi riproduttivi, di cui ora come ora non saprei che farmene.

Quanto mi mancano gli animali. L’unica cosa che mi manca dell’Abruzzo.

E tutte le sere, prima di addormentarmi, ne abbraccio uno immaginario nel letto.

Un animale a caso, un cane o un puma perché come farò a reggermi con tutti questi farmaci se un animale non mi proteggerà?

Un animale che mi aiuti a restare in equilibrio tra questi due mondi in combutta, e che d’ora in poi battaglieranno ancora di più. Un animale che sia la forma biologica di un dio bipolare come me, destinato a morire come Pan. E come me.

Stanotte, comunque, ho fatto un sogno.

Ero con la piccola Greta in Abruzzo, ad attaccare pomodori in un campo assolato tra centinaia di uccellini canori. Lei indossava l’impermeabile giallo, non capivo come facesse a non sentire caldo, ed era triste. Io mi ero tagliato i capelli a zero e le ho chiesto se per settembre mi sarebbero ricresciuti. «Secondo te mi saranno ricresciuti fino a qua?» le ho chiesto toccandomi un orecchio.

«No, secondo me fino a qua» mi ha rassicurato lei con un sorriso, toccandosi una spalla.

E io mi fido. Non saprei di chi altro fidarmi.

ARTICOLO n. 37 / 2021

TRAGICOMMEDIA

ESTATE A FIRENZE

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate 2021, a Firenze è andata in scena una bislacca tragicommedia attorno alla basilica brunelleschiana di Santo Spirito, e specificamente attorno al suo sagrato. Da anni sagrato e scalinata, tradizionali punti di ritrovo della socialità popolare cittadina, sono al centro di polemiche alzate ora dal priore della basilica, ora da certi «comitati di cittadini» molto ristretti rispetto alle migliaia di cittadini che quotidianamente vivono la piazza, per via degli schiamazzi e di occasionali pisciate, che si potrebbero eliminare d’un colpo installando dei bagni pubblici ma che evidentemente torna più utile strumentalizzare, andate avanti finché il comune non ha deciso di limitare l’accesso al sagrato.

 Lo ha fatto con dei grossi blocchi parallelepipedoidali di cemento, sui quali sono stati installati dei pilastrini – è stata anche l’occasione per la cittadinanza di scoprire che si chiamano «chiodi fiorentini» –, dall’uno all’altro dei quali sono state tese delle gomene; infine il quadro è stato completato con delle fioriere – refugium peccatorum dell’urbanista, per dirla con lo scrittore Filippo Tuena, intervenuto per commentare lo scempio. Il fatto che ciascuno di questi elementi sia stato aggiunto a distanza di un giorno ha conferito alla vicenda, di per sé soltanto triste, visto che si andava a togliere ai fiorentini uno spazio da loro vissuto da cinquecento anni riuscendo al contempo a deturparlo, tratti d’involontaria comicità. Non sono mancate le contestazioni, sia organizzate sia spontanee, ma il Comune ha fatto capire che non intende cambiar direzione e quarantatré ragazzini, colpevoli di aver ribaltato simbolicamente i pilastri, sono stati denunciati con accuse piuttosto pesanti, come se il loro fosse stato un atto di vandalismo e non una legittima protesta.

La prima occasione per alzare la tensione rispetto alla piazza erano stati gli assembramenti della notte del 25 aprile 2021, in seguito alle celebrazioni per la Liberazione che tradizionalmente si svolgono proprio in Santo Spirito. Occasione ghiotta, come tutte quelle in cui si può usare la pandemia come un martello selettivo, ma anche paradossale, visto che il giorno dopo, riaperti i dehor di bar e trattorie, in ognuno di essi vi erano assembramenti di gente priva di mascherina. A prima vista sembrerebbe quindi solo un’altra ordinaria storia di decoro, anche perché Firenze non è nuova a simili operazioni: si pensi agli scalini del Duomo, «cordonati» già dal 2003, o al surreale caso dell’acqua gettata su quelli di Santa Croce nel 2017 –, solo che in genere avvenivano col pretesto dei «bivacchi» dei turisti, presenza mai particolarmente gradita ai fiorentini. Nel caso di Santo Spirito, e del 2021, la questione è tuttavia differente. Lo è perché Santo Spirito è una delle poche piazze ancora frequentate dai residenti, e alla luce di quanto si è visto in un anno di lockdown ci si aspetterebbe che la prima preoccupazione dell’amministrazione fosse quella di riportare i fiorentini in centro, piuttosto che di continuare ad allontanarli.

Con la pandemia, Firenze si è infatti scoperta vuota. Muta, desolata, battuta dal vento: disabitata. L’attesa riapertura dopo il lockdown ha rivelato un centro città deserto. Che i turisti fossero una parte consistente della popolazione, lo sapevamo: solo, non immaginavamo così consistente. Oppure, come in un sogno confortante, a noi sparuti, residui abitanti del centro piaceva immaginare che almeno una parte di quella massa umana che ogni giorno dava alla Firenze che attraversavamo l’apparenza di una vera città, le appartenesse veramente. Non era così, e il risveglio è stato brusco: non solo per le strade e le piazze vuote, ma perché la città si è scoperta pure in bancarotta. Solo qualche mese senza tassa di soggiorno e introiti turistici, e il sindaco ha paventato il default. Musei civici e biblioteche chiuse, eventi annullati (a farne le spese sono stati per primi quelli sorti dal basso, come il festival letterario Firenze RiVista, che costava al Comune circa un quarantesimo del prezzo dei pilastri – pardon, «chiodi fiorentini» – di Santo Spirito) e appelli a ipotetici benefattori che per non si sa per quale motivo, se non un tornaconto a livello d’immagine, avrebbero dovuto prendersi a cuore il destino di una città la cui rete di legami internazionali non si era mai scoperta così superficiale.

Al di là dell’indignazione social per certi tentativi di pezza peggiori del buco, come l’appello a popolare i locali del centro, che suonava un po’ come «studenti, cittadini, venite a sostenere chi vi ha cacciato», ciò che si è rivelato già alla prima uscita dalla quarantena è stato il fallimento di un modello di città orientato solo al turismo (o al massimo, più recentemente, a cercare di favorire il turista ricco rispetto a quello povero). Che il centro perdesse un migliaio di abitanti l’anno, era noto. Che i proprietari di immobili preferissero, per ragioni di comodità e profitto, le locazioni turistiche temporanee agli affitti di lungo termine, pure. Che pezzi di città, come recentemente in Costa San Giorgio, venissero svenduti a chi intendeva farne ulteriori resort turistici, anche. Era però necessario questo svuotamento per capire l’esizialità della situazione. Perché normalmente, a Firenze, in quel centro la cui prima apparenza è un brulicare di vita, c’è solo una teoria infinita di schiacciaterie, bancarelle di souvenir, mercatini di souvenir, trattorie finto-tipiche, a perdita d’occhio e in ogni direzione. Se il turismo di massa è – secondo la definizione di «Lisboa does not love», associazione nata per contrastare l’overtourism nella capitale portoghese – inquinamento umano, la città turistica ineludibilmente diventa junkspace, spazio-spazzatura, secondo la definizione di Koolhaas. Quando il junkspace si svuota dalla sua fauna naturale – i turisti mordi-e-fuggi – ecco svelarsi un deadspace: una necropoli.

L’impatto della rivelazione tanatologica è stato così forte che anche il subconscio dell’amministrazione lo ha registrato. Sui tanti spazi per le affissioni istituzionali, normalmente destinati a mostre ed eventi, e vuoti in assenza di mostre ed eventi, sono apparsi, durante il primo lockdown, dei manifesti arancioni con piccole vedute a matita di una Firenze dall’aria speranzosa (e per lo più immaginaria, vista l’assenza, nei quadretti, di turisti e siti a loro destinati) e la scritta RINASCE FIRENZE. Il sottotitolo era «ripensiamo la città», e poco più in basso c’era un link che rimandava a un pdf che, dopo un inizio un filo sgrammaticato – «Firenze sembra risvegliata dal sonno della pandemia come un bellissimo animale che ha visto il mondo cambiare intorno alla città e ai suoi abitanti» – e un avvilente rimando alla resilienza, proponeva una serie di interventi su vari punti piuttosto generici, come policentrismo, rinnovamento del centro storico, mobilità green, sviluppo economico, cultura diffusa, che nella loro incontestabile condivisibilità parevano soprattutto tradire il percolaggio, anche nel centrosinistra, di una retorica messa a punto in questi anni dalle destre: atteggiarsi come se al governo, in questo caso della città, ci fosse qualcun altro. Le proposte appaiono per lo più plausibili: le si attuino… Detto ciò, un’analisi semantica suggerisce qualcos’altro. Rinasce solo ciò che è morto; si reinventa solo ciò che è si è scoperto sbagliato. In un modo o nell’altro anche a Palazzo Vecchio ci si è accorti che la situazione è questa. Dato che a margine della pagina web non mancava il form in cui il cittadino poteva inviare le sue proposte, così da vivere il brivido illusorio della partecipazione, proviamoci, anche alla luce di quanto accaduto nel frattempo.

Il primo punto è rendersi pienamente conto che una simile situazione non è casuale, ma frutto di scelte che da almeno vent’anni vanno in una sola direzione. Il caso emblematico è quello dello spostamento di tante facoltà in periferia o fuori città, in «poli didattici» il cui nomignolo in alcuni casi dice tutto: quello di Novoli, che ospita oggi le facoltà di Scienze Politiche, Giurisprudenza ed Economia, è noto agli studenti come «Mordor», tutto questo mentre le università americane si affrettavano a prender possesso dei migliori palazzi – poiché sanno bene che vivere il patrimonio artistico di Firenze è parte integrante dell’esperienza di studiarci. Fu forse hybris: lapresunzione di pensare che il centro di Firenze potesse dirsi vivo e vitale anche senza i suoi studenti (e i servizi da essi tenuti in vita). Non era così.

Il secondo è capire che una situazione d’emergenza – letteralmente la morte di una città – richiede misure, ma soprattutto attenzioni, d’emergenza. Quello che a Firenze è mancato in questi anni, e che il piccolo form pare sottolineare in un gesto d’involontaria autoironia, è stata proprio la capacità di ascolto: non tanto di progettare, quanto di capire, almeno, dov’è che la città mostra ancora segni di vita che andrebbero intercettati e valorizzati. Oltre alla già citata kermesse Firenze RiVista, c’è un piccolo caso che ha assunto valenza paradigmatica: quello della Polveriera e del complesso di Sant’Apollonia. Negli stabili di proprietà della Regione Toscana, in cui ha storicamente sede la mensa universitaria, un gruppo di studenti e cittadini ha riqualificato alcune stanze abbandonate, trasformandole in uno spazio che in otto anni ha organizzato un paio di centinaia di eventi culturali, tra cui il partecipato Festival della Letteratura Sociale, ed è diventato sede di una trentina di progetti artistici permanenti. Quando il Consiglio d’Amministrazione dell’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio ha approvato, con il voto contrario delle rappresentanze studentesche, lo sgombero, è seguita una mobilitazione che ha rapidamente superato i confini cittadini, facendosi nazionale, e la Regione ha lanciato un progetto di «percorso partecipato» che ha dato indicazioni di tutt’altro segno, e i cui risultati restano per ora disattesi (più di una volta il chiostro, usato dai cittadini per molte attività, è stato nuovamente chiuso senza motivo). Ciò che più colpisce nella vicenda di Sant’Apollonia è il silenzio dell’amministrazione cittadina. Nonostante ci fosse in ballo il più attivo laboratorio culturale del centro di Firenze, oltre che una decisiva area verde, i suoi rappresentanti non si sono visti agli incontri del «percorso partecipato» né hanno rilasciato dichiarazioni in merito. Facile immaginare che dietro a un atteggiamento del genere ci sia una questione di sovranità: «è della Regione, se la veda la Regione». In una situazione normale sarebbe politicamente comprensibile. La situazione, però, non è normale. Proprio come in un ambiente al collasso vanno preservati gli ecosistemi residui, in una città che vive un’emergenza di queste proporzioni, la tutela, e magari la valorizzazione, degli ambiti in cui i cittadini spontaneamente si ritrovano, vivono, producono cultura, arte e partecipazione, deve diventare prioritaria.

Il terzo punto è la necessità di un cambio di mentalità: un altro fatto – se vogliamo speculare alla vicenda di Sant’Apollonia –, la recente assegnazione di uno stabile in comodato d’uso gratuito a un’organizzazione pro-decoro, una delle cui più recenti imprese è stata la cancellazione di opere d’arte da una facciata privata (e se invece dessimo spazi a chi l’arte la fa?), dimostra che la città è ancora legata a logiche «anti-degrado» funzionali alla gentrificazione – e quindi alla turistificazione e allo svuotamento dei quartieri.

All’apparenza casi individuali, quelli elencati sono in realtà segnali di uno scollegamento: quello tra chi il centro città lo vive, e chi lo amministra. Nonostante quanto è accaduto nell’ultimo anno, non c’è ancora piena coscienza dell’urgenza di un cambio di paradigma. Tant’è che un tal cambio non pare imminente: se nel 2016 l’Unesco inviava un richiamo alla città per il rischio di vendita di parti rilevanti del patrimonio artistico cittadino, oggi la soluzione che rischia di profilarsi all’orizzonte è la svendita di molti immobili di proprietà del Comune. E se invece si riconoscesse il peccato di hybris, e in quegli immobili si provassero a riportare associazioni, aziende e università (e chi le popola, giacché l’unica fauna reale che la città ha saputo attirare negli ultimi decenni, piaccia o meno, resta quella studentesca), ovvero le sole ricchezze di una Firenze che, senza di loro, ha scoperto di essere, più che un «animale bellissimo», solo il guscio vuoto di quell’animale? Alcune operazioni, come il progetto di rilancio del complesso di Santa Maria Novella, con una biblioteca e delle residenze artistiche, vanno in questa direzione, ma gli habitat hanno anche bisogno di una fauna, e tale fauna verrà attirata solo con una totale inversione di rotta, che cominci a valutare come positiva, auspicabile e da sostenere qualunque manifestazione di vita e aggregazione in questo centro svuotato e deserto.

ARTICOLO n. 36 / 2021

D. H. Lawrence: Un canone inesatto

Ricordo molto chiaramente la prima volta che mi sono imbattuto in D. H. Lawrence come scrittore di qualcosa di diverso dalla fiction. A scuola stavamo studiando Amleto, e leggevamo le solite analisi critiche di A. C. Bradley, G. Wilson Knight e quella, un po’ più di moda, di Jan Kott (Shakespeare nostro contemporaneo). Ma il mio professore mi ha indirizzato anche su uno strano scritto di Lawrence intitolato Il Teatro, in Crepuscolo in Italia 1, che riguardava una rappresentazione di Amleto. Volevo ridurre il saggio alla stretta utilità dell’esame ma non sapevo cosa fosse né come doveva essere letto. Ovviamente era su Amleto (una «dichiarazione della più importante posizione filosofica del Rinascimento»)2, ma era anche una sorta di racconto, una reinvenzione di un’esperienza e di un luogo reali. I saggi critici che avevo letto fino a quel momento sembravano tutti degli esempi accurati e compiuti di ciò per cui li stavo leggendo, ovvero i compiti a casa. Eppure, in Teatro non c’era ombra dell’accuratezza forzata dei compiti a casa, e se ciò aveva un certo fascino, sollevava però dubbi sulla legittimità e sul valore dello scritto. Riflettendoci, quello che mi mancava, penso, era la monotonia istituzionalizzata che pervadeva così tanto la critica giunta a definire lo studio dell’Inglese all’università. Era davvero enorme il distacco, in termini di divertimento, tra i romanzi e le poesie e le cose che ci si aspettava di leggere su di loro. Almeno fino a quando, nella settimana dedicata a Thomas Hardy, Lawrence non irruppe di nuovo e improvvisamente non ci fu più alcun distacco. Prima sottolineava, nel suo modo piuttosto semplice, che i personaggi di Hardy «scoppiano inaspettatamente e fanno qualcosa che nessuno farebbe», e dopo faceva dichiarazioni metafisiche sul «grande potere tragico» di Egdon Heath. Ho letto Study of Thomas Hardy per la luce che riversava su Hardy ma anche come espressione rivelatoria del suo autore: tanto specchio quanto finestra. Fino ad allora la non-fiction esisteva o come una disciplina completamente diversa (la Storia, per esempio) oppure come una sorta di scaletta per aiutare a padroneggiare poesie e romanzi. Questi lavori di Lawrence rappresentarono il primo barlume di un rapporto più ambiguo tra critica e fiction, tra le necessarie restrizioni della disciplina accademica e la vita nomade della mente. (Lawrence si è spinto notoriamente oltre, rifiutando l’angusta vita della mente per «un credo nel sangue, nella carne, perché più saggi dell’intelletto»).

La combinazione di commento e scrittura creativa raggiunse la piena espressione – o, in lawrencese, «fu consumata» – in Classici americani che resta una delle imprese più selvagge di mappatura critica mai tentate – non solo dei maggiori rappresentanti di un canone nazionale ma dell’anima di un’intera nazione. Questi primi scritti su Amleto e su Hardy – relativamente precoci nella vita di scrittore di Lawrence e molto precoci nella mia vita di suo lettore – furono rivoluzionari. Quarant’anni dopo resta sempre sorprendente la vicinanza dei saggi di Classici americani con la mia vita adulta. A venticinque anni Philip Larkin era troppo giovane per sapere se fosse valida la sua prematura affermazione per cui «nessuno che sia davvero trasalito per Lawrence potrebbe mai abbandonarlo»; ma si è dimostrata esatta nel mio caso.

Poco prima di scrivere questo saggio ero ospite a casa di un amico a Joshua Tree. Nel tardo pomeriggio abbiamo fatto una passeggiata su una collina nelle vicinanze, sotto il sole cocente, fino a un camper abbandonato dal suo proprietario. Dentro c’erano escrementi di topi e di ratti ovunque, sul pavimento, sul letto e su tutta la cucina. I resti sparsi di ciò che un tempo era stata una vita domestica si mescolavano ai detriti della successiva dipendenza da droghe fino a trasformare i diversi spazi di quella casa in «un’orribile galleria sotterranea dell’animo umano». Immutati per milioni di anni, il paesaggio dorato circostante e il profondo blu del cielo erano incredibili. Su un tavolo da picnic fuori da quella discarica di camper, c’erano le pagine di un’edizione tascabile degli scritti di Edgar Allan Poe. Era impossibile sapere ‘quale orribile storia dell’animo umano nei suoi violenti spasmi’ avesse preso luogo lì ma, per me, il mistero stesso aveva preso forma nei pensieri di Lawrence su Poe. Due settimane prima, nel Colorado, avevo visto il film western Hostiles – Ostili, che riprende la sua epigrafe dal saggio di Lawrence su Fenimore Cooper: «Il vero animo americano è duro, isolato, stoico e omicida». Entrambe le esperienze – una volutamente, per mano del regista Scott Cooper, l’altra per caso – erano state plasmate da ciò che Lawrence aveva scritto.3

C’era un tempo in cui ciò non era affatto insolito. Nel 1945 Larkin con entusiasmo diceva a un amico che Lawrence era «il più grande scrittore del secolo, e per molti aspetti il più grande scrittore di tutti i tempi». Nato cinque anni dopo Larkin, il narratore di Il Mago (1965), scritto da John Fowles alza ancora l’asticella e lascia la scuola considerando Lawrence «il più grande essere umano del secolo». E non erano soltanto ragazzi. Visitando il ranch e il santuario di Lawrence a Taos, nel 1939, W. H. Auden notò come «auto di donne in pellegrinaggio arrivavano ogni giorno per starsene lì in ossequio e immaginare come sarebbe stato andare a letto con lui».

La risposta, secondo Kate Millett in La politica del sesso (1970), era probabilmente spiacevole e sicuramente deludente. La sua analisi devastante e arguta mise a nudo le sciocchezze stucchevoli e il «fasto liturgico» proprio di ciò che rese Lawrence famoso, ossia scrivere di sesso. Aggiungiamo la sua deplorevole – sebbene temporanea infatuazione per un culto protofascista del «leader con seguito» ed è facile capire perché la reputazione di Lawrence abbia avuto un declino più o meno stabile dagli anni Settanta. Per un periodo che è durato tanto quanto la sua breve vita, Lawrence è riuscito a restare pervicacemente fuori da qualsiasi fascinazione critica del momento – ma questo non significa che non abbia avuto i suoi devoti.  Da qui la frustrata passione di Tony Hoagland, nella sua poesia Lawrence, in cui ricorda come

In due occasioni negli ultimi dodici mesi

non sono riuscito, quando qualcuno a un party

ha parlato di lui con sdegnoso disprezzo,

a difendere D. H. Lawrence.

Qualsiasi tentativo di difendere quest’«uomo che bruciò una torcia ad acetilene / da una parte all’altra della sua vita» dovrebbe cominciare dall’ammettere non solo la bassa qualità di romanzi come La verga di Aronne o Il serpente piumato ma anche che alcune dell’opere canonizzate sono, nelle incomprese parole di George Orwell, «difficili da finire». Come romanziere, potremmo dire che Lawrence ha raggiunto l’apice precocemente, con Figli e amanti. Il suo ex-amico amico John Middleton Murry si spinse più lontano sostenendo in una recensione di Donne innamorate che Lawrence fosse uno di quei romanzieri che «sembrano aver superato il proprio apice ben prima di averlo raggiunto». Da lì in poi, come ha detto Raymond Williams con commozione, «ciò che ha perduto lungo la strada – ciò che penso lui sapesse aver perso e tentò di recuperare – potrebbe in effetti essere tanto importante quanto ciò che indubbiamente guadagnò». Un modo per ribilanciare i conti è quello di estendere l’area di interesse critico oltre i canali fittizi della «grande tradizione» di F. R. Leavis per includere forme di scrittura che sono considerate secondarie e minori. Se Lawrence oggi rimane un grande scrittore, ciò è dovuto in gran parte alla freschezza duratura e alla forza che si trova nei suoi libri di viaggio, nelle poesie che erano a malapena poesie, e nei suoi saggi sparsi. Per Lawrence il romanzo, «l’unico luminoso libro della vita», era la sfida suprema; ciò su cui aveva giocato la propria vita. Ma molti dei suoi doni spiccavano meglio altrove. Sotto questo aspetto, nella sua incapacità di confinare se stesso nell’arena a cui più teneva, appare come uno scrittore chiaramente contemporaneo: Lawrence visto come canone inesatto, per così dire.

Un curatore di una selezione di saggi di Lawrence, Richard Aldington, aveva deciso che «Saggi» fosse una «parola piuttosto povera per questi scritti così brillantemente vari».

In realtà, Aldington forse sottostima la questione, perché brillantezza e varietà spesso coesistono all’interno di un singolo saggio. (Dean Young, nel suo poema Shield of Moon Dust, restringe ancora di più il campo e rappresenta Lawrence come qualcuno capace di scrivere orribilmente e magnificamente nella stessa frase). Saggi sugli scrittori sono anche saggi sui luoghi; saggi sui luoghi sono anche pezzi di autobiografia e così via. Rebecca West, nella sua Elegy, composta dopo la morte di Lawrence, ricorda il loro incontro in Italia dove lui stava «battendo a macchina un articolo sulla condizione di Firenze». Più tardi lei si accorse che in realtà stava «scrivendo sulla condizione della propria anima in quel momento», usando la città come simbolo di comodo. Persuasiva e in parte vera, l’analisi di West rischia di sminuire l’inquietante capacità di Lawrence di rendere ciò che Mabel Dodge Sterne ha chiamato «l’atmosfera, il contatto e l’odore dei luoghi» – che è la ragione per cui lei lo invitò in New Mexico nel 1921. Durante il viaggio tortuoso che dalla Sicilia doveva condurlo lì e poi in Australia nel maggio successivo, lui sembrò intuire immediatamente un altro mondo, una sorta di tempo del sogno: «una ‘quarta dimensione’ e i bianchi vi nuotano come ombre sulla superficie». Sebbene menzioni solo di sfuggita la politica, la sua Lettera dalla Germania registra qualcosa – qualcosa «che non è ancora accaduto» – soffiare tra gli alberi della Foresta Nera nel 1924: «Dalla stessa aria arriva un senso di pericolo, uno strano sentimento che sussurra un inquietante pericolo». Sensazioni guizzano e accendono idee, esposte come fossero dati di qualche strumento calibrato su una frequenza di percezione così estrema da essere anormale o addirittura patologica. Il divario tra l’oggetto apparente della ricerca e la direzione presa dall’investigazione spesso è vasto, le conclusioni di solito drastiche. Ogni cosa ha la possibilità di diventare qualcos’altro. Le parti migliori di Art and Morality non riguardano l’arte o la morale ma – attraverso una incredibile divagazione intellettuale sulle vite degli antichi Egizi – descrivono come la moda ‘Kodak’ di fotografare se stessi in continuazione abbia fondamentalmente cambiato la percezione di noi stessi: una profetica diagnosi del malessere distintivo dell’era dell’iPhone. In una nota editoriale a Introduction to Pictures (da non confondere con Introduction to these paintings) lo studioso James T. Boulton giustamente puntualizza che il saggio «non prende in esame nemmeno una volta le immagini». Questa tendenza a deviare dalle intenzioni annunciate fu espressa nel modo migliore da Lawrence stesso il 5 settembre 1914. «Per pura rabbia ho iniziato il mio libro su Thomas Hardy. Tratterà di tutto tranne che di Thomas Hardy, temo, roba strana – niente male».

Pensato come parte di una serie chiamata Writers of the Day, il manoscritto, che si era molto allontanato da qualsiasi modello, non fu accettato per la pubblicazione. Lawrence, da parte sua, voleva distanziarsi ancora di più dall’obiettivo originale e cominciò a rimodellare qualcosa che era stato «perlopiù filosofeggiante, vagamente collegato ad Hardy» in favore di una più esplicita dichiarazione della sua «filosofia (perdonate la parola)». Il risultato, molto rivisto, fu La Corona ma anche alcuni dei «bozzetti» da cui ebbe origine Crepuscolo in Italia furono ridefiniti per veicolare questo carico filosofico maggiore. Versioni dello stesso tema sorgono in forme disparate e sovrapposte, alcune incomplete o inedite. Quelli che cominciano come «saggi» o «bozzetti isolati» si trasformano in capitoli all’interno di un libro.

Lawrence aveva indubbiamente una propria filosofia, che era sempre entusiasta di condividere con il mondo (per usare un eufemismo), anche se con questa non aveva alcuna dimestichezza.

Amo il modo in cui criticò Bertrand Russell per essere incapace di «accettare nella sua filosofia l’Infinito, lo Sconfinato, l’Eterno, come vero punto di partenza», ma nonostante i propositi di «impartire delle lezioni sull’Eternità» Lawrence dava sempre il meglio quando si occupava del finito e del particolare. Per quanto risultino poco stuzzicanti per i lettori contemporanei, le sue Reflections, mantengono il loro fascino per il modo in cui sono radicate non solo nella «morte di un porcospino», ma nell’agonia del cane con le spine di porcospino nel naso con cui comincia lo scritto. Lawrence si faceva spesso trasportare da discorsi riguardo a un metaforico «fiume di dissoluzione» ma notava, con sorprendente chiarezza di visione, tutta la flora e la fauna della riva letterale. Ritraendosi istintivamente davanti all’Ulisse di Joyce («Ma che sforzo! Che prova!»), Lawrence spesso dava il meglio quando andava a braccio, anche se ciò garantì a sua volta la bassa opinione di Joyce: «Quell’uomo scrive davvero, davvero male». A questo proposito, nonostante abbia riscritto più volte i romanzi più famosi, l’uomo che snobbò Joyce per essere «completamente privo di spontaneità», è come un proto-Kerouac. Poteva predicare senza sosta sull’uomo, la donna e la necessità per loro di essere, come insiste Birkin in Donne innamorate, «due stelle ben distinte, eguali e in perfetto equilibrio, in congiunzione…» (Bur 2009, trad. Adriana Dell’Orto), ma la cosa migliore che abbia scritto su una moglie o una compagna di vita si trova in un verso trascurato nella poesia For a Moment nella quale, mentre si siede e aspetta sulla terrazza di un hotel, lui vede «la donna che cerca me nel mondo». Nessuno ha mai espresso con più chiarezza di quella donna, Frieda 4, ciò che continua ad attrarre i lettori che sarebbero altrimenti stanchi dei lombi delle tenebre di Lawrence, delle fiamme dure come gemme, eccetera: «Per me il suo rapporto, il suo legame con ogni parte della creazione era incredibile, non c’era idea preconcetta, soltanto un incontro tra lui e la creatura, un albero, una nuvola, qualsiasi cosa. Io lo chiamavo amore, ma era qualcosa di diverso – Bejahung in tedesco, il dire sì». 

In effetti, ci sono momenti come questo in tutto ciò che ha scritto, a prescindere dal genere: dalla descrizione dei cipressi in Crepuscolo («Come abbiamo candele per illuminare l’oscurità della notte, così i cipressi sono candele che tengono l’oscurità accesa nel pieno splendore del sole») al canguro con le sue «cadenti spalle vittoriane» nell’eponimo poema, fino a numerose scene e passaggi in ogni suo romanzo. Non puoi mai sapere, con Lawrence, quando o come si manifesterà il prossimo lampo di genio. L’ossessione di calpestare i soliti imperativi dell’autocontrollo editoriale è un piccolo prezzo da pagare per il flusso senza ostacoli di improvvisazioni che otteniamo quando racconta di un sabato pomeriggio passato a Malta in compagnia di Maurice Magnus, in cui esplora «questa isola terribile», «questa sconcertante isola bruciata, essiccata dal sole», «questa isola orribile e smunta», «questa isola bestiale». In passaggi come questo la scrittura di Lawrence galleggia libera dal periodo di composizione, dalle prerogative dell’epoca condivise con angoscia, in una maniera che raramente si trova nei modernisti a lui contemporanei.

L’inizio di Whistling of birds sembra un passaggio da The Peregrine di J. A. Baker: «Il gelo rimase per molte settimane, al punto che gli uccelli cominciavano a morire rapidamente. Ovunque nei campi e sotto le siepi stavano i resti raggrinziti di pavoncelli, storni, passeri, tordi, sperduti mantelli di insanguinati uccelli raggrinziti…» Piuttosto che enumerare potenziali paragoni attraverso il tempo, può bastare questo solo esempio. L’inchiostro sulla prima pagina di Taos pare abbia a malapena avuto il tempo di asciugarsi nei 95 anni da quando Lawrence l’ha scritta.

Molti dei saggi successivi furono realizzati per denaro, quando Lawrence era a corto di energia e voglia di concentrarsi su un duraturo lavoro creativo. «Io penso sia forse uno spreco scrivere ancora romanzi», scrisse a Nancy Pearn dell’ufficio del suo agente letterario Curtis Brown. «Potrei probabilmente vivere di piccoli lavori, per esempio sulle riviste.» La paziente Ms Pearn si dimostrò altrettanto capace nel trovare destinazioni adatte per questi pezzi e di assicurare offerte per scrivere ulteriori «piccoli articoli per i giornali» che lui considerava «il modo di gran lunga migliore per fare soldi».

A dispetto di come abbiano avuto origine queste cose, o delle ragioni di Lawrence nel comporle, l’atto di scrivere invariabilmente restituisce qualcosa – e questa è la parola che usa Hoagland per concludere la sua tardiva difesa – di magnifico. Da nessuna parte ciò è più evidente che nell’introduzione che ha offerto a Memorie della Legione Stranieradi Magnus. Incentrata per lo più sul denaro, fu scritta per estinguere i debiti di Magnus e riguadagnare dei soldi che Lawrence stesso aveva perso, ma la grande estensione del pezzo in effetti ripulisce – o cancella – la ragione di partenza. Più in generale, quando Lawrence buttava giù questi ‘piccoli lavori’ stava in qualche modo giocando a suo vantaggio, alleggerendosi, perché si esprimeva liberamente, anche senza il peso psichico dell’ambizione che aggrava invece L’arcobaleno o Donne innamorate.

In una lettera che riguardava la collocazione di manoscritti dispersi la sua amica Dorothy Brett ha notato intelligentemente che «quando un uomo trascurato come Lawrence diventa accurato – e non dimostra alcuna traccia della sua trascuratezza – è propenso a perdere le staffe». La serena attitudine che lo animava nella scrittura dei saggi aveva dei vantaggi inaspettati. Lungo tutta la sua carriera Lawrence ha gettato bottiglie con dentro messaggi che disdegnavano con forza ciò di cui professava non curarsi in un determinato momento. In uno degli ultimi pezzi che ha scritto, un’introduzione su The Dragon of the Apocalypse di Frederick Carter – un altro esempio di un pezzo che è cresciuto oltre il suo obiettivo iniziale, visto che Lawrence finì per scrivere la sua propria Apocalisse – egli ha esposto alcune delle ragioni e dei modi in cui continuiamo a occuparci di lui. «Non m’importa cosa un uomo tenta di dimostrare, fintanto che riesce ad interessarmi e trasportarmi. Non m’interessa per niente se lui [Carter] raggiunge il suo scopo o meno, fintantoché è riuscito comunque a offrirmi una vera esperienza immaginativa, e non un altro cumulo di idee gonfiate.» E quindi va ad anticipare le nostre potenziali obiezioni: «Che importa se è confuso? Che importa se è ripetitivo? Che importa se in alcune parti non è molto interessante, quando in altre lo è così intensamente, quando d’improvviso apre le porte e lascia entrare lo spirito dentro un mondo nuovo, anche se è un mondo davvero vecchio!».

Pagina dopo pagina i saggi di Lawrence lo rivelano come uno scrittore in eterno rinnovamento: il nostro perpetuo contemporaneo.

© 2019, Geoff Dyer

La traduzione è a cura di Marco Marino

ARTICOLO n. 35 / 2021

Per un mondo parallelo pieno di speranza

INTERVISTA DI MARCO MARINO

M.M. Sara, nel tuo nuovo podcast, Prima, hai voluto ricostruire la storia di Maria Silvia Spolato, la prima donna che ha fatto coming out pubblico in Italia. È molto bella la descrizione che ne fai nella sigla: «è la storia di come stavano le cose prima e di come, grazie al coraggio di Maria Silvia e di persone che come lei hanno lottato, sono diventate più semplici. Anche per me». Quando senti per la prima volta quell’«anche per me» ti spiazza, perché ti dà subito modo di capire che chi sta raccontando la storia non è una semplice narratrice.

S.P. L’aderenza con la storia che si racconta è molto importante. Soprattutto se utilizzi uno strumento come il podcast. È possibile raccontare storie lontane da te, ma il racconto per voce, per sua stessa natura, deve possedere un’autenticità che solo con pochissimi altri mezzi riesci a replicare. C’è la voce in primo piano, che instaura una relazione molto intima fra te che parli e chi ti ascolta. Che in quel momento spesso vive un’esperienza solitaria. I podcast di solito si sentono da soli, in cuffia. Desideravo mettere in chiaro da subito, in un punto importante come la sigla, che ricorre in ogni episodio, quell’«anche per me», perché si capisse che c’era un motivo profondo e personale per cui stavo raccontando quella storia. Non ero una semplice osservatrice, ma una persona che ha potuto avere un certo tipo di vita anche grazie a quella storia che stavo raccontando. A tutto ciò che era avvenuto prima. Non so quanta consapevolezza ci sia stata nel farlo, ma c’è stata sicuramente una necessità nella scrittura. Sottolineare quell’aderenza.

M.M. Si intrecciano, nel podcast, la storia di Maria Silvia Spolato e la tua. Ne esce fuori un racconto di due vite parallele che vivono e affrontano, a distanza di molti anni, comuni esperienze – la paura di essere sbagliate; le letture e la coscienza di non essere sole; il coming out e il coraggio di dirsi. Potresti raccontarci la prossimità e la distanza fra la tua storia e quella di Maria Silvia?

S.P. Me ne sono resa conto mentre ci lavoravo, di questo forte intreccio che si è venuto a creare, quando ero quasi arrivata alla fine. Sai, la mia è una generazione di mezzo, e per questo penso di aver avuto un punto di osservazione privilegiato. Ci sono degli elementi di enorme distanza, storica e sociale, rispetto a quella che poteva essere stata l’esperienza di Maria Silvia Spolato, nata nel ’35, e delle altre donne che racconto nella serie. Però, allo stesso tempo, la mia esperienza, confrontata con quella di un ventenne di oggi che si scopre gay, o non-binary, o trans, è altrettanto diversa. Probabilmente quello che legava la me ventenne alla Maria Silvia Spolato ventenne era la totale assenza di rappresentazione. Anzi, se pensiamo alla generazione di Maria Silvia, l’unica rappresentazione che veniva data dell’omosessualità era qualcosa di terribile, lo racconta bene Stefano Bolognini, il giornalista che intervisto nella seconda puntata: l’omosessualità era legata esclusivamente ai fatti di cronaca; gli omosessuali venivano descritti come malati, persone da curare. E al di fuori di questa narrazione aberrante, per le donne omosessuali dell’epoca non c’era alcun tipo di rappresentazione; e io che ho avuto vent’anni negli Ottanta posso dire che nemmeno noi disponevamo di alcun tipo di rappresentazione. Infatti, mi ha reso molto felice, ma non mi ha sorpreso, che io e la poetessa Edda Billi, che ha novant’anni e intervisto nella prima puntata, avessimo in comune lo stesso libro letto da ragazzine che ci ha fatto pensare «ah, allora non sono l’unica donna omosessuale sul pianeta terra!». Era Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall. Forse chi adesso ha vent’anni questo problema non ce l’ha, fortunatamente basta guardare una serie su Netflix. Adesso i problemi sono altri.

M.M. C’è un’altra trama sotterranea di Prima che mi piace pensare ti leghi a Maria Silvia. Mi riferisco al tuo podcast precedente, Carla, in cui presti la voce alle pagine del diario di tua nonna, una ragazza del Novecento recita il sottotitolo. Anche Maria Silvia era una ragazza del Novecento, ed entrambe hanno vissuto il secondo dopoguerra cercando di affermare – certo, in modi diversi – la propria indipendenza. Trovo nella sigla di Carla un altro passaggio incredibilmente significativo, nelle tue parole nonna Carla «non ha mai smesso di guardare al futuro piena di un’incrollabile speranza». Secondo te, pure Maria Silvia era animata da quell’incrollabile speranza?

S.P. Per Maria Silvia non ci avevo mai pensato. Però, certo, lei era figlia dello spirito del tempo degli anni Settanta. Parlando e conoscendo le sue compagnie di lotta, tutte mi raccontano di un sentiero che abbracciavi, e percorrerlo da donna significava avere un coraggio straordinario, era come se entrassi in un universo parallelo in cui tutto era pieno di speranza: perché le cose succedevano, le cose cambiavano, lo spirito di comunità era fortissimo. È questo lo sguardo che mi hanno restituito le compagne di Maria Silvia. Che a quel tempo sarà stato sicuramente anche il suo.

M.M. Un’altra domanda che desidero farti: per rintracciare quell’incrollabile speranza, in un tempo come il nostro che sembra non possederne, di speranze, è necessario guardare al passato?

S.P. Personalmente sì, per me, guardare dietro a quei momenti storici, mi aiuta a trovare la speranza nel presente, nel futuro, nella possibilità che le cose cambino: se il nostro passato è stato popolato da personalità eccezionali come Maria Silvia, non c’è dubbio che avremo figure come lei anche oggi e domani. Credo che questo continuo sguardo all’indietro abbia anche una funzione salvifica sul presente. Non è tanto uno sguardo nostalgico ma qualcosa che ricarica l’ottimismo. Parlo per me, attenzione, non so se è così per tutti. Io penso di essere una persona tendenzialmente ottimista, e queste storie mi aiutano, mi hanno aiutato.

M.M. Adesso che hai terminato il podcast chi è per te Maria Silvia Spolato? Come continua a seguirti?

S.P. Sono partita da una figura bidimensionale, una fotografia che avevo visto on-line, che la ritraeva mentre teneva stretto un cartellone, e da una pagina Wikipedia piena zeppa di notizie sbagliate. Ma proseguendo le ricerche, Maria Silvia mi si è mostrata come persona estremamente complessa. Ineffabile, in qualche modo. Infatti, sono rimaste insolute tantissime domande che hanno a che vedere proprio con quella sua complessità. Quello che riesco a dirti è che, ricomponendo pazientemente i tasselli della sua storia, mi sono accorta che Maria Silvia non era solo una foto o una pagina Wikipedia. E non era nemmeno soltanto un simbolo, la prima donna scesa in piazza a dichiarare la propria omosessualità. Era molto, molto di più.

M.M. Abbiamo discusso dell’istanze di cambiamento che hanno mosso Maria Silvia e le sue compagne di lotta a scendere in piazza negli anni Settanta. Una militanza necessaria, che ha costruito la società più aperta in cui viviamo oggi. Però, troppo spesso, quando si tratta di proposte necessarie come il ddl Zan, il nostro Paese sembra essere un muro di gomma: una società aperta, sì, ma solo moderatamente. Perché?

S.P. Perché purtroppo l’Italia è un Paese ancora estremamente provinciale, e deve fare tantissimi passi avanti. Probabilmente, se torno alla mia esperienza, quello che mi porto dietro come retaggio della mia generazione è un senso di relativismo. Di accettazione, forse troppo estrema, di cose che dovrebbero essere diverse. Io dico che mi sono sposata, ma in realtà io mi sono potuta unire civilmente, con tutta una serie di differenze rispetto al matrimonio. Però dico: «ah, cavoli, almeno l’ho potuto fare!». Oppure: «Mai avrei pensato di poterlo fare». Invece, se poi mi fermo a pensare davvero, capisco che no, io dovevo avere il diritto di farlo prima e in altri termini. Eppure, c’è una parte di me che si accontenta dei microcambiamenti che ci sono stati o che ci saranno. Sul fatto che l’Italia sia così restia a certe cose di buon senso, lo imputo al fatto che siamo un Paese che subisce fortemente un’influenza cattolica. E spero davvero che le cose cambino.

ARTICOLO n. 34 / 2021

Esiste un modo italiano di raccontare le storie?

«Questo discorso è proprio da norvegesi!» esclamò il mio compagno, quasi infastidito, una sera che guardavamo una puntata di una serie norvegese su Netflix.

L’episodio che ha provocato la reazione di Luigi era una discussione di coppia fra due protagonisti: lei lasciava lui con la spiegazione, ovvero, con le parole «non ce la faccio più». Lui, l’uomo, che stava per essere lasciato da moglie e figlia, né protestava né si difendeva. Lei se ne è andata e la scena è finita lì.

Io, da norvegese, non reagii particolarmente alla brevissima e poco emotiva conversazione che al mio compagno sembrava quasi surreale e, anche se provocato da una serie tv piuttosto banale, l’accaduto mi fece riflettere sulle differenze culturali nel nostro modo di raccontare storie – in un mondo non solo globalizzato da tempo, ma ormai unito anche da Netflix.

Ci sono differenze culturali identificabili e riconoscibili che ci permettono di distinguere fra uno stile italiano e uno stile norvegese o nordico, o uno stile giapponese e così via? È visibile anche nella letteratura contemporanea?

Un salto al jazz

Un amico mio, Luca Vitali, un grande conoscitore di jazz norvegese, una volta che lo intervistai, mi spiegò che un musicista norvegese, prima di iniziare a suonare, ascolta. Solo dopo aver ascoltato, cerca di prendere il suo posto in quella musica e farne parte.

«Il jazz norvegese è musica con più spazio» diceva Vitali, poi mi avvertì: «Un compositore norvegese non si mette seduto accanto al fiordo e compone. Lo spazio riflette un modo di essere che esiste in lui già prima di diventare compositore, che è indipendente dal fatto che compone musica».

Secondo Luca Vitali, le caratteristiche della musica norvegese derivano in parte dal fatto che un norvegese d’istinto cerca silenzio e solitudine, mentre un italiano per esempio cerca la compagnia e il caos.

Vitali illustrava tutto questo paragonando il modo di parlare dei norvegesi con quello degli italiani. «Se ti siedi a un tavolo pieno di italiani», diceva, «il tuo posto nella conversazione lo devi quasi conquistare, interrompendo, parlando più alto, più convincente, più interessante», sottolineava Vitali.

Infatti, tante volte io mi sono trovata in difficoltà in questi discussioni vivaci, silenziata dalle chiacchiere degli altri che non mi lasciavano nessuno spazio, tanto che più di una volta sono passata per una persona di poche parole, mentre in realtà era solo che non capivo come fare.

Non capivo perché non ero abituata. In un gruppo di norvegesi invece, come ricordava anche Vitali, uno aspetta il suo turno, si interrompe poco o niente, si ascolta e poi si prende la parola. Se ci sono attimi di silenzio, non fa niente.

Ma queste differenze musicali sono riconoscibili anche nella letteratura?

Lo stile nordico

Un po’ di tempo fa ho intervistato Cristina Gerosa, direttrice editoriale della casa editrice Iperborea, che pubblica esclusivamente letteratura nordica. Ho chiesto a Gerosa quali sono le caratteristiche della cosiddetta letteratura nordica, rispetto a quella europea continentale.

«L’uso dell’ironia, una certa tendenza avanguardista nella scelta di argomenti da trattare, e il ruolo della natura», fu, in poche parole, la risposta (quella di Gerosa era molto più elaborata). Seguendo lo stesso ragionamento, è possibile identificare tratti comuni anche della letteratura italiana?

Quella italiana potrebbe allora essere una letteratura vivace, piena di parole, quasi vistosa, lirica, concentrata più che altro sugli incontri umani, sullo stare insieme, un riflesso, insomma, del modo d’essere degli italiani. È così?

La mia risposta, francamente, è no.

È da qualche anno che recensisco libri per Internazionale, il settimanale. Tutti i libri che recensisco sono di autori italiani, quasi tutti sono romanzi.

Sebbene la scelta di argomenti (la sceneggiatura?) dipenda spesso dalla terra che ha nutrito lo scrittore, non credo ci siano degli elementi comuni abbastanza dominanti per poter identificare uno «stile narrativo italiano».

Ascetismo narrativo

Prendiamo Lorenzo Alunni, un giovane scrittore italiano, che si muove in un territorio decisamente (e più esplicitamente) italiano nel suo Nel nome del diavolo. Il viaggio da Lampedusa in su attraversa un’Italia mitica, misteriosa, occulta, quasi una sfida culturale e popolare all’Italia ufficiale.

Come letteratura, però, il romanzo di Alunni riporta molto più alle tradizioni sudamericane, al famosissimo realismo magico degli scrittori del nuovo continente, da Marquez ad Allende, piuttosto che a uno stile letterario italiano vero e proprio.

Un libro, non uno stile, italiano

Tutto diverso, invece, per Niccolò Ammaniti. La sua fantasia immisurabile sì che ha qualcosa di infinitamente italiano. A chi verrebbe in mente di inventarsi una banda di sardi vestiti di arancione che vanno in giro in India, o figli giganti di atleti russi scappati dagli Olimpiadi del ’60 che vivono sotto Villa Ada, se non a un italiano, come lui ha fatto in Branchie o in Che la festa cominici?

Uno si potrebbe immaginare un gruppo di scrittori italiani che, ispirati da Ammaniti, spingono le loro rispettive fantasie, già ben sviluppati semplicemente perché sono cresciuti qui, a nuovi limiti come esercizio di gruppo, una sorta di una nuova avanguardia letteraria.

Se esistesse un gruppo così in grado di produrre libri al livello di quelli di Ammaniti, ne sarei, e sicuramente non solo io, incantata. Purtroppo, almeno che io sappia, non ci sono, e lo stile di Ammaniti rimane un marchio suo personale.

In Norvegia si fa pure il noise

«Musicisti norvegesi fanno anche musica noise (musica rock ispirata dal rumorismo dei futuristi, ndr)», diceva Luca Vitali, mentre parlava del jazz norvegese, come per sottolineare che il legame fra uomo e natura non si traduce sempre in musica contemplativa e spaziosa, e che anche se i norvegesi tendono al silenzio, non è un valore assoluto nel paesaggio musicale norvegese.

Ho pensato molto alle sue parole mentre leggevo Ultimo parallelo di Filippo Tuena.

C’è poco del solito caos romano nel capolavoro del romano Tuena. La storia della fatale spedizione dell’inglese Scott nell’Antartide, in cui Scott e i suoi uomini non solo persero la gara per arrivare primi al polo, sconfitti da una spedizione norvegese, ma persero anche la vita.

Tuena racconta la loro storia, ma il vero protagonista del libro non sono gli esploratori, è la vasta, durissima imperdonabile natura dell’Antartide:  

«[e] se questo labirinto di ghiaccio fosse la meta ti dici mentre la mia immagine riflessa come in uno specchio appare dietro la crosta lucida e azzurra e se questa fosse la via, il sentiero che conduce al regno di sotto».

E di seguito:

«mangiasse fiori di loto che fanno dimenticare la nostalgia di casa e la via del ritorno tutto sarebbe più facile ma perché rendere le cose più facili che senso ha renderle più facili quando sono impossibili».

Branding

Il libro di Tuena, infatti, rientra quasi perfettamente nello stile nordico proposto da Iperborea e altri, il che fa inevitabilmente riflettere.

Anche se ho tantissimo rispetto per Iperborea come casa editrice, credo nello stesso tempo che nutra un’immagine del nord più che altro costruita. 

Lo stile nordico, in realtà, è diventato un marchio che gli stessi nordici cercano di rafforzare tramite migliaia di iniziative culturali, letterarie e non, promosse dalle varie ambasciate in tutto il mondo. È poco altro che un marchio, e i loro tentativi di rafforzare questo stile costruito sono poco altro che una semplice strategia di marketing. 

Pertanto non ci sono, nella scelta degli autori di Iperborea e di altri editori come loro, tantissimi scrittori nordici che, anche se molto seguiti nel paese d’origine, non seguono questo stile lucidato del brand nordico.

Ma sembra una limitazione, non un punto di forza.

Una patria letteraria

C’è un altro scrittore che, pure lui, spesso sembra avere più in comune con un silenzioso e pensieroso nordico che con un vivace italiano. Penso a Claudio Magris, che ha uno stile quasi meditativo, sia quando racconta una favola basata sulla vita di un gabbiano, sia quando insegue le storie vere dei mitteleuropei immigrati in Argentina.

Più che nordico, però, lo stile di Magris mi sembra figlio del mondo universitario-letterario dello scrittore. Magris utilizza una saggezza e una cultura che piazza pienamente in una tradizione non tanto italiana, che intellettuale e globale.

«la patria di un uomo – il luogo in cui ci si sente a casa nella vita e i cui colori, paesaggi, venti sono la familiare musica dell’esistenza – è la terra in cui vivono i suoi figli o quella in cui sono sepolti i suoi genitori?» chiede Magris in Croce del Sud.

La sua domanda mi sembra valida anche nella letteratura: sono le nostre origini o le nostre storie di vita che condizionano la nostra scrittura?

Un discorso continuo

Forse può rispondere Nicola Lagioia.

La città dei vivi è un pugno nello stomaco, racconta fatti reali così crudeli e surreali che uno stenta a crederci. Nel farlo, però, Lagioia riesce a raccontare una città, Roma, com’è oggi e come probabilmente è sempre stata – il motivo per cui è realmente la città eterna. Roma non può morire perché c’è troppa vita incontrollabile, non regolare, per il bene ma anche per il molto male.

Il libro di Lagioia l’ho letto più come un inno a Roma che come il racconto di un accaduto terribile.

Lagioia non è romano, è pugliese, ma ogni tanto ci vuole qualcuno di esterno per tirare fuori certe verità di un luogo. Qualcuno che abbia abbastanza conoscenza di un posto per poterlo decifrare, ma con sufficiente distanza da poter vedere le cose come sono realmente.

Allora la nostra casa letteraria si costruisce con un continuo movimento mentale fra le nostre origini e le nostre destinazioni, reali e/o immaginarie.

La costruzione di un mito

In una riflessione pubblicata su Financial Times, il giornalista Janan Ganesh parla dello «myth-making», la costruzione dei miti, che accompagna le nostre nazioni. «Senza questi miti», scrive, «semplicemente non credo che la nazione esiste». 

Ganesh non parlava della letteratura, parlava del nazionalismo in generale, ma sono due cose parallele. Uno stile letterario nazionale necessiterebbe di un concertato «myth-making» letterario, come è accaduto con lo stile nordico.  

Detto in un altro modo: uno stile letterario italiano potrebbe sicuramente esistere però bisognerebbe crearlo. Ma vale veramente la pena, considerando tutti quei libri e quegli autori che non sono conformi a quello stile e che, di conseguenza, rimarrebbero esclusi?  

ARTICOLO n. 33 / 2021

Io me ne frego dell’empatia

RITRATTO DI RICHARD YATES

Rientro in quella categoria di maniaci che quando gli piace uno scrittore ne divorano l’opera completa. Di Richard Yates ho letto tutto l’esistente, fosse stato possibile avrei sbirciato volentieri anche la sua lista della spesa, certa di trovarvi annotazioni interessanti (anche se in parte posso immaginarmela, la spesa di Yates, composta prevalentemente di spirits, alcolici…). Dovendo formulare le ragioni del mio indiscusso amore per lo scrittore americano, comincerei proprio dal termine spirito, inteso come essenza, anima, se vogliamo. Quella caratteristica che ci fa riconoscere all’istante lo stile di un autore.

Lo spirito di Yates, inconfondibile, pervade una per una le migliaia di pagine che ha scritto, tanto che non ci sarebbe bisogno di una copertina a rivelarne l’identità. Per farsene un’idea, basta pescare a caso uno dei formidabili dialoghi in cui sono incessantemente impegnati i suoi personaggi (tanto che non si capisce come mai non sia diventato un grande sceneggiatore, ma questo è uno dei tanti quesiti che lo riguardano). Gli si potrebbe rimproverare di aver raccontato, in fondo, sempre la stessa storia. La struttura dei suoi romanzi si ripropone quasi identica, i personaggi sono quasi intercambiabili, idem gli ambienti e i luoghi, eppure è in questa ripetitività che si nasconde la sua forza: nulla si esaurisce davvero e la stessa vicenda può essere raccontata e sviscerata all’infinito. È artista colui che ripete senza replicare, e così facendo approfondisce: un metodo che si ritrova di frequente, ad esempio, nella pittura.

I protagonisti di Yates (ma anche gli antagonisti, o le semplici comparse) sono tutti condannati dallo stesso inesorabile destino: si illudono di non essere quello che sono e ciecamente vanno incontro alla sconfitta. Perdenti che si affannano per andare avanti restando in realtà fermi, e verso i quali lo stesso autore non prova nessuna compassione. Una lotta per la sopravvivenza che non possiede la nobiltà del soldato in trincea, del povero diseredato o del naufrago. Sono uomini qualunque: pavidi, bugiardi, invidiosi. Pessimi genitori, coniugi fedifraghi, compagni di scuola bastardi. Gente con cui non vorremmo mai avere a che fare. Eppure… eppure non possiamo fare a meno di amarli. Eccolo qui il prodigio ordito da Yates, la ragnatela sottile nella quale ci imprigiona. Gli strumenti di tale incantamento vanno senza dubbio attribuiti alla perizia della sua prosa che pare semplice ma non lo è affatto (è nota la precisione parossistica con la quale selezionava gli aggettivi o controllava la punteggiatura, per non parlare delle infinite riletture dei suoi testi che avrebbero reso superflui gli eventuali interventi degli editor), ma il segreto, se abbiamo voglia di conoscerlo, ce lo rivela l’uomo Richard Yates. Il suo è infatti uno dei rari casi in cui l’opera non può essere separata dalla vita del suo autore, poiché essa ne sta all’origine, è la fonte primaria di ogni racconto. La vita, la durissima vita di Richard Yates era nient’altro che una scusa per scrivere, e l’unico senso che lui le attribuiva era l’ispirazione che poteva fornire ai suoi libri.

Naturalmente si possono leggere le opere di Richard Yates ignorando i dettagli della sua biografia, la loro bellezza risulterebbe comunque lampante, ma sapere che dietro ogni personaggio, dentro ogni appartamento, lungo i viali delle periferie suburbane o davanti agli innumerevoli banconi dei bar si nasconda lo stesso Yates, rende il racconto vivido e oltremodo straziante. Inoltrandomi nella monumentale biografia scritta da Blake Bailey (quasi 700 pagine, ma l’ho detto che sono maniacale…) è scattato lo stesso straniante meccanismo già provato nei confronti di Frank e April Wheeler di Revolutionary Road, o delle sorelle Emily e Sarah Grimes di Easter Parade, o di John Wilder in Disturbo della quiete pubblica, solo per citarne alcuni, e cioè quell’inspiegabile trasporto sentimentale nei confronti di esseri umani respingenti, che non fanno nulla per sedurti, e che nonostante questo, come ho già detto, non puoi impedirti di amare.

Richard Yates era un ubriacone, pazzo, misogino, sprezzante, eternamente in guerra con il mondo, e tuttavia chi ha avuto a che fare con lui lo ha molto amato. Forse perché, malgrado tutti gli sforzi per tentare di offuscarla, scintillava una natura gentile e vulnerabile, messa a dura prova da un irriducibile impulso autolesionista del quale probabilmente non si sarebbe mai liberato, neanche se le cose fossero andate diversamente. Certo è che quell’esordio folgorante, amaramente definito da Yates «la mia maledizione», ha pregiudicato il suo cammino di scrittore di successo. Nel 1962, un anno dopo la pubblicazione di Revolutionary Road, accolto da critiche entusiastiche (che tuttavia non servirono a fargli vincere l’ambito National Book Award né tantomeno a scalare le classifiche di vendita), Yates dà alle stampe la sua seconda prova, la raccolta di racconti Undici solitudini: ma le reazioni, seppur benevole, risultano tiepide. È chiaro sin dall’inizio che da lui ci si aspetta un romanzo altrettanto potente, i racconti vengono considerati interlocutori. È la prima di una lunga serie di delusioni, ciascuna delle quali verrà annaffiata con spaventosi quantitativi di alcool che comprometteranno il suo già instabile equilibrio psichico. Il primo episodio pubblico di escandescenza è a suo modo spettacolare (e naturalmente sarà raccontato per filo e per segno nel penultimo romanzo, Il vento selvaggio che passa). Durante un prestigioso convegno di scrittori (la Bread Loaf Writers Conference), Yates, invitato a seguito del successo di Revolutionary Road, si ubriaca fino a perdere il controllo: seminudo, sale sul tetto dell’antico edificio e si mette a gridare a squarciagola «Sono il Messia!». Gli increduli colleghi lo vedranno uscire di scena a bordo di un’ambulanza con la camicia di forza al posto del blazer. 

Il bisogno commovente di far parte di una comunità che lo esclude si riflette nel destino dei suoi personaggi sui quali incombe la minaccia del fallimento, e che Yates descrive con l’apparente distacco della terza persona dietro cui si nasconde, sempre, un riferimento intimo: Yates non ha bisogno di dire io per parlare di sé. «Gli esseri umani sono irreparabilmente soli, e lì c’è la loro tragedia». Nella bellissima prefazione a Cold spring harbor, Luca Rastello sottolinea il senso di moralità di Richard Yates, a torto considerato un cinico. La rabbia e il disincanto (Yates ricorda e racconta con rabbia) si rivolgono a un mondo che non corrisponde al suo modello etico.

E se osserva ciò che lo circonda con sarcasmo è per sottolineare l’insensatezza della vita: «Adesso, però, che se ne stava lì sdraiato senza dormire ad aspettare che la giornata trascorresse, si sentiva incapace di mettere insieme anche un solo pensiero coerente che non fosse l’idea sconsolante e tenace che niente aveva senso. Non si poteva ricavare un senso dalle forze e dagli avvenimenti che aveva sotto gli occhi». È la conclusione a cui arriva il tredicenne Phil Drake, ennesimo alter ego di Richard Yates nell’amaro Cold spring harbor, suo ultimo romanzo.

Ci si chiede come mai uno scrittore di un simile talento, da alcuni considerato un maestro (Carver e Cheever devono molto a Yates), non sia mai stato davvero riconosciuto nonostante la stima di molti suoi colleghi e il plauso di alcuni importanti critici. Le vendite dei suoi libri non hanno mai superato le diecimila copie e molti hanno subito l’oltraggio del fuori catalogo. Al di là dell’imperscrutabile legge del successo si può ipotizzare che la pervicacia con la quale Yates ha sistematicamente infranto il sogno americano gli sia stata fatale. Non ha mai strizzato l’occhio al lettore, né fatto sconti («Io me ne frego dell’empatia»).

L’happy ending nelle sue storie non esiste, le illusioni sono un inganno e persino i luoghi non mantengono le promesse: la scuola privata, i quartieri residenziali, le villette a schiera, non sono altro che facciate. Ogni tentativo di uscire dal seminato, ogni azzardo verrà inevitabilmente punito. Non c’è scampo, sembra dirci Yates (senza per questo risparmiarci grasse risate, ci sono pagine esilaranti nei suoi romanzi), e ce lo dice col disincanto di chi la sa lunga e può permettersi di scherzarci sopra. Un’altra ragione va cercata nella personalità complicata e contraddittoria dello scrittore, al tempo stesso affabile e detestabile, disciplinato e autodistruttivo, generoso ed egoista, liberale e bigotto. «Non stava mai bene nemmeno quando stava bene» ricorda la figlia Monica.

Incapace di adattarsi al mondo, Yates ha messo a dura prova la pazienza di chiunque, anche e soprattutto quella degli affetti più cari. Due divorzi, tre figlie lontane e dunque amatissime, amici fedeli che hanno fatto di tutto per aiutarlo fino al punto di arrendersi di fronte a un’inesorabile deriva autodistruttiva: cinque pacchetti di sigarette al giorno inflitti a polmoni provati dalla tubercolosi contratta in guerra (il fantasma della guerra aleggia su ogni vicenda raccontata da Yates, è nascosto nel passato di qualcuno o nel futuro imminente di qualcun altro), litri di whisky ingollati dalla mattina alla sera (tutti i suoi personaggi hanno sempre un bicchiere tintinnante nelle mani), innumerevoli ricoveri in ospedali psichiatrici (altro tema ricorrente, prima o poi uno dei suoi personaggi finisce in manicomio), e costante bisogno di soldi (che il suo editore, sant’uomo, anticipava sapendo che non li avrebbe mai rivisti).

Mi sono chiesta tante volte come diavolo sia stato capace, in quelle condizioni pietose e perseveranti, di scrivere in maniera così lucida e precisa (sono sette i romanzi prodotti e due raccolte di short stories). Per un periodo ha lavorato come ghost writer dei discorsi di Robert Kennedy il quale, pur conoscendo le abitudini poco ortodosse dello scrittore ha comunque confermato il suo incarico, a dimostrazione che l’abilità riusciva a emergere in ogni caso. Fino all’ultimo, Yates ha scritto. Si può dire che non abbia fatto altro nella vita insieme a bere e fumare. Tre diverse forme di addiction, due gli hanno distrutto il fisico, la terza lo ha fatto impazzire di rabbia e risentimento. Posso immaginare il suo sconforto il giorno che si trovò, solo, di fronte a una sala completamente vuota per un reading di Bugiardi e innamorati. O quando la critica stroncò ferocemente il bellissimo Il vento selvaggio che passa (l’amico Kurt Vonnegut, gli scrisse: «Immagino la tua tensione per l’uscita del libro, e credo sia per te più dura che per chiunque altro, perché tu sei tu e per te le cose sono più difficili»). O ancora, quando per la quindicesima volta gli venne rifiutato un racconto sul New Yorker. La faccenda del New Yorker, capitolo tristissimo, rappresenta un esempio di perfidia editoriale da manuale, soprattutto se si considera che quando, finalmente, la rivista si decise a pubblicare un suo racconto, Yates era morto da nove anni.

Gli anni ottanta sono il decennio più triste, gli anni dell’oblio. Solo, sempre ubriaco, Yates non può più permettersi di insegnare e non ha più un soldo. Il suo editore non ha intenzione di elargire altri anticipi e dubita che lo scrittore possa onorare il contratto che lo vede impegnato per un altro libro (cosa che invece farà, il caro, onesto Richard).

Trascorre gli ultimi anni della sua vita a Tuscaloosa, in Alabama. Ogni giorno trascina il suo lungo corpo fra il locale Crossroads dove mangia poco e beve molto, e il miserabile appartamentino in cui vive, e scrive. Seduto al suo tavolo da lavoro ricoperto di fogli, portacenere e bottiglie di birra, osserva le fotografie delle figlie appese al muro mentre alterna una boccata di sigaretta a una di ossigeno, rischiando di farsi saltare per aria. Ma a lui della vita poco importa.

Una volta diede fuoco al suo studio per aver dimenticato di spegnere l’ennesima cicca lasciata in giro. Incurante della propria incolumità, fece di tutto per mettere in salvo il manoscritto di Una buona scuola, ustionandosi le mani e intossicando ulteriormente i polmoni. Quell’episodio segnò un punto di non ritorno: ricoverato di nuovo al Belleville, la clinica psichiatrica di New York (onnipresente nei suoi libri), Yates ha le allucinazioni, è convinto di essere circondato da truppe tedesche, si nasconde sotto il letto. La sua sembra una causa persa, ogni tentativo di rimettersi in carreggiata è destinato a fallire. Nessuno va più a trovarlo tranne uno suo ex studente (Yates ha tenuto corsi di scrittura in varie università americane, conquistandosi l’ammirazione e l’affetto dei suoi allievi che lo ricordano come uno dei migliori insegnanti possibili), che uscendo dal Belleville dirà: «Non immaginavo che un uomo potesse degenerare a quel modo».

La tenacia del suo corpo lo ha tenuto in vita fino a 66 anni, fosse morto molto giovane o molto più vecchio avrebbe conosciuto la gloria, chissà.

Qualche giorno prima di morire telefona a un vecchio amico: «Vuoi sapere cosa ho fatto stanotte? Mi sono seduto sul letto, ho letto ad alta voce il primo capitolo di Revolutionary Road e mi sono messo a piangere come un bambino».

Ecco perché è importante sapere chi fosse Richard Yates, e ancora più importante è leggere le sue opere, in Italia pubblicate da minimum fax: se non ci è più possibile risarcire l’uomo, possiamo almeno rendere onore al grande scrittore e commuoverci a nostra volta sapendo che il Times, nel 2005, ha inserito Revolutionary Road fra i cento migliori romanzi in lingua inglese di tutti i tempi.

ARTICOLO n. 32 / 2021

CRUDO

Kathy, e con lei intendo io, si stava per sposare. Kathy, e con lei intendo io, era appena scesa da un volo proveniente da New York. Aveva ottenuto un upgrade in prima classe, si sentiva molto chic, aveva comprato al duty free due bottiglie di champagne in confezione cartonata arancione, d’ora in poi era questo il tipo di persona che sarebbe stata. All’aeroporto era venuto a prenderla l’uomo con cui Kathy viveva, che presto sarebbe diventato l’uomo che avrebbe sposato e che presto, presumibilmente, sarebbe diventato l’uomo che lei aveva sposato e avanti così fino alla morte. In macchina, lui le raccontò che era stato a cena con l’uomo con cui lei, Kathy, andava a letto, insieme a una donna che conoscevano entrambi. Avevano anche bevuto champagne, le disse. Risero un sacco. Kathy smise di parlare. Questo era il punto in cui la sua vita faceva una brusca svolta, anche se di fatto l’uomo con cui andava a letto non avrebbe rotto con lei per altri cinque giorni, su carta intestata. Lui pensava che due scrittori non dovessero stare insieme. Kathy aveva scritto diversi libri: Great Expectations, L’impero dei non sensi, immagino che ne abbiate sentito parlare. L’uomo con cui andava a letto non aveva scritto nessun libro. Kathy era arrabbiata. Voglio dire, io. Io ero arrabbiata. E poi mi sono sposata.

Due mesi e mezzo dopo, pre-matrimonio, post-decisione di sposarsi, Kathy si ritrovò in Italia. Aveva fatto il colloquio all’Ufficio di stato civile, non conosceva la data di nascita di suo marito ma nessuno aveva pensato che lei, o lui, potesse essere vittima di tratta. Erano educati, avevano scelto le canzoni, lei aveva insistito per Maria Callas perché la sobrietà non era nel suo stile. Adesso, 2 agosto 2017, era seduta sotto un nido di calabroni in Val d’Orcia. C’erano tanti altri posti in cui avrebbe potuto sedersi, ma si era affezionata ai calabroni. Ieri gliene erano cascati due sulla gamba, ancora avvinghiati a scopare. È di buon auspicio, aveva detto il suo amico Joseph quando lei glielo aveva raccontato per mail.

Aveva ingranato una bella routine. Per prima cosa si faceva venti vasche in piscina per svegliarsi come si deve. Poi beveva il caffè, poi piazzava una sdraio sotto l’albero dei calabroni. Alle dieci si faceva portare un altro caffè da suo marito. Non aveva mai avuto un marito prima, ma sapeva quali erano le dinamiche. Kathy era gentile? Mah. A Kathy interessava l’abbronzatura, interessava Twitter, interessava vedere se qualcuno dei suoi amici stava facendo una vacanza più bella della sua. Accanto a lei, suo marito si stava sfilando il costume bagnato sotto un asciugamano verde. Tutto era più bello rispetto a casa. Non un pochino più bello, ma profondamente, come se ogni materiale fosse stato reinventato da una specie più intelligente. Kathy e suo marito erano finiti per caso in vacanza con i super ricchi.

Ovviamente non si mimetizzavano per nulla. E neanche ci provavano. Mangiarono spuma di patate con aria contrita, schizzarono la passata di pomodoro e il gelato alle prugne e cardamomo su ogni maglietta che possedevano. C’era un servizio di lavanderia ma erano preoccupatI dal costo. Magari avrebbero potuto vestirsi di scuro o cercare una tintoria a Roma.

Era la giornata più luminosa che si potesse immaginare. C’era un che di strano nel cielo, non era né sereno né nuvoloso, una via di mezzo. La luce non era tutta concentrata nel cerchio del sole, ma ovunque, contemporaneamente, come stare dentro una lampadina alogena. Kathy aveva mal di testa. Internet era in fibrillazione perché il presidente aveva appena licenziato qualcuno. Assunto, mollato dalla moglie, diventato papà e licenziato nel giro di dieci giorni. Come un moscerino della frutta, aveva scritto qualche burlone. Piace a 56152 persone. Niente di tutto ciò era divertente, o forse sì.

Kathy non aveva i genitori, ma ciò non impediva loro di turbarla. Ci pensava parecchio. Sua madre si era suicidata, suo padre era sparito prima ancora che lei nascesse. Era un’orfana, in puro senso dickensiano. Infatti suo marito la chiamava Pip, a volte «la Pip». Lui era un uomo molto gentile, indiscutibilmente gentile, piaceva a tutti, impossibile che non piacesse. L’ho sempre considerato un amico al di fuori della cerchia dei poeti, aveva scritto Paul Buck congratulandosi per il matrimonio che ancora non c’era stato per poi raccontare l’aneddoto di quella volta che lui e Kathy non erano riusciti a fare sesso.

Faceva sempre più caldo. Trentuno gradi, trentasei gradi, trentotto gradi. Divampavano incendi in tutta Europa. Uno era cominciato perché qualcuno aveva lanciato un mozzicone di sigaretta dall’auto. Kathy era in piedi in piscina con l’acqua alla gola e non pensava a niente. Le sue voglie sono così radicate che non c’è modo di estirpargliele, aveva scritto nel paragrafo finale del suo ultimo libro. Le si era tappato un orecchio e ogni ora o giù di lì si liberava per un attimo ma poi ecco, qualcosa risaliva di corsa, tipo un grosso pezzo di gomma da masticare, tipo un calzino. La sensazione che qualcosa le premesse dentro era fastidiosa, la buttava giù. Al bar suo marito lesse l’elenco dei clienti famosi dello chef dell’hotel. Chi è Rachael Ray, diceva, chi è Gloria Estefan, chi è Peyton Manning? Lei non sapeva chi fosse Peyton Manning, ma rispose sugli altri.

Ecco cosa mangiarono. Mangiarono porchetta arrosto e porchetta su rucola. Mangiarono una specie di crema allo yogurt con una spolverata di lavanda e minuscole meringhe. Mangiarono carré di agnello e carbonaro dell’Alaska e pici al ragù di maiale. Stavano decisamente ingrassando. Hai notato, gli chiese, che qui tutti hanno la moglie più giovane? Sembrava il club delle seconde mogli. Lei era una terza moglie, quindi almeno su quel piano si integrava alla perfezione.

Ciò che Kathy voleva al momento era complicato da spiegare. Voleva tre o quattro case in modo da potersi spostare dall’una all’altra. Era al massimo della felicità quando viaggiava, come un giocattolo a molla, forse addirittura più felice quando disfaceva i bagagli o comprava un biglietto del treno. Le piaceva entrare e sistemarsi, le piaceva chiudersi dietro la porta. Voleva scrivere un altro libro, ovviamente, e voleva trovare un modo per non ambientarlo da nessuna parte. Da nessuna parte come gli spazi interni del corpo, da nessuna parte come le zone morte di una città. Era una newyorkese, non era fatta per l’Europa né tantomeno per un umido giardino inglese. L’erbaccia era un’insidia, aveva il terrore delle tarme e della muffa. Invece le piacevano le lucertole, non solo per le loro minuscole zampette guizzanti ma perché erano incredibilmente aride. Kathy amava l’aridità, nella vita era stata quella che rincorre ma ora che finalmente si era sistemata stava scoprendo in lei un’anomala predisposizione per la reticenza, come se si fosse trasformata in uno dei tanti uomini che aveva inseguito a Berlino, a Londra, a San Diego. Negli anni novanta, quando era giovane, si metteva a piangere e si dilaniava le membra in un batter d’occhio, le piaceva toccare il fondo dell’umiliazione, ma adesso si era inaridita, era fredda, bruna e piatta come una fetta di toast scartata, non esattamente appetitosa, non desiderabile, ma valida come mangime per qualcuno, quanto meno per un piccione.

Stava invecchiando? Kathy era preoccupata dall’invecchiamento, non si era resa conto che la giovinezza non è uno stato permanente, che non sarebbe stata in eterno un’adorabile scapestrata a cui si perdona tutto. Non era stupida, solo avida: voleva che fosse sempre la prima volta. Quando pensava alle persone con cui aveva popolato la sua giovinezza rabbrividiva di vergogna. Avrebbe potuto viverla in modo molto più glamour, molto più disinvolto, avrebbe potuto risparmiarsi il taglio di capelli a scodella, avrebbe potuto risparmiarsi la salopette, i minuti passavano, non era riuscita a bloccare il tempo nella presa della morte. Adesso era cool, ma vecchia; adesso era sexy, ma con le rughe. La mia vita è delicata (più della mia fica), aveva scritto a un ragazzo non molto tempo fa. Ho abortito undici volte, aveva detto a un altro, ma non era vero. Kathy mentiva sempre, mentiva sin da quando era una bambina con degli insulsi capelli rossi. E quando cominciarono a caderle, per lo stress della convivenza con sua madre, disse alle compagne di classe che glieli aveva mangiati il coniglio. Nel cortile di scuola si giocava a un gioco dove tutte cercavano di ipnotizzarsi e poi di sollevare il corpo di un’altra con la sola forza dei mignoli. La ragazza da sollevare doveva stendersi a terra e tutte dovevano spingerla più forte che potevano. A questo punto era facile sollevarla. L’assenza di gravità era un’altra prerogativa esclusiva dei giovanissimi. Col tempo si comincia a cigolare come lattine attaccate a una macchina.

Quello che Kathy avrebbe dovuto fare erano i preparativi per il matrimonio. Li faceva guardando foto su Instagram e commentando con frecciatine poco benevole. È molto volgare, dicevano lei o suo marito. Sedie, tavoli, tovaglioli, tutto molto volgare. Di questo passo avrebbero finito per sposarsi in un parcheggio.

Kathy amava suo marito. La sera prima erano stati costretti a fare una lettura insieme, una roba che non la faceva impazzire, eppure si era scoperta contenta di ascoltare le poesie di lui, come se qualcuno rigirasse una chiave nella serratura della lingua – è inceppata, è inceppata – e poi di colpo la spalancasse. Chissà perché, alla lettura presenziavano tre psichiatri, uno dall’aria molto eminente e due di Sheffield, ancora in costume da bagno. Un aristocratico seduto in fondo fece delle domande. C’è speranza per tutti noi, disse inspiegabilmente. Quella sera Kathy si ritrovò seduta a tavola accanto a lui. Felicia, Felicia, disse lui, ecco la scrittrice. Felicia aveva il trisma tipico dei veri snob. Kathy si ritirò nel suo amuse-bouche, una scheggia bianca di pesce, e aspettò che quel momento passasse.

Domani ci saranno quarantuno gradi, disse suo marito. Centosei tradotto in Fahrenheit. Allora quando in India e nei Paesi del Golfo la temperatura arriva a cinquanta, fa caldissimo. Non c’è da stupirsi se muoiono. Parliamo di quasi trenta gradi Fahrenheit al di sopra della normale temperatura corporea. Lui indossava una t-shirt rosa e la gamba sinistra, che si era scottato all’inizio della settimana, aveva cominciato a spellarsi. Da qualche parte si azionò un trapano. Kathy stava annotando tutto sul suo taccuino, e all’improvviso le era venuta l’ansia di esaurire il presente e di ritrovarsi in prima linea, sola sulla cresta del tempo – assurdo, ma ci pensi a volte che non possiamo muoverci tutti insieme, attraversare tutta quanta la verdeggiante simultaneità della vita, come squali che si rivelano all’improvviso in un’onda che si infrange? Forse quei pensieri accelerati presagivano un’emicrania, forse. Su Twitter era scomparsa una fotografa cinese. L’ultima volta era stata vista al funerale del marito, che aveva vinto il premio Nobel per la pace per poi trascorrere il resto della sua vita in prigione. Kathy aveva visto una foto di lei, trincerata dietro i suoi occhiali da sole. Comunque era scomparsa. E c’era stata una dichiarazione del governo che le era rimasta impressa, qualcosa a proposito di ceneri disperse in mare, giusto? Quando le accuse su Jimmy Savile erano diventate plausibili, la sua lapide era stata rubata nottetempo, ridotta in ghiaia e utilizzata per asfaltare le strade. Anche questo non le suonava troppo, ma Kathy ricordava così. Le ceneri di Jimmy Savile potevano essere ovunque ormai, appiccicate alle gomme delle auto, in rotta lenta e irrevocabile lontano dall’isola, soprattutto e ovviamente sui traghetti. Il male era un soggetto interessante, Kathy non era schizzinosa, aveva lavorato per anni in uno strip club di Times Square, conosceva gli appetiti e gli occhi da triglia. Faceva un numero in stile Babbo Natale, qualsiasi cosa pur di non annoiarsi, mostrando agli occhi del mondo le sue tettine piatte come uova fritte. Nessuno sa niente della vita se non ha respirato appieno quell’aria di piscio e faccia tosta, oh e Kathy aveva visto davvero di tutto. Voglio sapere perché il presidente è sempre un puttaniere e mai una puttana, scrisse Zoe Leonard in una poesia famosa e molto citata, e Kathy pensava che fosse una domanda valida ancora oggi, perché certe persone compravano e non vendevano mai?

Aveva quarant’anni. Aveva affrontato due volte il cancro al seno, aveva evitato per un soffio di prendersi una malattia sessualmente trasmissibile, aveva passato più tempo al reparto malattie veneree che a casa sua. Aveva posseduto svariati appartamenti in diversi paesi, li vendeva e li comprava cercando di guadagnare dalle fluttuazioni di mercato, per lo più perdendoci. La gente la fotografava spesso, aveva abbandonato il vecchio look, non aveva più i capelli rasati, adesso era una vera bionda ossigenata. In camera sua era appeso un vestito Chanel di seconda mano, troppo pesante per il clima di qui, era stato da stupidi metterlo in valigia, anche se nutriva qualche speranza per Roma. Fa caldo a Roma? chiese al marito e lui rispose con un grugnito. Quindi forse era solo uno spreco di spazio, e vabbè. L’indomani dovevano andare a cena con un famoso cantante d’opera, proprio qui, sulle colline toscane. L’aristocratico passò davanti a loro sciabattando. «Non male come vita» disse. Insparring. Aveva organizzato un toga party per quella sera ed era preoccupato per il rumore. Kathy si era già lamentata con il proprietario dell’hotel perché degli ospiti avevano fatto volare un drone sopra la sua sdraio. Non le piaceva essere osservata e non le piaceva il rumore, che all’inizio aveva scambiato per quello di un’ape particolarmente su di giri. Il proprietario si era detto d’accordo con lei, aveva molti ospiti famosi, nomi di quelli che si riconoscono subito, quindi questo non era il posto per i droni. Allora Kathy pensò che anche lei era una sorta di drone e forse ciò che stava facendo, riportare tutto sul suo taccuino, non era proprio di buon gusto.

© 2018 by Olivia Laing

— Questo estratto è ripreso dalle prime pagine del nuovo libro di Olivia Laing, Crudo, tradotto da Francesca Mastruzzo, in libreria dal 24 giugno.

ARTICOLO n. 31 / 2021

TUTTE LE FAMIGLIE SI SOMIGLIANO, PUNTO E BASTA

INTERVISTA DI MARCO MARINO

M.M. Per cominciare la nostra conversazione, vorrei partire da Philip Roth. Autore da lei molto amato. Non mi voglio soffermare, però, sulla querelle della biografia, o sulla questione del politicamente corretto. Mi piacerebbe partire parlando di Roth soltanto come scrittore, e soprattutto del rapporto che intrattenuto con i suoi libri. A diversi anni dalla lettura del Lamento di Portnoy (se ricordo bene fu questo il primo libro che lesse di Roth, o sbaglio?), quanto si sente vicino e quanto lontano dal primo fascino che le suscitarono quelle pagine? Più in generale, quando le capita di rileggere Roth, come si pone di fronte ai suoi romanzi? Un classico a cui riferirsi, un padre da uccidere / ucciso, un autore di cui non ha ancora compreso qualcosa o una sorta di sillabario letterario?

A.P. Anche nella vita del lettore (tanto più se il lettore in questione è uno scrittore) arriva il tempo di storicizzare i propri idoli letterari. C’è stato un lungo periodo della mia vita – inaugurato trentacinque anni fa con la scoperta sullo scaffale più inaccessibile della libreria dei miei genitori di un certo libretto incredibilmente sboccato e licenzioso e strepitosamente divertente, Portnoy, appunto – in cui Roth ha rappresentato per me una specie di ispirazione costante. Come nei grandi amori non corrisposti ho avuto i miei alti e i miei bassi, ma di fondo sono restato fedele al suo magistero. Oggi non è più così. E da un bel po’, direi. La mezza età sopraggiunta e l’abbandono delle scene di Roth e la sopraggiunta morte a stretto giro di posta hanno spezzato l’incantesimo.  Ormai Roth appartiene alla mia piccola storia letteraria interiore, a fianco, che so, a Montaigne o a James. Il suo fraseggio incredibilmente denso e sexy è ancora capace di incantarmi alle lacrime ma non modifica di un punto e virgola ciò che scrivo. Ho faticato a trovare la mia voce. Non consentirò neppure a uno spettro così amato di portarmela via.

M.M. Ha chiuso la sua risposta dicendo: «Ho faticato a trovare la mia voce». Mi interesserebbe molto soffermarmi sul tema della voce. La parola voce si potrebbe tradurre semplicemente con originalità, ma forse è qualcosa di più dell’originalità. Ma cos’è per lei la voce? Cosa l’ha spinta a faticare così tanto per trovarla?

A.P. Non confonderei la voce con l’originalità. Sebbene fatichi a parlare di una questione così specifica in termini generali, astratti, se non addirittura metafisici, mi vien da dire che si può avere una voce senza essere originali, e viceversa. Ha mai notato che i passi delle persone che amiamo hanno un certo rumore – un ritmo, una cadenza – che solo noi siamo in grado di riconoscere? Talvolta sono così peculiari e inconfondibili che quando la persona amata per qualche ragione viene meno ci sentiamo doppiamente orfani. Molto spesso quel modo di camminare è del tutto inconsapevole al camminatore in questione, e tuttavia trova una strana corrispondenza nel suo carattere e nel suo temperamento.  Ci sono camminate nervose, ce ne sono di indolenti e di circospette. Ci si può sforzare di imitare l’incedere altrui ma è molto più sano arrendersi al proprio. Ecco, uno scrittore che cerca la voce deve fare lo stesso faticoso itinerario: capire qual è il suo passo (non è affatto facile) e abbandonarvisi, non opporre resistenza. Proust dall’alto del suo magistero parlava di «patria interiore». Nel mio piccolo mi contento di avere un passo. Ossia, un ritmo, una postura e, visto che ci siamo, anche una meta sicura da raggiungere. Quando le dico che ormai conosco la mia voce, intendo proprio questo: le mie frasi sono articolate, aspirano, non sempre con successo, a una certa flessuosa densità, il tono è ironico e auto-denigratorio, il lessico forbito trova il suo contraltare in espressioni grevi e colloquiali. Sono frasi che scontano un debito con la tradizione, certo, ma a loro modo la rinnovano in una forma che appartiene solo a me.

M.M. Una domanda collaterale: per uno scrittore la voce è tutto?

A.P. Sarebbe bello crederlo. Amerei che fosse così. Ma purtroppo le cose funzionano altrimenti. Affidarsi totalmente alla voce fa di te un ottimo prosatore. Come sa, i buoni prosatori in Italia non sono mai mancati. Sono i buoni romanzieri a scarseggiare. Purtroppo, scrivendo romanzi da più di vent’anni, so che per un narratore la voce è la conquista preliminare, le fondamenta sui cui costruire l’edificio. E, ahimè, un edificio romanzesco è fatto di molte altre cose: e non tutte necessitano di materiali nobili. Bisogna essere allo stesso tempo geometri, ingegneri e architetti. Bisogna essere falegnami, carpentieri e marmisti. Le prometto che la metafora edile finisce qui. Diciamo che una buona tecnica narrativa deve tenere conto di molti fattori. Bisogna capire che ciò che è facile da leggere è molto difficile da scrivere. Per suggestionare un lettore devi mettere in campo parecchi trucchi e mescolare un numero impressionante di ingredienti. Per quanto mi riguarda, riservo grande attenzione ai personaggi e ai cosiddetti ritorni. Creare un personaggio non significa offrire al lettore tutte le informazioni possibili. Significa cogliere quei due o tre tratti caratteristici e trovare il modo di metterli in scena con naturalezza e discrezione, come se non fossero inventati. Per quanto riguarda i ritorni (e qui parliamo di bassa cucina), mi dà grande soddisfazione suscitare nel lettore il brivido che dà solo un cerchio che si chiude. È la famosa pistola di cui parla Hitchcock: se la inquadri all’inizio del film devi sapere che prima o poi dovrai trovare il modo di farla sparare. Tornando alla sua domanda, sarebbe bello che la narrativa potesse esaurirsi in una successione di frasi eleganti e necessarie, come la immaginava un parnassiano come Flaubert. Disgraziatamente, me lo faccia ripetere, non è così che funziona. I romanzi migliori, anche quelli di Flaubert, sono pieni di zeppe, furbizie, volgarità da mestierante. Emozionare un lettore, farlo piangere, ridere, indignarlo e avvincerlo, è un lavoro sporco, un esercizio subdolo.  Mi lasci aggiungere un’ultima cosa su un argomento che mi sta a cuore. Per molto tempo ho prestato attenzione alla plausibilità. Fomentato dagli occhiuti editor mondadoriani e da un sacro fuoco moralista, ho lavorato affinché nella storia che stavo approntando i conti tornassero. Oggi so che è uno scrupolo inutile. Bisogna fidarsi delle proprie invenzioni. Non occorre spiegare tutto, né stare lì a giustificare ogni cosa. Pensi alle città dei film western ricostruite dagli Studios. Ogni spettatore consapevole sa che le facciate degli edifici sono posticce, che dietro non c’è niente. È un’illusione. Un trucco. Ma che importanza ha? Se il film ti prende, tale maldestra mistificazione architettonica viene acquisita con leggerezza e subito dimenticata.

M.M. Sempre a proposito di voce, e cominciando a entrare nelle sue pagine. Di un autore riusciamo a riconoscere, ad apprezzare, chiaramente la sua voce già dagli incipit, e mi piacerebbe infatti riprendere le prime righe di Persecuzione: «Era il 13 luglio 1986 quando un imbarazzante desiderio di non essere mai venuto al mondo s’impossessò di Leo Pontecorvo». L’accento, che segna la vita del protagonista, finisce inevitabilmente sull’aggettivo «imbarazzante». Che nella sua produzione non è affatto un aggettivo trascurabile, anzi: parole come imbarazzante, vergogna, partecipano a un campo semantico che lei indaga molto. Vorrei chiederle di questa sua indagine dei sentimenti di vergogna e, citando Nabokov, domandarle inoltre se questa indagine è per lei il suo «piccolo bagaglio ornamentale personale».

A.P. Niente titilla più il mio sadismo come mettere in imbarazzo un personaggio, infilarlo in qualche situazione difficile da cui io stesso stenterei a riavermi. Insomma, lei ha messo il dito sulla piaga. Nel mio immaginario, sentimenti come imbarazzo, vergogna, inadeguatezza, colpa, ipocrisia appartengono alla medesima area semantica. Non c’è personaggio da me inventato e messo in scena che prima o poi non provi disagio per ciò che è, e in virtù di questo non sia portato a fingersi un altro. Provo invidia per chiunque abbia imparato a indossare i propri panni con naturalezza, e a cuor leggero. Per me l’identità è un enigma inestricabile. Forse non è così strano che tale disfunzione caratteriale s’incarni nei miei personaggi.

M.M. Lei dice: «Niente titilla più il mio sadismo come mettere in imbarazzo un personaggio». Ma questo sadismo non si limita a un singolo personaggio, perché in realtà finisce sempre per comprendere tutta la sua famiglia. Nei suoi romanzi sembra quasi ancestrale, una sorta di richiamo alla tragedia greca, questa ereditarietà della vergogna.

A.P. Diciamo che, come per altri romanzieri amati, ho un debole per le famiglie e per le genealogie.  Non a caso le mie frasi non disdegnano l’uso di tempi e modi un po’ demodé, come il passato remoto i trapassati, sia all’indicativo che al congiuntivo. Immagino che tali abusi verbali denuncino un’insana ossessione per il passato. Di solito mi sforzo di non conferire a questa passione passatista accenti nostalgici, o ancor peggio, antiquariali. Come lei dice, credo negli atavismi. Ritengo che lo spazio di libertà di cui ciascun individuo può godere, rispetto al peso dei cromosomi, sia piuttosto risicato. Sebbene molti sociologi registrino ogni volta che possono i cambiamenti occorsi alle nuove strutture sociali, in cui la famiglia occupa un posto sempre più marginale, constato che nella realtà le cose funzionano altrimenti. Sia che tu voglia liberartene, sia che tu ne tenga conto, è impossibile sottrarsi al giogo delle famiglie. Se mi leggo dentro, registro che le opere narrative che mi hanno più persuaso negli ultimi anni hanno tutte a che fare con famiglie disfunzionali. I libri di Roth, per l’appunto, ma non solo. Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, gli splendidi romanzi di Eugenides (un autore che ammiro parecchio), l’intera opera di Eshkol Nevo. O pensando all’Italia, i romanzi di tre maestri alle soglie della canonizzazione come Domenico Starnone, Michele Mari e Emanuele Trevi (anche se il caso Trevi è un po’ più complesso e sfumato). Non se ne esce, le famiglie sono una maledizione. Normale che continuino a fomentare la fantasia degli scrittori. L’ereditarietà postulata da Zola è una prigione da cui è impossibile evadere.

M.M. Una mia curiosità da lettore. Lei si sente più vicino all’incipit di Anna Karenina di Tolstoj («Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo») o di Ada di Nabokov («Tutte le famiglie felici sono più o meno diverse tra loro; le famiglie infelici sono tutte più o meno uguali»)?

A.P. Credo che Nabokov abbia parodiato il celebre incipit tolstoiano per decostruirlo. Non perché ritenga che la frase di Tolstoj vada per forza ribaltata ma per mostrarci come ogni assioma apodittico possa essere invertito. È evidente che l’incipit di Tolstoj funzioni non meno bene di quello di Nabokov. Questo ci dice che non bisogna cercare nella letteratura buoni consigli per vivere o precetti eterni per affrontare i casi della vita. Le belle frasi (come quella di Tolstoj) servono a suggestionare il lettore. A emozionarlo. Non a insegnargli qualcosa. Per quanto mi riguarda, e sebbene m’imbarazzi mettermi tra quei due giganti, io direi che tutte le famiglie si somigliano, punto e basta.

M.M. Con la famiglia Pontecorvo nel 2012 ha vinto il Premio Strega. Ecco, mi chiedo, vincere un premio così importante per lei cosa ha significato? La conferma che anche gli altri riconoscevano la sua voce, che la sua produzione aveva il posto che si meritava? Altra domanda che terrei a farle è questa: quanto è annichilente e pericoloso un premio così importante?

A.P. I premi letterari, anche i più prestigiosi, sono una cosa carina, frivola e mondana che poco hanno a che fare con la letteratura. Servono più agli editori che agli scrittori. Fanno bene al conto in banca del romanziere, non certo alla sua vena o alla sua reputazione. Sottoporre un manufatto artistico a una gara è un gesto incauto e maldestro. Non compro un libro perché ha vinto un premio. Mi ferisce quando qualcuno, per presentarmi, non avendo idea di ciò che ho fatto di buono o di cattivo, mi definisce un Premio Strega, come se fossi un cibo DOC.  Ho ricordi vaghi e non tutti piacevoli della cavalcata che mi portò alla vittoria, mi è rimasto poco della notte in cui fui proclamato vincitore per un pugno di voti, se non per il fatto di essermi ubriacato e di essere finito in ospedale per un intervento di colecisti. Ciò detto, l’idea che qualcuno stia lì a indignarsi per l’eventuale corruzione di un premio mi fa un po’ sorridere. Ripeto: non sono una cosa seria. La lista di geni che non hanno avuto il Nobel è troppo cospicua per non gettare una luce di discredito sull’intera istituzione.

M.M. Abbiamo parlato del suo interesse narrativo per la famiglia e per quel sentimento di vergogna contro cui combattono (o sotto cui soccombono) i suoi personaggi. Adesso vorrei chiederle come guarda ciò che c’è al di là della famiglia: la società civile, il pubblico. In che modo si approccia con chi guarda la sua storia e partecipa lateralmente: all’interno del suo romanzo, da spettatore. E fuori dal suo romanzo, da lettore.

A.P. Non so bene cosa sia la società civile. Mi sono spesso imbattuto in questa espressione in contesti giornalistici che miravano a celebrare compositi drappelli di individui dediti al civismo e animati dal mito della «buona politica». Temo che questa roba non faccia per me. Altro discorso vale per il cosiddetto pubblico di lettori. Purtroppo o per fortuna, non ho molte occasioni di scambio con chi legge i miei libri. Al netto dell’infinita gratitudine che provo per loro, ho imparato sulla mia pelle a non tenere conto dei giudizi che esprimono, sia che siano benevoli sia che mi inchiodino alle mie inettitudini. Di norma mi rivolgo al «lettore implicito» teorizzato da Wolfgang Iser: una specie di lettore ideale con cui condivido gusti severi e bizzarre idiosincrasie. Sarei un ipocrita se dicessi che non tengo conto delle sue diuturne sollecitazioni. È lui che vorrei persuadere e sedurre.

M.M. Altro tema che segna – e forse lega – i suoi lavori è sicuramente il tema della memoria, del ricordo. Ci riallacciamo in qualche modo alle sue riflessioni sulla vergogna. Per lei memoria e ricordo non sono territori neutri a cui riapprodare di tanto in tanto, tranquille soste nel proprio passato. La percezione da lettore è che memoria e ricordo siano quasi delle aberrazioni dell’esistente, delle prigioni da scontare. Qual è il suo rapporto con la memoria? È possibile pensare di vincere questa battaglia contro la memoria?

A.P. Credo che la ragione per cui di norma – anche se non mancano illustri eccezioni – i romanzieri raggiungono la massima potenza espressiva a una certa età vada cercata nella relazione indissolubile tra la prosa narrativa e memoria. I romanzi che amo sono quelli che riescono a scolpire il tempo in modo plausibile. Niente è più toccante di un personaggio che invecchia pagina dopo pagina: la ciocca di capelli bianchi di Madame Arnoux, il piombo nelle scarpe del povero Barone di Charlus. Ecco perché la memoria, nel cosiddetto romanzo borghese, ha un ruolo centrale. Parte del piacere che traiamo dalla lettura dei   Buddenbrook risiede nella strana sensazione di disfacimento che grava su ogni pagina. Pare incredibile che Thomas Mann lo abbia scritto poco più che ventenne. Evidentemente ci sono ricordi, per esempio quelli di certe vecchie famiglie borghesi, talmente gravosi da suggestionare anche i giovani rampolli. Più passa il tempo più capisco il verso di Baudelaire: «Ho più ricordi che se avessi mille anni». La memoria ha un peso specifico imbarazzante. Personalmente ho un rapporto complicato con i miei ricordi. So che in buona parte costituiscono il fulcro della mia ispirazione. Vorrei solo che fossero più lieti. Comunque, se è vero ciò che diceva John Cheever – «la narrativa deve illuminare, esplodere e ristorare» – bisogna dire che essa riesce a farlo soprattutto quando è implicata, se non addirittura compromessa, con il tempo.

M.M. Mi piacerebbe discutere del suo recente incarico alla direzione dei Meridiani Mondadori. E domandarle, innanzitutto, qual è la sua idea di editoria. Chi è e che cos’è per lei un editore? Crede, come scrive Roberto Calasso nell’Impronta dell’editore, che l’editore sia una sorta di artista delle forme, che l’editoria sia il genere letterario in cui si esprime? Oppure, che l’editore sia solo il veicolo, il tramite, Giangiacomo Feltrinelli scriveva «una carriola», che permette di colmare la distanza tra il lettore e il libro?

A.P. I nomi che ha menzionato appartengono alla gloriosa storia dell’editoria italiana, implicati con la macchina molto più di quanto io non potrò mai essere, neanche se mollassi tutto e mi mettessi in proprio, aprendo una mia casa editrice. Per questo mi perdonerà se non raccolgo le sue sollecitazioni e non azzardo definizioni definitive che sarebbero velleitarie. Il mio punto di vista sulla questione è quello di uno scrittore. Mi lasci dire, allora, che, a dispetto di parecchi colleghi, ho sempre avuto una certa difficoltà a lamentarmi degli editori. Riconosco loro una folle generosità.  Ci vuole una bella fiducia nell’umanità per investire quattrini nel magro business dei libri. Occorre una forma di altruismo – di cui sono francamente incapace – per imbarcarsi nella lettura di migliaia di pagine scritte da romanzieri alle prime armi o da vecchie glorie in dismissione. Del resto, venendo da una famiglia di commercianti, mi affascina il lato artigianale delle grandi imprese editoriali. Il mio editore ideale è un raffinato connaisseur che coniuga fiuto, scaltrezza e buongusto, ossessionato dalla cura dei testi, degli apparati paratestuali e iconografici.  Ahimè, non sono molti gli editori in circolazione che corrispondano a questo identikit. Temo che il mestiere, la consuetudine, la routine, la permalosità egotista degli scrittori, la volubilità dei lettori e la grettezza della macchina promozionale (giornali, premi, classifiche) alla lunga contribuiscano a rendere il funzionario editoriale medio un individuo cinico, risentito e disperato.  Ciò detto, come non apprezzare il mazzo che si fanno per la causa?

M.M. In che modo ha accolto la proposta di guidare i Meridiani?

A.P. Con stupore, imbarazzo, fierezza ed entusiasmo (in questo preciso ordine di apparizione). Sono grato a Enrico Selva, Francesco Anzelmo e Luigi Belmonte di aver pensato a me, ma mi chiedo quale balzana idea li abbia ispirati. I Meridiani, figuriamoci. Sono una cosa bella, seria e difficile. Per non parlare della gravosa eredità di Renata Colorni che ha svolto questa mansione per tanti anni con abnegazione e rigore assoluti. Grazie al cielo ho trovato una redazione incredibilmente competente, entusiasta e sollecita. Marco Corsi, il vero Deus ex Machina dei Meridiani, è un giovane editor con un’impeccabile formazione filologica che sa dove mettere le mani e come rassicurarmi. Il mio lavoro, almeno per il momento, consiste nel provare a immaginare Meridiani futuri: verificare se ci sono le condizioni per metterli in piedi. Il che significa identificare autori canonizzati o degni di canonizzazione e trovare curatori e traduttori adeguati. Tra queste belle ambizioni e la realizzazione del progetto si frappongono una serie di complicazioni ineludibili: diritti contesi, agenti, editori concorrenti, eredi, eccetera.

M.M. Lei è un accademico, uno scrittore, uno degli intellettuali italiani più apprezzati: il suo arrivo ai Meridiani è un ritorno all’idea dei letterati editori?

A.P. Questo proprio non so dirglielo. Se allude a figure come Calvino, Sereni e Vittorini, temo che stia volando troppo alto. Come le dicevo, non sono un uomo generoso, né abbastanza curioso e aperto alle nuove tendenze. Sono pigro e scostante. I Meridiani fanno al caso mio proprio perché mi mettono a contatto con i classici che amo e su cui mi sono formato. Avrei serie difficoltà ad accollarmi una collana di contemporanei. Non ho il polso della situazione. Sono un lettore occasionale e distratto, con gusti molto capricciosi, se non addirittura settari. Insomma, un pessimo editore.

M.M. Che idee ha per i futuri Meridiani, e per il futuro dei Meridiani?

A.P. Con il passare dei mesi mi vado facendo un’idea sempre più precisa, non così diversa da quella tradizionale perseguita da Renata Colorni, ma per così dire più adeguata ai miei gusti. Vorrei concentrarmi sui classici e tenere un po’ in salamoia i contemporanei. Insomma, d’ora in poi sarà assai più difficile per uno scrittore vivente entrare nel canone dei Meridiani. Ce ne sono di morti, taluni fin troppo trascurati, che meritano una nuova ribalta. Naturalmente ho diversi autori in testa i cui nomi (per i motivi che le accennavo) non posso ancora menzionare.

M.M. Davvero un’ultima domanda. Ritornando al punto di inizio della nostra conversazione, ovvero a Philip Roth. E se fossero vere tutte quelle accuse che lo macchiano delle peggiori nefandezze, la mia domanda è: per continuare a leggere i romanzi di Roth, bisognerebbe ipotizzare la solita dicotomia tra letteratura e vita, tra lo scrittore e l’uomo; oppure basterebbe leggerlo nonostante tutto?

A.P. È difficile dirle quanto me ne infischio. Forse solo se conoscessi l’aramaico potrei riuscire a esprimere quanto poco mi avvincano le passioni veneree di Philip Roth, per non dire delle sue beghe coniugali e adulterine. Lascio volentieri il gossip ai maccartisti che infestano la scena letteraria contemporanea. La sola moralità che richiedo a uno scrittore è racchiusa nelle sue frasi. Non se a questo punto Roth dovrà scontare il purgatorio della damnatio memoriae inflitto da qualche comitato etico del menga. So che finirà. Si figuri che c’è stato un tempo in cui alcune università non studiavano più Mallarmé e Proust perché troppo decadenti e non abbastanza comunisti. Alla lunga hanno stravinto Mallarmé e Proust. Vincerà anche Roth. Dopotutto è morto, cosa vuoi che gliene importi? Ha l’eternità dalla sua.

ARTICOLO n. 30 / 2021

Polvere, cenere, fuga

TRADUZIONE DI CAMILLA PIERETTI

Mercato

I

Avrebbero iniziato a disseppellire le ossa l’indomani. Alfonso rimase fuori dalla prigione, a guardare il piatto panorama della base militare di Addis Abeba. Era andato lì perché voleva vedere il sito prima che Lara e gli altri scienziati forensi iniziassero il loro lavoro, voleva che il suo occhio di fotografo potesse posarsi con calma sul terreno che avrebbero scavato. Si chiese se sarebbe stato capace di distinguere un femore da un omero, o di capire cosa differenziava le ossa giovani dalle vecchie. Gli scienziati argentini erano in Etiopia alla ricerca dei resti di prigionieri che erano stati sottratti alle loro famiglie e di cui non si era saputo più nulla. Lui era lì per fotografare quei resti, per intrappolare tra otturatore e apertura frammenti di detenuti come quelli che era stato costretto a immortalare in Argentina. Regolò la macchina fotografica in modo da zoomare su un piccone appoggiato a una staccionata di legno. Qualcosa, in quello scialbo complesso, avrebbe mai potuto ricordargli il terreno erboso della Escuela de Mecánica de la Armada di Buenos Aires?

È diverso da quello a cui sei abituato tu, gli aveva detto Lara il giorno in cui aveva finalmente accettato che Alfonso si unisse al team che sarebbe andato in Etiopia. I tuoi soggetti non saranno vivi, aveva continuato, gli occhi nocciola che scrutavano penetranti la sua giacca inamidata, i gemelli graffiati. Non c’è alcuna arte in questo, aveva aggiunto, il disgusto evidente nel sorriso che aveva posato sulla sua attrezzatura fotografica e sul suo portfolio ancora intonso. Era una donna spigolosa, dall’ossatura delicata. Durante tutto il colloquio aveva tenuto con sé un taccuino, senza però scriverci una sola parola mentre lui parlava, preferendo invece piantargli addosso uno sguardo deciso. Aveva l’aria stanca, gli occhi infossati quasi a voler deviare la luce, se avessero potuto, per rimanere a crogiolarsi nell’ombra. Non può non sapere chi sono, avrebbe voluto dirle. Sono stato l’ultimo volto che tanti hanno visto prima di sparire. Chi meglio di me potrebbe fotografare quel che resta?

Gli altri potrebbero chiederti notizie di parenti rinchiusi all’ESMA quando eri là, aveva aggiunto lei alla fine, mentre erano sulla porta del laboratorio al termine del colloquio, la mano di lui tesa ma totalmente ignorata. È meglio lasciare quel genere di discussioni a lavoro concluso, non mischiare le due cose. Aveva fatto un cenno d’assenso ed era tornata alla scrivania.

Alfonso impostò il grandangolo per inquadrare la terra secca e fessurata. Vide due etiopi che lo osservavano attenti, poco lontano. Ognuno di loro teneva una foto all’altezza del petto, l’immagine rivolta nella sua direzione. Sentì lo stomaco contrarsi. Conosceva quel rituale, riconosceva le speranze che cercavano di riporre nelle sue mani. Aveva visto compiere gli stessi identici gesti in Argentina. La gente lo fermava per strada e gli domandava: Non sei quello di cui hanno parlato i giornali? Il fotografo rinchiuso all’ESMA, che ha scattato quelle foto? Poi, dal nulla, un’immagine. Questa è mia madre, mia sorella, mia zia, mio padre, mio nipote. Erano così tanti. Una processione di facce e corpi, in posa o al naturale, che lo fissavano, chiedendo di essere ritrovati, di uscire dal mondo dei desaparecidos per essere reclamati.

Alfonso abbassò la macchina fotografica e alzò entrambe le mani verso i due etiopi che si avvicinavano. Si mise a camminare all’indietro, scuotendo la testa. Yekerta, ripeté, una volta e ancora, ringraziando silenziosamente la guida che aveva insegnato a lui e agli scienziati quella che sarebbe diventata la parola più importante di tutto il viaggio, in questo paese pieno di persone ancora in attesa di poter piangere a dovere i propri morti. Scusate. Mi dispiace.

Fu Lara a proporre di andare al polveroso tej bet vicino all’hotel, alla vigilia del primo scavo. Gli altri membri della squadra, provati da una giornata di riunioni e briefing, si scusarono e andarono a dormire, per cui rimase solo Alfonso.

«Bevo sempre una birra la sera prima di iniziare a lavorare in un posto nuovo», gli disse lei mentre si dirigevano là. «Da domani saprà tutto di terra».

Il bar era un piccolo edificio male illuminato, costruito con quelli che sembravano mattoni d’argilla. Era dipinto di azzurro, con una porta verde chiaro che girava mollemente su cardini arrugginiti. Dietro il bancone, costituito da un’asse di legno tutta rigata, una cameriera di particolare bellezza, gli abiti aderenti alle forme morbide, sorrise e tese loro due birre mentre ancora si sedevano.

Bevvero in silenzio, mentre Alfonso tentava di fingersi del tutto disinteressato alla busta che Lara aveva tirato fuori dalla borsetta e teneva cautamente ai bordi.

Fu allora che entrò Gideon. Lara diresse la sua attenzione alla porta, osservando con interesse il vecchio che si fermò a guardarli stupefatto, per un momento, prima di sedersi all’altra estremità del bancone.

Lei lo fissava come se stesse esaminando un documento. Quando parlò, non sembrava diretta a nessuno in particolare. «Ha perso qualcuno», disse. I capelli, neri e ondulati, le ricaddero sul viso; li ricacciò indietro e bevve un sorso di birra.

Alfonso le lanciò un’altra occhiata. Nonostante ciò che gli era stato detto durante il colloquio, gli altri scienziati lo avevano sommerso di domande sulle persone che conoscevano e che erano state rinchiuse all’ESMA. Lara era l’unica a non avergli mai chiesto niente.

Appoggiarono le birre al bancone e si misero a osservare Gideon, al quale la cameriera aveva iniziato a rivolgersi animata, con voce dolce. Il vecchio sedeva dritto, attento e privo di espressione. Sembrava rifiutarsi di guardare nella loro direzione, sempre più schiacciato sulla sedia, la birra stretta tra le dita, annuendo alle chiacchiere della ragazza. Il modo in cui si fissava le mani spinse Alfonso a guardare le proprie. Che ci faceva ad Addis Abeba?

Era difficile dire quanti anni avesse. Dall’aspetto potevano essere sessanta, ma era segnato da una spossatezza che li faceva sembrare almeno il doppio. Nella luce soffusa che ne sottolineava il naso dritto e la pelle incartapecorita, Gideon aveva l’area di un profeta stanco, un uomo che avrebbe dovuto essere illuminato soltanto da candele morenti.

Tenastilign. Alfonso provò a ripetere nuovamente il saluto. Non sarebbe mai riuscito a imparare le dure consonanti dell’amarico, la cadenza della lingua. Abbassò il capo in un rapido inchino e attese che Gideon ricambiasse. Sorrise, già consapevole, dopo solo quattro giorni ad Addis Abeba, della riservatezza degli etiopi.

Gideon bevve un lungo sorso di birra e si girò dall’altra parte.

Dopo un secondo tentativo di conversazione andato a vuoto, la bella cameriera dallo sguardo da cerbiatta spiegò ad Alfonso che Gideon non parlava. «Cantava», disse nel suo inglese dall’accento marcato. «Famoso. Tanto tempo fa. Ora…». Si mise una mano attorno alla gola e strinse. Lo smalto rosso vivo creava un netto contrasto con la tenue luce della lampadina sopra la sua testa.

«Non può parlare?» chiese Lara chinandosi verso il bancone, animata da un improvviso interesse. «Come mai?».

La giovane scosse la testa. «Ha smesso e basta. Beve una birra ogni sera». Si fermò, imbarazzata, quasi volesse dire altro ma non sapesse come.

Alfonso si accorse che lo osservava, incuriosita dalla loro presenza in un bar lontano da qualunque percorso turistico. Le sorrise e lei si girò di scatto per inserire una cassetta in uno stereo malandato. Una voce dolente emise una nota su una tromba jazz, scendendo la scala a passi lenti.

Il cambiamento in Gideon fu immediato, ma forse lo notò solo lui. Forse solo un uomo che era stato testimone di tanti momenti di terrore era in grado di riconoscerli. Il vecchio si accartocciò su se stesso, divenendo l’ennesimo uomo il cui petto cede, incurvandosi finché la schiena non riesce a piegarsi oltre, solo un altro corpo nella lunga linea di corpi che Alfonso era stato costretto a fotografare, un’altra faccia piena di paura che guardava dritto nell’obiettivo, supplicandolo silenziosamente per una salvezza che soggetto e fotografo sapevano non sarebbe mai arrivata.

«¿Dónde?» domandò Alfonso al comandante, ben sapendo quale fosse il punto in cui la luce che entrava dalla finestra illuminava al meglio lo stanzino della Escuela de Mecánica de la Armada. «¿Aquí?». Deglutì a fatica e puntò il dito, disgustato dall’impulso che lo spingeva comunque a voler scattare una foto nella luce migliore. «Qui va bene».

Il prigioniero si trascinò contro lo spoglio muro bianco e rimase in piedi nella debole lama di luce. Era un ragazzo dal viso allungato, con una massa di capelli ricci ora tutti arruffati. Tremava nelle catene, le braccia sottili coperte di tagli e lividi, gli occhi quasi chiusi da quanto erano gonfi.

«Señor». Alfonso parlò a bassa voce per evitare il gesto improvviso che in genere accompagnava il movimento della macchina fotografica. Lo siento, disse con lo sguardo. «Alzi il mento e guardi verso l’obiettivo», disse con la bocca. Il giovane invece guardò lui, come facevano tutti, e incurvò il petto come per schivare un colpo al cuore. Alfonso udì un lieve piagnucolio, vide le labbra che tremavano e poi si costrinse a incontrare lo sguardo del ragazzo. Percepì il momento in cui l’incredulità lasciò il posto al puro terrore. Mi dispiace, avrebbe voluto dire, ma il comandante era proprio dietro di lui, con il suo respiro pesante e il suo sudore, a mormorare: «Bueno. Bueno, il generalissimo apprezzerà questa foto per la sua collezione. La prossima settimana devi scattarmene una per il nuovo passaporto». Il comandante gli fece l’occhiolino. «Mi farai apparire come un uomo nuovo, ¿sí?».

Stava al quarto piano della Escuela de la Armada. Era stato catturato a San Isidro, poco fuori Buenos Aires, tre mesi prima. Lo avevano fermato ad armi spianate, nella sua auto. La macchina fotografica era appoggiata sul sedile accanto a lui, i finestrini abbassati per godersi quel poco di aria che riusciva a fendere la calda umidità della sera. I soldati erano tre, ma nessuno gli spiegò perché lo trascinavano fuori dalla macchina. Era l’Argentina del 1978, in carica c’era il generale Jorge Videla e le persone sparivano a migliaia. Forse quelle erano ragioni sufficienti. L’unica cosa a cui riuscì a pensare dal buio sedile posteriore della macchina senza targa che percorreva l’Avenida del Libertador a tutta velocità, però, furono i tanti anni in cui si era allontanato dalla madre, una donna così affamata d’affetto che Alfonso era sicuro fosse stato il cuore a ucciderla, non l’asma.

La musica andava scemando. La cameriera canticchiava, la voce esitante sulle ultime note prima di perdersi in un sospiro lieve. Aveva un’espressione sincera, gli occhi dolci. Alfonso avrebbe potuto rimanere a osservarla per un’altra ora, tenendola sotto lo sguardo impassibile dell’obiettivo finché il suo corpo non avesse ondeggiato nel modo giusto, fino a farla diventare null’altro che una figura delineata da una spessa lama d’ombra e da una linea di luce calante.

La giovane alzò gli occhi verso di lui. «Tizita. Una canzone famosa», disse, spegnendo lo stereo con delicatezza per poi inclinarsi verso di lui in modo da appoggiare le braccia vicino alle sue, sul bancone. «Significa memoria. Una bella canzone da ascoltare in Etiopia». Gli lanciò uno sguardo timido da sotto le ciglia, evitando Lara, che intanto aveva estratto dalla busta un articolo di giornale ripiegato con cura.

Alfonso si schiarì la gola e sorrise, incerto. «Birra». Puntò verso di sé, verso Lara e verso Gideon. «Che cos’è quello?», chiese infine a Lara, indicando il pezzo di carta.

«Per me basta, grazie». Lara allontanò la seconda birra. Fece scivolare il ritaglio di giornale verso di lui. «Così capisci cosa andremo a fare domani».

Alfonso diede un’occhiata all’articolo. In un luogo chiamato El Mozote, tra le montagne di Morazán, in El Salvador, era stato sterminato un intero villaggio di uomini, donne e bambini. Erano stati ritrovati centinaia di corpi, inclusi neonati e anziani. Gli abitanti delle aree vicine avevano dichiarato che, dopo la matanza compiuta dall’esercito salvadoregno, il fantasma di una donna aveva iniziato ad aggirarsi tra le montagne circostanti. Nuda, i capelli scarmigliati, la si vedeva accovacciata sulla riva del fiume sotto la luna, a piangere i figli morti con un pesce in fin di vita che le si dibatteva tra le mani. Gli scienziati argentini arrivati sul luogo del massacro per riesumare i corpi erano stati avvertiti dell’apparizione sia dai locali sia dai militari.

Alfonso esaminò attentamente l’immagine di Lara, ritratta insieme a quattro colleghi nei pressi di un’area recintata, mentre indicava tre piccoli teschi sfondati.

«Quanto tempo fa è successo?», chiese. «Sembri molto più giovane».

«Non è importante», fu la risposta. Lara gli prese l’articolo dalle mani, lo ripiegò con precisione e lo rimise nella busta. «Lo spettro che la gente dichiarava di aver visto», disse, girandosi a guardarlo. «Non c’era nessun fantasma. Non esistono queste cose». Si era chinata verso di lui, voltando la schiena alla cameriera e a Gideon.

Alfonso assentì, confuso: «La gente tende a inventarsi di queste storie».

Lara scosse la testa. Parlò con una certa insistenza. «Non c’era nessun fantasma perché, anche se l’esercito aveva ucciso neonati, bambini e donne indifese, anche se aveva bruciato vivi gli uomini, anche se era tornato sui propri passi per accertarsi di non aver tralasciato nessuno… una era sopravvissuta. Più di mille morti, ma una era ancora viva. Si era nascosta tra i cespugli e poi era corsa verso le montagne. L’ho incontrata durante gli scavi. Quando ci ha visto riesumare le ossa, è scesa dai monti. Voleva trovare i suoi figli». Lara si interruppe, gli occhi fissi sulla busta. «Era viva. È ancora viva».

La cameriera porse la seconda birra ad Alfonso, che scosse la testa. Aspettò, senza sapere cosa dire. Lara non gli aveva mai parlato tanto a lungo di qualcosa che non fosse il loro lavoro in Etiopia.

«Solo perché qualcuno è disperso», continuò lei, guardandolo negli occhi, «non significa che lo troveremo. Non c’è niente di certo, finché non se ne hanno le prove». Aveva lo sguardo puntato sulla macchina fotografica. «Se una cosa non la puoi vedere, non hai nulla».

Alfonso si aspettava che dopo quella frase lei si alzasse e se ne andasse, il silenzio sempre più pesante tra loro. Ma non lo fece. Al contrario, fissò la sua macchina fotografica così a lungo da spingerlo a sollevarla all’altezza degli occhi. Quando lei non reagì, tolse il tappo all’obiettivo e regolò l’esposimetro. Improvvisamente, ebbe l’impressione di poterla vedere meglio in questo modo, incorniciata in quel riquadro che lasciava fuori tutto eccetto gli occhi infossati e le guance scavate, il rapido sfarfallio delle ciglia e il lento oscillare della testa. Le dita, lunghe e sottili, salirono ad asciugarle un occhio, per poi ridiscendere lasciando di nuovo spazio al suo sguardo piatto e severo. La inquadrò.

«No», disse lei, decisa. Alfonso trasalì nel vedere il modo in cui Lara aggrottò le sopracciglia, sollevando rapidamente le mani a nascondere il viso.

«No, no… no foto», esclamò la cameriera, allungando la mano come per prendergli la macchina fotografica. «No».

Fu allora che Alfonso si accorse che Gideon si era alzato e si era coperto il capo con un braccio. La cameriera si era spostata in modo da mettersi davanti a lui, il corpo rigido e teso, la schiena dritta, forte. Il viso aveva perso tutta la sua amabilità.

Il vecchio diede loro la schiena e uscì, rapido. La porta cigolò sui cardini, prima di richiudersi. Lara si alzò in piedi.

«Domani cominceremo presto», dichiarò. Poi ringraziò la cameriera e uscì.

Una volta rimasti soli, la giovane si rilassò. «È un brav’uomo, è mio amico», disse, indicando la sedia lasciata vuota da Gideon. «Ma in Qey Shibir…», schioccò le dita, in cerca della parola giusta. «Terrore rosso. La rivoluzione del 1974. Non era buono. Era famoso, molte foto di lui ad Addis Zemen».

Alfonso annuì. Conosceva la storia del Terrore rosso, l’intenso periodo di violenze inflitte al popolo etiope da un dittatore dal pugno di ferro.

La giovane indicò di nuovo la sedia di Gideon. «Era un cantante».

«In un gruppo?» chiese Alfonso, ricordandosi di una piccola brochure del Ghion Hotel che raccontava la storia della celebre band dell’albergo. «Quale?».

Il volto della cameriera si rabbuiò e la ragazza gli porse di nuovo la seconda birra. «Ai funerali».

«Le famiglie lo adoravano, quindi?», chiese Alfonso. «Come Alberto Cortez nel mio paese».

La giovane asciugò l’interno di un bicchiere con uno strofinaccio e lo alzò verso la debole luce per esaminarlo. Poi lo appoggiò con delicatezza. «Era un cantante del Derg». Quando Alfonso scosse la testa, mostrando di non aver capito, continuò: «Cantava per celebrare le morti dei nemici del Derg. Le famiglie lo odiano. Anche adesso, certe persone non dimenticano mai». Lanciò un’occhiata verso la porta, sopra la sua spalla, lo sguardo assente. «Come si può dimenticare? Aveva una voce meravigliosa». Agitò graziosamente le dita di una mano.

A causa delle birre, la stanza cominciava ad assumere contorni sfumati: Alfonso aveva bevuto a stomaco vuoto. La fragile porta in legno, che non riusciva a impedire agli odori di Addis Abeba di penetrare nel bar, iniziò a pulsare lentamente, al ritmo di un’altra canzone che usciva dal vecchio stereo consunto. Gas di scarico, letame, fumo, berbere e, sotto sotto, il profumo dolce e pungente della mirra, misto all’aroma intenso che veniva dalla cameriera o dalla brocca in plastica del tej che non era stato abbastanza coraggioso da assaggiare, preferendo una birra etiope in bottiglia al vino al miele della casa.

«Sei ad Addis Abeba in visita?», chiese la cameriera, il sorriso freddo e lo sguardo acuto che lo costrinsero a riportare gli occhi dai suoi fianchi al viso.

Non sapeva quando l’orrore era diminuito e lui si era ritrovato a mettere in posa i suoi soggetti, aggiustando loro i vestiti e usando le ombre per nascondere i lividi. Era un impulso sviluppatosi a poco a poco, tra rapporti e punti focali. Il leggero movimento per includere l’intero volto nell’inquadratura si trasformò in attenzione all’espressione e alla composizione. Non avrebbe mai chiesto a nessuno di sorridere, si diceva, ma con i prigionieri dall’aspetto migliore, i cui tagli partivano da sotto lo scollo della tunica, si scoprì incapace di resistere. Incurvi un poco la bocca, señorita, ammorbidisca un po’ il viso, sussurrava. Solo per me, non pensi ai soldati. Lo sguardo che gli rivolgevano era pura impotenza.

A un certo punto, dopo aver scattato centinaia di foto a centinaia di prigionieri che erano usciti dall’inquadratura per finire in una sala interrogatori o davanti al plotone di esecuzione, Alfonso aveva cominciato a nascondere al comandante alcuni rullini incriminanti. Aveva sognato la madre, con il suo disprezzo per la fotografia, per quella scelta così borghese in una famiglia di operai. Ti trasformerà in qualcos’altro, gli aveva detto una volta, non sarai più mio figlio. Nel sogno, la madre si era trasformata  in un uccello che aveva becchettato incessantemente il soffitto del quarto piano della Escuela de la Armada fino a fare un buco nella stanza, per poi volare sulla sua macchina fotografica, appollaiandosi sul flash. Gli occhi sgranati, che andavano da lui al lenzuolo che aveva fissato al muro, lo avevano spinto a svegliarsi, la mano che fendeva vanamente l’aria.

«Ci penso io a tenerglieli, Comandante», aveva detto Alfonso il giorno dopo, di fronte all’uomo dal respiro pesante che sudava profusamente, un fazzoletto umido sempre in mano. «Lei non ne ha bisogno, sono solo un impiccio». Si era messo un rullino usato nella tasca dei pantaloni sudici che indossava fin dal giorno dell’arresto. Aveva infilato le pellicole esposte prima nelle tasche davanti, poi nelle tasche dietro, poi nella tasca della camicia e, quando lo spazio era finito, aveva fatto un gran sorriso innocente e se ne era messa qualcuna anche nei calzini.

Ogni volta che poteva, nascondeva una manciata di rullini nella sua cella, uno stanzino squadrato e freddo in cui erano rinchiusi una ventina di prigionieri, a rotazione. Raul, uno studente universitario con un viso infantile e una determinazione incrollabile, aveva scavato un buco nel muro per nasconderli, dormendoci o posizionandocisi davanti, finché un giorno anche lui fu chiamato a posare davanti all’obiettivo. Alfonso incise una R sul contenitore della pellicola che racchiudeva il sorriso indulgente di Raul. Quattro anni più tardi, quando venne rilasciato di prigione dopo la caduta della junta, fu la prima cosa che prese e si fece scivolare nella tasca della camicia.

Se esisteva qualcosa di simile a una redenzione, pensò, avrebbe dato alle famiglie di quei prigionieri la dimostrazione che, una volta, un uomo aveva guardato in faccia i loro cari e ci aveva visto una vita degna di essere ricordata. Sperava che nessuno avrebbe sottolineato il fatto che non aveva mosso un dito per risparmiare loro l’onta di essere fotografati appena prima di morire.

«Sei un turista, in visita?», domandò nuovamente la cameriera.

«Sono qui per lavoro», disse lui, accennando alla sua macchina fotografica.

«Giornalista?», chiese lei, l’espressione improvvisamente curiosa e interessata. «Per il processo agli ufficiali del Derg?». Pronunciò le ultime parole quasi sputando, il viso contorto in una smorfia adirata. «Devono morire per quello che ci hanno fatto. Ci uccidevano, i corpi lasciati in strada. Mia sorella…». Si interruppe e fece un profondo respiro. «È un bene che sei qua», concluse semplicemente e gli diede le spalle, come imbarazzata.

Dopo la rivoluzione che aveva detronizzato Hailé Selassié nel 1974, il regime del Derg aveva regnato fino a tre anni prima, nel 1991. Menghistu Hailé Mariàm aveva dichiarato il Terrore rosso per liberarsi di tutta l’opposizione, costituita da un segmento della popolazione che ad Alfonso era fin troppo familiare: giovani istruiti, idealisti e innocenti, il cui unico crimine era la speranza. Il Terrore rosso aveva quasi privato l’Etiopia di un’intera generazione, mantenendola nelle salde grinfie di una violenza caotica e sanguinosa dal 1977 al 1978. Le violenze, però, erano cominciate ben prima e non si erano fermate fino alla fuga di Menghistu. Molti non erano riusciti a piangere degnamente i propri morti. Altri non avevano neanche mai ritrovato i corpi. Una delle prime iniziative del nuovo governo fu di avviare la procedura per processare gli ufficiali del Derg. Ma il tribunale aveva bisogno di prove.

La squadra di scienziati forensi era arrivata dall’Argentina con competenze affinate nella propria terra, sulle ossa della propria gente. Erano venuti a riaprire le fosse comuni di Addis Abeba per dimostrare ciò che gli ex ufficiali del Derg tentavano di negare. Il gruppo era stato anche in altri paesi ─ Kurdistan, i Balcani, El Mozote, Croazia ─ prima dell’Etiopia, per cui era consapevole del potere che i morti erano ancora in grado di esercitare. Tutti loro lavoravano nella convinzione che i testimoni, i documenti e persino le fotografie potessero ingannare, ma che un teschio ricomposto, un frammento d’ossa, uno scheletro recuperato da una fossa piena di resti di decine di altri raccontassero una verità da cui non ci si poteva difendere.

Alfonso, per parte sua, era andato in Etiopia perché voleva trovarsi davanti a quelle spoglie e fingere che quelle ossa potessero sostituire i prigionieri argentini che sapevano a cosa stavano andando incontro, quando si giravano a guardare il suo obiettivo. So come fotografare i morti, aveva detto a Lara durante il colloquio. Ci conosciamo. Alla fine, lei aveva ceduto.

«Come si chiama il cantante?», chiese alla cameriera, sbattendo rapido le palpebre per trattenere le lacrime. Si sorprendeva ancora di quanto gli capitasse facilmente di piangere, da quando era uscito di prigione. Indicò la porta dietro di sé, come se l’uomo fosse ancora lì.

«Gideon», rispose la giovane. «Un tempo aveva un figlio», aggiunse, scuotendo tristemente la testa.

II

Tornando verso casa sua, vicino al mercato affollato, Gideon non sapeva cosa pensare dei ferenjoch seduti nel suo bar preferito, a parlare con Konjit. Vedere quegli stranieri lo aveva sorpreso a tal punto che aveva mandato giù la sua birra in soli tre sorsi. Forse Konjit aveva messo su quella canzone per i turisti. Forse era il suo modo di chiedergli perché non era andato a trovarla per un’intera settimana. Forse era il suo modo di punirlo. Molti, ad Addis Abeba, trovavano dei modi, per quanto piccoli, di fargli pagare ciò che aveva fatto. Una gomitata ben assestata in mezzo alla folla. Calci sulle gambe. Ritrarsi da lui neanche fosse un lebbroso. Il linguaggio utilizzato in quei momenti lo capiva, se lo aspettava. A volte, quando pensava al figlio, lo desiderava addirittura. Ma la canzone, Tizita, gli aveva fatto l’effetto di uno schiaffo, forte e carico di amarezza: l’improvvisa comparsa della voce di Tilahun Gessesse che si innalzava nella scarsa luce del tej bet era stata come un pugno nel petto. Quella era la canzone che sceglieva sempre per concludere le sue esibizioni a palazzo, prima del Derg.

Samson, avrebbe invocato se avesse avuto una voce, tanto era stato lo shock di risentire quella canzone. Avrebbe invocato il nome del figlio e, nel mondo in cui avesse avuto ancora una voce, avrebbe avuto ancora un figlio, che sarebbe arrivato di corsa. Samson, figlio mio.

Abbaba.

Il canto di un muezzin si alzò nel vento dalla moschea di Anwar, leggero e vibrante. Come faceva ogni giorno quando sentiva la chiamata alla preghiera, pur avendo abbandonato qualsiasi religione molto tempo prima, Gideon si toccò la gola e maledisse il suo dono, deciso a tenerlo intrappolato lì dove l’aveva rinchiuso ormai da anni. Passò davanti a un piccolo caffè, accanto a uno dei negozi stracolmi di gente della zona, e vide un gruppo di uomini chini sopra i giornali, l’aria corrucciata. Un giovane strillone corse verso di lui con i sandali impolverati, agitandogli il giornale in faccia.

«Sono iniziati gli scavi al complesso militare», disse, gli angoli delle labbra secche segnati dall’abitudine di masticare le foglie di qat dall’effetto stordente. Aveva occhi come di vetro, uno sguardo sfocato che un tempo Gideon aveva invidiato e di cui aveva persino creduto di avere bisogno.

Cercò di mandare via il ragazzo e di continuare per la sua strada, ma lui gli infilò una mano in tasca e ne estrasse un piccolo involto di qat. «E queste?» chiese.

Gideon aveva provato le foglie per la prima volta poco dopo la scomparsa di Samson, alla ricerca di qualcosa che alleviasse la solitudine che lo tormentava come una lama piantata nel fianco. Le masticava da solo, in un angolo buio della sua casupola, dove il letto del figlio giaceva sfatto, così come era stato lasciato settimane prima. Era il 1978. Lui non era più un cantante della popolare band tanto amata dall’imperatore Hailé Selassié. L’imperatore era morto. Centinaia di persone avevano lasciato il paese. Cubani e sovietici sembravano essere comparsi dal nulla. C’erano soldati ovunque.

Due poliziotti erano arrivati alle cinque del mattino e avevano portato via Samson per interrogarlo. Avevano promesso che glielo avrebbero riportato a casa. Gideon sapeva di questa popolare menzogna, atta a zittire i genitori costringendoli all’ubbidienza. Aveva afferrato il figlio alla vita con entrambe le braccia e si era lasciato cadere in ginocchio. Uno dei poliziotti aveva preso il fucile e si era messo a colpirlo alla nuca, una volta e poi ancora, finché non aveva mollato la presa. Si era precipitato subito alla prigione, ma gli era stato detto di tornare il giorno dopo. Aveva passato la notte sui gradini, fuori dalla porta e, quando era rientrato con la foto del figlio, un agente dall’aria stanca lo aveva indirizzato all’obitorio dell’ospedale. Provi lì, aveva detto, li hanno portati tutti là ieri notte.

Due settimane dopo, senza essere riuscito a trovare traccia di Samson, si era presentato a un chioschetto del mercato, chiedendo del qat.

«Gideon», gli aveva detto il proprietario, «non è da te. Aspetta, vai in chiesa, vedrai che tuo figlio tornerà». Ma non era riuscito a guardarlo negli occhi e alla fine aveva fatto scivolare verso di lui un piccolo involto di foglie, rifiutando il denaro che gli aveva allungato in cambio.

L’unica cosa che il qat riuscì a fare fu di dare forma al suo dolore rendendolo più vivo, una creatura che gli si annidò nel petto, pelo, denti e tutto, rodendogli la gabbia toracica. Gli pareva di avere il torace teso come un tamburo. La voce che invocava il figlio sembrava quella di sua moglie, ma, quando si girava, non trovava altro che la sua mano che si dimenava invano nell’aria, alla ricerca della donna che gli aveva insegnato ad amare per poi morire di parto.

«Sono iniziati gli scavi», ripeté lo strillone, agitandogli il giornale in faccia. «Leggi, leggi. Stanno lavorando laggiù». Indicò le colline ondulate dove si trovava una base militare. «Se hai perso qualcuno nel Qey Shibir, dovresti leggere l’articolo».

Gideon pagò il giornale e diede una scorsa alla prima pagina. Lì, a lato di una fila di uomini e di una donna dall’aria seria, c’era il turista del bar di Konjit.

Indicò la foto, guardando il giovane strillone con aria interrogativa.

«Non lo sai?», rispose il ragazzo. «Ci sono delle tombe nella base militare. Queste persone», indicò l’immagine sul giornale, «sono venute qui per dissotterrare i corpi. Sanno come si fa».

La mano di Gideon tremò. Suo figlio era stato portato in quella prigione: aveva seguito il camion a piedi, finché aveva potuto, poi aveva preso un taxi fino al cancello. Aveva memorizzato la targa e aveva rivisto lo stesso camion, vuoto, nel parcheggio. Gideon si strinse il giornale al petto e si appoggiò con tanta veemenza sulla gamba buona da rischiare quasi di finire contro lo strillone, il ricordo dei giorni passati a cercare il suo unico figlio che lo schiacciava come una mano greve.

I soldati lo avevano guardato da dietro il banco, la foto di Samson spinta verso di loro da mani tremanti. Si erano rifiutati di rispondere alle sue domande. Avevano cercato di ignorarlo. Gli avevano dato la schiena e lasciato che la voce gli diventasse roca a furia di chiedere dove avessero portato il figlio. Lo avevano fatto restare lì, davanti al bancone, a piangere per lui. Poi avevano iniziato a stancarsi di quel suo dolore senza fine. Uno di loro lo aveva minacciato. Un altro lo aveva supplicato di tornarsene a casa. Quando lui non si era mosso, con quella postura inclinata che lo obbligava ad appoggiare un gomito al banco, lo avevano ricacciato indietro a calci e pugni. Gli avevano colpito la gamba più corta con i fucili e lo avevano guardato cadere. Avevano insultato il nome di suo padre, la sua band, la moglie morta. Eppure, la mattina dopo Gideon si era alzato ed era tornato alla prigione, la foto di Samson tra le mani.

Alla quarta visita, uno dei soldati aveva tirato fuori un foglietto, aveva indicato Gideon e aveva detto: «Forse è lui quello che il generale sta cercando».

Quando lo avevano portato in un altro edificio, accanto alla prigione, non aveva protestato, perché loro sapevano dov’era suo figlio e a lui interessava solo quello. I soldati lo avevano spinto fino davanti a una grossa scrivania in legno, dove un uomo sottile come uno stecco tossiva sulla sua sedia, tenendosi la pancia. L’uomo lo aveva esaminato a partire dai piedi, le labbra che si arricciavano mentre passava da una gamba all’altra, per distendersi in un ampio sorriso quando arrivò al volto.

«La grande voce dell’Etiopia, con un talento degno di un imperatore, è qui nel mio ufficio, a offrirsi di cantare per la nostra causa?», aveva chiesto. «A cosa dobbiamo tanta fortuna?».

Tornando a casa, Gideon si era ricordato di una storia che aveva imparato a scuola. C’era una volta una capra che credeva di essere un re. Fu catturata da un contadino, che scambiò il re per una capra. Devi solo cantare, si disse. Le cose non cambiano perché le si chiama con un altro nome. Una canzone non è altro che una canzone, ma un figlio, pensò una volta e ancora, un figlio… Si fermò e sospirò per tutto ciò che un figlio può significare.

Il suo primo funerale era stato per l’unico figlio di una coppia che non riusciva a smettere di scuotere la testa alla vista della tomba del proprio bambino. «È tutto vero? È lui? Mio figlio?», gemeva la madre, stretta al petto del padre in lutto. Gideon maledisse la propria voce, la propria gola, l’aria che respirava. Tenne le labbra serrate finché non sentì il fucile di un soldato nel fianco. Iniziò con un brano dolce, triste, pieno di dolore e nostalgia, ma i soldati levarono le armi, dichiararono il cadavere un nemico e lo costrinsero a cantare del valore del presidente Menghistu. Dopodiché, puntarono i fucili contro la madre e dissero: «Balla, Emama, non si piange per coloro che odiamo».

Ogni giorno, per una settimana, Gideon andò al bar di Konjit ad aspettare i due ferenjoch. Indossava il suo unico completo, di quando ancora suonava con la band. Era un gessato dal bavero ampio e con un fazzoletto blu cucito nel taschino della giacca. Nella tasca della camicia, invece, teneva la foto di Samson. Ordinava una birra e la beveva lentamente, a piccoli sorsi. E aspettava, ignorando le occhiate interrogative di Konjit e i suoi tentativi di parlargli.

Durante la seconda settimana, una sera, verso l’orario di chiusura, l’uomo arrivò da solo, proprio mentre Konjit stava cercando di convincere Gideon a tornarsene a casa. Il vecchio sentì il palato seccarglisi di colpo, anche se aveva appena mandato giù un po’ di birra. Si girò di scatto, a bocca spalancata, e, per la prima volta in tanti anni, si pentì di aver ingoiato la propria voce, di averla fatta sparire.

L’uomo aveva gli occhi segnati da profonde ombre scure. Era coperto da un sottile strato di polvere e il peso della macchina fotografica che portava su una spalla sembrava farlo pendere di lato. Non guardò né Gideon né Konjit, concentrando lo sguardo sulle lettere amariche dell’etichetta di una bottiglia di birra posata sul bancone. Respirava con la bocca aperta, in brevi singulti. Gideon non riuscì a capire se fosse sul punto di mettersi a piangere o semplicemente esausto.

«Birra?» chiese Konjit, allungandogli una bottiglia fresca. «Sei stanco?». Sorrideva, ma il sorriso le morì sulle labbra quando l’uomo non le restituì lo sguardo. Appoggiò la birra davanti a lui e si girò a impilare i bicchieri puliti su uno scaffale.

Gideon tastò la foto di Samson, i contorni premuti contro la camicia, marchiati a fuoco sulla sua pelle nuda. Il cuore gli martellava contro quel pezzo di carta, facendogli rimbombare il nome del figlio nel petto e su, fino in gola. Aprì e richiuse la bocca in parole silenziose.

L’uomo allontanò da sé la birra e prese a respirare in modo più regolare. Teneva le mani piatte sul bancone, fissandole intensamente. Si mise a svuotare la macchina fotografica, e labbra gli tremarono un poco mentre toglieva il rullino e se lo faceva scivolare nel taschino della camicia. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

Gideon estrasse la foto di Samson dalla tasca e la appoggiò delicatamente sul bancone di fronte a lui. Gli toccò una spalla, lasciando lì la mano in segno di conforto, e guidò lo sguardo dell’uomo prima verso la foto e poi verso se stesso. Ripeté il gesto: Samson e poi lui. Il viso di Samson e poi il suo.

Konjit scosse la testa, lo sguardo triste. L’uomo si voltò dall’altra parte, portandosi entrambe le mani alla faccia come a proteggersi da una luce troppo intensa.

«Please», disse, una delle poche parole inglesi che Gideon era in grado di comprendere. «Per favore, basta». Mosse il capo avanti e indietro e sussurrò qualcosa a Konjit, gli occhi incollati al bancone, fissi sulle mani che stringevano la birra come se quella bottiglia fosse l’unica cosa in grado di tenerlo in piedi.

«Lascialo in pace», disse Konjit a Gideon, gli occhi fissi sulle labbra dell’uomo. «Ha detto che sono arrivate troppe famiglie, oggi».

Gideon scosse la testa e spinse la foto ancor più verso di lui. Gli bussò di nuovo sulla spalla, indicando di nuovo la foto. Samson, scandì, disperato. Samson. Lo guardò e attese.

L’uomo disse qualcosa in inglese a Konjit e poi accennò col capo nella sua direzione.

La giovane fece un profondo respiro e parlò con tono gentile: «Ci sono soltanto ossa ora, Gideon. Non c’è modo di identificarle da una foto».

Ma le ossa non sono tutte diverse? Avrebbe voluto chiedere lui. La forma del volto di mio figlio non è diversa da quella di chiunque altro? Guardate la sua mascella, così forte, con quelle linee decise. Chi altro può averla così, se non il mio Samson? Guardatelo! Gideon avrebbe voluto urlare. Non c’è nessuno come lui. Anche dopo che la carne è diventata polvere, anche dopo che tutto si è trasformato in cenere. Rimane ancora lui.

III

Gideon viene a guardarci scavare tutti i giorni, da una settimana. Si mette sotto un albero e rimane lì tranquillo, reggendo una foto all’altezza del cuore. Indossa un vecchio completo ben stirato. Le scarpe sono lucide come quelle di un soldato e, anche da lontano, noto che una ha un tacco più alto dell’altra. Quando il sole cala e accendiamo le luci per continuare a scavare, Alfonso va a sedersi con lui. Non parlano, ma li vedo lì, seduti vicini, quasi appoggiati l’uno all’altro. Non se ne va finché non mettiamo via l’attrezzatura e saliamo in macchina. Alfonso resta finché Gideon si alza per andare a casa, aiutandolo a tirarsi su e dicendo parole che non riesco a sentire da dove sono accovacciata, a catalogare pezzi di quelli che un tempo erano uomini.

All’inizio avevo negato la richiesta di Alfonso di venire con noi in Etiopia. È solo un peso e un costo in più, avevo detto, cercando di addurre ragioni professionali per il mio rifiuto. Diego mi aveva presa da parte e aveva sussurrato: Lara, non te lo ricordi ai notiziari? Lo hanno tenuto prigioniero per anni. Le cose che gli hanno fatto. Lascia che venga. E poi, ha dato alla mia famiglia l’ultima foto di mio fratello.

Non voglio chiedergli se si ricorda di mia sorella. Non ne ho il coraggio. Alicia è sfuggita alla polizia la notte in cui hanno cercato di arrestarla. Era sempre stata la più veloce della scuola, capace di superare anche i ragazzi. Sarà corsa fin fuori Buenos Aires e si sarà lasciata galleggiare fino a un posto nuovo. Tornerà, quando avremo finito con tutte queste ossa.

Abbiamo quasi terminato. Le spoglie sono state esumate e adagiate su tavoli di metallo, cercando di restituire loro una forma umana. Abbiamo impacchettato ed etichettato vestiti, gioielli e documenti di identità. Tutti i corpi sono stati identificati. Ora il lutto può davvero avere inizio. Il nostro lavoro è finito. Presto ripartiremo per l’Argentina, finché non ci richiameranno, qui o in un altro posto colmo di orrori ancora senza nome.

Ho diviso le informazioni sull’Etiopia tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Tra fatti e ipotesi. Non c’è posto per gli scomparsi. Nel mio rapporto non ci sarà spazio per le speranze di coloro che hanno sentito la storia di Lazzaro e ci hanno creduto. Tutto ciò che abbiamo è quello che possiamo disseppellire, osservare controluce e rimettere dov’era.

Questo è ciò che sappiamo di quest’ultimo scavo: quaranta maschi adulti sono stati portati in un angolo boscoso della base militare e strangolati con una corda di nylon. Alcuni recavano anche i segni di forti colpi al cranio, nasi rotti, fratture a mani e piedi. Ogni pezzo di corda era tagliato esattamente a 159 centimetri, le estremità sigillate con il calore per evitare che si sfilacciassero. I carnefici (una sola persona avrebbe mai avuto la forza di uccidere quaranta uomini che volevano vivere?) avevano praticato dei nodi semplici a ciascuna estremità, per facilitare la presa. Dopodiché, avevano girato la corda attorno al collo dei prigionieri.

Questo, invece, è ciò che possiamo solo ipotizzare: alcuni dei prigionieri avranno provato a ribellarsi, ma non tutti. Era una lotta inutile. Sono morti tutti per strangolamento da corda. Mi chiedo quali abbiano resistito più a lungo e se ogni alito di vita in più sia valso la pena di lottare.

Erano sepolti sotto diversi metri di calce e sassi. Li abbiamo trovati sotto pietre e cenere. Erano vestiti. Tutti, tranne uno, erano avvolti in una coperta: sarà stata una notte fredda. Tutti, tranne quell’uno, avevano ancora la corda di nylon stretta attorno al collo. Quel prigioniero morto senza coperta, la corda lanciata lontano, quale storia potrebbe raccontarci, quale segreto nascondono i suoi resti? Me lo domando mentre copio i dati su carta, registrandoli di modo che, la prossima volta che ci troveremo a scavare, la storia di queste ossa rimanga a guidarci.

Sto prendendo gli ultimi appunti, appoggiata a un albero poco lontano dagli scavi, quando Alfonso e Gideon vengono verso di me. Appena alzo lo sguardo, sembrano esitare.

«¿Sí? Posso aiutarvi?», chiedo ad Alfonso, cercando di non essere scortese, per rispettare quello che deve aver visto e subito alla Escuela de la Armada. Mi accorgo che lo sguardo tormentato che aveva quando è venuto da noi la prima volta non è cambiato. È permanente, come una cicatrice.

«Gideon. Ha qualcosa da farti vedere». Indica il vecchio, che tira fuori una fotografia dalla tasca e la tende verso di me, tenendola tra le mani a coppa come un uccello ferito. «Questo è suo figlio Samson», spiega Alfonso. «È scomparso anni fa, era rinchiuso qui».

Scuoto la testa, sapendo già cosa vuole chiedermi. «Abbiamo trovato tutti. Non è rimasto nessun altro. Digli che mi dispiace». Mi meraviglio di fronte a quest’uomo che vuole trovare le ossa del figlio, che preferisce non credere alla possibilità della fuga.

«Per favore, dai un’occhiata», insiste Alfonso. Si interrompe. «Per il suo bene, dai almeno un’occhiata alla foto. Poi glielo puoi dire».

Vedo un giovanotto, quasi un ragazzino, con lo sguardo attento e un ampio sorriso. Vedo la mascella forte e gli zigomi alti del padre, un dente davanti scheggiato e la fronte spiovente. È carne e sangue, questo ragazzo, così vivo. Noi riesumiamo solo i morti.

«No», dico «non è qui».

— © 2021 Maaza Mengiste

ARTICOLO n. 29 / 2021

La pantera che visse tre volte

UNA FAVOLA

Aveva sbranato schiavi, liberti, prigionieri, soldati stranieri dell’esercito romano, per qualche ragione, reietti. Insomma, non-cittadini della Roma imperiale condannati non sapeva nemmeno per quali colpe alla damnatio ad bestias. Il sommo supplizio. Essere dati in pasto alle fiere. Uomini che non erano degni nemmeno delle sue zanne. Pure qualche donna, ma di rado.

Certi giorni, prima di essere spinta dentro l’arena con quelle torce spaventose che le fiammeggiavano alle spalle, aveva visto portar via resti di carcasse. A centinaia, persino a migliaia in qualche occasione. Felini nobili: tigri, leoni, pantere come lei, ma anche lupi e orsi dalla Gallia, cinghiali o mangiatori-di-erba: cervi dalla Britannia, giraffe e antilopi dall’Egitto, bisonti dalla Germania, alci, camosci, daini, o ancora pollami di basso rango: ridicoli struzzi sgambettanti sui trampoli delle loro zampe.

Tutto l’Impero di Roma concentrato in quell’arena sotto forma di bestie catturate e sopravvissute al trasporto da ogni angolo del mondo conosciuto e vinto. Occidente e Oriente. «Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo», diceva la profezia, perché l’impero era tutto, era ovunque, era l’inizio e la fine.

Ha ancora nelle narici l’odore di acqua e zafferano spruzzato nell’aria dopo che l’arena era stata ripulita delle carcasse di tutte le bestie che si erano fatte uccidere dalle lance dei venatores o si erano sbranate tra loro in lotte feroci, per sopravvivere l’uno all’altro o forse per il tuono che arrivava dalla cavea, il vociare elettrizzato, martellante, di senatori, vestali, cavalieri, il boato che calava dagli ordini più alti delle gradinate. Decine e decine di migliaia d’umani impazziti di sangue e lotte. Impazzita pure lei.

Avanzava con passo silenzioso immersa nel nero vellutato del suo manto che rifrangeva scaglie di sole. Per buona sorte, per paura o forse perché si erano resi conto di quanto già fossero maestose le schegge verdi degli occhi immerse nel nero della testa, era successo solo una volta che un umano si fosse permesso di costringerla a presentarsi in pubblico con un cinto stretto al collo adorno di borchie. Chi lo aveva fatto si era a malapena salvato da un colpo mortale della sua zampa possente. Nessuno ci aveva più provato.

E comunque… dopo che gli umani portatori di torce la spingevano dentro, lei avanzava silenziosa. Poi si fermava in mezzo all’arena infuocata in attesa che il vocio si facesse boato, che nella cavea nessuno, nemmeno l’ultimo degli ultimi schiavi, continuasse il proprio pranzo… per assistere al suo. Un pasto che soltanto il suo incedere felino, lento, cadenzato, incurante, prolungato e poi scattante in uno slancio improvviso rendeva degno d’ammirazione. Perché l’umano, schiavo o liberto, straniero o prigioniero che fosse, alla fine quasi cominciava a sperarci che gli andasse come Androculos, per il quale un leone aveva sbranato un’altra fiera pronta ad azzannarlo pur di difendere quello schiavo che anni addietro gli aveva sfilato la spina dalla zampa. Le idiozie cui amano credere gli uomini. Era a quel punto, proprio quando l’umano la fissava in attesa di un qualche miracolo, che lei cominciava a stringergli intorno il cerchio dei passi, mentre quello prendeva ad arretrare, costretto a gesti storti dalle mani legate dietro alla schiena.

Non ha esattamente idea di cosa le accadesse nel profondo della sua felinità, selvatica catturata sopravvissuta al viaggio verso la sua sorte d’animale da circo, non ha idea di quale fuoco le ardesse dentro improvviso quando il boato della cavea diventava così potente che lei doveva scattare e assecondare la richiesta di sangue. O forse era quell’umano ingobbito di paura, nudo, che prendeva a dimenarsi per scappare dai lacci stretti ai polsi e dai suoi occhi vitrei a farsi improvvisamente preda. Era così inerme, e talvolta così implorante un qualche dio perché tutto si compisse che a lei bastava un assalto istantaneo per divorare carni e ossa, lasciando per terra il sangue invocato da migliaia di respiri e sguardi, insieme a rimasugli di niente.

Per il resto, la sua esistenza era un andare avanti e indietro prigioniera tra le sbarre, e pasti di carne-morta consumati dentro la gabbia, finché non era stata lei, ormai vecchia, a finire in pasto durante uno scontro con un grande felino giovane. Troppi combattimenti su muscoli e ossa, centinaia di condannati a morte divorati nei supplizi dell’ora di pranzo in attesa del grande spettacolo di umani in lotta contro umani. Era caduta con onore, comunque, dopo un combattimento diventato leggenda per giorni.

Quando si è ritrovata gatta nella su seconda vita, all’inizio non le è sembrato una reincarnazione degna del suo passato di pantera. Una piccola gatta nera sperduta tra rovine monumentali del Colosseo. Non immaginava ci fossero tanti ordini di gradinate da salire e scendere. Né che quel luogo potesse essere così immobile e silenzioso in certe ore del giorno e soprattutto nelle notti, spalancate di cielo e stelle tra le gradinate della cavea. Le prime notti in cui era tornata a muoversi nel buio come un felino libero. Non era la savana certo, ma un’immensità di pietra e cielo di cui aveva conosciuto solo il frastuono tonante, il dimenarsi concitato del pubblico, il boato che accompagnava i supplizi dei condannati durante l’esistenza in cui era stata catturata, chiusa dentro un serraglio, strappata all’Africa, e poi costretta a vivere la vita di una pantera da circo.

Ci è voluto un bel po’ prima di prendere coraggio e allungare i suoi piccoli passi felpati verso l’ombra portentosa dei fornici, i resti di colonne, i muretti, e infine la strada: tra gli ambulanti che vendevano il sogno di Roma e i gladiatori finti che assomigliavano a certi fondali mitologici in cui si era ritrovata a compiere le sue esecuzioni, ma privi di ogni magnificenza. Una volta che si era soffermata a guardare due legionari bardati di latta mettersi in posa per le foto, la sua anima di pantera da combattimento aveva avuto un sussulto di disprezzo.

Tornare a calpestare l’arena era un desiderio profondo che a lungo però si era negata, tanto le incuteva paura. Anche nei confronti degli umani che durante il giorno si aggiravano in gruppi tra le pietre archeologiche provava, se non vero e proprio timore, un sentimento di diffidenza. Per questo i primi tempi se ne teneva alla larga. Non si sa mai cosa può fare un umano, per quanto addomesticato e in apparenza mansueto.

Una notte però era accaduto. La luna era talmente piena e gialla che ambrava di luce-calda cielo, gradinate, colonne. Anche l’arena era di un giallo-sabbia che evocava antichi splendori. Dalla cima della cavea lei aveva scorto tre felini maculati come linci che si aggredivano in assalti, fuggivano, poi tornavano a battersi rompendo il silenzio. Non sa esattamente quale forza le avesse attraversato il pelo lucido. Aveva rivisto i marmi, le toghe bianche dei senatori, il palco dell’imperatore, il tripudio, e si era slanciata giù dall’ultimo ordine di gradini destinato alla plebe per tornare a incedere sulla sabbia, e lottare, i muscoli tesi sotto il manto nero splendente.

Una volta piombata dentro l’arena, il legno nudo sotto le zampe l’aveva riportata al tempo di quella sua seconda vita e alla realtà. Le linci erano tornate a essere gatti, non diversamente da lei, solo ancora più gialli e maculati nel chiarore lunare. Gatti randagi che si azzuffavano sopra quel che restava in un angolo della sabbia di un tempo.

Da quella notte, aveva appreso un modo mai immaginato prima di muoversi sulle assi di legno di quella che era stata l’arena. Passeggiava in quell’immensità e, quando c’era il sole, si stiracchiava, abbandonandosi sul legno tiepido per godersi il calore. Né, da allora, si era più acquattata pronta a predare uccelli, topi, lucertole. Aveva scoperto piuttosto il gioco d’agguati della vita da gatti domestici, i finti assalti alle gambe degli umani che col tempo aveva imparato a conoscere e che ogni giorno le davano da mangiare, da bere, e caute carezze. Imparò anche le fusa. Si mise a seguire docile i gruppi di umani che si aggiravano ignari tra i resti del Colosseo, con la silenziosa presenza di chi sa e custodisce memorie di cui conosce e ha sperimentato la ferocia del sangue agognato.

L’anima selvatica del suo passato di pantera da esecuzione delle damnatio adesso si manifestava improvvisa in graffi che lasciavano il segno sui turisti occasionali che provavano a toccarla. O forse era la memoria della cattura e del serraglio, della vita prigioniera che affiorava e la faceva scattare in difesa. Don’t touch me era stampato sul collarino che una delle responsabili del sito archeologico si era decisa a stringerle al collo per mettere in guardia i turisti. Non l’aveva graffiata solo perché era una creatura docile che ogni giorno le riservava cibo e carezze ma, dopo non molto, era riuscita a strapparselo via. Nessuno doveva permettersi di stringerle cinghie alla gola. Nemmeno adesso che era solo una gatta sempre più mansueta. La «guardina» del Colosseo. Così era stata infine denominata in quella seconda vita: un profilo nero che per dieci anni aveva custodito le rovine monumentali finché il pelo non era diventato opaco e rado, le forze si erano affievolite e la malattia non l’aveva infine lasciata esanime tra le pietre della Roma imperiale e il cielo.

«Ciao Nerina… Le fusa, i graffi, l’incedere su e giù per le scale ci mancheranno ogni giorno e ci sembrerà di vederti ancora stiracchiarti felice al sole, sull’arena… Con amore, da tutti noi». In questo modo era stata salutata dai responsabili del Parco archeologico.

La seconda vita infine non era stata poi così male.

La terza vita durò quel che durò. Non avrebbe mai immaginato di finire in un porto di un’isola in mezzo al mare tra il puzzo di pesce marcio: avanzi di teste, branchie, visceri, fegati, scaglie di merluzzi, saraghi, sardine, orate su cui si lanciavano famelici i gatti del porto, rognosi e grassi. Non lei che aveva ancora il profilo reale di un tempo, una gatta nera, solo più smagrita e con il pelo opaco di salsedine. La sua vita era fatta di puzzo di nafta che fuoriusciva dal motore del gozzo, di reti calate in mare alla sera e ritirate all’alba, di urla di pescatori, bestemmie quando c’era il mare grosso o si levava il maestrale, e pedate che non la colpivano ma la facevano sloggiare quando si posizionava dove non doveva stare, intralciando il lavoro. Adesso era insomma una gatta di bordo. Si era intrufolata minuscola tra i legni di un gozzo ed era rimasta lì, a prendersi di tanto in tanto qualche carezza ruvida dal pescatore che l’aveva adottata, chiamandola «Gatta» e basta.

Non scendeva a terra nemmeno quando si ritornava in porto. Se ne stava piuttosto sulla prua a osservare ora il mare oleoso che ondeggiava pesante ora la fanghiglia del basolato con i piccoli banchi del pesce dove si accalcava la gente. Aveva assistito a risse per accaparrarsi una cassa di totani o di gamberi ancora vivi. Aveva visto mani frantumare il carapace di crostacei e bocche masticarne la polpa rosata. E aveva provato disprezzo, perché non c’era nessuna grandezza in quei gesti, nessuna lotta fatale, e nemmeno ferocia. Solo il fare noncurante degli umani.

Quel che più le pareva insensato era il modo furibondo in cui i pescatori si accanivano sui corpi molli dei polpi vivi, azzannando la testa o battendola violentemente contro il legno del gozzo finché i tentacoli non smettevano di dimenarsi, afflosciandosi.

Certe notti di luna piena tornava a sognare l’arena, le pietre monumentali, e la quiete della seconda vita, o quel che le rimaneva ormai nella memoria dell’Africa con le sue notti d’ebano che esplodevano di stelle, le corse senza orizzonti nella savana, gli alberi possenti su cui si inerpicava, il cibo cacciato con passo silenzioso e occhi pronti. Anche adesso, a volte, saltava da un gozzo all’altro per arrivare all’albero di una barca a vela ormeggiata nel porto. Gli artigli non erano quelli di un tempo. La voglia di salire in cima sì. Ma il mare è una brutta bestia. La salsedine scrosta la pelle. Il sole cuoce il pelo. E anche la vita lì ha i suoi rischi. Un colpo di arpione, durante una pesca concitata tra onde alte come muraglie, le aveva bucato uno dei suoi occhi di smeraldo.

Fu con un solo occhio dunque che una mattina all’alba vide ribollire il mare in mezzo alle reti. Creature confuse che si dimenavano. Pesci che dovevano essere tanti e alcuni molto grossi. Non c’era modo di issarli a bordo né di liberare le reti. Porcodio bestemmiava il pescatore, mentre il gozzo imbarcava acqua, rischiava di colare a picco. Aveva raschiato la vernice azzurra e il legno del gozzo per darsi da fare anche lei, con i suoi artigli da gatta che cercava il vigore del suo passato di pantera. L’aveva fatto d’istinto. Per salvare se stessa, il pescatore o forse pure quegli esseri che levavano braccia nere dal fondo del mare, gorgogliando, urlavano di paura con voci che parevano scavalcare secoli e arrivare dal tempo remoto in cui lei era stata un grande felino dell’Africa. Alla fine erano arrivati altri gozzi e altri pescatori. Dopo ore, tra le reti lacerate, erano riusciti a tirare a bordo non sa quanti corpi di umani che parevano d’ebano, piccoli, grandi, femmine, maschi, catturati nelle maglie di nylon che serravano le carni contorte e inerti.

Era stato allora che aveva sentito salire dalle viscere un miagolio potente come un ruggito. Era accaduto esattamente quando il suo occhio smeraldo si era trovato dinanzi a un collo strozzato da una maglia della rete, la testa piccola, riccia e nera, riversa sul legno.

I pescatori la guardarono increduli azzannare quel collo, e scuoterlo, videro i denti accanirsi sul nylon che lo stritolava, per allentarne la stretta, spezzarlo. Poi si era acciambellata accanto a quel collo ferito, ripiegato e infine libero, abbandonandosi a un miagolio che sembrava emergere da un qualche abisso.

Da allora, per il resto degli anni, le era rimasto in gola solo un miagolio rognoso da gatto di porto. Non era mai più salita sul gozzo. Se ne stava acquattata sotto lo scafo di una vecchia barca sfondata tirata a secco e lasciata sulla banchina a marcire.

E quella fu l’ultima vita che volle vivere. Nessun desiderio di tornare al mondo, né gatta né pantera, né qualsiasi altro animale, e meno che mai da umano. Per lei il mondo era caduto per sempre così: stritolato in una rete in mezzo a un mare lontano dai fasti feroci della Roma imperiale.

ARTICLE n. 28 / 2021

Are books still a community?

Long-gone are the days where we waited for stuffy adult critics to drop the verdict on literature. Nowadays, the kids are in the drivers’ seat.

In March of this year, the New York Times reported that a new TikTok community— BookTok—was responsible for boosting several novels back onto the bestsellers’ list, resulting in the sale of tens of thousands of units. Barnes & Noble was quick to dedicate an entire section of their website to the phenomenon, and articles about the community started popping up everywhere.

(For those not in the know, BookTok is a group of creators and viewers, unified on the TikTok social media platform under the #booktok tag, who discuss, recommend, and gush over books.)

To many, this came as a great shock. Aren’t we in the middle of a great reading slump?

Between 25% to 50% of adults don’t read at all, a third of teens don’t either, and literature in particular has been the worst-affected. As social media becomes ever-more visual and less text-based, a «post-literate society»—a theoretical future where the ability to read won’t be necessary any more—is starting to look less and less theoretical. For this book boost to come from TikTok—the «crack cocaine» of apps blamed for destroying our attention spans— seemed like a hilarious miracle.

But as someone active on BookTok, these staggering numbers weren’t shocking at all. The power of youth is, after all, uncontested, and to me these results are a natural consequence of letting young people talk about literature on their own terms. In every aspect, readers on BookTok control the narrative, barricading themselves behind a wall of ever-evolving slang and metatextual memery, and are largely unconcerned with how the outside world perceives them.

By taking a look at BookTok, we can learn a lot about the young readers of today, the topics they care about, and the language that they use to discuss them. Three things, examined below, stand out to me: the prominence of young women in this space, the way that they discuss literature in a political context, and the value they place on being authentic and real.

THE FUTURE IS (STILL) FEMALE

From Star Trek to the Beatles, women have always been a prominent force in fandom, and despite efforts to erase their presence, young girls are still loudly and proudly in love with all kinds of media. BookTok is no exception.

Young women dominate BookTok—a study published in April 2021 showed that 87% of the sampled #booktok content was made by women, with the majority of them being in the 16-21 age bracket. Female authors also outnumbered male ones, with John Green and Rick Riordan sticking out in a sea of female authors like Cassandra Clare, Sarah J. Maas, E. Lockhart, Leigh Bardugo, and Susanne Collins.

In such a feminine environment, books aimed at young women are naturally the most popular. Serial works that have female protagonists (like A Court of Thrones and Roses, The

Hunger Games, Shadow & Bone and Throne of Glass) or feature significant, well-developed female characters (like Harry Potter and Percy Jackson) make up the grand majority of books that are discussed and recommended. On the less fantastical side, there are stories that retell traditionally male myths (Circe) or touch on current political events (The Hate U Give) from a female perspective. Books that don’t feature either a female protagonist or strong female characters but that are written by women (The Secret History) and/or tackle traditionally feminine themes like romance (The Song of Achilles) also enjoy popularity.

Of course, it’s not just young women who read nowadays, but young women are the ones coming together en-masse to define the new literary canon, and this is the greatest lesson BookTok can teach us. Young women are driving sales and building up new genres to suit their tastes, to address issues they find important, and they are are shaping up to be the long-term sculptors of what literature looks like in the twenty-first century. This is in sharp contrast to previous literary movements, which have almost always been shaped and directed by men. The future of literature is here, and she’s a teenage girl.

READING AS A POLITICAL ACT

BookTok’s origins in broader online fan culture are uncontested. Not only is there a similarity in demographic—mostly comprised of and led by young women—but there is also an overlap of themes, motifs, and tastes. Just like BookTube, a YouTube-based bibliophilic community that started around 2010, BookTok adores Young Adult fiction, fantasy, the enemies-to-lovers trope, and female power fantasies. It also shows roots to the more amorphous fandoms found on Tumblr, the Archive of Our Own, Wattpad, and older sites such as FanFiction.net and Livejournal. These communities are defined by discursive and transformative acts: building connections and content around existing works rather than encouraging the creation of originals. Books that have extensive worldbuilding and a large cast of characters, therefore, tend to be popular because they give fans a sandbox in which to play in.

Most importantly, though, just like many of these communities, BookTok views the discursive dissection of media as a political act. It is not enough to just like something—you must interrogate its themes and messaging, and whether those are harmful or helpful to society. Gen Z are shaping up to be the most politically-active generation to date, and their literature does not and cannot exist in a vacuum separated from real life.

BookTok’s creators come from all over the world and regularly engage in discussions about racism, homophobia, misogyny, and societal oppression both within their favourite books and outside of them. They recommend books to educate yourself and talk about problems in the publishing industry. They hold authors accountable too: popular BookTok author Sarah J. Maas was recently castigated for using the BLM movement to promote her latest book, and J.K. Rowling has been whole-heartedly disowned for her transphobic views. BookTok readers not only praise but expect literary discussion to be nuanced in regard to social issues.

Naturally, diverse books are preferred as well. Though straight Caucasian women are the majority on BookTok, the BookTok literary canon prominently features queer stories such as The Song of Achilles, The Seven Husbands of Evelyn Hugo, and Honey Girl; stories inspired by non-western cultures such as the uber-popular Shadow and Bone and Cinder trilogies;

Black stories such as The Hate U Give and Cinderella is Dead; and stories by authors from all over the world. Though it’s not perfect, it’s heartening to see that younger generations care enough about inclusion to act on it and vote with their choices.

The idea that politics don’t belong art is dead, and on BookTok, having a voice means being held responsible for what you say. It helps that many of BookTok’s popular authors are alive—rest in pieces, Henry Miller—and on social media, meaning that reaching them for a comment is a matter of typing @ on twitter. This is the second lesson of BookTok: far from being uncaring and illiterate, young readers today are probably more aware of politics than you are. If you want them to listen, make sure you have something to say.

AUTHENTICITY RULES

Time is money, time is precious, and Gen Z knows that better than anyone: «Youth culture is feeling like if you don’t succeed by 25 someone will literally come kill you», reads a viral tweet by comedian @jaboukie. In a society that is increasingly competitive and fast- paced, directness is a golden virtue. TikTok is the embodiment of that, with videos capping at a minute and attention spans maxing out at 8 seconds—if you want to capture attentions, you better get to the point.

Gone, too, are the days of photoshopped perfection and impeccable presentation— authenticity is the new cool. This is doubly true for BookTok, where success rests on emotional openness and honesty. Creators talk frankly about their preferred kinky lit, post videos of them sobbing to a book’s ending, and humorously embrace the unglamorous realities of nerdery. Viral videos are filmed in people’s bedrooms, stuffed chock full of hilarious pop-culture references, intra-BookTok jokes, and riffs on popular TikTok content styles like storytimes. These kinds of videos are impossible to make unless you have a deep and authentic understanding of the community, as well as the courage to show the real person behind the screen.

This demand for emotional commitment extends to the books themselves. The Song of Achilles, an expansive retelling of the Illiad, would not be what it is without its earnest, tender philosophising on the beauty of love. The text believes in itself when it has Patroculus say about Achilles, «I would know him blind, by the way his breaths came and his feet struck the earth. I would know him in death, at the end of the world». It leans whole-heartedly into its own romanticism and doesn’t shy away from its fairytale-like style. We’re growing up in a media environment where love conquers all rings as an outdated catchphrase from the seventies and happy endings are for chumps, so it’s incredibly refreshing to read a book that not only goes all in but boldly depicts love, specifically queer love, as defeating death itself. It’s hopeful, it’s enchanting, and it fits square into BookTok’s niche.

Young people today value and celebrate the courage it takes to speak your truth. That truth can be embarrassing and risqué, like talking about your questionable crushes, or it can be profound, like talking about what makes you cry, what you find beautiful, what gives you hope and what breaks your heart. BookTok is no exception, so here is the third lesson it gives us: speak from the heart, and you will earn our respect.

As with many great creative moments, the BookTok phenomenon is destined to be bright but fleeting. As the publishing industry takes note of and capitalises on this

opportunity to boost sales, the authenticity and ease that made BookTok thrive will start to fade. Outsiders are also likely to vilify and downplay the nuanced political discussions, seeing them as marketing risks. No doubt the community will continue to exist for many years to come, but it will probably never achieve the heights it has again.

This is not a tragedy.

The one great thing BookTok can do—the lasting impact it can have—is to foster a new generation of literati. It can spark connections between like-minded creators and then transforms them, as they transformed for the Romantics and the Beats, into a new literary movement. Among today’s BookTok cohort are a future generation of authors, critics, and curators. They are gathering tools and creating a language for modern literary discussion on their own turf, uninterrupted by adults and traditional constraints. Their works may not come for years, but when they do, they will be fresh and invigorating, uniquely theirs, echoing the values held on BookTok today.

That is a triumph.

Regardless of how much time BookTok has left, its presence (and power) shows us something wonderful—literature as a human tradition, a political tool, and an artform is as alive and as beloved as ever.

ARTICOLO n. 27 / 2021

Istanti di felicità

TRADUZIONE DI GALA MARIA FOLLACO

La felicità, e le cose che le assomigliano, secondo me sono proprio come le uova. Sono preziose, ma se le stringiamo troppo forte si rompono, e se le trattiamo con eccessiva delicatezza cominciano a pesarci. Ecco perché, come si è sempre detto in ogni parte del mondo, il metodo migliore per accostarsi alla felicità è sicuramente quello della casalinga che, infilata la confezione delle uova nel cestino della sua bicicletta, pedala verso casa a gran velocità e senza pensieri. Se una volta a casa si accorge che due o tre uova si sono rotte, non se ne cruccia più di tanto, dice: «Oh no, si sono rotte! Mah, pazienza, le posso sempre ricomprare», quindi si mette all’opera con quelle che le sono rimaste. A me questo sembra l’atteggiamento migliore.

L’infelicità di solito deriva da una mancanza di equilibrio. L’infelicità cui mi riferisco non è quella materiale, ma interiore. Ecco perché, a mio avviso, non si può essere realmente felici se si cerca continuamente di riconoscere i cosiddetti «istanti di felicità». E in fondo che importa?

Ho l’impressione che gli istanti di felicità siano una cosa leggermente diversa. Il passato è pieno zeppo di quelle che ci sembrano «splendide giornate», ma si tratta per lo più di ricordi abbelliti dal tempo, mentre i momenti di felicità così intensa da farti pensare «Ecco, adesso potrei anche morire» non si ripetono mai e a poco a poco inevitabilmente sbiadiscono. Sono combinazioni di elementi a determinarli, è il clima, lo stato d’animo, le condizioni fisiche, le relazioni interpersonali, i luoghi: sono tutte queste cose messe insieme. I tipi un po’ malinconici, come me, confidano nella «forza». Non possiamo farci niente: più ancora della felicità, ad attirarci è l’intensità di certi istanti. Ma forse è così perché sono ancora giovane, quindi non mi do per vinta. Sogno il momento in cui mi accorgerò di essere diventata «la casalinga con le uova».

Vi faccio qualche esempio di istante che ho vissuto.

Al secondo anno di università c’era un ragazzo per il quale mi ero presa una bella cotta. Mi piace tutt’ora, ma non come a quei tempi. Era un tipo veramente strano, molto intenso. Quando l’ho conosciuto tutte le mie certezze sono crollate, è stato come rinascere. Era una persona forte, per sottrarmi alla sua influenza e riprendere il controllo della mia vita ci sono voluti due o tre anni, lui stesso all’epoca era giovane e totalmente irrazionale, un vero spasso.

In quel periodo uscivamo spesso in gruppo, restavamo a bere per tutta la notte, quindi i miei ricordi sono piuttosto confusi, ma quanto sto per raccontare dev’essere capitato poco dopo il nostro primo incontro. Quella sera eravamo tutti su di giri, non so perché. Era molto tardi ed era evidente che non avremmo fatto in tempo a rincasare, tuttavia saremmo morti se avessimo mandato giù anche solo un altro goccio. A un certo punto lui, completamente ubriaco, disse: «E va bene, tutti a casa mia! Vi fermate a dormire da me». Per me era una specie di divinità, quindi non mi sembrava vero che all’improvviso mi avesse invitato a casa sua. Mi sentivo come un ragazzino patito della chitarra che si fosse appena preso un complimento dal mitico Chabo degli RC Succession.

A casa della divinità avremmo incontrato il padre, la madre e la sorella. Non direi che ne ero innamorata, più che altro ero affascinata dalla vita che conduceva, lo guardavo e pensavo «C’è gente che vive in questo modo incredibile», quindi ero felicissima di poter andare a casa sua. Certo, ero l’unica ragazza del gruppo, per di più ubriaca, e non mi posi affatto il problema: «Chissà, forse agli occhi dei suoi familiari risulterò un po’ sfacciata». Non stavo nella pelle, ero come i primi giapponesi che solcarono i mari alla scoperta di terre straniere.

Camminavamo tutti insieme nel tepore di una notte di primavera al suono di grosse risate. A metà strada ci fermammo in un convenience store per mangiare onigiri e inari sushi, e continuavamo a chiacchierare allegramente. Ricordo che proprio in quel momento mi fece un gran sorriso e, porgendomi un inari sushi, disse: «Yoshimoto, prendine un altro». Se ancora oggi mi ricordo un episodio così insignificante è perché in quell’istante, a notte fonda in quel quartiere residenziale, ho pensato: «Sono felice!». E forse, prima di allora, non mi ero mai resa conto di quanto lo fossi.

Da quel momento ho cominciato a riflettere proprio sulla nostra percezione della felicità.

A seconda delle persone, può essere un buon esercizio.

Lo scorso Natale, di ritorno da un concerto che si era tenuto ad Asakusa, mi sono fermata al ristorante dove lavoravo part-time. Ero andata al concerto con le mie colleghe, le quali mi avevano detto che quella sera ci avrebbero dato un bonus. La cameriera del primo turno aveva in mano una busta chiusa di colore marroncino al cui interno, dicevano, c’era il bonus. «E aprila allora», le avevamo detto, e con nostra grande sorpresa – credevamo che ci fossero sì e no duemila yen – ci trovò diecimila yen. La somma era così spropositata rispetto alle mie previsioni che andai a prendermela tutta felice. Quel giorno era una certa Yumi a coprire l’ultimo turno, una ragazza bellissima, molto socievole e un po’ bizzarra. Dopo essermi fatta dare la busta dal capo, le domandai: «Yumi, hai ritirato il bonus?».

«Sì, ma non ho ancora guardato nella busta. Quanto ci sarà?»

«Diecimila yen! Ecco, guarda».

Nel ristorante non c’era neanche un cliente, Yumi spalancò gli occhi e gridò: «Eeeh!?». Poi cominciò a ripetere che era fantastico, arrossendo visibilmente.

«Giusto adesso che avevo un gran bisogno di soldi, oh, che gioia, chi si aspettava una cifra del genere? Ah, il proprietario è stato veramente generoso, accidenti, sono così felice che sono diventata tutta rossa!», disse dandosi dei colpetti sulle guance. Mi sembrò di aver fatto qualcosa di buono. Non dicemmo una parola, ma sentii che era Natale. In quel momento, l’intero ristorante fu testimone dell’istante carico di gioia che Yumi stava vivendo.

Ancora: a casa ho un gatto.

Ne ho diversi, in verità, ma tra loro ce n’è uno che si chiama San-chan, adora i gamberetti e gli basta vederne uno per tirar fuori un «Mi-aaaao!!» differente da tutti gli altri. Lo fa nell’istante in cui gli mostro il gamberetto. Poi, quando glielo metto davanti come a dire «Ecco, è tutto tuo», lui mi guarda per un momento e, con le movenze e l’espressione, sembra chiedermi «Posso mangiarlo per davvero?». È così buffo che qualche volta mi diverto a tenerlo sulle spine, ma quando poi gli do il permesso lo divora in un sol boccone. Nessun indugio. Pura felicità.

Vorrei concedermi anch’io piccole gioie come queste.

Sugli istanti di felicità
Penso che anche i più inclini all’infelicità, prima o poi, riescano a trovare la pace. Forse perché, nel bene o nel male, con il passare degli anni si impara a conoscersi. Io stessa sono molto più serena rispetto a quando avevo diciassette o diciotto anni. La vita è lunga, ma per un diciassettenne è facile pensare che «l’oggi equivale al sempre», ed è una sensazione di disagio che mi ricordo a ogni lettera ricevuta da qualche liceale. È come se ognuna di loro pensasse di dover essere felice, come se si sentissero in dovere di rincorrere una felicità esteriore. A queste ragazze, soprattutto, vorrei donare almeno un istante di felicità intensa.

KOFUKU NO SHUNKAN by Banana YOSHIMOTO
Copyright © 1989 by Banana Yoshimoto
All rights reserved
Japanese original edition publishedby Kadokawa Shoten Publishing Co., Ltd., Japanas a part of the book “Painatsupurin”
Italian language translation rights arranged with Banana Yoshimoto through ZIPANGO, S.L.

ARTICOLO n. 26 / 2021

La musica, per me

DIARIO DI UNA NOTTE

Stamattina mi sono svegliato ai quatrur (le 4 in milanese) e sono andato in via Muratori, in pellegrinaggio davanti a quella che negli anni Settanta è stata la casa di Alberto Camerini.

Alcuni cenni topografici per chi non è de Milàn: il mausoleo si trova in una rientranza della via dove ci sono i numeri subalterni, ma quello che mi ha colpito è che di fronte alla strada in cui ha abitato il grande musicista si trova la cascina Cuccagna, e già il nome la dice lunga sulle energie mistiche di quella zona. Più avanti però, girato l’angolo, c’è viale Umbria e sul muro si vede una targa commemorativa che riporta il luogo dove il magistrato Emilio Alessandrini è stato ucciso da un commando di Prima Linea, siamo sempre negli anni Settanta: qualcuno ha in mano un mitra, qualcun’altro la chitarra. 

Nella vita, comunque, alle cose non ci si arriva per caso; per esempio, a me quando avevo cinque anni fu regalato un M16, il fucile d’assalto dei Marines. Ne andavo molto fiero e lo usavo a mo’ di roncola sulla testa di mio fratello, poi un giorno ebbi la malaugurata idea di prestarlo ad Amos, il mio amichetto del cuore, che dopo una settimana me lo restituì rotto. A titolo di indennizzo la madre di Amos mi regalò una chitarrina comprata alla UPIM e da quel giorno mi si aprì una strada. All’inizio mi venne in mente di usarla come racchetta da tennis, poi come paletta per recuperare le palline finite nei tombini e infine come culla per la Barbie e solo verso i dodici anni incominciai a considerarla per quello che era. Il vero incontro con la musica, quindi, non è avvenuto per via strumentale, bensì per via orale. 

Tutto ha avuto inizio all’asilo in uno stanzone buio, dove proiettavano un film sui tre porcellini oppure arrivava un signore cieco che si metteva al piano e ti faceva cantare «la pigrizia andò al mercato ed un cavolo comprò». Alle elementari invece un compagno di classe, Luca Salerno, ebbe l’immenso privilegio di partecipare allo Zecchino d’Oro e conoscere Lindo Ferretti, futuro cantante dei CCCP. Luca passò la selezione e lo vedemmo in TV, mentre Ferretti che era stato accompagnato dal suo insegnante di canto e mentore, una suora, tornò a casa smadonnando. 

Siccome mio padre progettava giradischi, radio e televisori in casa oltre al pane non è mai mancata la musica. Il karma ha voluto farmi nascere in un momento in cui in Italia si viveva il boom economico e i dischi erano un bene di consumo abbastanza ambito e alla portata di tutti, soprattutto i 45 giri. Altro colpo di culo è che a cavallo tra gli anni Sessanta/Settanta, sul pianeta l’umanità stava vivendo un periodo musicale d’oro e io passavo le ore sul divano di casa ad ascoltare musica.

All’inizio mia madre pensava che fossi un po’ autistico perché rimanevo in trans (anche lì al buio) e mi dondolavo con la schiena, un po’ come fanno gli ebrei quando pregano. Non vi dico quando arrivarono le radio libere e la scelta musicale divenne esponenziale… Prima ti dovevi solo accontentare di Alto Gradimento o della Hit Parade della Rai, adesso bastava girare la rotellina della radio e avevi tutta la musica a disposizione.

Andavo alle medie e ascoltavo Radio Popolare perché mi reputavo di sinistra; poi arrivò il sesso e così scoprii che musica, sesso ed autismo in me combaciavano perfettamente: mi dondolavo così tanto su quel divano che a furia di rimanere un po’ curvo con la schiena mi è venuta la scoliosi. Poi siccome a ’sto punto sapevo pure leggere, compravo le riviste musicali, una su tutte Il mucchio selvaggio, ma mi piaceva anche Ciao2001. La cosa che più mi attraeva erano le foto. Eravamo in un mondo fatto di musica ascoltata e parlata, ma ancora poco visiva quindi era bello associare un po’ di immagini a così tante parole e suoni, le copertine dei dischi, infatti, le contemplavo fino allo sfinimento. 

Per osmosi divenne quasi naturale passare dalla grammatica alla pratica e mi ricordai della chitarrina con dentro la Barbie.

Siccome andavo a catechismo adocchiai subito il maestro di chitarra, un giovane scapestrato che mi fece scoprire Santana. Una volta impadronitomi del giro di Do e scavallato l’insormontabile ostacolo del barré, la musica non aveva più segreti per me. Il primo repertorio che sviscerai furono le canzoni di Bennato, abbordabili per qualsiasi chitarrista inetto, ma soprattutto perché mi veniva bene la voce, essendo anch’io affetto da paperinite acuta.

Il primo incontro duro con la realtà lo ebbi al liceo: fintantoché ero l’unico ragazzino nella compagnia che suonava, potevo anche illudermi di essere capace, ma i nodi vennero al pettine durante un’occupazione al Berchet quando un ragazzo fece John Barleycorn Must Die dei Traffic e rimasi di sasso. Mai però come quella volta al Parini in cui vidi il figlio di Ostellino (suo padre era il direttore del Corriere della Sera) suonare con la chitarra elettrica I go home dei Ten Years After. Dovevo prendere atto che mi rimanevano solo due strade: o smettere di suonare o passare all’eroina e scelsi la seconda.

Avevo 16 anni, Milano era tappezzata di un manifesto che pubblicizzava una festa all’Odissea 2001 con su scritto «Fatti una pera» e c’era in effetti un capellone accovacciato che al posto della siringa si iniettava sul braccio appunto una pera. Era forse il periodo degli indiani metropolitani e dello slogan «La fantasia al potere», tant’è che io decisi di provare l’eroina, così … senza avere mai fumato neanche una sigaretta. Al parco Sempione ovviamente oltre ai tossici c’erano anche un sacco di ragazzi che suonavano e ricordo che mentre aspettavo il pusher mi misi a parlare di Jimi Hendrix con un ragazzo anche lui in attesa del messia e fu un bello scambio. Per mantenermi il vizio andai a lavorare nella cristalleria di mio zio in Paolo Sarpi e per quell’anno di chitarra e musica non se ne parlò più. 

Poi tutto d’un colpo, grazie a Dio, arrivò il punk e smisi di farmi, perché in quel contesto una chance come chitarrista ce l’avevo anch’io. Lasciai il ramo cristallerie e tornai a scuola, tra una vicissitudine e l’altra avevo perso due anni e si avvicinava la temuta maggiore età e con essa l’incubo dell’anno di militare che bisognava a tutti i costi evitare. Mi iscrissi a una scuola di recupero anni ed ero lì, tutto annoiato come un fagiano, quando un giorno non sapendo come passare il tempo, col pennarello scrissi sul banco «The Who». Alla ricreazione si fa avanti un bel giovanotto, anche lui della mia stessa classe e mi chiede: «Ti piacciono gli Who?». Quella frase fu come un segno di riconoscimento tra massoni, lui era Alex Marcheschi, futuro batterista dei Ritmo Tribale, ragazzo psicologicamente molto più strutturato di me, ma con una insana passione per la musica. Poi scoprimmo che in classe oltre alla figlia di Giorgio Scerbanenco c’era uno col giubbotto di pelle nero, tale Mauro Greppi, che oggi dirige una banca, ma allora suonava negli Allegri Pinoli che fu il primo gruppo di un altro scioperato, Ferdinando Masi, futuro batterista dei Casino Royale. Insomma, la musica tornò così prepotentemente nella mia vita che sull’onda dell’entusiasmo un giorno feci anche un pompino a Mauro, non so perché, spero per sbaglio, ma l’importante era essere tornato a suonare. 

Nonostante il passaggio intercorso da tossico, per chissà quale miracolo non mi ero venduto la Strato che papà mi aveva regalato per i 14 anni al posto del motorino. Questa chitarra esiste ancora, la comprai perché volevo la leva del tremolo ma non avevo mai visto una Stratocaster dal vivo, quindi andai in negozio ne scelsi una e quando tornai a casa cercai la leva ma non c’era. Avevo scambiato l’imboccatura del jack per il buco della leva. Va be’… ma che ti serve la leva del vibrato se suoni punk?! 

Come chitarrista facevo talmente cagare che andavo benissimo, ma avevo anche capito che siccome la musica degli altri era difficile da eseguire o creavo le mie canzoni o potevo andare a fare il soldato. Così per frustrazione, ma anche per tenere in vita il sogno iniziai per caso a scrivere le prime canzoni.

Tutto questo succedeva prima dei 18 anni, quest’anno ne compio 58 e allora facciamo il punto della situazione, anche perché bisogna mettere le basi per la prossima vita: come mi vedo tra vent’anni? Prima di tutto diciamo che molte cose sono cambiate: non sono più di sinistra e d’altronde non faccio neanche più i pompini, ma una cosa però è rimasta inalterata: suono sempre di merda. Sì, è vero, ma ho intenzione di migliorare, scrivere canzoni d’altronde è un talento che manco sapevo di avere e non è poco.

Qualcuno potrebbe dire che pure le mie canzoni fanno cagare, non lo metto in dubbio, ma ognuno può solo spendere i soldi che ha e io questo ho. Avrei potuto smettere di fare musica, il mondo non ne avrebbe sofferto, ma io sì. Le sono rimasto fedele nonostante la mia scarsitudine.

Vi lascio con alcuni cenni biografici sulla vita di Jimi Hendrix, di cui ho anche scritto un’agiografia apocrifa, solo per farvi capire di come la realtà è soggettiva. Il genio di Seattle, poverissimo, ebbe la sua prima chitarra verso i 16 anni, in 5 anni raggiunse un livello che altri musicisti ci impiegano decadi, ammesso che ci arrivino, poi rischiò anche di finire paracadutato in Vietnam e fu congedato perché si dichiarò omosessuale (vedi che a volte anche i pompini possono servire). Il risvolto di questa bella storia è che Hendrix all’apice del suo successo non trovava più stimoli, così pensò di passare al jazz o alla chitarra acustica oppure addirittura di smettere. Come nella canzone di Vecchioni che dice «ed il più grande conquistò nazione dopo nazione e quando fu davanti al mare si sentì un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente». Ecco oggi sono arrivato fino in via Muratori e da Milano prima di raggiungere il mare ce ne vuole di strada. Diciamo che sono partito, speriamo almeno di essere in direzione sud. Se no sarà ancora più lunga. 

Un’ultima cosa: Frank Zappa non era un grande estimatore di Hendrix, una volta arrivò a dirgli di mettersi a studiare musica, della serie al meglio non c’è mai fine. Su Bob Dylan invece non aveva dubbi, gli faceva letteralmente cagare e su questo siamo tutti d’accordo, mezz’ora di standing ovation per il compagno Frank!

ARTICOLO n. 25 / 2021

Dove sono oggi i corpi?

Mio questo mio nome…
e degli amici, ovunque siano,
e mio il mio corpo provvisorio,

presente o assente…
MAHMUD DARWISH, MURALE

Dove sono, oggi, i corpi? E cosa ne è stato del corpo della polis? Non credete anche voi, lettrici e lettori, che, per provare a rispondere a queste domande, ci si debba affidare agli indizi, ai segni che con la loro presenza possono indicare altre cose più nascoste o non ancora avvenute? Sì, vi propongo di pensare allo scenario in cui – variamente disorientati, impauriti, confusi, malati o già bell’e morti – tutti ormai siamo, puntando lo sguardo sull’esistente così come è (come è stato fatto diventare) e sulle parole e le immagini che lo raccontano.

Operazione non facile, direte voi, visto che l’esistente è, oggi, metamorfico come un’anguilla, sovraccarico di interpretazioni, pronto a sgusciarci tra le mani come una donnola.

Allora, per evitare le secche più ovvie, mi servirò esclusivamente delle parole, rimandando al mittente quella spaventosa degenerazione figurativa che da oltre un anno mette fotograficamente in scena solo la rimozione dei corpi oppure la loro uniforme mortificazione o, più raramente, la loro colpevolizzazione.

Mi riferisco, nell’ordine, alle immagini sinistre delle città evacuate, dei cumuli di bare (oggi banditi dai media, come dalle testate statunitensi nei primi mesi della guerra in Iraq), degli anziani di là dai vetri delle RSA, dei malati intubati e attaccati a fili, macchine, monitor, delle code ai drive-in per tamponi e test antigenici e, più di recente, delle file dei vaccinandi, della vaccinazione in atto su corpi chissà quanto coscienti, consenzienti, condiscendenti, dei più o meno rassegnati, stoici VIP della politica, quelli che devono dare il buon esempio, in attesa del miracoloso vaccino-che-toglie-il-virus-del mondo, e infine delle aggregazioni selvagge, sleali, disobbedienti, incivili e tuttavia vitalissime di giovani e meno giovani che non intendono morir vivendo o vivere da morti.

Avrete notato che, accanto ai corpi esposti, letteralmente messi a nudo, di vecchi, malati e in corso di vaccinazione, a rendere ancor più chiara la loro impotenza e/o abdicazione alla libertà di scegliere o libertà tout court, è sempre presente il dominante corpo macchina corazzato del curante. E così un atto privato reso spudoratamente pubblico si carica di connotazioni che fino a non molto tempo fa erano riservate agli altri: i diversamente abili, i migranti, i rifugiati, i poveri, i senzatetto.

Cerchiamoli dunque qui gli indizi.

Da un lato nelle città desertificate, silenziose, spettrali, rese tali dalla negazione/interdizione dello spazio pubblico. Dall’altro in interni domestici gremiti, saturi, rumorosi, invasi dal lavoro e dalla didattica a distanza, e dunque non più privati. Spopolate e spogliate della loro funzione connettiva le prime, collegati a tempo pieno e ingarbugliati da cavi, fibre, schermi i secondi.

Città infestate, necrotizzate e narcotizzate. Abitazioni ridotte a loculi più o meno accoglienti e attrezzati, adibite a proteggere come bunker o fortini.

Medicalizzazione imponente e impotente, talora militarizzata, del territorio. Sconfinamento delle pratiche mediche dagli spazi ad esse preposti ai luoghi un tempo destinati all’arte, alla cultura, allo scambio commerciale, al tempo libero.

Una rincorsa affannata in attesa del miracolo che ci salverà, annunciato con toni profetici o variamente apocalittici, utile – quantomeno fino a oggi – solo ad ottenere uno strano misto di obnubilamento e passività: una delega di massa che passa proprio dai nostri rimossi e offesi corpi, pronti a confinarsi, murarsi vivi, uscire a tempo entro perimetri designati come nei paesi in guerra, farsi utilizzare alla cieca per sperimentazioni vaccinali su larga scala che neanche il più pazzo dei maghi merlini di vonnegutiana memoria avrebbe sognato di poter compiere in mezzo al gaudio riconoscente dei più.

E cerchiamoli in quel non-tempo o stasi che è diventata la nostra dimensione quotidiana: temporalità esplosa e frammentata, improgettabile, che soffoca e seda, costringendo a rimpiangere il passato, il tempo mitico della normalità.

Nel 2015, mentre osservavo il nostro paese attraverso la lente ad alta definizione della pubblicità cartacea, il paesaggio desolato in cui siamo oggi definitivamente immersi era già perfettamente a fuoco.

«I muri delle città contemporanee ripetono ossessivamente uno slogan senza trascendenza: il bene è nelle merci, la felicità nel potere d’acquisto, la libertà nel consumo.

E tuttavia i versatili corpi della pubblicità, ormai totalmente smaterializzati, come simulacri di plastica, astratti, seriali, identici tra loro, non sembrano parlare a noi e di noi, della nostra fragile umanità, dei nostri desideri e dei nostri bisogni reali. Invadendo con sbalorditiva prepotenza (finanche con la scusa di risanarlo) uno spazio che pubblico non è più, sovrappongono al paesaggio concreto un paesaggio apparente. Ecco perché decodificarlo pedissequamente, scambiando per corpi e situazioni reali queste malleabili effigi del nulla, mi pare fuorviante. A chi va a caccia di pubblicità sessiste, per esempio, propongo di indossare lenti multifocali e provare a vedere se questi pornografici corpi/guscio fatalmente privi di eros (la forza vitale che muove il pensiero, i sensi e gli affetti) non parlino d’altro, in particolare di due passioni tristi: il non amore di sé per quel che effettivamente siamo e una furibonda invidia sociale pronta a trasformarsi in depressione, amarezza, impotenza e rancore.

Se il corpo sociale della città, lo spazio un tempo condiviso da cittadini e cittadine, si è trasformato in merce, va da sé che ad aggiudicarselo sarà chi ha maggiore potere d’acquisto o maggiore potere tout court. Le raffigurazioni con cui lo riempie – importa davvero che siano sessiste, razziste, etaiste o altro? – non potranno che essere il riflesso spettrale di quella mutazione. A dispetto di qualsiasi progetto di illuminazione notturna, taxi rosa e altri proclamati antidoti, le vie delle città che si sono arrese alla necrofilia del capitale non saranno più sicure per nessuno: privatizzato e commercializzato, il comune terreno urbano si è convertito in territorio di rapina, in luogo che produce terrore.

Guardiamoli dunque ad occhi ben aperti questi giganteschi necrologhi. Oltre a proporci l’immagine di corpi senz’ombra che si riflettono in se stessi, ci dicono che, dove tutto è in vendita, i primi ad essere in pericolo sono i corpi reali, ridondanti, diseconomici, obsolescenti, spendibili.

E che il pericolo più grave consiste nella violenza che proprio i corpi reali portano inscritta su di sé: un’esposizione totale, una nudità indifesa. Lo riassumono con brutalità le immagini fotografiche che arrivano dalle zone colpite dal virus Ebola, da Gaza, Guantanamo, Lampedusa: spogli corpi malati, feriti, incatenati, stremati da un lato e superaccessoriati corpi-macchina (umanitari e/o bellici) dall’altro. I manifesti pubblicitari che a quel repertorio iconografico attingono con sublime imperturbabilità non ne sono che la perversa enfatizzazione.

Dirsi dalla parte dei deboli per vendere ai ricchi è la loro ultima, incomparabile degenerazione.» (Maria Nadotti, Necrologhi: Pamphlet sull’arte di consumare).

Difficile, tuttavia, immaginare allora una conversione così rapida e capillare. Arduo, anche solo due anni fa, supporre che tra il coincidente con l’altrove delle zone colpite dal virus Ebola, di Gaza, Guantanamo, Lampedusa e il nostro qui, tra il loro degli abitanti di quei luoghi o di chi da quei luoghi era in fuga e il noi, non ci sarebbe più stata soluzione di continuità. Che il mondo sarebbe diventato un continuum frastagliato di incertezza, precarietà, paura, illusione, stordimento, inganno. Che, per rinnovarsi, il sistema economico che è andato imponendosi ovunque – dal liberismo occidentale al socialismo di libero mercato cinese – avrebbe trovato una sorta di miccia ideale capace di sfoltire e disciplinare la popolazione mondiale terrorizzandola e inducendola ad accettare nuovi consumi e un inedito – e tuttavia tecnologicamente maturo – stile di vita.

Credo che in ognuna/o di noi, già dagli anni Ottanta, si fossero affacciati un paio di interrogativi inquietanti, ma il festino occidentale era talmente all’apice che farsi avanti con qualche perplessità sulle magnifiche sorti e progressive del mondo avrebbe richiesto un’audacia o un’abnegazione in conflitto con lo spirito di quei tempi sazi e storditi. L’arte, spia meravigliosa dell’a venire, stava già da anni indicando con precisione la via che avremmo imboccato. Videoarte, arte elettronica, videoinstallazioni stavano irreversibilmente soppiantando materiali, mezzi, forme, spazi e fruizione dell’arte tradizionale. Nelle biennali (quinquennali o decennali) d’arte contemporanea, già verso la metà degli anni Novanta la pittura pareva una forma pateticamente obsoleta, incapace di tenere il passo dei nuovi linguaggi. La digitocrazia aveva trovato la sua avanguardia e si preparava a usarla come cavallo di Troia per fare di tutti noi gli arresi, garruli e disincarnati consumatori di beni virtuali ad alto contenuto di onnipotenza: il narcisistico dappertutto in nessun luogo della telefonia mobile e della rete.

Più connessi dunque più liberi, più fermi dunque più mobili, più soli dunque più insieme.

Abbiamo abboccato e, quando la tecnologia digitale e relativo mercato hanno raggiunto il punto di compimento necessario a sostenere l’onda d’urto di una connessione contemporanea universale, aerei e treni si sono fermati, uffici, università e scuole si sono smaterializzati, negozi, ristoranti, musei, cinema, teatri, stadi & Co. sono evaporati.

I corpi, però, persistono e resistono. Troppi (numericamente) e troppo pochi (detentori di potere d’acquisto). Avrete notato che da circa un anno, nel nostro panorama mentale oltre che nel discorso pubblico, sono ricomparsi temi e termini che credevamo definitivamente spurgati dal nostro habitus (inteso nel senso di condivisione di uno spazio sociale e percettivo omogeneo: italiani, residenti, bianchi, produttivi, preferibilmente maschi o maschilizzati).

Tornati in auge – stavolta riferiti a noi, non a migranti illegali o fuoricasta – concetti e parole quali triage, confinamento, passaporto sanitario. Per il nostro bene, direte voi, eppure la storia insegna che certe pratiche tendono, una volta liberate, a uscire dal loro alveo.

Nel frattempo è accaduta una cosa strana, anch’essa appartenente alla sfera delle definizioni che, come si sa, sono l’anticamera della messa in atto. Sul piano lessicale la nostra società è stata spezzettata in categorie inedite. Senza dubbio a fin di bene – ma talora il bene (di chi?) può fare più danno del male (per chi?) –, i nostri corpi sono stati incasellati per età, abilità, funzione, utilità sociale o essenzialità rispetto ai bisogni della comunità nel suo complesso. E si è stabilito che alcuni mestieri sono essenziali e altri no, che alcune attività possono essere sospese e altre noi, che alcuni soggetti sono intercambiabili e altri insostituibili.

Di un certo numero di impieghi, attività e soggetti (o dovremmo chiamarli oggetti?) si è preferito non fare parola. Eppure sappiamo tutti che in questi mesi gli addetti alle pulizie, i trasportatori, i fattorini, le commesse dei supermercati, i conducenti dei mezzi pubblici… sono stati infinitamente più essenziali di qualsiasi giudice o docente universitario e che le donne hanno avuto un ruolo e carichi di lavoro da tempi delle caverne. Quando si è trattato di decidere chi vaccinare per primo, avete per caso visto qualcuno alzare timidamente una mano e dire: loro, per la buona ragione che sono stati e continuano a essere proprio i mestieri umili, precari, malpagati o non pagati affatto a far girare il mondo?

E invece no. Forse perché questi essenziali non sono soggetti di diritto, bensì corpi a perdere, ridondanti, sostituibili a costo zero, vera e propria carne da macello per democrazie che rifiutano la guerra, ma non i suoi ristori (nuovo, irresistibile lemma messo in uso da governi palesemente stanchi e assetati). Sì, i ridondanti sono diventati essenziali, ma un ridondante vale l’altro, e l’offerta è infinita.

Non è, questa logica, la stessa sottesa alla gestione necropolitica di un virus combattuto allarmando, isolando, confinando, svuotando le città, disciplinando, prima ancora che trattandolo medicalmente? Come se chi decide per tutte e tutti avesse paura di chi, sempre più numeroso, non ha niente da perdere ed è ben cosciente che l’annunciata immunità di gregge crea il secondo senza garantire la prima.

Quello che i fiori del prato raccontano in questa primavera esiliata va ascoltato con tutto il corpo, con la tenerezza delle mani e la durezza del cuore.

«Alla popolazione parrà infatti che sia andata totalmente distrutta l’ultima speranza di un qualunque ordine sociale. Prende quindi il sopravvento l’impulso a garantirsi la sopravvivenza personale e iniziano i saccheggi. Niente di più semplice e di più terribile. Tuttavia i nuovi tiranni non sanno nulla di come si comporti un popolo ridotto allo stremo. La paura impedisce loro di saperlo; sono soli su questo pianeta; anche i morti li hanno abbandonati.» (John Berger, «Pensiamo alla paura», in Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007).

ARTICOLO n. 24 / 2021

Solenoide

CAPITOLO UNO

Ho preso di nuovo i pidocchi, la cosa nemmeno mi sorprende più, non mi spaventa più, non mi provoca più disgusto. Mi prude soltanto. Lendini ne ho in continuazione, li faccio cadere sempre quando mi pettino in bagno: piccole uova di color avorio, che luccicano nerastre sulla ceramica del lavandino. Ne restano parecchi anche tra i denti del pettine, che poi pulisco con un vecchio spazzolino da denti, quello con l’impugnatura ammuffita. È impossibile non prendere i pidocchi: insegno in una scuola di periferia. Metà dei ragazzi hanno pidocchi, glieli trovano alla visita medica, a inizio scuola, quando l’infermiera separa i capelli con i gesti esperti degli scimpanzé, salvo che non schiaccia sotto i denti le croste chitinose degli insetti catturati. Raccomanda invece ai genitori una soluzione biancastra, simile a liscivia, dall’odore chimico, la stessa che usano alla fine anche i professori. In pochi giorni tutta la scuola arriva a odorare di soluzione contro i pidocchi.

In fondo non è così male, almeno non abbiamo cimici, è da tanto che non si sono più viste. Mi ricordo pure di queste, le ho viste con i miei occhi quando avevo tre anni, nella villetta di Floreasca dove abbiamo abitato verso il ’59-’60. Il babbo me le mostrava quando spostava bruscamente il materasso del letto. Erano come dei granellini rosso scuro, duri e lucenti come i frutti di bosco o come le bacche nere di edera, che sapevo di non dovere ingoiare. Solo che i granellini tra il materasso e il telaio del letto scappavano via verso gli angoli bui, così agitati che scoppiavo a ridere. Non aspettavo altro che papà sollevasse l’angolo pesante del materasso (quando si cambiavano le lenzuola) per vedere ancora gli animaletti grassottelli. Ridevo allora con tale gusto che la mamma, che mi voleva con i capelli lunghi e tutti riccioletti, mi prendeva sempre tra le braccia e fingeva scaramanticamente di sputacchiarmi addosso. Poi il babbo portava la pompa con l’insetticida e faceva una bella doccia puzzolente alle cimici annidate nelle giunture del legno. Mi piaceva l’odore del legno del letto, l’abete che sapeva ancora di resina, mi piaceva persino l’odore dell’insetticida. Poi il babbo sistemava il materasso e veniva la mamma con le lenzuola. Quando ne stendeva uno sul letto, si gonfiava come un grosso bombolone in cui mi piaceva tantissimo infilarmi. Aspettavo quindi che il lenzuolo si stendesse lentamente su di me, che prendesse la forma del mio corpicino, ma non di ogni sua parte, bensì che disegnasse complicate pieghe piccole e grandi. A quel tempo le stanze erano grandi come capannoni, e vi si affaccendavano quei due giganti che, non si sa perché, si prendevano cura di me: la mamma e il babbo.

Non mi ricordo però delle punture delle cimici. La mamma mi diceva che erano come dei circoletti rossi sulla pelle, con un puntino bianco al centro. E che piuttosto bruciavano anziché prudere. Non so, fatto sta che continuo a prendere pidocchi dagli scolari quando mi chino sopra i loro quaderni, è come una malattia professionale. Porto i capelli lunghi sin dai tempi in cui sarei potuto diventare scrittore. È tutto ciò che mi è rimasto di questa carriera, i capelli lunghi, la zazzera. E i maglioni dolcevita di filanca, come li portava il primo scrittore che ho visto in vita mia e che mi è rimasto nella mente come un’immagine, gloriosa e intoccabile, dell’autore: quello di Colazione da Tiffany. I miei capelli sfiorano sempre quelli arruffati e pieni di nastrini delle bambine. Su queste funi cornee, semitrasparenti, salgono gli insetti. I loro uncini seguono la curvatura del capello, che afferrano a meraviglia. Passeggiano poi sul cuoio capelluto, e vi lasciano gli escrementi e le uova. Pungono la pelle, mai toccata dal sole, di un bianco immacolato, come fosse pergamena, e questo è il loro cibo. Quando i pruriti diventano insopportabili, riempio la vasca di acqua bollente e mi accingo a sterminarli.

Mi piace lo scroscio dell’acqua nella vasca, quell’impetuoso vortice prorompente di miliardi di gocce e rivoli a spirale, la risonanza del getto verticale nella gelatina verdognola dell’acqua che cresce poco a poco, conquistando le pareti della vasca fra rigonfiature ostacolanti e scorrerie repentine, simili a innumerevoli formiche trasparenti che brulicano nella giungla amazzonica. Chiudo il rubinetto e si fa silenzio, le formiche si dissolvono e lo zaffiro molle come gelée si acquieta, mi guarda come un occhio sereno e mi aspetta. Nudo, entro nell’acqua voluttuosamente. Immergo subito la testa, sento come le pareti dell’acqua salgono simmetricamente lungo le mie guance e la mia fronte. L’acqua mi stringe, la sento pesante intorno a me, mi fa levitare in mezzo a essa. Sono il nocciolo di un frutto dalla polpa azzurro-verde. I capelli mi si stendono fin sul bordo della vasca, come un uccello nero dispiegherebbe le sue ali. I capelli tra di loro si respingono, ciascuno è indipendente, ciascuno galleggia, improvvisamente bagnato, fra gli altri, senza sfiorarli, simili ai tentacoli dei gigli di mare. Muovo la testa bruscamente a destra e a sinistra per sentire come i capelli diventano tesi, si stendono nell’acqua densa, acquistano peso, un peso inaspettato. È difficile strapparli dai loro alveoli stando in acqua. I pidocchi si appigliano ben bene ai tronconi spessi, diventano un tutt’uno. Le loro espressioni inumane mostra- no una sorta di perplessità. Le loro carcasse sono della stessa sostanza dei capelli. Si ammorbidiscono anch’esse nell’acqua bollente, ma non si dissolvono. I tubicini respiratori disposti simmetricamente intorno all’addome goffrato sono ben serrati, come le narici socchiuse delle foche. Galleggio nella vasca passivamente, rilassato come un prodotto anatomico, la pelle delle dita mi si gonfia e s’increspa. Sono anch’io molle, come se fossi ricoperto di chitina diafana. Le braccia, lasciate libere, galleggiano in superficie. Il sesso tende pure lui a sollevarsi, come un tappo di sughero. È così strano avere un corpo, essere dentro un corpo.

Mi metto seduto nella vasca e comincio a insaponarmi i capelli e il corpo. Per tutto il tempo che ero stato con le orecchie sottacqua avevo sentito distintamente discussioni e rumori dagli appartamenti vicini, ma come in sogno. Ora avevo tappi di gelatina nelle orecchie. Passo i palmi delle mani pieni di sapone sul corpo. Il mio corpo non è per me erotico. È come se passassi le dita non sul mio corpo, ma sulla mia mente. La mia mente vestita di carne, la mia carne vestita di cosmo.

Come nel caso dei pidocchi, non sono granché sorpreso quando arrivo con le dita piene di sapone all’ombelico. È da un bel po’ di anni che mi capita. All’inizio mi sono spaventato, ovviamente, perché avevo sentito che può capitare che l’ombelico ti scoppi. Non mi ero però fatto mai problemi col mio, visto che il mio ombelico non era altro che un incavo sul mio addome «appiccicato alla colonna vertebrale», come diceva la mamma. In fondo a questo incavo c’era qualcosa di spiacevole al tatto, che non mi aveva mai più di tanto preoccupato. L’ombelico non era altro che la parte incavata della mela, da dove spunta il pippolo. Siamo cresciuti pure noi come dei frutti su un picciolo percorso da venuzze e arterie. Ma un po’ di mesi fa, mentre passavo le dita frettolose sopra questo accidente del mio corpo, soltanto perché non restasse mal lavato, ho sentito qualcosa d’insolito, qualcosa che non avrebbe dovuto essere lì: una specie di piccola sporgenza che mi ha graffiato la punta del dito, qualcosa d’inorganico, che non faceva parte del mio corpo. Era incastonata nel groppo di carne smorta che stava sbarrata lì, come un occhio tra due palpebre.

Per la prima volta ho guardato più attentamente, sotto l’acqua, e ho dischiuso con le dita i bordi del crepaccio. Poiché non vedevo bene, mi sono alzato dalla vasca, e la lente d’acqua dell’ombelico è gocciata lentamente via. Oddio, mi dicevo sorridendo, sono arrivato a contemplare il mio stesso ombelico… Sì, era una specie di nodo pallido, che ultimamente era diventato più sporgente del solito, perché a quasi trent’anni i muscoli dell’addome si erano rilassati un po’. Un’incrostazione grande come un’unghia di bambino, in una delle volute del nodo, si rivelò essere semplice sporcizia. Dall’altra parte, però, rigido e dolente, sporgeva il piccolo moncone nero-verdastro che avevo sentito con la punta del dito. Non mi rendevo conto di cosa potesse essere. Ho cercato di afferrarlo con le unghie, ma ho sentito, tirando, una piccola dolenzia che mi ha spaventato: poteva essere una specie di neo che non era saggio stuzzicare. Ho cercato di non badarci più e di lasciarlo stare, lì dov’era comparso. Nel corso della vita spuntano tante macchie cutanee, nei, ossa necrotizzate e altre porcherie che ci portiamo dietro pazientemente, per non dire di unghie, capelli, e di denti che ci cadono: parti di noi che non ci appartengono più e che acquistano una vita tutta loro. Grazie alla mamma, conservo tuttora, in una scatolina di tic tac, tutti i miei dentini da latte e sempre grazie a lei le mie treccine di quando avevo tre anni. Le nostre foto con la lacca screpolata e la dentellatura sui bordi, simile a quella dei francobolli, lo testimoniano: il nostro corpo si è realmente interposto un tempo tra il sole e la lente della macchina fotografica, lasciando la propria ombra impressa sulla pellicola, non diversamente da come la luna, durante l’eclisse, depone la sua ombra sul disco solare.

Dopo una settimana, però, sempre nella vasca, ho sentito di nuovo il mio ombelico insolitamente irritato: il pezzetto non identificato si era allungato un po’ e si avvertiva in maniera diversa, una sensazione inquietante più che dolorosa. Quando ci fa male un molare lo stuzzichiamo con la lingua pur rischiando di provocare alla fine un dolore acuto. Qualsiasi cosa insolita appaia sulla mappa sensibile del nostro corpo ci esaspera e c’inquieta: dobbiamo a ogni costo liberarci della spiacevole sensazione che non ci dà pace.

A volte, la sera, quando vado a letto, mi tolgo i calzini e sento che la pelle carnosa, giallo-traslucida della parte laterale dell’alluce si è ispessita a dismisura. Afferro con le dita il rigonfiamento compatto, lo tiro anche per mezz’ora finché riesco a romperne un pezzetto, e continuo a tirare con i polpastrelli delle dita dolenti, sempre più irritato e più preoccupato, finché stacco una crosta spessa, vetrosa, come rigata da papille digitali, un intero centimetro di pelle morta, che pende ora sconciamente dal dito. Non posso tirare oltre, poiché arrivo già alla membrana innervata che c’è sotto, a quel me che percepisce il dolore, devo tuttavia liberarmi dal prurito, da quella inquietudine. Prendo le forbici e la taglio, poi la contemplo per un po’: una crosta bianca che ho prodotto io, senza sapere come, così come non mi ricordo come ho prodotto le mie ossa. La piego tra le dita, la odoro, sa vagamente di ammoniaca: il pezzetto organico, eppure morto, morto già da quando faceva parte di me e aggiungeva qualche grammo al mio peso, continua a esasperarmi. Non me la sento di buttarlo via, spengo la luce e mi corico, tenendolo sempre tra le dita, per dimenticarmene completamente l’indomani. Tuttavia per un po’ zoppico leggermente: mi fa male il punto da dove l’ho strappato.

Così mi sono messo a tirare leggermente il moncone rigido che spuntava dal mio ombelico finché, inaspettatamente, mi è rimasto in mano. Era un cilindretto lungo mezzo centimetro e grosso come uno zolfanello. Sembrava annerito precocemente, muffito e sporco e scurito dal trascorrere del tempo. Era qualcosa di antico, mummificato, saponificato, il demonio soltanto lo sa. L’ho messo sotto il getto d’acqua del lavandino e lo strato di sporcizia se n’è andato via, lasciando vedere che una volta quella cosina era stata, forse, giallo-verdognola. L’ho messo in una scatolina vuota di fiammiferi. Sembrava la capocchia bruciata di uno zolfanello.

Qualche settimana dopo dall’ombelico ammollato dall’acqua bollente ho poi estratto un altro frammento, questa volta due volte più lungo, della stessa sostanza dura e allungata. Stavolta mi sono reso conto che si trattava dell’estremità flessibile di uno spago, ho potuto anche notare l’insieme delle fibre ritorte che lo componevano. Era uno spago, un semplice spago, da pacchi. Lo stesso con il quale, ventisette anni prima, avevano legato il mio ombelico nel misero reparto maternità dell’ospedale per povera gente dov’ero nato. Adesso il mio ombelico lo espelleva, come fosse un aborto, lentamente, un pezzetto ogni due settimane, un pezzetto al mese, poi un altro dopo altri tre mesi. Quello di oggi è il quinto e me lo tolgo con cura e voluttà. Lo raddrizzo, lo pulisco con l’unghia, lo lavo nell’acqua della vasca. È il pezzo più lungo fino a ora, e l’ultimo, spero. Lo dispongo nella scatolina da fiammiferi, accanto agli altri: se ne stanno tranquilli, mezzi curvi, di un giallo-verdognolo-nero, con le estremità leggermente sfilacciate. La canapa, la stessa canapa con cui si fanno le retine per le massaie, che gli tagliano le dita quando sono piene di patate, la stessa usata per legare i pacchi. A Ferragosto, per l’Assunzione, ricevevamo un pacco dai parenti di mio padre del Banato: dolci con semi di papavero e miele. Lo spago disfatto, verde-marrone, era la mia gioia: ci legavo le maniglie delle porte, perché la mamma non facesse un altro bambino. A ogni maniglia facevo decine, centinaia di nodi.

Allo spago dell’ombelico non ci penso più ed esco dalla vasca, con l’acqua che mi scivola addosso. Prendo la bottiglia con la soluzione contro i pidocchi che sta dietro il cesso e mi verso in testa un dito del suo contenuto puzzolente. Mi chiedo da quale classe li ho presi questa volta, come se contasse qualcosa. O forse conta, chissà. Forse in strade diverse del quartiere e in classi diverse della scuola i pidocchi sono di altre specie, di altre dimensioni.

Risciacquo più volte quella sostanza schifosa e poi comincio a pettinarmi sopra il lavandino con la porcellana splendente di pulizia. E a un tratto i parassiti cominciano a cadere, due, cinque, otto, quindici… Sono piccolissimi, ognuno contenuto nella sua goccia d’acqua. A fatica riesco a scorgere i loro corpi con l’addome dilatato e tre zampine, che ancora si muovono, su ogni lato. Il loro corpo e il mio, così come mi ritrovo, nudo e bagnato, chino sul lavandino, sono fatti degli stessi tessuti organici. Hanno organi e funzioni analoghi. Hanno occhi che vedono la stessa realtà, hanno piedi che li portano nello stesso mondo infinito e incomprensibile. Vogliono vivere, così come lo voglio anch’io. Li allontano dalle superfici del lavandino con un getto d’acqua. Scendono giù attraverso i tubi, arrivano nelle canalizzazioni sotterranee.

Vado a dormire con i capelli bagnati vicino ai miei miseri tesori: la scatolina di tic tac con i dentini da latte, le foto di quando ero piccolo e i miei genitori erano giovani, la scatola dei fiammiferi con lo spago tagliato dal mio ombelico, il mio diario. Rovescio, come faccio tante volte alla sera, i dentini nel palmo della mano: sassolini levigati, ancora bianchissimi, che una volta sono stati nella mia bocca, con cui un tempo ho mangiato, ho pronunciato parole e ho morso come un cagnolino. Tante volte mi sono chiesto come sarebbe avere da qualche parte un sacchetto di carta con le mie vertebre dell’età di due anni o con le falangi delle mie dita di quando ne avevo sette… Rimetto i denti a posto. Vorrei guardare anche qualche foto, ma non ce la faccio più. Apro il cassetto del comodino e metto tutto dentro, nella scatola di «pelle di serpente» ingiallita, che una volta conteneva un rasoio, un pennello e una confezione di lamette da barba Astor. Ora ci tengo i miei poveri tesori. Mi copro la testa con la trapunta e cerco di addormentarmi quanto più in fretta, se possibile definitivamente. Il cuoio capelluto non mi prude più. Inoltre, visto che è capitato di recente, mi auguro che non capiti anche stanotte.

— Traduzione di Bruno Mazzoni, dal 20 maggio in libreria.

© 2015, Mircea Cărtărescu/Paul Zsolnay Verlag Wien

ARTICOLO n. 23 / 2021

Quale futuro per i festival?

Dazed and confused. Così ci siamo sentiti. Ancora lo siamo. Come nella canzone dei Led Zeppelin, involontaria colonna sonora di questa lunga e inconclusa pandemia. Tuttavia, da pochi giorni, anche in Italia le sale cinematografiche hanno ottenuto il via libera alla riapertura, seppure con molte restrizioni. Pochi Paesi ci avevano preceduto, anche se di poco (Spagna, Inghilterra, Stati Uniti), altri seguiranno (la Francia).

Gli interrogativi legati a questa ripartenza che ci si augura definitiva – dopo quella illusoria dello scorso settembre, vanificata dalla seconda e dalla terza ondata del virus – sono numerosi e alimentati da un’aura d’inquietudine neppur troppo sottile. Tornerà il pubblico a frequentare le sale dopo la lunga abitudine alla comodità che le piattaforme hanno generato e continueranno a sfruttare con cinica determinazione? Saprà l’industria cinematografica risollevarsi dopo essere stata messa in ginocchio dalla pandemia, al pari di tutti gli altri settori dedicati alla creazione artistica?

Altri interrogativi riguardano le possibilità di sopravvivenza dei distributori, soprattutto quelli indipendenti, che hanno garantito il funzionamento di un modello di diffusione dei film che dura da più di un secolo; o la capacità di tenuta delle produzioni tradizionali a fronte dell’enorme potenziale d’investimento dei nuovi soggetti che sono i veri padroni delle piattaforme web. Alcuni iniziano anche a chiedersi quale futuro si stia ridefinendo per i festival di cinema.

Tra i molti a farsi queste e altre domande, anche Paul Schrader, grande sceneggiatore e regista (American Gigolo, Mishima, il recente First Riformed), molto attivo sui social e la sua pagina Facebook.

Anche lui, come altri, ritiene che il cinema così come abbiamo imparato a conoscerlo, ad appassionarcene e ad amarlo, sia in remissione. Che la pandemia abbia disabituato lo spettatore alla tradizionale forma di spettacolo della durata canonica di 90-120 minuti. Che sia in atto una sorta di mutazione antropologica messa in moto dalla dipendenza dalle serie, caratterizzate dalla loro lunghezza indefinita e dal rituale episodico della narrazione. Che il futuro dello spettacolo in sala sia legato alla capacità di dar vita a esperienze basate su eventi per i quali si renda necessario e inevitabile uscire dalla propria casa, o alla costruzione di un vincolo come quello che s’induce in uno spettatore quando è spinto a diventare membro di un cineclub.

Ascoltiamolo: «Penso che questa trasformazione corrisponda al terzo cambiamento tettonico nella storia del cinema. Il primo avvenne dopo Nascita di una nazione, quando ci si rese conto che si potevano fare un sacco di soldi mettendo una moltitudine di persone dentro una grande sala buia senz’aria condizionata. Così nacquero i grandi cinema dell’epoca del muto, e tutte quello che ne seguì. Il secondo cambiamento si produsse quando il cinema dovette fare i conti con la televisione e, ironicamente, ciò avvenne nello stesso momento della comparsa dei film intelligenti, i film seri che da noi John Frankenheimer e Arthur Penn furono tra i primi a realizzare, mentre in Europa tutto era iniziato con il Neorealismo italiano. Improvvisamente, c’era stata data un’altra ragione per andare al cinema. Quanto al terzo cambiamento…beh, tutto mi è risultato più chiaro quando, parlando con un mio parente che abita nel Michigan, alla domanda “Che tipo di film guardi?”, mi sono sentito rispondere: “Io guardo Netflix”. In quel momento ho compreso il genio di Reed Hastings (il fondatore di Netflix, ndr.)».

Detto in estrema sintesi, la grande intuizione di Hastings consiste nell’aver ribaltato una consuetudine durata alcuni decenni, che consisteva per lo spettatore nella scelta del film per il quale avrebbe deciso di uscire di casa per andare al cinema.

Con Netflix, oggi è sufficiente accendere il proprio televisore e scegliere da un menù vastissimo, che contiene film per tutti gusti (polizieschi, commedie, film di guerra, documentari, persino grandi film d’autore – Martin Scorsese, Alfonso Cuaron e, a breve, Jane Campion – con la produzione dei quali il colosso del web sembra volersi vendicare degli studios hollywoodiani che gli avevano dichiarato guerra agli inizi). Paul Schrader muove considerazioni interessanti in merito ai cambiamenti che questo modello di consumo induce nell’estetica del cinema. Per esempio, il fatto che l’arte del film consista «nella capacità di comporre storie concise che atterrano come un pugno in faccia», mentre nel caso della serialità televisiva il primo episodio serva a costruire un modello che i registi successivi (che possono essere persone diverse) si limitano a seguire e a duplicare.

Un’altra differenza consiste nel fatto che il cinema è un director’s medium (cioè il frutto della creatività di un regista, che controlla l’intero processo), mentre la serie è un writer’s medium, cioè il risultato del lavoro di uno sceneggiatore (salvo eccezioni, come nel caso di David Fincher, ideatore regista e produttore della serie Mindhunter). Anzi di una writers’ room, cioè un gruppo di sceneggiatori che sono costretti a lavorare insieme e debbono per forza scendere a compromessi tra di loro: «così viene meno l’idea di una voce forte, singolare, ciò che rende un film di Woody Allen, per esempio, una sua inconfondibile creazione. Non puoi guardare un film di Allen senza renderti conto che stai guardando un film di Allen, mentre un sacco di serie rivelano l’impronta della committenza».

Ancora. Vedere Nomadland (da poco premiato con l’Oscar per il miglior film) al cinema non è la stessa cosa che vederlo sulla piattaforma che pure lo ospita in contemporanea. Perché se hai scelto di andare a vederlo in una sala provi un diverso tipo di coinvolgimento: resti a vederlo fino alla fine anche se non ti piace, mentre a casa puoi mollare la visione in qualunque momento, se non ti soddisfa fino in fondo.

Facciamo un passo indietro, anzi di lato. Abbiamo seguito sinora Schrader nella conversazione con Richard Brody, pubblicata su The New Yorker il 22 aprile scorso (ci torneremo fra poco). Proviamo ora a domandarci che cosa sia cambiato invece nell’universo parallelo dei festival cinematografici in seguito alla pandemia. Moltissimi sono stati costretti a cancellare la loro edizione, alcuni per due volte di seguito. Lo sappiamo dall’assillante bollettino delle perdite non solo umane con il quale i media ci hanno tenuto costantemente informati, durante il lockdown totale o parziale che dura da quindici mesi. Sappiamo anche che molti di questi non troveranno la forza e le risorse per ripartire, una volta che saremo ritornati a una qualche forma di normalità.

Pochissimi si sono potuti svolgere «in presenza», benché costretti a rinunce e limitazioni imposte dai protocolli di sicurezza, con meno film in programma e la capienza delle sale ridotta alla metà. Poi c’è il caso, molto interessante, di numerose altre manifestazioni che hanno scelto la via del web, affidandosi alle risorse della virtualità pur di non scomparire o, in alcuni casi, optando per soluzioni ibride in grado di garantire una qualche forma di fruizione in presenza per un numero limitato di spettatori, mentre agli altri potenziali fruitori veniva offerta la possibilità di collegarsi in streaming per vedere i film che altrimenti sarebbero stati loro negati.

Doveroso chiedersi, a questo punto, se quest’ultimo sia destinato a diventare il paradigma festivaliero del futuro, se sia possibile e/o auspicabile una coesistenza di diversi modelli di fruizione a vantaggio di tutti, o se non sia invece necessario un grande sforzo collettivo per garantire la sopravvivenza di spazi reali, fisici, non virtuali, destinati alla tutela e alla valorizzazione dei prodotti artistici.

La risposta non può che essere plurima, a seconda delle diverse tipologie di festival con cui si ha a che fare. Non credo ci possano essere dubbi sul fatto che l’enorme quantità di piccole e medie manifestazioni specializzate, destinate alla circolazione e alla promozione di cortometraggi, documentari e film minori che difficilmente possono contare su di un mercato in grado di garantire loro una circolazione ampia e uno sfruttamento commerciale di dimensioni significative, siano enormemente avvantaggiate dalla possibilità di servirsi delle risorse offerte dallo streaming per mostrare i film selezionati.

A fronte di una diminuzione dell’effetto di promozione territoriale (il legame con la città o la regione di svolgimento), l’occasione di aumentare in maniera significativa il numero degli spettatori virtuali risulta alquanto allettante e potenzialmente remunerativa. Recenti esperienze in questo senso suonano a conferma di quanto affermato: gli spettatori, abituati ad utilizzare le piattaforme, sembrano assai più propensi a connettersi da casa con un festival, piuttosto che affrontare spostamenti impegnativi a fronte di costi non indifferenti e incertezza sulla qualità delle proposte.

L’ampliamento della platea potenziale, che si affianca a quella reale, non ha solo un effetto di promozione dell’immagine di un festival e di gratificazione degli obbiettivi culturali della proposta, ma può tradursi in un ritorno economico che risuona positivamente a vantaggio di tutti i soggetti coinvolti: organizzatori, produttori dei film e gestori delle piattaforme utilizzate.

Diversa la situazione dei grandi appuntamenti che si suole definire con il termine di «generalisti», come Venezia, Cannes, Berlino, Toronto, San Sebastian, Telluride, New York, Locarno, Busan e Tokyo (per citare solo i festival più noti e di maggior prestigio). In questi casi, le funzioni principali che ne presiedono e giustificano l’esistenza – celebrare l’arte e la creatività cinematografica, contribuendo alla sua affermazione al di là delle ragioni economiche e produttive sottese, e servire nello stesso tempo alla giusta causa della promozione dei film in vista della loro imminente distribuzione nei circuiti esistenti (quello tradizione delle sale cinematografiche e quello nuovo rappresentato dalle piattaforme) – non possono prescindere dallo spazio fisco entro il quale interagiscono tutti i soggetti che partecipano alla sua realizzazione: autori, critici, giornalisti, operatori professionali, cinefili e semplici spettatori occasionali, attirati dalla curiosità dell’evento e dalla presenza delle star.

È una cerimonia complessa e articolata, affidata a riti che si ripetono sempre uguali, ciascuno dei quali (pur nella diversità dei pesi e dell’importanza che gli si vuole attribuire) svolge una funzione essenziale per il conseguimento del risultato finale: il tappeto rosso, la conferenza stampa, photo TV e radio call, la successione interminabile delle interviste, l’incontro con il pubblico, il rituale degli autografi, le master class, la cerimonia della consegna dei premi. E, naturalmente, su tutto e prima di tutto, l’esperienza della proiezione in una sala perfettamente attrezzata, che presuppone la garanzia delle migliori condizioni di visione possibili e la partecipazione all’emozione della scoperta di un film inedito con altri spettatori: elemento, questo, che nessun succedaneo virtuale è in grado di surrogare, né tantomeno di sostituire. La prevalenza del fattore umano: se mai la pandemia è servita a qualcosa, il suo apporto è consistito anche nell’aver favorito la riscoperta del valore insostituibile della condivisione dal vivo di uno spettacolo, di un evento.

Tutt’al più, nell’immediato futuro – in cui assisteremo all’istaurazione di una normalità nuova che avrà alcuni tratti in comune con quella a cui eravamo abituati e altri inediti – i festival impareranno a sfruttare al meglio le risorse che la tecnologia e l’intelligenza artificiale mettono a nostra disposizione per migliore la qualità dei servizi offerti ai partecipanti (conferenze stampa e interviste online, panel con protagonisti da tutto il mondo che non si sarebbero altrimenti potuti spostare, potenziamento delle occasioni di promozione degli autori e delle loro opere, anche proiezioni in streaming per i film ancora privi di distribuzione).

Una certa qual forma di contaminazione o, se si preferisce, di integrazione fra la dimensione fisica e quella virtuale sarà dunque inevitabile e persino auspicabile. Ma poiché si è fatto ripetutamente ricorso a termini quali cerimonia riti e rituale, conviene concludere con Paul Schrader che «in un certo senso, andare al cinema in passato era come andare in chiesa. Non esci dalla chiesa perché ti annoi. Ci sei andato per annoiarti». Diciamocelo allora, restando nella metafora: se la vita è noia (Sartre, Leopardi, Moravia), il cinema è pur sempre il miglior modo di annoiarsi, e un festival in presenza, in totale condivisione con una moltitudine di altri esseri umani, è la più alta forma di celebrazione di questo insondabile e insostituibile mistero noioso che è il culto della Settima Arte.

ARTICOLO n. 22 / 2021

Tentare l’Impossibile

Quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra,
ciascuno nella sua misura,
su per giù gli stessi sentimenti che io nutro verso l’oceano
HERMAN MELVILLE, MOBY DICK

C’è una grande chiglia che mi aspetta sempre attraccata al porto. La sensazione di essere pronti a salpare è pura vitalità. Opera viva è detta la parte della nave immersa in acqua, quella che scandaglierà gli abissi. Opera morta è chiamata quella che resterà all’asciutto. Basterebbe questo per raccontare il cammino di ogni nuova creazione.  

Partire per un nuovo progetto, per un film, per un romanzo è cercare qualcosa che non conosco e che non voglio conoscere prima. Non ho nessun appiglio a cui far riferimento, sono fragile ma ho una certezza: al ritorno di ogni viaggio non sarò più come prima.

Sono sola di fronte a quello che conosco da sempre, in compagnia dei fantasmi e cerco di farli apparire esattamente come potrebbe accadere una seduta spiritica. Non posso voltarmi verso quello che ho già fatto. Anzi, il conosciuto, l’avvenuto, tutti i film che ho già girato e più di tutto il successo, grande o piccolo che sia stato ogni volta, inteso più come participio passato che come evento, mi soffoca in una rete da cui devo liberarmi per tornare all’oceano.

Il successo è l’altra faccia della persecuzione, diceva Pasolini. Ma non sono gli altri che ti imprigionano che lo si creda o no, sei tu che perseguiti te stesso obbligandoti a una forma vecchia e certa e dunque non più pericolosa e fertile. Facile o difficile che sia, in ogni caso, conoscere l’effetto di questa distanza è possibile. Scomparire ogni volta e ritrovare una forma sempre vergine è il miraggio a cui tendo. Non essere ri-conoscibile e dunque ri- conosciuta, ma invece conoscermi di nuovo è l’ambizione.

Tentare l’impossibile mentre si cerca, siano immagini per un film o parole per un romanzo, si tramuta in quello che è un viaggio dove il naufragio è uno degli esiti possibili, e dove sia sempre possibile naufragare insieme al progetto; senza pericolo, senza l’abisso non c’è nemmeno il viaggio. All’inizio, mentre giravo i primi film, cortometraggi, dipingevo la pellicola.

Era pellicola 35 millimetri, il grande fotogramma era un quadro che aggredivo con colori e smalto, Senti Amor Mio: un film di nove minuti, la storia beckettiana di due postini e di un pacco che non sarà mai recapitato per i vicoli stretti e dalla luce sontuosa di una Palermo incantata, l’opera lirica e le voci del mercato di Ballarò, una delle tante dichiarazioni d’amore fatte a quella città. Il colore sul fotogramma che riempiva l’immagine era il tentativo di andare oltre l’immagine, di aprirla per scoprire che cosa c’era dentro, interrogarla fino a quando non avveniva una trasformazione alchemica grazie al colore. Quando lo proiettarono al cinema i colori sovrastavano il girato, lo avevano cancellato e cambiato completamente la drammaturgia della storia. Il mondo che avevo immaginato era un grande testo e i colori l’avevano riscritto emotivamente.

Se quello che guida è la bussola dell’esploratore, può sempre succedere che la bussola impazzisca, che le traiettorie sulla carta si confondano e all’improvviso ti trovi nel mezzo della foresta, o peggio ancora: nel mezzo del nulla, del perfettamente ignoto.

La vertigine del nulla è indescrivibile. Non perché sia liricamente romantico farlo e l’emozione ti sovrasti, piuttosto perché non ne conosci le parole, l’unica cosa a quel punto è inventarle, inventare un linguaggio con cui il nulla possa prendere a parlare. E il linguaggio è creatura viva che scaturisce dalla visione. La vista per me è il senso della meraviglia. I territori dell’inesplorato non hanno ancora parole per essere raccontati e non hanno immagini per essere visti, almeno non quelle esistenti. A quel punto del sentiero si aprono due strade: la poesia o la profezia, facoltà data all’arte che coincide con l’ignoto.

Aggredire l’ignoto è un gioco che comincia da bambini e poi, può continuare fino a quando nessuno ti ferma. C’erano certe mattine luminose di cui ricordo solo i riflessi della luce bianca spalmata sul marmo del pavimento di casa, sarà stato quel baluginare luccicante, quell’idea di flutti marini a farmi balenare in testa l’idea di permettere al pesce rosso di tramutarsi in un terrestre. Se noi ce la facevamo perché lui non poteva provarci? Avevo preso la boccia piena d’acqua e accuratamente avevo tracciato due solchi, due piccoli ruscelli sul pavimento del salotto, poi infilato le mani e preso il piccolo pesce che si dimenava ignaro del suo destino, l’avevo appoggiato delicatamente in quel ruscello. L’animale percorreva affannato il solco d’acqua e poi terminava miseramente la sua corsa agitandosi disperatamente sul pavimento. L’intervento misericordioso di mia madre che portava in salvo la creatura, come la botticelliana Madonna del Mare è conservato al riparo nella mia memoria, salvandomi da un senso di colpa che mi avrebbe perseguitato.

Ma subito dopo, quando la tragedia era scongiurata, tornava ad affacciarsi prepotente una questione.  Perché non era stato possibile condividere con il pesce rosso la mia esistenza terrestre? Non c’era limite che mi dissuadesse dal credere che se solo il ruscello fosse stato più lungo, se solo la traiettoria fosse stata più accurata, se solo qualche dettaglio dell’operazione fosse stato curato meglio, avrei potuto raggiungere il risultato.

Conservo di quell’esperimento la precisa sensazione che ricorre in me adulta ogni volta che di fronte a un divieto apparentemente logico mi ripeto: tutto è possibile. La gamma dei possibili si amplia a dismisura o si assottiglia per sempre se gli permettiamo di farlo. La soglia può variare e le variabili sono la misura del nostro spirito d’avventura. È una vita che della ricerca fa il suo stesso cammino, non anela alla meta, ma al percorso fatto. L’animo da pioniere mi porta a credere che ci sia sempre altro da scoprire.  E in questo la fantasia è strumento indagatore, al contrario di quanto potrebbe sembrare. In questo periodo storico si è portati ad attribuire alla fantasia la connotazione di fuga dalla realtà.

L’artista, in tutti i campi ma nel cinema in particolare, ha più ascolto come lacchè della cronaca, la dittatura del realismo ci attende con i suoi militari schierati. Ma davvero il realismo nulla ha a che vedere con la realtà. Il realismo è funzionale a una visione artistica che fa della propaganda il suo fine e ne condivide i presupposti ideologici. Secondo Arshile Gorky l’arte nasce dove la fantasia sostituisce la memoria.  Sua madre gli raccontava storie mentre lui bambino schiacciava la faccia a occhi chiusi sul suo lungo grembiule. Le storie e i ricami sul grembiule si confondevano nella sua testa e per tutta la vita hanno continuato a dipanare immagini. Così la fantasia come creatrice di una realtà mi porta a disfare in continuazione la tessitura della narrazione.

Ho necessità di partire per immaginare ogni racconto da una storia vera, per vera intendo realmente accaduta. Voglio che quella storia trovi riscontro in un corpo, in una voce, in un testimone. Poi a poco a poco riavvolgo il filo, la srotolo come farei con un gomitolo fino a quando la storia che ritrovo si è modificata attraverso la fantasia.

Quando ho scritto il mio primo film, Tano da Morire, avevo per le mani una storia di mafia classica, quella di un piccolo boss di quartiere, avevo letto tutti gli atti del processo, seguito la cronaca sulla sua vita, maneggiato a lungo le fotografie della sua famiglia. Ma dopo tutto questo ho abbandonato la strada che ogni traccia mi suggeriva e sono andata alla deriva. La realtà mi era servita da banchina, da attracco, per farmi navigare in acque sconosciute. Così ho fatto un musical su quella storia di mafia.

Ricordo perfettamente la prima volta che sono entrata in una sala cinematografica, avrò avuto più o meno sei anni, ero con mio padre a Milano in una grande sala di Viale Abruzzi. Era un pomeriggio estivo. Due cowboy seduti a un tavolaccio mangiavano avidamente da un piatto bianco candido dei fagioli. Quella visione meravigliosa suscitava il desiderio di partecipare e di sedermi allo stesso tavolo per mangiare con loro, la mano calda e rassicurante di mio padre non era bastata a trattenermi, volevo entrare di corsa nello schermo e andare dall’altra parte, agguantare quei fagioli.

Non era possibile, mi era stato detto. Non era possibile passare dall’altra parte dello specchio, come dice Monk nella Rosa Purpurea del Cairo: «Va’ vai a vedere com’è il mondo: quello non è cinema, è vita vera! È vita vera e qui tornerai» ma io non potevo crederci. Ma intanto l’emozione di quella visione si era stampata intatta nella memoria che comunemente viene definita a lungo termine (mentre quella a breve termine viene chiamata in modo molto significativo memoria di lavoro). Se ricordare non significa semplicemente replicare, ma ogni volta ricreare le esperienze, raccontarle secondo una nuova narrazione, diventa altrettanto fondamentale dimenticare. La necessità di dimenticare ogni volta e il richiamo della memoria sono il filo teso su cui camminare.

In questo gioco a sfuggire la memoria e in questa ossessione a non perderla, vincitore a volte è il primo, a volte la seconda. Cammino in mezzo con l’impossibile desiderio di meravigliarmi ogni volta e lo struggente attimo in cui perché succeda devo abbandonare quello che conosco. Il mio prossimo film è infatti la storia di una donna che perde la memoria. 

La grande chiglia è pronta a salpare, meglio alleggerire il carico. In mare aperto anche un solo ricordo ti fa provare il desiderio di tornare indietro mentre poche miglia più in là in mezzo al nulla potrebbe aspettarti la meraviglia.

ARTICOLO n. 21 / 2021

Credere ancora nella scrittura?

La domanda mostra (inconsapevolmente) non solo di credere nella scrittura, ma anche di subirne tuttora completamente l’ipnotica efficacia. Infatti «la scrittura» non esiste, salvo per coloro che sono stati alfabetizzati. Cerco di spiegarmi (muovendomi fatalmente in un contesto «alfabetizzato»).

La pratica espressiva originaria dei discorsi non procede per nomi, verbi, avverbi, aggettivi ecc. ecc. La sua «grammatica», per dir così, è di altra natura. Ricordo un aneddoto famoso. Aleksandr Lurija chiede a un contadino russo analfabeta (siamo negli anni ’20) in che differiscano la sega, l’accetta e il tronco dell’albero. Non differiscono affatto, è la risposta. La sega sega l’albero, l’accetta lo divide in tanti pezzi che vengono poi bruciati nel camino. In sostanza il contadino considera l’unità di senso dell’azione complessiva, profondamente intrecciata con gli abiti verbali propri della comunità di appartenenza. L’oralità, la scrittura, l’accetta isolatamente intesi per lui non esistono. Sono abiti vocali il cui significato accade e fa corpo con l’esercizio del fare legna per l’inverno.

Che cosa fa invece la scrittura alfabetica? Se chiedi «che cosa», la scrittura alfabetica è già entrata in azione ed è lei che risponde, di fatto nascondendosi allo sguardo di quel soggetto alfabetizzato dalla prima infanzia che noi siamo. Cerchiamo nondimeno di dirci che cosa fa, evitando le banalità consuete del tipo: trascrive i suoni della voce in grafemi o segni scritti (o meraviglia! E come fa a produrre questo miracolo?).

Prendiamo le mosse dall’idea di pratiche complesse in azione, come appunto andare a fare legna nel bosco: l’uomo dell’oralità primaria (come diciamo noi, lui non ha alcun motivo né possibilità di pensarsi così) svolge di fatto un’azione intelligente che si snoda in moduli operativi eminentemente finalizzati e pratici; la loro dinamica dà vita a un corpo in azione coerente con l’espressione «andare a far legna», azione articolata in altre azioni e correlativi strumenti ed espressioni (l’accetta, la sega, il ceppo ecc.).

La scrittura alfabetica non traduce affatto il tutto in tracce scritte su un supporto; piuttosto sostituisce l’antico corpo integrato operativo ed espressivo in tutt’altra pratica, in tutt’altro corpo operativo, all’interno del quale emergono appunto i segni scritti, le «vocali», le «consonanti», le «sillabe»: «cose» esistenti solo all’interno di questa pratica scrittoria. Essa analizza il cosiddetto nastro vocale, preso isolatamente in sé, secondo una logica esecutiva «musicale», propria appunto della pratica alfabetica. Vedi questo circoletto con la gambina? Bene, apri la bocca ed emetti un suono corrispondente: «aaa…». Poi nascerà col tempo la lettura silenziosa, quella di Sant’Ambrogio che suscitò lo stupore e l’ammirazione di Agostino. Come possiamo pensare che questa pratica sia sorta e che si sia imposta, per quali motivi, secondo quali sensi e ragioni progressive ho cercato di chiarire in un saggio («Phrasikleia: corpi e voci della scrittura», in Inizio, Jaca Book, Milano 2016).

Qui mi concentro sugli esiti ultimi di questo lungo processo legato al diffondersi della pratica alfabetica, nel mondo antico e poi nel medio evo e nella modernità.

La pratica scrittoria dell’alfabeto (lettera dopo lettera su una linea progressiva di punti idealmente infiniti) esibisce tratti di parole separate (ricordo che la separazione tra le parole fu un procedimento scrittorio ellenistico; prima si badava unicamente alla lettura musicale del testo, il cui senso suggeriva da sé, ancora oralmente per così dire, gli intervalli del discorso concretamente incarnato e tradotto dal lettore vocale). È così che le parole cominciano a stagliarsi singolarmente, divenendo appunto «cose-parole»: esse acquisiscono in tal modo una inedita consistenza onto-logica, divenendo segni di «cose» corrispondenti, ovvero supposte tali dal lettore alfabetizzato. Evento la cui portata non potrebbe essere più grande e profonda, poiché è all’origine di tutta la «scienza europea».

Su questa base, un uomo cominciò a interrogare i suoi concittadini analfabeti chiedendo per esempio: che cosa è «il coraggio»? Che cosa dici che sia? E l’interlocutore ovviamente rispondeva secondo la sua «logica»: coraggio è quello che fa Ettore, nell’affrontare l’invincibile Achille… No, non è questo che ti ho chiesto; non volevo che tu mi riferissi un’azione, un comportamento, una storia, un racconto (mythos); ti sto chiedendo che cosa è il coraggio, ti chiedo una «definizione» (cosa per l’interlocutore sconosciuta e inimmaginabile), non un’azione ma una nozione. Quindi una «essenza», un «concetto», una «idea»; non Eroi, Dei e Personaggi coinvolti in una vicenda. L’Occidente è in cammino.

Divenute segni di cose corrispondenti sul piano della supposta realtà in sé del «mondo» e dei suoi «enti», le parole innescano il sapere fondamentale della scienza, della episteme filosofica, fondamento dei saperi rappresentati dalle scienze particolari. Infatti Aristotele coerentemente distingue: «filosofia prima» (la «metafisica»: lo studio dell’ente in quanto tale e dell’ente in totalità) e «filosofie seconde» (le scienze o saperi particolari, a partire dalla «fisica»).

Ha osservato Heidegger: oggi la filosofia è morta. Se chiedi che cosa sono le cose, gli enti reali del mondo, da tempo non è più il filosofo che risponde; risponde lo scienziato naturalista (il fisico galileiano, il chimico, il biologo ecc.). Tuttavia, dice Heidegger, questa fine della metafisica e della filosofia tradizionale è piuttosto il suo compimento, è la realizzazione di un compito che sin dalle origini la filosofia si era dato: la conoscenza della «causa» degli enti e delle loro trasformazioni, quella conoscenza che, nel tempo, si è sviluppata grazie al lavoro delle scienze particolari. È questo lavoro che ha di fatto realizzato il fine della conoscenza filosofica, vedi appunto Aristotele; quindi la sua fine. Tutto bene allora? Adagio…

Anzitutto c’è un passaggio problematico. Se ci siamo fatti intendere, la «logica degli enti», la «mentalità logica» dell’uomo occidentale, ha la sua premessa e condizione nel diffondersi di una pratica, complessa e sempre storicamente determinata, che è la pratica nata nell’alveo del discorso alfabeticamente organizzato. Se è vero che l’uomo della cosiddetta oralità fa le cose in un certo modo tradizionale, è altrettanto vero che la pratica alfabetica ha insegnato a ragionare invece per «enti in sé», che nondimeno resterebbero impensabili, «letteralmente» inconcepibili, senza l’educazione alla scrittura e alla lettura alfabetiche e alle loro grandi conseguenze culturali e mentali. Questo fatto resta però inavvertito. La mentalità scientifica diffusa (e così quella del cosiddetto senso comune) ritiene fermamente di parlare semplicemente della «realtà», cioè di come sono fatte universalmente le cose del mondo, esseri umani compresi. La soglia della grande rivoluzione alfabetica dell’Occidente e delle relative, immense conseguenze per il tipo di vita sul pianeta restano di fatto sconosciute.

Poi c’è un secondo problema: la stessa «scrittura alfabetica» non è affatto intesa nella sua complessità storico-pratica. Ricordo il bellissimo libro di Ivan Illich, Nella vigna del testo, Cortina, Milano 1994. Ogni scrittura e, correlatamente, ogni lettura si è sviluppata come una pratica complessa, ricca di fattori contingenti e transeunti. È appunto questa serie di differenti pratiche storiche e dei loro esiti sociali a esistere, non «la scrittura». Come si leggeva alla corte di Carlo Magno, come si cantavano in chiesa le grandi e pesanti pergamene del libro sacro, come il monaco rimuginava tutto il giorno, mentre era al lavoro, le righe mandate a memoria, quando l’alfabeto era unicamente pensato come tecnica applicabile alla sola lingua latina (per il fatto che non se ne conoscevano altre applicazioni)? E poi la trasformazione delle pratiche scrittorie, innescate dall’Oriente: la carta, gli inchiostri, le colle, la copertina, l’organizzazione inedita del materiale, ovvero la grande invenzione del testo: indici, paragrafi, capitoli, sommari. Infine la decisiva rivoluzione della stampa e il suo percorso straordinario, da Venezia al mondo: vera matrice della rivoluzione della cultura moderna e delle grandi trasformazioni politiche e sociali in Europa e, un po’ alla volta, in tutto il globo.

Ecco, questa è la scrittura di cui si chiede conto nel titolo di questo scritto. Non vi è né vi fu una sola scrittura; la sua pratica si è intramata con innumerevoli innovazioni tecniche, economiche, ideologiche e sociali e non ha smesso di farlo. Quello che si ha l’impressione che perda terreno, specialmente tra i giovani, è la scrittura del testo «letterario», della «saggistica» filosofica e non solo. Avanzano inarrestabili altri intrecci, altre pratiche scrittorie, sempre più diffuse e potenti.

C’è del resto una osservazione molto semplice per convincersi della estrema attualità della scrittura alfabetica: la presenza ormai ovunque della «tastiera» (che costituisce un grande e ancora attuale problema per le scritture orientali basate sugli ideogrammi). La logica della tastiera (con la relativa presenza di messaggi e messaggini) governa sovrana l’espressione internazionale dell’uomo contemporaneo. La scrittura alfabetica non è mai stata così viva.

Da tempo immemorabile ciò che chiamiamo «scrittura» ha incarnato la soglia dell’umano. Essa era là quando si dipingevano il volto e le membra, quando si mutilavano il corpo, quando orientavano le tende, le tombe e le capanne, istoriavano le caverne, intagliavano gli strumenti e le armi, organizzavano il rito e il sacrificio, eseguivano danze festive, disegnando i labirinti del destino. Essa è ancora qua, sui nostri schermi che avvicinano e rendono presente il lontano, nella nostalgia dolorosa dell’assenza. Così la scrittura alfabetica ha conservato i pensieri dei morti, grandi e piccini, perché il corpo degli umani è da sempre un corpo «scritto». La scrittura cambia con noi. Essa custodisce una figura della verità che non è mai compiuta e il cui senso risiede sempre, enigmaticamente, in un’altra scrittura.

ARTICOLO n. 20 / 2021

Sapete chi è Tamino?

Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio
RAINER MARIA RILKE

La prima volta che sono entrata nel teatro Olimpico di Vicenza mi sono sentita male. Era pomeriggio, il teatro deserto e silenzioso.

Ho aperto una porticina dopo aver percorso un lungo corridoio, e di colpo, vertigini, spaesamento, lacrime. Forse la consuetudine nel frequentare i palcoscenici mi aveva tratto in inganno. Pensavo di sapere dove mi trovavo.

L’Olimpico è un monumento prima ancora di essere un teatro, e questo ne contraddice l’essenza: le scene fisse progettate dal Palladio, sontuose e inamovibili, fagocitano qualsiasi rappresentazione, diventando protagoniste esclusive della scena: il tradizionale vuoto del palcoscenico, necessario all’impianto delle scenografie, lì è già riempito. Tutt’altro che facile recitare in quel contesto. La ragione del mio mancamento non aveva tuttavia niente a che fare con il mestiere che ho svolto per tanti anni, non c’entrava nulla il timore reverenziale verso le tavole del palcoscenico.

Mi era accaduto ciò che notoriamente si racconta accadde a Stendhal, in visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Nel suo caso, mi si conceda l’azzardo, sentirsi sopraffatto di fronte a tali espressioni artistiche risulta alquanto scontato, se si possiede un animo sensibile. Ho visitato centinaia di luoghi da «togliere il fiato» (per il semplice fatto di vivere in Italia), e sarei in serio pericolo se mi fossi lasciata travolgere da tanta meraviglia. Ciò che mi trafigge è lo splendore inaspettato, è ciò che si nasconde dietro la porticina anonima. Mi è successo a Istanbul, scendendo gli scalini che conducevano alla cisterna Yerebatan, il meraviglioso palazzo sommerso, o lungo le rive del Gange, quando la nebbia del mattino, diradandosi, svelava lo spettacolo irreale della città di Varanasi.

Colpisce all’improvviso, come un temporale estivo, cogliendomi impreparata, perciò più vulnerabile. Ecco, sì, la vulnerabilità è la chiave di tutto. È causa dell’evento e al tempo stesso ne diviene effetto.  La crudeltà della bellezza infierisce sui più deboli, i quali soffrono e ringraziano. Mi fa male, ma sono felice, come quando massaggiando una parte dolente del corpo si prova quello strano miscuglio di dolore e sollievo…

E poi, di nuovo il nulla. L’apatia delle emozioni sopite che non vedono l’ora di essere risvegliate. Ringrazio iddio di non aver ancora perduto la capacità di farmi stupire malgrado il mio senso estetico si sia fatto sempre più esigente, e di conseguenza costantemente insoddisfatto. Le forme della bellezza sono per fortuna molteplici e talvolta ci vengono offerte, regalate, da chi ci conosce e sa dove colpire. È successo giorni fa.

Un sms: «Hai mai sentito Tamino?».

Chi mi scrive è l’amico più caro che ho e per ciò stesso so che in quel messaggio è contenuto un dono. La risposta «No» è contemporanea alla ricerca su Google, che in pochi istanti mi illumina e mi rivela chi sia questo Tamino.

Un ragazzo di appena venticinque anni, praticamente l’età di mio figlio. Nato ad Anversa (città che non conosco ma sulla quale fantasticavo da giorni, curiosa coincidenza, per via di un mio articolo sullo scultore Rembrandt Bugatti, che in quella città ha vissuto) da madre belga e padre egiziano. È molto bello Tamino, il cui nome mozartiano si deve a sua madre; possiede quello splendente e raro fascino frutto di fortunati incroci, e certamente è la sua avvenenza a colpire per prima: il viso scavato, gli zigomi alti, i grandi occhi mediorientali e tristi cerchiati da folte ciglia che paiono linee di kajal, i capelli forti di ventenne e il corpo magro ed elegante. Ma dal momento che nel messaggio mi si chiedeva se lo avessi «sentito», l’interrogativo riguardava l’udito più che la vista.

Infatti Tamino Amir Fouad è un cantante. Polistrumentista e compositore. E allora ascoltiamolo questo giovane fiammingo che canta in inglese.

È difficile, se non inutile descrivere l’udibile ma mi auguro facciate ciò che ho fatto io immediatamente dopo aver ricevuto il messaggio del mio amico Sandro, avendo l’accortezza di accedere ai video disponibili, perché è proprio dall’unione dei due sensi, vista e udito, che si produce l’incanto (anche se sarebbe meglio ascoltarlo prima di vederlo, e godersi la doppia sorpresa… da una voce così bella non si pretende un volto alla sua altezza, ci si accontenta, sapendo quanto sia poco generoso il Dio che la dispensa la bellezza, un Dio che con Tamino ha infranto le sue regole…). La voce ricorda Jeff Buckley, stessa dolenza e intensità. Stessa giovinezza prestata a un timbro adulto e profondissimo, a cui si aggiunge un’antichissima eco orientale. Comincio con Indigo Night e mi sembra di riconoscere sonorità a me care introdotte da un accordo di chitarra, semplice, lento ed essenziale che si stempera su immagini di una città ripresa dall’alto da un drone che vola su tetti e terrazze ricoperti di parabole, pochi secondi per capire che si tratta del Cairo. Poi Tamino comincia a cantare e sono sufficienti le prime note per intuire che Sandro ci ha preso. Non ho idea da dove arrivi quella voce, ma a me pare abbia attraversato continenti e spazi e tempo.

«Non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore» diceva Baudelaire. Anche io riesco a malapena a concepirla una bellezza senza malinconia, ho sempre detestato le canzoncine allegre, mi fanno tristezza. La voce di questo ragazzo è quanto di più struggente abbia mai ascoltato, è davvero difficile non farsi trascinare dal suo canto, e allora mi ci tuffo in quella malinconia e vado avanti cercandola negli altri suoi brani fino ad arrivare al più commovente di tutti: Habibi, «Amore mio». Non è a una ragazza che si riferisce il titolo, bensì al padre, che così lo chiamava quando Tamino era bambino (nulla è mai banale nei suoi testi), un padre egiziano figlio del più celebrato attore-musicista del suo paese a cui il nipote somiglia nei tratti e nel talento.

Scavando nella rete in cerca di informazioni che lo riguardano (ormai stregata dal suo incantesimo) capisco che è proprio la bellezza l’elemento che gira intorno alla famiglia Fouad, basta guardare le foto del famoso nonno (lo chiamavano «la voce del Nilo») ma soprattutto quelle del fratello minore Ramy, che ricorda l’efebico Tadzio di Morte a Venezia di Visconti, biondo, lineamenti minuti in contrasto con quelli del fratello, ma altrettanto impressionanti. E anche nel suo caso l’avvenenza non è fine a se stessa (e lo ripeto, già sarebbe sufficiente), ma si accompagna a un talento imprevedibile. Ramy, ventun anni (ventuno…) è infatti il regista dei video di suo fratello. Anche lui dotato di una maturità artistica sorprendente. Esemplare nella semplicità, e dunque nella perfezione, del video che accompagna il lamento dolente di Habibi: un impercettibile movimento di macchina che da un primo piano di Tamino dolcemente si allontana, discreto ed elegante, a piccoli passi, come se non volesse disturbare l’esecuzione della canzone…

Viene voglia di conoscerli i genitori che hanno messo al mondo tanta meraviglia, mi piacerebbe incontrare la madre, così importante nella formazione artistica dei figli. È lei che ha insegnato a suonare il pianoforte a Tamino, lei ha avuto l’intuizione, appena nato, di dargli il nome del giovane principe che combatte le forze del male con il suo flauto magico (Tamino Amir significa il principe Tamino), un nome da predestinato.

Lei che lo ha lasciato libero di andare ad Amsterdam, a soli diciassette anni, per frequentare il conservatorio. «Ero solo e non conoscevo nessuno, passavo le mie giornate in camera a scrivere canzoni» racconta Tamino nelle interviste dove non manca mai di ringraziare la madre, per «avermi fatto scoprire il mio destino».

I suoi riferimenti sono singolari per un ventenne di oggi, Leonard Cohen è un punto fermo così come i Radiohead, che il caso ha voluto mettere sulla sua strada. Di passaggio ad Anversa, il bassista della band Colin Greenwood, è andato ad ascoltarlo in un locale e ne è rimasto folgorato, tanto da voler collaborare alla registrazione di Indigo Night (ecco da dove venivano quelle sonorità a me familiari…). Avrebbe tutte le ragioni per montarsi la testa Tamino, prima fra tutte la giovane età, ma leggendo o ascoltando le sue interviste, emerge una peculiarità rara quanto la sua bellezza (o forse ne è l’origine?): l’umiltà.  Senza alcuna superbia, ma anzi con timidezza (quando scende dal palco torna a essere giovanissimo), Tamino dichiara il suo amore per la letteratura e cita Dostoevskij, Kundera, Keats come numi tutelari. Ciò che colpisce è la semplicità con cui si presenta davanti al pubblico: nessun artificio, non indossa costumi appariscenti, niente giochi di luce o trucchi scenografici. Non ne ha bisogno. Sul palco lui e la sua chitarra, tastiere e batteria lo accompagnano con discrezione. Vale la pena andare a vedere, su YouTube, il concerto dato all’Olympia di Parigi un paio di anni fa, nel quale Tamino invita il suo vecchio maestro di musica (da lui ha imparato a suonare l’Oud, il liuto mediorientale), il siriano Tarek Al Sayed, e gli rende omaggio lasciandogli la scena. L’umiltà.

Fra i tanti commenti sul concerto parigino, il più preciso è senza dubbio questo: «Painfully beautiful…».

Nell’album d’esordio, Amir, Tamino ha fortemente voluto la partecipazione dell’orchestra Nagham Zikrayat, composta da rifugiati siriani e iracheni, perché anche se è nato in Belgio e non parla una parola di arabo, sa che le sue radici affondano nella sabbia del deserto.

Non so cosa mi faccia credere con tanta certezza che la sua stella brillerà a lungo, forse l’incrollabile fiducia nel potere della bellezza (che non salverà il mondo, non lo salverà affatto) a cui mi aggrappo ingenuamente pur sapendo che gli ostacoli da superare, le trappole da aggirare, si affacceranno implacabili sul suo cammino. Il luminoso cammino di Tamino.

(L’avete mai sentito Tamino…?)

ARTICLE n. 19 / 2021

The Ghost On The Street

One evening a few months ago, I opened up Google Maps on my iPad, and entered my own address in Dublin. I wanted to explore my neighbourhood on Street View. I can’t quite remember what put me in the mood to do this, but I suppose it had to do with the pandemic. This was late January; Ireland had experienced an explosion of cases over the Christmas period, and what followed was a lockdown of unprecedented strictness and duration. The city was becalmed and silent. There was nobody out there, and nothing happening. I wanted to remind myself, I suppose, what my neighbourhood had been like before Covid, when the cafes and the bars and shops were all open, and the streets filled with people coming and going, stopping and chatting.

I dragged the icon of the little yellow man from the bottom corner of the screen, dropping him gently onto the map, in the general vicinity of my house. I found myself peering in the window of the cafe across the street from my front door. There was a man inside the door, right where they keep the sugar sachets and the plastic covers for the takeaway coffee cups. His face was pixellated, making it impossible to tell whether he was wearing a mask, but then I noticed a poster in the window advertising a «small plates» evening the cafe used to run when such things as restaurants were viable, and so I knew that this digital rendering of my neighbourhood had been recorded before the pandemic.

I clicked and dragged myself up the street, idly imagining myself a sort of disembodied time traveler from the not-very-distant future, returned to a familiar place that had been frozen in time. I looked at my house, and zoomed in on the front window, trying and failing to see into my own living room. Our car was parked out front, and I got up as close to it as I could, and was surprised to find myself taking a small, bourgeois satisfaction in seeing that it had been recently cleaned – an extremely rare occurrence for our car at the best of times – and that it had thereby avoided being immortalised by Google in its customary unwashed state.

I drifted the length of the street, down to an intersection with a much busier thoroughfare. I noted the open bars with tables outside, the food trucks, the small shops that had shut since the start of the pandemic, but which had been preserved on Street View in their former state. Then I turned around and headed back toward my house again. As I approached the corner of the terrace I live on, I saw something that made me stop in my tracks. Standing on the street, right by my front gate, were two people I had not originally noticed: a man and a woman, their heads bent toward each other in conversation. Their faces were blockily pixelated, but it was obvious from their general bearing, and from the fact that they were both holding walking sticks, that they were quite old. I recognised them immediately. The woman was Joan, who lives with her grandson a few doors up from my family and I. The man was Willy, who had lived alone in the house beside ours, until he had died about a year and a half previously.

Though I did not know Willy all that well, we spoke quite regularly, and shared a garden wall. I remember now, a little shamefully, that I often avoided him. This was not because I didn’t like him – I did like him, he was a very nice man – but because I often tended to encounter him when I had no time to talk. (As I type these words, I am conscious of a small but insistent question: when do you ever have time to talk?) He would emerge out of his front door as I was parking the car, and I would greet him somewhat distractedly as I was unstrapping my son from his child seat in the back, and even though my son was eager to get inside to his mother, and possibly already beginning to complain, Willy would come over and start to chat about one thing or another.

He was quite deaf, and so the conversation could be a little one-sided. He was also, I remember, zealously preoccupied with the question of parking on our street – with the insufficient number of spaces, and with who should and should not be taking them. There was an apartment building across the road, for instance, whose residents he felt had far less claim to on-street parking than people who lived in the houses, and he would take a grim pleasure in pointing out which of the cars belonged to those apartment dwellers. As often as not, all the parking spaces on our terrace were taken, and you would have to park far up the street and walk a few hundred yards to the house. Because of reduced mobility after his hip operation, Willy had acquired special permission from the city authorities to park on the street around the corner. He was always reminding me that if I couldn’t get a parking space outside the house, all I had to do was knock on his door and he would come out and move his car around the corner so that I could take his spot. He was very kind like that. He restated the offer many times, usually as I was getting into or out of the car, always as an opening gambit for a monologue on the topic of parking.

Though he always seemed pretty cheerful, it often struck me that he must have been quite lonely. He had never married, and had no children. When he died I went to the funeral home, where I met the nieces and nephews who were his next of kin. One of the nephews introduced me to a woman he referred to as Willy’s partner. I had lived next door to Willy for almost seven years, yet had never laid eyes on this woman, nor had he ever alluded to having a partner. Then again, why would he have. Our conversations rarely moved beyond parking.

In theory, seeing him on Google Street View should have been unsettling. It strikes me, after all, as almost a text-book definition of the uncanny, in the sense of being an encounter with the familiar made strange. It felt much closer to seeing a ghost than looking at a photograph. And yet it was not particularly unsettling. It was a strangely touching experience, in fact, whose poignancy derived, at least in part, from the thought of Willy being frozen in time in an immersive 360º model of the street he had once lived on. It was as though he were somehow still alive in there, a vivid simulacrum of what he had once been. There he was, one hand on the walking stick he had taken to using after a hip operation he’d had in the last year of his life, the other hand resting on the low wall in front of the house on the corner. There was such strange and yet simple pathos in this stasis, this state of preservation between life and death.  Despite how little I had known him, I felt something close to loss in that moment; I felt the strangeness of his once having been there, and now being gone.

In Jorge Luis Borges’s story The Aleph, the narrator encounters an impossible object in the basement of an acquaintance. The object, called the aleph, is a «small iridescent sphere of almost unbearable brilliance», is a single point in space that contains within it all other points in space, and allows the narrator to see the universe in its entirety from every conceivable angle. «The Aleph’s diameter», he writes, «was probably little more than an inch, but all space was there, actual and undiminished. Each thing (a mirror’s face, let us say) was infinite things, since I distinctly saw it from every angle of the universe. I saw the teeming sea; I saw daybreak and nightfall; I saw the multitudes of America; I saw a silvery cobweb in the center of a black pyramid; I saw a splintered labyrinth (it was London); I saw, close up, unending eyes watching themselves in me as in a mirror…» the list continues, with its combined radomness and specificity, seeming itself to offer a glimpse of the infinite.

In its banal and flimsy way, there is something about Google Street View as a technology that recalls this aspect of Borges’s aleph. It offers the prospect of the infinite, seeming to grant the viewer a kind of God’s eye view. You can be in any place, a silent and watchful presence in an immersive simulation of the world.

When I saw Willy on that corner beside my house, I started going back and forth, viewing him from various positions along the street, approaching him from different angles. When I occupied a position a little away from him, up the street or a further down, he was perfectly visible, bent in conversation with our mutual neighbour Joan, the arrangement of their bodies slightly altered according to where I happened to be viewing them from. This gave the apparition a sense of duration and movement, so that at first it put me in mind of a crude form of animation. More than this, though, the effect seemed to me to be reminiscent of tableau vivant, the popular 19th century form of entertainment whereby audiences would watch actors posed in perfect stillness inside elaborately staged scenes.

Just recently, I returned again to the same corner on Street View, to see Willy again, or his ghost. This time, I noticed an odd glitch. When I occupied a position on the street right beside them, Willy and Joan disappeared completely. They could only be viewed from a slight distance, and at an angle, a fact which somehow added to the ghostliness of their presence in this splintered labyrinth. It also seemed to me to represent, in some way I could not quite account for, the impenetrable strangeness of death. One moment he was there, leaning against a wall and talking about the sorts of things living people talk about –the weather, the news, the deplorable parking situations in their neighbourhoods – and then he was gone.

ARTICLE n. 18 / 2021

The Future is over

How capitalism will end is really clear. It’s still cool, in the entry exams for elite universities, to claim that «capitalism is the greatest system ever invented». But even the most confident voices now betray a tremor when asked if capitalism must survive.

Because climate change has placed a ticking clock into all future scenarios. If we do not get carbon emissions to net zero across the planet – and well before the official target of 2050 – the environmental and social feedback loops will destroy what’s left of the world order.

Paradoxically, during the entire history of Marxism, anti-capitalism was a non time-specific proposal. From Edouard Bernstein to Vladimir Lenin, the original thinkers of both communism and social democracy shared the belief that they had time to spare.

The social democrats thought capitalism would grow over slowly into socialism, through the state-isation of industrial control and planning, through welfare systems, and through the slow self-education of the working class.

The revolutionaries believed, as Rosa Luxembourg wrote on the eve of her murder in 1919, that «revolution is the only form of war … in which the ultimate victory can be prepared only by a series of defeats». Each defeat would wear away the illusions of the workers, diminish the middle ground between the workers and the bourgeois, and its lessons would be codified in meticulous after-action reports by the revolutionary cadres. Crisis would do the essential work of radicalisation and destruction, but its timing was beyond human control.

Climate change short-circuits the calculations of both the revolutionaries and reformists. The future of humanity revolves around the single question: can industrial capitalism – which has been for 250 years the ultimate «complex adaptive system» – adapt quickly enough to deliver a circular economy, stabilise the biosphere, and stop burning carbon?

I think it could – in theory. The state would need to take command of energy production, re-engineer housing and transport systems, indeed the entire geography of the modern city, and manage all industries based on individualised fossil fuel consumption – from the oil industry to the automobile industry – towards extinction.

The costs would be enormous. The 2008 crisis hiked global debt-to-GDP levels to 320% of GDP. The Covid crisis of 2021 has hiked them some more. But capitalism is already living in the oxygen tent of central bank money creation and unpayable debt – so it is conceivable that part of the policy elite might accept the need to hike debts, deficits, borrowing and spending even higher, in pursuit of the zero net carbon goal.

However, in practice it is not likely that capitalism saves the world. Because in every major country, policy has become captured by the short-term self-interest of existing capitalists: not just the oil and energy giants but the airlines, the plastic dumpers, the forest destroyers and the property developers – all of whose interests run counter to the rapid flattening of carbon output on this planet.

Unfortunately, in addition, the aging populations of the democratic world have grown to love carbon and the lifestyle of wasteful consumption: to date, in the states that matter, the elderly have mobilised against the interests of the planet and the people who will still be alive on it in 2050.

As social democracy shrivels, all that its leading intellectuals offer is the prospect of «decent jobs» or the «dignity of work» – without considering for a single moment the transition beyond compulsory work, and work-based lifestyles, that must happen if the planet’s climate is to be stabilised.

So the transition we must envisage is threefold: beyond carbon, beyond the market and beyond work.

To achieve zero net carbon the state must allocate and own resources. To transition beyond the market, the commons must be massively expanded. Leisure time must grow into the space created by the rapid automation of work.

If we can be honest about this vision, we will not find it alien to the radical tradition. I am not only talking about Charles Fourier and his phalansteries, or the brief flurry of freedom that took place during the Paris Commune. Even as late as the Belle Époque human culture was capable of encapsulating our dreams of a low-work, sustainable future – albeit only in the science fiction of socialists like Alexander Bogdanov and William Morris, or in the aestheticism of the Bloomsbury Group.

However, there is nothing belle about the époque we’re living through. The dangers are all too clear. Climate change, the economic dysfunction of neoliberalism, the breakdown of the rules based international order, and the emergence of massive power asymmetries between tech corporations and people: each has combined to create a «general crisis of capitalism», similar to the «general crisis of feudalism» which opened up in the late 14th century after the Black Death. The onset of Covid-19, the latest but not most devastating of the zoonotic viruses to cross from our devastated forests into our slum-ridden global cities, simply tells us that capitalism is reaching the limits of its compatibility with the earth’s biosphere.

So the next 20 years look like a funnel, through which all the geopolitical tensions will get channelled, speeding up the flow of the general crisis while creating turbulence and unpredictability within it.

We should expect classic moments of «overdetermination» – in which crises break out that are so clearly multicausal that the existing system has no solution. As I write, with Russian troops massing at the Ukrainian border, and closing off parts of the Black Sea, it is hard even now to say what Putin actually wants: is it water for Crimea from the River Dnieper, or to provide a sideshow while he kills Alexei Navalny, or simply to feel better as he completes his morning swim. Most future crises will feel like this – a mixture of climate, economics, nationalism and mercurial egotism.

No backward-looking ideology will survive a crisis on the scale I expect for the western world in the next 20 years: not liberalism, not social democracy, not the Leninist re-enactment industry, not even the new Green technocratic centrism that is filling the political void in northern Europe.

Because the political threat we face is new. An oligarchic conservatism has appeared which regards democracy as decorative, the central bank as a machine for driving asset values upwards, and the state as a conveyor belt of profits to the owners of now-privatised public services.

If you need convincing, look at Britain during the Covid-19 epidemic, where some $11 billion worth of contracts were given, without adequate competition, to companies aligned to Conservative ministers, many with no track record of providing the goods and services suddenly needed.

Like all elites, oligarchic conservatism needs a mob to support it, and what feeds that mob is the racism, xenophobia, misogyny and exultant lying that have become routine political practice for Britain’s Tories, Italy’s Lega and Fratelli, the US Republicans and the Spanish Partido Popular.

From Matteo Salvini with his Pivert-branded hoodie, to Trump with his blatant appeals to the Proud Boys, the oligarchic right is giving open signals to its violent racist base. For now, they operate in synergy. The oligarchs create a space for the fascists to operate within, the fascists stay away from political power, content to wield power through the YouTube algorithm and the anti-migrant riot.

The right wing populist parties were once touted as a firewall, to contain racist sentiments within respectable political formations, preventing the revival of fascism. But today the firewall is on fire.

In the future, if the oligarchs fail, the fascists stand ready to implement the ultimate nightmare of the 21st century: a climate-inspired global ethnic civil war. This project is the sole subject of the Tolkien-length books the elderly «new right» theorists churn out, from Carvalho to Faye to Dugin to Linkola.

In the face of these new threats, and the urgency of climate change, both liberalism and the left look lost. Each has become a form of nostalgia – for the Blair/Clinton/Schroder world or for the industrial struggles of the 1970s.

It seems lost on many progressive people that, as the Nobel laureate Ilya Prigogine insisted, historical time is an arrow: it moves forward, creating complexity out of simplicity, through irreversible processes.

The end of history delusion may have died on 9/11 – and should certainly be dead and buried after the Capitol Hill riots. But the most pernicious legacy of the neoliberal ideology is the technocratic delusion of reversibility: that if we create a problem there must be a bureaucratic or market solution that allows us to reverse out of it.

There is not. The only way to escape climate change is to move forward – with a radical and immediate upheaval in the way we live. The only way to escape the new great game of power politics between Russia, China, Europe and the USA is to spread revolutionary democracy to all states governed by oligarchic elites. The only way to end the stranglehold of Google, Amazon, Facebook and Alibaba is to break them up and start the Internet again, with intellectual property destroyed as a concept. There is no possibility of «reversing out» of these crises as one would a parking space.

The sociological material for such a revolutionary change is at hand. It is no longer simply the «proletariat» – though it exists in vast numbers across Asia and the global south. It is, as Brecht suggests in the final scene of his movie Kuhle Wampe, «those who don’t like the world as it is». The network has given us the means to communicate and a new model of organisation. Rising education and access to information have created the most educated generation in the history of the world.

The philosopher Alisdair MacIntyre, when he was still a Marxist, wrote that capitalism represses the human potential so fully that we never really know how close we are to a great advance. Yet in the mass movements – the revolts in Belarus, Myanmar, the Indian farmers movement, #BlackLivesMatter and #MeToo – we can feel how close we might be.

In the space of 50 years Western culture has exploded with the voices and dreams of women, ethnic minorities, LGBTQ+ people and those from the most marginalised working class. The communard Louise Michel dreamed that «the poetry of the unknown» would one day be heard: today it is heard loudly.

So we are closer than we think. The tasks can be enumerated briefly. Defeat the new fascism with an alliance of the centre and the left, as in France in 1936. Radically expand democracy. Commit all democratic countries to rapid decarbonization plans. Unleash the soft power of these renewed democracies towards the aim of democratising Russia, India and China.

What should be the name for such a project? Postcapitalism would be the one-word summary. A more explanatory term might be the one adopted by the exiled reformists of Germany after their defeat by Hitler in 1933: revolutionary social-democracy.

ARTICOLO n. 17 / 2021

Cos’è la libertà per un giornalista?

Adesso fanno tutti finta di niente. Il procuratore aggiunto dice che l’indagine lui l’ha trovata già bella e fatta quando è arrivato a Trapani e non sapeva nulla. Il pm che ha disposto le intercettazioni non c’è più, un altro è laggiù, nel Perù. Il sostituto dopo di lui confessa che questo faldone gli è cascato addosso e non sapeva bene che pesci prendere. I giornalisti di casa in Procura corrono ai ripari: ma vedete che la Procura di Trapani fa anche le inchieste a favore dei migranti, scrivono. Come se fosse una questione politica, di pro e contro, e non ci fosse in ballo qualcosa di più grande e importante.

Si è scoperto, grazie alle rivelazioni del quotidiano Domani, che una serie di giornalisti sono stati intercettati dalla Procura di Trapani durante un’inchiesta sul ruolo delle navi delle Ong, le Organizzazioni Non Governative, nel salvataggio di naufraghi nel mar Mediterraneo. La tesi della Procura, in un’indagine che va avanti da anni, che, per sì e per no, ha tenuto sotto sequestro una nave da soccorso, la Iuventa (bloccata dal 2017 al 2020, e che prima di allora aveva salvato 14.000 persone nelle varie missioni) è che non si tratti di veri e propri salvataggi, ma di «clandestini» presi in consegna dalle navi delle Ong, con un accordo con le autorità libiche, e poi portati in Italia. Sulla base di questa congettura, la Procura ha disposto intercettazioni a tappeto, tra le cui maglie sono finiti anche diversi giornalisti che da tempo si occupano del tema dei migranti, degli accordi Italia-Libia, di ciò che accade nel Mediterraneo. Sono stati ascoltati, mentre parlavano con delle fonti, ascoltavano dei testimoni. E non sono stati ascoltati per sbaglio: le loro telefonate sono state trascritte, stampate, depositate agli atti dell’inchiesta.

La vicenda in Italia ha suscitato i soliti tre minuti di sdegno. Poi si è passato a parlare d’altro. Ma a livello internazionale l’eco è stata ben diversa. Agli occhi di un osservatore esterno, infatti, è inconcepibile che un giornalista venga intercettato mentre compie il suo lavoro, parla con delle fonti (che per legge sono tutelate dal segreto), e che queste conversazioni vengano addirittura trascritte e conservate.

Negli stessi giorni, in Grecia, un giornalista di inchiesta, Giorgos Karaivaz, è stato ucciso davanti alla propria abitazione ad Atene. Anche in quel caso se ne è parlato poco, quasi fosse la cosa più normale del mondo.

Ma i giornalisti sono liberi? Liberi davvero?
Me lo chiedono spesso. Quando capitano vicende come queste (che sono più frequenti di quanto si possa immaginare), o quando si parla di querele pretestuose, mega richieste di risarcimento danni al solo scopo intimidatorio, possibilità di carcere per i giornalisti.

Io ho risolto a modo mio il problema della libertà.

Sconto la mia pena di giornalista vivendo.

Quest’anno io e mia moglie festeggiamo dieci anni di matrimonio. Nozze di plastica, le dico, prendendola in giro. Allora come oggi, posso dire di essere molto innamorato di lei. Un amore da quarantenne, senza furori giovanili, placido ma profondo. La conosco da quando eravamo ragazzini. Per me fu un vero e proprio colpo di fulmine, lei ci arrivò con i suoi tempi, appena quindici anni dopo (la goccia scava la roccia, spiego ai nostri figli, oggi, fiero). Quando uscivamo insieme, in quella nostra friendzone (io innamoratissimo, lei nel ruolo atroce di migliore amica), al mio ritorno a casa, prendevo un calendario da tavolo che custodivo, piegato nel cassetto della mia scrivania, e annotavo accanto alla data, con un pennarello, il tempo passato insieme. Quattro ore un intero pomeriggio di un sabato, viva. Oppure solo mezz’ora la domenica perché avevamo litigato (era un rapporto tempestoso già nella sua fase primigenia). E via dicendo. Ogni mese sommavo tutti i minuti e le ore e tiravo una somma. Vivevo così la mia storia d’amore unilaterale.

La stessa cosa oggi potrei fare con i carabinieri. O con i finanzieri, i poliziotti, gli ufficiali di polizia giudiziaria, i messi notificatori. Annotare in un calendarietto tutto il tempo passato con loro. Tre ore un pomeriggio per un interrogatorio, appena mezz’ora un altro giorno per una notifica.

Dovrei scrivere e appuntare tutte le ore e i minuti passati in una caserma umida a guardare un appuntato che scrive le mie generalità dopo che mi ha appena notificato una querela, l’attesa per la copia che l’unica stampante (sempre in fondo al corridoio) non fornisce perché manca il toner/la carta/la sta usando un collega. Il tempo trascorso nel pancaccio di una Procura prima di essere interrogato da un pm per i gravi crimini per i quali sono indagato, dalla diffamazione al procurato allarme. L’attesa di ore con decine di giovani immigrati in una stanza affollata di un commissariato, loro per rinnovare il permesso di soggiorno, io per essere interrogato su un articolo ritenuto lesivo della dignità / privacy di una persona.  E poi le attese in aula per i processi, l’udienza segnata alle nove e chiamata alle tredici, i viaggi in macchina con il mio avvocato per i tribunali lontani di Caltanissetta/Barcellona Pozzo di Gotto/Lamezia Terme. Le notti insonni a ragionare su una richiesta di risarcimento danni da 50mila / 100mila / 500mila euro.

Ecco, se io scrivessi in un calendario le ore e i minuti passate così, solo perché cerco di fare bene e liberamente il mio mestiere, ne verrebbero fuori dei giorni, questi giorni sommati farebbero anni ed è come scontare una pena a piccoli sorsi, una galera ambulante, una privazione della libertà a intermittenza.

E non conto, perché mi piace pensarle come pene accessorie, le telefonate le chiamate in disparte, i cazziatoni di questo o del politico, le pubbliche accuse nei comizi dei politici, le lettere minatorie e la gente che ti leva il saluto. Un venerdì pomeriggio, di poco tempo fa, ad esempio, due ore della mia libertà perse per un appuntamento con il sindaco neoeletto che mi convoca al comune, mi fa ricevere da sua moglie, e sua moglie mi dice tra le altre cose: «Noi non ci rimaniamo male per le cose che scrivi, i nostri amici sì».

(Mi sembra di tradire mia moglie quando mi capitano queste cose qui, è un tempo che potrei dedicare a lei. E invece.)

La vicenda più singolare. Quella volta che dai microfoni della radio dove lavoro, RMC101, a Marsala, lanciai un’operazione dal titolo «Foto di scambio». Si votava per le elezioni amministrative in città, era il 2012, e in tanti entravano in cabina elettorale con il cellulare, per fotografare la scheda votata e avere magari la ricompensa promessa, senza che i presidenti di sezione dicessero alcunché per fare rispettare la legge. E avevo fatto anche l’esempio, perché accadeva nella mia sezione, invitando i cittadini a segnalare tutte le sezioni dove la pratica di ingresso in cabina con il cellulare in mano era consentita.  E mesi dopo mi arriva un decreto di citazione diretta a giudizio, e scopro che proprio il presidente della mia sezione mi ha denunciato, addirittura per «voto di scambio». Denunciato per il reato che io stesso ho raccontato. E sono stati interrogati tutti: gli scrutatori, il segretario, i rappresentanti di lista. Ricordo ancora il passaggio di una testimonianza di una persona informata dei fatti in un fascicolo che era di oltre cento pagine: «Non conosco Di Girolamo» mette a verbale la scrutatrice «ma ricordo di aver sentito distintamente un clic provenire da una cabina elettorale».

Io non so se sono un giornalista libero – e forse chissà, la libertà ha il suono di un clic. Cerco di esserlo, ma è difficile. Anche perché tante cose accadono, che minano alla base la libertà di chi fa informazione, a cominciare dai compensi. L’ho denunciato tempo fa in un mio libro, la situazione da allora è solo peggiorata: ci sono giornali nazionali che pagano un articolo tre euro, cinque, dieci se c’è la foto. Ci sono richieste di risarcimento danni che ti seppelliscono e che devi affrontare da solo. Ci sono spalle voltate e amicizie che si interrompono. Molti giornalisti che conosco vivono di sponsorizzazioni più o meno occulte, scrivono a gettone, fanno razzia di uffici di stampa di parlamentari come di sagre, pur di campare.

Tutto ciò non fa altro, poi, che alimentare un meccanismo perverso, che vede oggi la professione del giornalista come la più vituperata. Peggio degli avvocati, per dire. Ogni cosa che dico e che scrivo è soggetta al vaglio di persone che si sentono in dovere di dire pubblicamente che non capisco nulla / dico falsità / sono un cretino. O gente che ti minaccia, senza neanche tanto pudore. «Prima o poi ti veniamo a prendere a casa» è un messaggio che ho ricevuto non molto tempo fa.

Lo strumento delle querele, poi, è mostruoso perché anche se chi querela un giornalista ha la certezza di perdere la causa, si utilizzano lo stesso a scopo intimidatorio. E finché c’è un sistema che consente di non pagare nulla a chi fa esposti o denunce ai giornalisti, ogni dibattito sulla libertà dei giornalisti sarà stucchevole.

E sotto un tappo – sì, un tappo – di giornalisti griffati e telegenici, di grandi firme e punzecchianti penne, c’è tutto un amalgama di poveri cristi che cercano di fare bene il solo che mestiere che sanno fare, come me, e che sanno che la libertà se la devono conquistare ogni giorno. E che sono vittime del grande cancro di chi fa informazione oggi: l’autocensura.

Non scrivo perché perdo l’inserzionista.

Non scrivo perché faccio arrabbiare il ministro.

Non scrivo perché risulto antipatico, anche.

Non scrivo perché faccio arrabbiare mia suocera, che poi si lamenta con mia moglie, e li sento i loro discorsi nel tinello dopo i pranzi domenicali. Ma perché non la finisce, ma non lo sai che è così, ma tu non gli parli, ma che gli parlo a fare … (poi mia moglie una volta ha detto una cosa bellissima, anzi, l’ha incisa, è in un podcast che ho pubblicato da poco, e c’è lei che fa capolino e risponde a chi le fa la solita domanda su di me: io una volta glielo dicevo di piantarla, di cambiare mestiere, poi ho capito che lui è felice e che non può fare questo mestiere in altro modo, e allora va bene così).

Se ci fosse davvero, un minimo di ragionamento, su giornalisti e libertà, questo riguarderebbe non tanto e non solo le intercettazioni selvagge della Procura di Trapani, ma altre vicende. Come quella di Antonello Montante. È stato leader di Confindustria Sicilia, alfiere dell’antimafia. Aveva in mano il Ministero degli Interni, agenzie governative, la Dia. Si è poi scoperto che eravamo di fronte a un’impostura. Montante è stato condannato a 14 anni con l’accusa di avere creato una rete di talpe che lo informava delle indagini a suo carico. E adesso è indagato anche per associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio e finanziamento illecito ai partiti.  Nella sua rete c’erano diversi giornalisti, che scrivevano sotto dettatura e compenso. Un piccolo esercito di stampa amica pronta a coccolarlo alla bisogna, disseminando le tossine della disinformazione per alimentare la grande impostura della sua «svolta legalitaria», fare inchieste farlocche su personaggi non graditi a  Montante o esaltare le sue gesta.

Che cos’è allora la libertà per una categoria che ha già ceduto nel tempo pezzi di libertà, quando ha scelto di fare il cane da compagnia del potere, anziché il cane da guardia della democrazia, quando ha cavalcato le veline delle procure, masticando vite, quando si è piegata ai desiderata degli inserzionisti?

Oggi il giornalista nell’epoca della d’intermediazione è il mestiere meno calcolato e difeso, e quindi siamo carne da macello, anche per le procure, non sapete quante volte vengo interrogato per rivelare la fonte di un articolo, e ogni volta che mi oppongo c’è quasi l’offesa, la minaccia di un «aprire un fascicolo».

Non c’è più neanche il museo del giornalismo. Si chiamava «Newseum», orribile crasi, e aveva sede a Washington. Leggo che il pezzo più venduto nel suo bookshop era una maglietta con la frase: «La libertà di parola non è una licenza per dire cose stupide». C’era il memoriale con le foto di 2.344 giornalisti morti in prima linea, uccisi dalla mafia, come dai narcos o dalle dittature.

Lo hanno chiuso perché, semplicemente, non ci andava nessuno.

Eppure la libertà di stampa è stata una conquista. E pure recente.  Con prezzi altissimi.  Ci siamo illusi che la rete avrebbe ampliato la circolazione di idee e di notizie senza più alcun vincolo di spazio, superando regimi e censure. Oggi sappiamo che non è così.  Anzi, viviamo una fase di manipolazione delle notizie e delle fonti, la richiesta ossessiva di risposte semplici a problemi che invece sono complessi, con un linguaggio che si impoverisce e un profluvio quotidiano di false notizie.

Io non ci voglio finire in un museo.

E se alla fine sono libero, la mia libertà è poter lavorare di sottrazione, resistere al tempo perso e ai saluti mancati e alle ingiurie, trovare una nicchia, un punto originario dove tutto questo non ti avvolge.

E allora quando arrivo a casa, stremato, la sera, gonfio di qualche umiliazione, con un mare di cose che vorrei urlare, appena cazziato da un pm, o sotto il colpo d’ascia di un’ennesima querela, do un bacio a mia moglie, penso alla bellezza del nostro stare insieme, cerco anche di dare un bacio ai miei figli sfuggenti, ma non importa. Basta guardarli negli occhi. Sostengo il loro sguardo. Non ho nulla da vergognarmi. Sono libero.

ARTICOLO n. 16 / 2021

Il corpo è politico?

La prima volta che ho letto la parola «troia» abbinata al mio nome ero in terza media e fumavo una delle mie prime, stupide sigarette nascosta dietro al muro della palestra, quello pieno di scritte fatte con il pennarello.

Noi ragazze andavamo ogni giorno a controllare che nessuno ci avesse lasciato messaggi d’amore o di ingiuria, in un misto di ansia ed eccitazione che finiva quasi sempre in una repentina disillusione: i temi più gettonati erano la Fiorentina o i professori. Le poche ragazze citate erano sempre le stesse, bellissime, che facevano palpitare i miei compagni ma che non erano minimamente interessate al primo, goffo, approccio al sesso prepuberale.

Quel giorno – era verso la fine della scuola, prima degli esami – vidi il mio cognome, con una bellissima grafia, scritto con un pennarello rosso a punta morbida: «Vagnoli troia». Tutto in stampatello, senza pretese di grandezza – era una scritta piuttosto piccola, ma terribilmente potente nel suo significato.

Non capii come fosse giusto reagire. Una parte di me voleva essere considerata una brava persona senza epitaffi di questo tipo, su quella che a tutti gli effetti era la più grande bacheca a nostra disposizione prima dell’avvento del digitale. Ma qualcosa dentro di me scalpitava.

Non ho mai saputo chiamarlo per nome, quel sentimento di rivalsa che ti esplode dentro quando ti danno della troia: è qualcosa che parte da dentro e risponde al vecchio adagio che fa più o meno «ora ti faccio vedere io di cosa sono capace». Anni dopo, davanti a quel plotone di esecuzione (semicit.) che fu la mia prima shitstorm sui social media, in cui ricevetti tantissime volte tutte insieme la parola troia riferita al mio corpo e alla mia persona, mi sarei ricordata di quel giorno davanti al muro della scuola, arrivando a capire la stretta connessione che intercorre tra il corpo e la morale patriarcale che divide le donne e chi si identifica nel genere femminile in sante e, appunto, puttane. Contribuendo a eliminare le seconde dai giochi di potere e dal tavolo della discussione.

Troia è infatti uno slur sessista.

Per slur intendiamo una parola che nel corso del tempo acquisisce un significato ghettizzante e che si riferisce ad un preciso target e a una determinata categoria marginalizzata. Avremo dunque slur omofobi, razzisti, transfobici, abilisti e, in questo caso, sessisti. Si distinguono dai normali insulti proprio per il loro indirizzo collettivo.

Il potere degli slur è ovviamente quello di veicolare un’emozione negativa.

Gli slur sessisti sono principalmente variazioni peggiorative del termine «prostituta» e non pensiamo che siano poche le parole in esame: Edgar Radtke nel 1980 sintetizzò che all’epoca esistevano ben 645 epiteti corrispondenti alla parola «puttana», quindi avoglia a depotenziarle tutte.

Il punto focale di questa interconnessione tra parola e significante è però un altro, quello del valore morale che si porta dietro e della norma da cui nasce. Perché ogni donna ha ben presente cosa succede quando qualcuno le rivolge la parola troia contro, come se fosse un proiettile: ci si sente immobili, nude, private di un valore che non capiamo bene da dove arrivi.

Ma come si diventa, per il mondo tangibile, delle troie?

Semplicissimo: fottendo la norma che si accosta allo stereotipo.

Per prassi secolare, infatti, per essere sante bisogna corrispondere a un modello ben preciso, edulcorato, educato, che occupi poco spazio e sia riverente e devoto.

Questo accade perché le regole che disciplinano gli stereotipi individuano una sottomissione eterna al male-gaze («sguardo maschile») del genere femminile, che deve ricevere una precisa educazione basata proprio sulle qualità sociali che ci si aspetterebbe da una donna.

Perciò viene da sé che le qualità che si accostano agli stereotipi di genere debbano essere preservate.

Esemplare in questo senso è il lavoro di Elena Gianini Belotti che nel suo Dalla parte delle bambine del 1973 estrapola proprio questi meccanismi –consci o replicati in maniera autonoma ed involontaria, che si applicano nella crescita delle figlie femmine.

Il procedimento di stereotipizzazione, come spiega Belotti, non si ferma nell’infanzia ma prosegue durante tutto il corso della nostra vita e implica che in ogni momento, chiunque tradisca queste norme, verrà punito fino al proprio pentimento (in questo caso abbiamo come perfetto exemplum, fino alla rilettura in chiave storica della sua figura alla fine degli anni ’60, Maria Maddalena che da prostituta si redime e abbraccia la Fede diventando così icona della redenzione).

È qui che dunque si incastra la forma mentis della troia: una persona che tradisce – ecco che abbiamo il famoso senso morale: il tradimento è onta di virtù e permane nella sfera delle emozioni –; una regola fissa tramite la sovversione del suo proprio corpo – ecco qui la dimensione terrena – alla legge patriarcale.

Le dimostrazioni in cui questo accade sono molteplici, ma hanno tutte un comune denominatore: l’autodeterminazione.

Si può infatti chiamare troia una persona con una gonna troppo corta, una sex worker, chi ha partner occasionali o chi esplora il sesso nella vita pratica o semplicemente nella teoria (aiutatemi a dire «sex columnist»). Ma anche chi si discosta dal senso comune, chi flirta per prima, chi apre le gambe per piacere e non si chiama Bocca di Rosa: insomma, se lo scegli sei nella sfera del dolo, non della colpa.

Questo perché la prassi millenaria vuole che il sesso per la donna sia passività, un mezzo con cui dare e mai ricevere. Quest’ottica di accessorietà rispecchia perfettamente il ruolo sociale che il genere femminile ha nel mondo e la sua invisibilità (formidabile in questo senso il lavoro di Criado-Perez, Invisibili) che passa soprattutto dalla conoscenza del proprio corpo e dal suo utilizzo come strumento politico.

Già, ma perché chiamiamo il corpo femminile un corpo politico?

Un corpo è politico quando si fa carico di messaggi, riappropriazioni e rivoluzioni in una società che ne vuole il controllo, etico e pratico, sviluppando leggi che ne limitino la libertà, ignorandolo a livello rappresentativo e cancellandolo quando non rispecchi l’assoggettamento a cui dovrebbe sottostare.

In questo caso, la riappropriazione del nudo, della sensualità, della malizia, della pornografia e del sex work vanno a trasgredire le standardizzazioni patriarcali creando una narrazione diretta e non più secondaria, annullando il male-gaze di cui sopra e ponendosi come SOGGETTI del desiderio, ribaltando il paradigma che Karley Sciortino sintetizza come «presumibile predatorietà della sessualità maschile» in contrapposizione alla «presumibile passività di quella femminile» (Karley Sciortino, Generazione Slut).

La ridefinizione dei ruoli sessuali in ottica sex positive e postpornografica ha avuto origine nelle sex wars di fine anni ’80 in cui il movimento femminista ebbe una scissione: da una parte le radicali (e puttanofobiche) capitanate da Dworkin e MacKinnon e dall’altra il movimento sex positive che rivendicava una nuova libertà di fare del sesso mettendo al centro il corpo e la persona, non il desiderio maschile e le regole imposte dal binarismo di genere.

La riappropriazione del nudo, delle pratiche come il BDSM e dell’industria del porno si inserivano in un nuovo modo di narrare l’educazione sessuale ed i corpi, cercando di distruggere il tabù legato al corpo femminile.

Su questo, cito il lavoro di Annie Sprinkle che, nella sua performance del 1990 intitolata Public cervix announcement, inseriva uno speculum in vagina ed invitava gli spettatori ad osservare la sua cervice: fu rivoluzionario e provocatorio, mostrava cosa si nascondesse dietro a ciò che tutti vogliono ma non vedono mai, perché nel porno mainstream il corpo femminile è tutto tranne che umanizzato.

Rimettendo al centro la scelta della singola persona e l’autodeterminazione dei corpi si procede quindi a una liberazione sia in termini etici depotenziando gli slur che vengono usati nei confronti di chi non sottostà alla fruibilità fallocentrica che diventa dunque ininfluente; sia in termini prettamente economici con la creazione di nuove industrie del porno etico, sex work de-stigmatizzato, maggior consapevolezza e sicurezza e creazione di un’alternativa lavorativa per chi fa o vuole fare sex work.

Con il boom dei social media, la capacità di rappresentazione del singolo, della sensualità e anche del sex work è aumentata esponenzialmente.

Il dibattito sul corpo nella immediata contemporaneità è ai massimi storici e include ogni tipo di corpo: con disabilità, grasso, non binario, non bianco.

Insomma, la discussione sembra essere di nuovo centrale in materia di femminismo intersezionale tanto da essere finita in kermesse sanremese in una Rai boomer e assolutamente non pronta a certe discussioni.

La frase di un brano in gara, che si domandava cosa c’entrasse twerkare con la lotta contro il patriarcato, ha scatenato nella bolla social un boato piuttosto unanime di critiche che sottolineavano come il corpo sia invece centrale nella ridiscussione delle regole preimposte. Nonostante il passaggio si riferisse all’idolatria, è stato comunque indicativo vedere l’onda di rivendicazione che ne è scaturita, dando un chiaro metro di paragone di quanto il corpo e la sua libera espressione siano argomenti essenziali e reputati intoccabili, soprattutto dalla GenZ.

Faccio un altro esempio. Ha scatenato un dibattito di proporzioni mai viste prima anche una puntata del programma RAI  sempre lei! – Detto Fatto, andata in onda il 25 novembre scorso, che suggeriva un tutorial su come fare la spesa «in modo seducente». Ovvero: su come essere prede perfette e sensuali tra gli scaffali di un supermercato.

È impossibile, ormai, che un caso del genere passi inosservato.

Perché è ai massimi storici la distruzione del sapere precostituito su ciò che un corpo femminile dovrebbe fare. E a essere investiti sono proprio i canali di diffusione mainstream che sembrano ancora non aver compreso la velocità di un movimento che sta distruggendo a colpi di culo politico tutto ciò che ci ha sempre ingabbiate, dentro a scatole da noi mai scelte bensì subite.

In battuta finale, nei progetti per il futuro, io mi figuro una rivoluzione del linguaggio che coincida nella riappropriazione del termine che ha dato vita a questa mia riflessione, il termine «troia».

Rivendicarne la maternità diventa infatti un modo sublime per depotenziare lo slur sessista per antonomasia e che ancora oggi ha il potere di escluderci dai giochi e rimetterci in un angolo, declassando chi mostra il proprio corpo ad un essere politico di serie B.

Nel 2018 la struttura della mia scuola media è stata demolita per essere poi ricostruita, con nuove forme e spazi più ampi e finalmente liberi dall’amianto.

Il muro davanti al quale per la prima volta mi sono sentita donna, nuda, fragile è stato fatto a brandelli e con lui ogni scritta, ogni onta, ogni ricordo.

Questo, a mio avviso, dobbiamo fare con la parola troia: buttarla giù, farla a pezzi, ricostruirla e farla nostra per poi poterla vedere finalmente per quello che è: una parola senza più alcun potere.

ARTICOLO n. 15 / 2021

Lo Stato in luogo

Se lo Stato fosse cosa avrebbe molta più decenza. Ma l’oggetto inanimato si è piegato a quel volere, si è lasciato intrappolare nei dintorni del controllo rimarcando il fallimento della specie. Il problema è che lo Stato si accavalla con gli averi, è tutto Suo, ogni bene gli appartiene, passa il tempo a cimentarsi in quel che mai conviene: l’inventario privo d’invenzione.  Non c’è nulla svincolato da ciò che lo governa. Lo Stato è il participio di ciò che non è più, e quello vero, quello con la scure in mano, non solo combacia con le cose, ma le amministra, se le prende, le frammenta a dismisura e le dispone a piacimento. Con errori che fanno barcollare: proibire a certi e ad altri no, decidere chi arriva e chi rimane, condannare il difforme, tutto è nelle pieghe di un ragionamento che aggroviglia su lui stesso. Lui è qualunque essere umano che non riuscendo a sviluppare l’Io, si è affannato a diventare lui per chi lo rifocilla, senza l’altro non lo fa, ogni lui è legittimo solamente se visto dall’esterno, non esiste un lui che pensa a sé in terza persona, nessuno si dà del lui da solo. Lui è chi si flette alle disposizioni dello Stare, perché lo Stato prima di ordinare Sta, è lo stesso delle epoche remote, non si è mosso, lo Stato in luogo rappresenta il complemento del potere perché si sedimenta dov’è già, non avanza né indietreggia, solido e imponente stabilisce che chi Sta dirige e chi non Sta sopporta. Se il sistema arreca il danno è tardi per capirlo, non esiste un periodo in cui l’umanità fosse felice. È l’inutile bisogno di chi è vivo, sentirsi pronto per il cambiamento, ma il passato cancella l’utopia. Lo Stato sta alle cose perché sopra già ci sta. Diventiamo persone quando ci ammaliamo, lì si risveglia l’interesse per la stirpe, ci si accorge all’improvviso che chi sta perisce, e chi non stava prende il posto di chi sta, una partita a scacchi dove lo Stato muove entrambi, il bianco, perché lo Stato è sempre stato bianco, e il nero perché chi non è Stato per lo Stato è nero. La legge razziale senza fare un passo, la discriminazione più feroce che passa inosservata: chi Sta distribuisce e il nero si accontenta. Il governante determina, e l’elettore concretizza, la disparità al timone, lo statuto della razza che si fonda sul comando. Tutte le prevaricazioni successive sono il corollario dell’ingiustizia originale: chi non Sta non può decidere e, se fa quel che non deve, c’è la legge a imperversare col bastone e la carota. Prima il bastone però, così la carota trova il percorso già battuto. E quando rimane solo il corpo, sul quale non c’è tassa da pagare, non è stata introdotta la detrazione di esistenza, io non verso nulla per la mia venuta, sono nato a spese mie, l’unica cosa da pagare è donata dal destino. Appena concepito pago tutto, esclusa la mia costituzione, quella è offerta dal ministero del tesoro. Sul corpo vorrei disporre io, è il mio modo di Stare, non mi soffermo sul bene o sul male, si sta, in principio si è, poi subentra il sentimento, ma se non si riesce neanche a essere, lo Stato d’animo rimane tutto Suo. Nel momento storico della fasulla tutela delle minoranze, mi sento opposizione non tutelata, io che non voto e diffido dell’ordine confezionato, non vengo protetto, si autorizzano leggi che non condivido, eppure non c’è accenno al mio scetticismo. Quale riluttanza più indifesa di quella che non crede nell’intimazione? Tuttavia non c’è sostegno nei confronti di chi non riconosce il fine dell’egemonia. Sono pochi, sicuramente meno rispetto agli sfruttati, agli stranieri, ai bambini maltrattati, alle donne vilipese, ai disabili, agli emarginati. Chi respinge l’esistenza del comando è il gruppo allogeno per eccellenza, una parte impercettibile di questa collettività, la minoranza più sparuta, un drappello che non vuole diventare masserizia nelle mani del dovere. Ma non c’è puntello per chi non ha barriere nella mente, si preferisce l’ingiustizia collegiale, l’odio per il diverso, uguale a se stesso ma dissimile dal resto, si antepone l’interesse di chi soffre allo strazio di chi pensa. Tutti atteggiamenti condivisi ma che offuscano la vera minoranza etnica, quella di chi non accetta il dispositivo del controllo.  E tutto germoglia in casa, nella trappola per topi dove stratifica il bacillo dell’insofferenza. Già alla nascita si sta dove è la madre, si viene al mondo perché si è accompagnati, non sbocciare da soli è la prima forma di possesso, da lì la strada è in ascensione. Nella dimora familiare due comandano, uno un po’ di più, l’altro quel che può: e i frutti della copula costretti ad abbozzare. Per parecchi anni il bambino intravede il potere nei due ex depravati, li idealizza, sa sempre dove sono, si lascia guidare, preferisce la loro alla sua, si piega ai rimproveri e accenna il compromesso. La casa è il primo Stato, la palestra per diventare qualcuno, niente di più; divenire qualcuno è confondersi, mimetizzarsi in mezzo al mucchio, come i soldati in battaglia che s’ingarbugliano con la vegetazione. Difficile capire chi è qualcuno insieme a tanta gente, ma uno lo è, forse proprio quello che saluto, oppure qualcun altro che ancora non ostacola. Anche la casa sta, è l’eccellenza dell’Essere, la cappa catastale che sancisce il principato, il luogo dove il capofamiglia spadroneggia a sera senza nemmeno profumarsi, foderato di olezzo come la moglie appena riesumata dal travaglio. Arrivano al crepuscolo puzzolenti e battaglieri, i due colonnelli in pensione. E fuori c’è lo Stato, che all’inizio è delle cose, poi intrallazza con le chiese e alla fine è nelle case. Il presente che viviamo lo ravvisa tra gli arnesi, ma in passato, quando entrava negli alloggi, faceva pure più impressione. Oggi accede sotto forma di strillone, non c’è mai chi aspetta al palo per suonarti la carcassa, questa volta il culo è dentro, in ogni casa e in tutti i casi. L’unico luogo sicuro è l’infisso che separa il domestico dal fuori, un’isola felice che ci vede di passaggio, nessuno ha mai capito che per battere il potente occorre arrestarsi sull’uscio, un po’ all’interno e un po’ all’esterno, per generare il malinteso, per confonder l’oppressore che non capisce se il morale va schiacciato sottovuoto o se è meglio imperversare all’aria aperta in attesa che anche il gallo faccia il suo. L’infisso è lo Stato cuscinetto, una sorta di ambasciata a mezza strada. Che poi l’idea delle ambasciate fu diabolica, qualunque Stato riesce a stare in un altro grazie all’ambasciata, una specie di pettegolezzo oltre confine, ogni paese ne ha una all’estero e le rimanenti da lui. Lo Stato si priva di alcuni punti del suo Stare per andare a farsi grosso in un posto più lontano. E’ la miseria dell’abitazione secondaria, del domicilio al mare, avere un pied-à-terre altrove, questo è in realtà lo Statarello, un borghesuccio di infimo profilo che vuole la seconda casa sulla spiaggia. In cambio affitta agli stranieri pezzi del suo territorio, così anche i Paesi confinanti fanno le vacanze, divenendo Stati ove non sono. E quindi mi domando: può detenere lo scettro un participio passato? Nel linguaggio scritto qualunque participio, soprattutto se trascorso, non ha legami con il tempo che trotta; invece, nella ritorsione del dominio, siamo schiacciati da ciò che non è s’è fatto Stante per paura di essere identificato. Lo Stato è un errore linguistico. Oppure è il frutto dell’ubiquità, è Stato, Sta e Starà, sotto ogni forma, mai ci libereremo dalla prepotenza di chi appare per sempre. Lo Stato va chiamato È, lo È dovunque, reduce da ciò che era e inconsapevole di chi sarà. Magra consolazione. L’unica salvezza è che il potere cada in mano al futuro anteriore con io sarò Stato a generare quantomeno una piccola incertezza, il dubbio dei ricordi proiettato nel futuro, l’insicurezza che culla la speranza di un abbaglio, il sogno miserabile di aver capito male; o forse io sarò Stato vostro malgrado, questo sembra dirci il prepotente indaffarato, una volta si affacciava minaccioso ed acclamato, adesso ti trafora di nascosto, prima nella Camera perché la casa è la sua, e poi coi Senatori poiché la festa è appena cominciata: poco dietro quel balcone c’è lo stare dello Stato, c’è lo stallo di chi Sta. Sulle cose, senza scuse, come scrofe tra le case, nelle strade, nelle teste di chi sosta e non può dire sono stato perché il posto è già assegnato. Lo Stato è la prosecuzione del tempo, è il passato che ci scorre sopra dopo averci seppellito, parte da lontano e attracca oltre il raziocinio, non trova terra bruciata perché l’uomo invece di avvampare muore. Si è ricavato uno spazio che scorre parallelo a Dio. Lo Stato è Onnipotente sotto mentite spoglie, s’inventa Dio per simulare un comprimario, ogni Stato si rimette al Signorotto pur sapendo che non c’è, brevetta la panzana e la dilata nella storia. Allo Stato fa comodo un Altissimo che tergiversa affievolendo il peccato extrauterino. Per essere creduto, lo Stato finge Dio e lo protocolla nelle menti della folla. Non esiste Regno senza Protettore, non s’è mai visto un Paese agnostico, il tiranno ha sempre millantato qualcuno per difendersi dalla sommossa. Chi non crede in trascendenze può provare a non arrendersi a chi Sta. Ma se al contrario la mente si organizza per la vita successiva, anche la precedente va a finire tra le braccia di chi strozza. Che è colui che ancora È. Mentre l’uomo trapassa l’Istituzione avanza e fa brandelli. Rovesciarla non si può, ce n’è sempre un’altra sotto. Lo Stato è come la vecchiaia, una piaga sociale, non ci libereremo mai dai vecchi perché invecchiamo insieme a loro, il tempo non guarisce le ferite ma apre il boccaporto a chi è arrivato dopo. Lo Stato cresce nel passato di un participio che non ha nessuna intenzione di abdicare. Ecco cos’è l’Organizzazione, una lama conficcata in una fistola che non si cicatrizza, un ciclo mestruale perpetuo da dove cola il sangue del piccolo risparmiatore, mai così piccolo e così colluso con l’Inganno. Eppure sarebbe facile una repressione del comando, basti pensare che lo Stato del domani sarà fatto da chi ancora non è nato, o da chi si attarda ad allattare. Erode potrebbe essere la soluzione, se tornasse all’attacco. In attesa dell’Eroe consoliamoci con l’illusione che la lingua ci permette: se è già Stato non è detto che ritorni. Almeno questo.  

ARTICOLO n. 14 / 2021

Lo stato dello Stato

Appunti dal carcere dorato.

Sono anni che lo stato delle cose caotico frena l’evoluzione e il tuffo nel caos, togliendoci l’opportunità di un capovolgimento verso la scoperta dell’ignoto.

Il passato acerbo potrebbe riaffacciarsi nel presente con le sembianze del futuro. La detenzione forzata, nel mio organismo nomade, innesca un vortice di pensieri, mi guardo da lontano e rivedo i ricordi in una sequenza logica che prima mi sfuggiva.

Prima e dopo affiorano, insieme a malsani sogni, rivelazioni, associazioni di idee senza ordine temporale. Questa bolla di vuoto mi ha costretto all’introspezione. L’uso del nome dei colori per indicare i livelli di pericolosità del virus vede l’utente (la Persona) avvicinarsi ai colori e apprendere una brutta notizia, il colore rosso significa STOP, vietato, apre l’immaginario a un semaforo, alla paletta dei poliziotti, all’interruttore della prolunga, agli estintori.

Questa lieve deviazione del significato verso visioni urbane, mi ha cambiato l’immagine nel significato di rosso. Quando penserò il rosso vedrò per prima cosa i morti della pandemia: addio alla fascinazione di un tramonto, ai petali vellutati delle rose, alle poltrone dei teatri.

Mi piacerebbe sapere chi ha pensato ai colori per segnalare le difficoltà regionali e perché dove si muore è zona rossa? Perché non hanno usato i numeri?

Sopravvissuta all’abbrutimento culturale degli ultimi anni, mi sento una vittima consapevole del contesto nazionale monoteista e maschiocentrico, che giudicava i comportamenti umani come calcoli matematici, protocolli, convenzioni. E nella convenzione ho dovuto fronteggiare spesso la freddezza di chi mi trattava in base alle statistiche senza possibilità di riscatto.

Ricordo altri eventi traumatici che mi sono passati sulla pelle, all’epoca del rapimento di Aldo Moro i posti di blocco piantonavano tutte le arterie stradali secondarie e di campagna, amori calibrati durante l’AIDS, Chernobyl, la guerra in Bosnia, il terrore del futuro dopo il crollo delle Twin Towers. Chiaramente il controllo sociale in quei tempi, si svolgeva con dinamiche quasi ingenue, diverse da quelle attuali.

Ci troviamo implicati in un abbandono, un cambiamento cultural-genetico indotto, poi divenuto volontario. Abbiamo la possibilità di plasmare la nostra immagine, uscire dal femminile, dal maschile, dall’ermafrodito, generi che ci impone la natura, possiamo coniare un genere spersonalizzato con l’aiuto degli algoritmi. Questo sconfinamento dell’organismo e del pensiero originario, nel corpo su misura con la mente pilotata, rende la persona immaginifica: l’entità si illude di essere coinvolta nell’atto della (sua) creazione, una mansione che prima spettava solo alla natura o alla divinità.

Ma se il corpo diventa un territorio mutante e rappresentativo, quale potrà essere lo sviluppo del teatro, dello sport, delle arti? Come raccontare le emozioni del corpo riflesso trionfatore nel mondo digitale, il connubio malattia e incorporeo, che non è inconseguente perché l’organismo è riposto in un contenitore?

In risposta ai virus, i potenti, ci hanno rifilato l’isolamento. Dove è la scienza che doveva preservare l’umanità? Come mai è più facile il trasferimento su Marte o lo scudo spaziale che curare questa malattia?

In ogni nazione europea la maggior parte della popolazione prende i ristori, qui ci trattano come bambini, hanno favorito l’acquisto di eco monopattini in società con lo Stato, hanno inventato il gioco della lotteria degli scontrini, ma il lavoratore non tracciato non riesce ad accedere a nulla, va avanti a giornate sottobanco. Per aiutarci offrono i soliti finanziamenti narcotizzanti, ci chiedono (o siamo noi a decidere così, per comodità) di trasporre l’arte predigitale in digitale, con risultati deprimenti non troppo diversi da quelli televisivi. Provo disagio nei confronti delle normative statali che non prevedono un percorso logico tra la disciplina teatrale (in presenza) e le attività teatro virtuali in DaD.

Si parla di cambiamento, il reset è in corso. È come se avessimo scoperto il fuoco. I primitivi davanti alle fiamme avranno provato lo stesso nostro sgomento, la paura indistinta, l’ansia per il futuro, il fuoco facilitava nel quotidiano ma era anche una tremenda arma di sterminio come tutte le grandi scoperte relative all’energia.

Ora gli avvenimenti ricalcano le emozioni del paleolitico, però il fuoco sta sparendo dalla nostra vita, anche sotto forma di fornello, in molte città non si può accendere il camino e sono vietati i fuochi estivi sulle spiagge. L’allontanamento dal fuoco è avvenuto lentamente, dell’elemento sono stati messi in luce solo i lati pericolosi, dimenticando le forme che creano le fiamme nel camino, il piacevole caldo e la luce tremula e intima che diffondono.

Nella civiltà pre-Covid la crisi delle attività teatrali galoppava, gli autori si orientavano a realizzare “prodotti culturali” col metodo taglia e incolla a scapito dei classici: in realtà, lo sfaldamento della logica dei copioni tranquillizzava lo Stato e gli operatori, ma portava gli spettatori alla disperazione, anno dopo anno sempre meno persone frequentavano il teatro, i gestori non offrivano programmazioni coraggiose, non rischiavano. La crisi, infatti, era dovuta alla mancanza di incassi, i teatri, i musei, le biblioteche, erano quasi vuoti, lo Stato li finanziava, ma a nessuno era permesso di riesumare la cultura, né di raccontare il presente nel piccolo evento non catastrofico ma significativo. L’intelligenza e l’ironia erano bandite a favore di un distaccato sarcasmo, dell’attualità si raccontavano solo le tragedie global, i migranti, le catastrofi ecologiche, i femminicidi, ecc. Repliche piene di correttezza, affrontate con una falsa tristezza che possono raggiungere solo attori e autori delle confraternite culturalmente facoltose. 

Quelli che provavano a uscire dai canoni giornalistici (che avevano invaso tutta l’arte) erano scoraggiati. Molti artisti non volevano essere cloni di un sistema creativo ufficiale. Spesso pagando l’affitto della sala, erano accolti in teatri, in centri sociali e lavoravano, riuscendo a suscitare gradimento nel pubblico e un buon incasso. Molte associazioni risiedevano in locali occupati o comunali, uno degli ultimi a crollare a Roma è stato il Cinema Palazzo dove proiettavano film, mettevano in scena spettacoli e concerti, e già dai primi bagliori della crisi gli occupanti avevano organizzato l’assistenza alle famiglie del quartiere diventando un punto di riferimento per gli abitanti.

 Lo Stato aveva dimezzato i fondi a quei luoghi che escogitavano soluzioni brillanti per andare avanti e le forze dell’ordine iniziarono a sgomberare i centri sociali e le associazioni culturali che agivano per la diffusione e lo scambio di idee.

Un progetto realizzato tramite qualunque disciplina artistica lo chiamavano “prodotto culturale”, la parte creativa era racchiusa in dieci righe dove si dovevano scrivere cose sommarie, due fogli per il progetto e cinquanta per i conti. I fondi copiosi li prendevano sempre gli enti più ricchi, i piccoli operatori culturali, quelli che avrebbero dovuto creare la continuità della cultura, non erano finanziati a sufficienza e promuovevano un solo autore e pochi altri che spesso erano anche nel direttivo. Non c’era ricambio.

È per questo che il teatro già nel pre-Covid rischiava la morte.

Il web brulicava di influencer (figure arcaiche destinate a condurci fin dentro la cultura digitale), timonieri del quotidiano scatenavano i desideri, la curiosità e vivevano l’attimo. The Influencer propagava verità accessorie banali, appagando con le chiacchiere e grandi gesta filmate i seguaci, che tentavano di imitare le imprese eroiche e la video serenità della sua immagine.

Il covid è giunto a dare il colpo finale, alla cultura rappresentativa, ma anche alla sensibilità umana in ribasso già nel pre-Covid. I rapporti tra umani, soprattutto negli ambienti lavorativi, erano pessimi, le persone cercavano di screditarsi l’un l’altro agli occhi del dominante, senza stima, zero spirito di gruppo.

Intanto nel mondo terrestre le autostrade sembravano tratturi più adatti al gregge (che poi siamo diventati) che alle automobili, le città si scrostavano, i ponti crollavano, le chiese odoravano di muffa e solo in una piccola percentuale del territorio urbano di molte metropoli italiane si edificavano grattacieli che svettavano sul vecchiume, scintillanti, artificiali come il 3D.

Nel post-Covid (pre-digitale) l’opera di ricostruzione urbana terrena renderà il pianeta ecosostenibile e provocherà un boom come è accaduto con l’automobile, la tv, la plastica, l’amianto, la lavatrice e il computer, la rinascita somiglierà al consumismo?

Il progresso lotta contro i vecchi prodotti per imporci elaborati bio, (il benessere) lo Stato appoggia e il resto dell’umanità, con i ristori Statali, tenta di rincretinirsi in ogni modo, per non vedere il buco finanziario e politico che li inghiotte.

Con Antonio Rezza avevamo realizzato Anelante che racconta la trasformazione e il caos mentre avvengono. E la reazione della comunità umana nel momento in cui il crollo culturale è inevitabile, frana e precipita verso l’ignoto per poi sparire. Anelante ha una struttura mutante sostenuta in equilibrio da forze contrastanti e non teme la pendenza dei palchi più antichi. Gli Habitat, Mondi traballanti, sono visioni forti capaci di imporsi in ogni tipo di spazio, strutture leggere, rapide da montare, l’ottimizzazione totale era la pratica necessaria per andare incontro ai ritmi del teatro velocizzato e in crisi economica permanente, la dinamica dell’Habitat era ed è sempre legata alla tecnologia disponibile.

Aspetto regole e tecnologie nuove per trovare altri limiti e capire meglio l’immaterialità.

La sofferenza della cultura pre-digitale, forse si trasformerà in tragedia per il teatro, gli abbonati, grossi sostenitori, in gran parte over-ottanta, ingiustamente accusati di gusti classici, erano in realtà quasi sempre competenti, pronti ad abbandonare ogni pregiudizio pur di vedere qualcosa di interessante.

A Palermo al Biondo, una coppia di habitué parlando dopo lo spettacolo, lamentò la mancanza di vitalità nei programmi dei teatri: avevano l’abbonamento a tre teatri palermitani, erano degli autentici finanziatori.

Tra la prima e la seconda ondata del virus, per trasporre il non-tempo, lo spavento, i presentimenti, ho sperimentato la scansione e la stampa 3D per arrivare a fondere in bronzo una scultura del 1990 dalla serie Implosioni, ottenuta plasmando rifiuti plastici, trovati sulle spiagge e cartapesta. I materiali si polverizzavano, come le isole di plastica negli oceani. Il bronzo argentato ha consolidato e dato un altro peso comunicativo e sociale alla scultura. Grazie alla cultura digitale ho operato una trasmutazione della materia – il sogno degli alchimisti – l’opera originale era leggera e instabile, e adesso, attraverso la tecnologia, la scultura è solida e rigida, riproducibile in varie materie, vive insieme ai suoi replicanti nella realtà materiale, nel web come file, da vera è diventata verissima, come per noi fa lo SPID.

Ma questa interazione col 3D non chiarisce quale è la dimensione più stabile e tranquillizzante da seguire. La città digitale non ha bisogno dei punti di riferimento, l’urbanizzazione sarà interiore, impalpabile, più vicina alla struttura divina che all’edificazione, ma statisticamente sarà più reale della religione.

Non riesco a immaginare una città che non si vede da lontano.

Ci siamo orientati, con Antonio, verso una forma impura di rappresentazione, autoportante, materica, non trasferibile, per ora, in un monitor incorporeo, abbiamo dedicato questo anno di reclusione all’audiovisivo, affrontando nuovi linguaggi e realizzato lavori individuali. Vari teatri hanno perlustrato gli archivi e pubblicato on line spettacoli realizzati tra il 1960 e il 2019, letture e monologhi nel web hanno avuto successo, ma una narrazione live contemporanea più complessa o una mostra al Palazzo Reale potrebbero essere verosimili solo con il viaggio virtuale. Mi piacerebbe trasporre il teatro in digitale, programmando un viaggio virtuale quando sarà diffuso e progettabile.

Per imparare potrei saltare da una piattaforma all’altra indossando corpi su misura molto potenziati, capirei i meccanismi basilari del linguaggio navigando in posti artificiali, sentire profumi, provare emozioni, e gonfiare le situazioni all’estremo fuggendo le conseguenze.

A quel punto la realtà umana inizierà a sembrare scolorita e lenta.

Adesso nel terzo focolaio Covid comincia a delinearsi la visionomia della cultura digitale, eterea, ancora mezza vuota. I colori e gli aggiornamenti, la libertà scambiata per presunzione, i cospiratori senza obiettivo rivoluzionario, per non raccontare e non alterare lo stato delle cose.

Spero tanto di stupirmi positivamente all’inizio dell’era digitale e non di ricominciare come prima.

ARTICLE n. 13 / 2021

Make me, Break me

  1. The world is full of promise, of promises.
    1. 1.0 (empty)
    2. 1.1 The world is the totality of promises made, kept or broken through time
      1. 1.11 The stuff of pop songs, the substance of art, the foundation of society.
    3. 1.2 Promise can also be taken – violently, surreptitiously – deliberately, unwittingly.
      1. 1.21 Potential, resources, capacity – of an individual, a people, a planet – seized, used, abused.
      2. 1.22 a.k.a. colonialism: the promise of some siphoned for the profit of others
        1. 1.221 Progenitor of another promise: capitalism.
          1. 1.2211 A system that swears to equalize by emptying there to fill here.
          2. 1.2212 The balance sheet of oppression.
    4. 1.3 Where in the world are you – literally, metaphorically, historically
      1. 1.31 (I am in Europe, and elsewhere. In mid-­‐life. In love. Indecision. In between.)
    5. 1.4 Does it feel like options are limited, like the horizon has shrunk, hope shattered? Like everything is suddenly limitless, the impossible possible? Or, like things could shiver either way – and back – in an instant?
    6. 1.5 The world divides into promising and unpromising.
      1. 1.51 Beware such distinctions.
    7. 1.6 The world divides.
      1. 1.61 Beware.
    8. 1.7 I give you my word.
      1. 1.71 Sometimes, to give a word is to give a world.
  2. A promise is everything that is not (yet) the case.
    1. 2.1 This moment too, was once mere promise, waiting to become something better or worse than it turned out to be.
      1. 2.11 Your better may be my worse. Or, vice versa. What does that make of promise?
        1. 2.111 A breach?
    2. 2.2. Promises exhaust reality.
  3. What is the case – a fact – is the existence of states of affairs (as Wittgenstein put it).
    1. 3.1 A promise is never the actual thing, it is finally only a kind of larva, from which, possibly, a butterfly emerges. In any case, a promise is, at best, an intermediate state, at worst an empty husk, mere verbiage.
    2. 3.2 Wait and see, says the promise that knows a reckoning is imminent. Wait and see is a time-honoured strategy on which promises have long depended, a way of deferring without refusing and thus maintaining a semblance of integrity. This pose persuades those who don’t know better, as well as those who have been let down often and are desperate for any scrap of hope, and sometimes also those who have rarely known disappointment and are unable to imagine it might be headed their way.
      1. 3.21 Wait and see. When I hear that I want to tap the promise with a little hammer, hold a stethoscope to its chest and check how many worm holes it has.
        1. 3.211 Except, with some promises (those made to myself?), I am more patient. In truth, I prefer not to examine them too closely.
  4. Affairs include private or public interests.
    1. 4.1 And (brief) intense love relationships.
      1. 4.11 Literature is my love affair with the world.
        1. 4.111 To read is to feel the breath of worlds on my neck, in my ear, the heat of other lives on my skin.
          1. 4.1112 To write is to extend my arms, embrace the world, hold it close, closer, until its heart beats next to mine.
            1. 4.1113 To know the voluptuous ache of a gap between us that can never be fully closed; a space of infinite promise.
    2. 4.2 Business and financial interests.
      1. 4.21 Capital: endless accumulation, growth at any cost.
        1. 4.212 A promise in numbers.
        2. 4.213 Made with contracts, signatures, handshakes, winks, nudges.
          1. 4.2131 With multiple sub-clauses designed to protect best interests. (Whose?)
        3. 4.214 A zero-sum game.
    3. 4.3 There are also affairs of state.
      1. 4.31 Collective (inter-)national promises made in law, constitutions, conventions, treaties. Made in oaths of office, citizenship tests, anthems.
        1. 4.311 Be embraced, Millions!
          1. This kiss to all the world!
        2. 4.312 Ideals sworn in song, while promise sinks under the waves, washes up dead on shore.
      2. 4.32 The seduction of promise, the way it can make you feel chosen, special, honoured.
        1. 4.321 No matter who else is included, or excluded.
          1. 4.3211 Millions? Billions.
    4. 4.4 Legal handcuffs may be put on promises to keep them accountable.
      1. 4.41 No article of law alone can guarantee a pledge. It requires us. You. Me.
        1. 4.411 The only witness a promise needs is a conscience.
    5. 4.5 People (and states) need promises like street signs, like banisters, like goal posts – to give direction, to hold on, to score with.
      1. 4.51 Or blame, rebel against, overpower.
      2. 4.52 Laws of nature have been bent to human will (gravity defied!), and still it can be a feat to honour your own words or slip another’s expectations.
  5. All interests and relations intersect with promise(s).
    1. 5.1 A tangle of connections called the world; a messy state of affairs.
      1. 5.11 Promises like borders whose coordinates keep shifting. For better, for worse.
    2. 5.2 A promise is a proof. It shows what you (claim to) value.
      1. 5.21 Does it follow that what you are promised (or not) shows your worth?
      2. 5.22 Is a promise also a falsification?
        1. 5.221 Where do proof and falsification meet to linger over cold coffee and argue? Take me there.
    3. 5.3 All promises are not of equal value.
      1. 5.31 How is value determined?
    4. 5.4 If something is easily achieved, with minimal effort, does committing to it qualify as a promise?
      1. 5.41 Is there a promise-hierarchy? The more challenging a pledge the more cherished?
        1. 5.412 What does it mean that I find it easy to love you?
        2. 5.413 It means, every day, I still have to activate this emotion. Decide for you. For love.
        3. 5.414 Actually, it’s not easy. Love never is. But at times it feels so, and that is its grace.
        4. 5.415 Love is a promise I break again and again, and still keep honouring.
          1. 5.4151 What does this prove?
  6. Most promises have an unstable relationship with reality.   
    1. 6.0 (empty)
    2. 6.1 Is it possible that promises take themselves less seriously than some of us do? Even the most serious seem to have a mischievous streak, a taunting quality, as if they are always silently chanting make me, break me; as if they know you’re making a wager that’s as easily won as lost. 
    3. 6.2 Few broken promises seem to have any sense of guilt. They retreat briefly into the crowd of disappointments that shadow every life; eventually they re-emerge, freshly coiffed, and set off, once more, in search of the gullible.
      1. 6.22 Political promises are especially talented at this.  
      2. 6.23 Everyone chooses to be gullible, now and then.
    4. 6.3 Promises are how we try to tame the future.
    5. 6.4 The limits of our promises are not the limits of the world.
    6. 6.5 The limit of a promise is not the limit of the word.
  7. What is not promised may nevertheless be desired, demanded, offered, realized.
    1. 7.0 (            )

© Priya Basil

ARTICOLO n. 12 / 2021

La mia barba

Storia della maschera che mi difende

Sono diverse le cose per cui provo vero amore, ma si contano sulle dita di una mano. La mia fidanzata, la mia famiglia, i libri, i miei amici, la barba.

Qualcuno può trovare strano un attaccamento del genere verso qualcosa che volgarmente non è nient’altro che pelo; apprezzato, per di più, oltre che dal gusto individuale, anche in base al determinato periodo storico. È quindi una cosa che non ha poi chissà che potenza; oppure ce l’ha, ma potrebbe non averla più domani, esattamente come non ne aveva ieri.

È quindi una cosa che ha una potenza straordinariamente precaria. Eppure, in me, questa potenza esplode massiccia.

Per capirne le motivazioni, bisogna ovviamente dare un po’ di contesto, perché ce n’è uno incredibile dietro ogni grande storia d’amore.

Partiamo dagli inizi: ho sempre guardato con molto interesse gli uomini che ho incrociato nel corso della mia vita, in particolare quelli che ai miei occhi risultavano belli.

Non sono omosessuale – non mi reputo tale al momento, poi, nella vita, chi lo sa -, pertanto non li ho mai guardati con desiderio, ma solo spinto da una morbosa curiosità. Non è sempre stato uno sguardo comprensibile e cosciente, anzi, solo con il tempo ne ho capito il motivo: è che anch’io sono un uomo.

Nemmeno questo fatto si è presentato da subito come un’ovvietà, come può succedere a tante persone, che nascono e poi crescono con un’identità di genere che non sentono mai il bisogno di mettere in discussione.

Per me è stato diverso, perché ho vissuto quasi vent’anni della mia vita nei panni di una donna e mi sono conosciuto anche come Francesca.

Non ho mai percepito questa parte come veramente mia, a volte sentendomi intrappolato in una definizione e ruoli che non mi rappresentavano, altre volte osservando quelli degli altri, degli uomini, e provando un forte senso di appartenenza.

Scrutavo i commessi, gli operatori dell’università, i miei compagni di liceo, guardavo la loro estetica e le loro relazioni e li vedevo distanti come sono distanti le cose che ci sembrano irraggiungibili, non diverse. Per diversi anni, insomma, essere uomo è stato un po’ il mio sogno nel cassetto.

E la barba faceva parte di questo strano pacchetto.

Quando poi ho iniziato il percorso di transizione, ho parlato tantissimo con la psicologa di questo mio desiderio; non perché volevo validasse ai suoi occhi le mie sensazioni, ma perché era autentico. L’avevo tenuto dentro per così tanto tempo, in un modo talvolta molto criptico, che buttarlo fuori per la prima volta, a ripetizione, mi permetteva di analizzarlo, di confrontarlo e di smetterla, finalmente, di lasciarlo sopire come si farebbe con un segreto vergognoso.

Per un po’ ho pensato di desiderarla solo perché potesse farmi risultare uomo agli occhi degli altri, poi ho capito che un uomo si definisce tale per una lunghissima serie di motivi, nella quale i peli giocano un ruolo davvero poco determinante.

Allora ho accettato una volta per tutte che il bisogno nascesse da ragioni ancestrali, forse imperscrutabili, e che in quanto tale fosse semplicemente nato e cresciuto insieme a me, con l’idea che avevo ed ho di me stesso.

Iniziata la parte ormonale del percorso, ad aprile 2018, ovviamente mi sentivo sulle nuvole ed oltre: era un sogno. Mia madre, la sera della mia prima puntura, mi ha chiamato e mi ha detto: «Come ti senti? Ti sono cresciuti i baffi?».

Mi ha fatto sorridere, visto che, ovviamente, non era cosa possibile in un tempo così breve; ma soprattutto perché esorcizzava le paure di entrambi, parlandone con i termini di qualcosa di reale. Per lei, il pensiero che «a sua figlia» potessero crescere i peli era ancora insidioso, ma l’aveva ormai messo in conto e questo le permetteva di scherzarci su, come si farebbe con qualsiasi cosa che s’impara a destreggiare, al punto da poterla girare e rigirare a proprio piacimento.

Per me, al contrario, era spaventoso pensare che potessero non crescermi mai, ma sentirle dire quella cosa mi ha fatto riflettere: lo diceva perché, in effetti, sarebbe potuto succedere.

E perché mai, allora, dovevo sentirmi così frustrato e crucciato, come se ogni possibilità fosse già persa?

A volte sono persino riuscito a mettermi davvero il cuore in pace, ripensando a quella semplice frase.

Ma, chiaramente, non è una storia tutta rose e fiori, anzi: facendo parte di una realtà molto semplice, è altrettanto semplice capire che non potessi scappare così facilmente dalla tristezza e dalle debolezze – che insieme aiutano a creare le ossessioni, che a loro volta costituiscono un vortice difficilissimo da congedare.

Così, per i primi mesi di ormoni mi sono controllato in maniera martellante e maniacale, alla ricerca di quel pelo che potesse finalmente gridare «sono un uomo!» alle persone che non erano mai riuscite a credermi – o che non avevano mai voluto farlo.

Perché, se per me la barba non fa automaticamente l’uomo, ho scoperto a mie spese che per tanti altri, invece, funziona proprio così.

Durante un’estate, nel 2017, ho lavorato come cameriere in un pub. È stata la mia prima e ultima stagione da ragazzo transessuale «pre-T» (aka «pre-testosterone»), perciò, in quei mesi, mentre la mia identità di genere andava via via consolidandosi come maschile, la mia esteriorità non era in grado di rifletterla e chi mi guardava dall’esterno spesso non si accorgeva di star parlando con un ragazzo.

Le volte in cui qualcuno mi chiedeva allora «di che sesso» fossi, o quanti anni avessi, rimaneva poi sbalordito dalla risposta. «Impossibile!» diceva «con quella faccia pulita?», oppure «hai problemi di crescita?», oppure «ma non hai neanche mezzo pelo».

La barba diventava per loro uno uomometro, un valido strumento di riconoscimento, per provare a dare una risposta a qualcosa che proprio volevano e dovevano capire, ossia la mia identità.

Eppure, quanti uomini glabri avranno conosciuto, in tutta la loro vita? Ma questo non sembrava contare, e per tanto tempo non ha contato più neanche per me.

Tanto che, così concentrato sul cercare quel “mezzo pelo”, a quasi un anno di ormoni non mi rendevo del tutto conto di stare già cambiando, di essere già cambiato, sotto tantissimi altri aspetti.

A fine 2018, agli occhi degli altri risultavo già, finalmente, un ragazzo, il che si riscontrava nel modo in cui gli sconosciuti si rivolgevano a me (il «cosa posso fare per te, caro?» di un barista, o il «c’era prima lui» di una persona in fila dal dottore) e piano piano, a furia di vedere validata la mia persona nel mondo di tutti i giorni, cominciavo a sentirmi più tranquillo nei miei riscoperti panni, e nella mia vita tutta; ma qualcosa ancora mancava, e il problema si era spostato dall’essere non sono abbastanza uomo all’essere non sono abbastanza me.

D’altronde, mi sono visto con la barba fin da piccolo: da bambino pregavo Dio perché mi facesse risvegliare con i peli, evidentemente influenzato dalle figure maschili, a cui ambivo assomigliare, che vedevo in televisione o in altre occasioni e che assumevo come modelli; da adolescente rivendicavo il diritto di essere barbuto, perché «con la barba è facile, stanno bene tutti», scrivendolo sui social con l’innocenza e leggerezza di chi non ha gli strumenti per capire cosa stia davvero provando, e cosa davvero significhi ciò che dice.

Come ogni sogno che si rispetti, è arrivato quando quasi non l’aspettavo più, tanto che non ho notato il primo pelo, come mi ero invece immaginato, ma solo l’insieme dei primi peli. Li ho visti quando erano già parecchi, eppure non erano certo cresciuti dal giorno alla notte; ma per la prima volta vedevo anche altro di me e la barba mi si è presentata, a quel punto, come la ciliegina sulla torta.

Trovarla su di me, proprio sulla mia faccia, è stato incredibile. Non mi ero mai sentito così fiero, così bello, così pieno di buoni sentimenti nei miei confronti come in quel momento; e ad oggi è una sensazione che ricordo ancora con dolcezza e nostalgia, perché è stata fugace, una felicità passeggera, come passeggere sono tutte le grandi novità, prima di essere assorbite dal circolo vitale della quotidianità.

Adesso la mia barba è una sicurezza, una certezza, una delle figure femminili che amo. Non devo più temere che non ci sia, il che mi permette di concentrarmi su altri miei punti deboli, sulle altre mancanze che percepisco dentro di me; ma anche di guardare con più attenzione cos’ho di altro, dentro e intorno. La barba, in un certo senso, mi ha permesso di espandere la mia persona in modo che fosse davvero un’entità nello spazio e non più solo l’ombra di se stessa, alla continua ricerca di un valido nascondiglio, troppo impegnata a non farsi vedere per potere vedere il resto. Ha una forza diversa, ora che è una parte strutturale di me; è la maschera che non temo di portare, perché anziché nascondermi mi rivela agli altri.

A volte poi, quando la guardo, penso a quanto è strano il fatto che ognuno di noi abbia bisogno di cose così diverse rispetto all’altro, per sentirsi felice.

ARTICOLO n. 11 / 2021

Il Maestro Fellini

TRADUZIONE DI CAMILLA PIERETTI

EST. 8th STREET – TARDO POMERIGGIO (ca. 1959)

CAMERA IN MOVIMENTO CONTINUO alla spalla di un giovane di neanche vent’anni, che procede assorto verso ovest lungo una strada trafficata del Greenwich Village.

Sotto un braccio porta dei libri, nell’altra mano ha una copia di The Village Voice.

Cammina rapido, superando uomini con cappotti e cappelli, donne con il capo coperto da foulard intente a spingere carrelli portaspesa, coppie che si tengono per mano e poeti e spacciatori e musicisti e barboni ubriachi e drugstore, liquorerie, gastronomie, palazzi.

Il giovane però punta a una cosa sola: l’ingresso dell’Art Theatre, dove danno Ombre di John Cassavetes e I cugini di Claude Chabrol.

Se lo annota mentalmente e attraversa la Fifth Avenue sempre diretto a ovest, oltrepassando librerie e negozi di dischi e studi di registrazione e negozi di scarpe, fino ad arrivare all’8th Street Playhouse: Quando volano le cicogne e Hiroshima Mon Amour, mentre Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard è tra i prossimi arrivi!

Restiamo su di lui mentre gira a sinistra sulla Sixth Avenue, facendosi strada rapido oltre ristoranti, altre rivendite di alcolici, edicole e un negozio di sigari, e attraversa la strada per vedere da vicino l’ingresso del Waverly: Cenere e diamanti.

Taglia a est sulla 4th Street, passando davanti al Kettle of Fish e alla Judson Memorial Curch sul lato sud di Washington Square, dove un uomo dall’abito consunto distribuisce volantini: introdotto da un’Anita Ekberg impellicciata, La dolce vita verrà trasmesso in un vero cinema di Broadway, con posti a prenotazione obbligatoria in vendita a prezzi da Broadway!

Il giovane scende lungo LaGuardia Place fino a Bleecker Street, oltre il Village Gate e Bitter End fino al Bleecker Street Cinema, che trasmette Come in uno specchio, Tirate sul pianista e L’amore a vent’anni, mentre La Notte è rimandato per il terzo mese di seguito!

Si mette in coda per il film di Truffault, apre la sua copia di The Voice alla sezione cinema, e una lunga fila di titoli si stacca dalla pagina e comincia a vorticargli intorno: Luci d’invernoDiario di un ladroThe Third LoverThe Hand in the Trap… le proiezioni di Andy Wharol… Porci, geishe e marinai… Kenneth Anger e Stan Brakhage agli Anthology Film Archives… Lo spione… e, in mezzo a tutto questo, a caratteri più grandi degli altri: Joseph E. Levine presenta 8½ di Federico Fellini!

Mentre è intento a leggere, L’INQUADRATURA SI SPOSTA SOPRA DI LUI e alla folla in attesa, come spinta dall’onda del loro entusiasmo.

Avanti veloce fino al giorno d’oggi, in cui l’arte del cinema viene sistematicamente messa all’angolo, svalutata, sminuita e ridotta al suo minimo denominatore comune, il “contenuto”.

Appena quindici anni fa, il termine “contenuto” veniva usato solo quando si parlava di cinema a livello molto tecnico, in opposizione alla “forma”. Poi, a poco a poco, ha cominciato a essere impiegato sempre più spesso dai nuovi dirigenti delle aziende di telecomunicazioni, molti dei quali non sapevano nulla della storia di questa forma d’arte e non se ne curavano abbastanza da volerlo sapere. Il “contenuto” è diventato parte del lessico aziendale per riferirsi a qualunque immagine in movimento: un film di David Lean, un video di gattini, uno spot del Super Bowl, un sequel sui supereroi, l’episodio di una serie. Il tutto, ovviamente, riferito non alla visione nelle sale ma da casa, sulle piattaforme in streaming che hanno finito per soppiantare l’esperienza di andare al cinema, così come Amazon ha soppiantato i classici negozi. Da un lato, questa evoluzione è stata positiva per i cineasti, me incluso. Dall’altro, ha dato origine a una situazione in cui lo spettatore vede tutto sullo stesso piano, cosa che può sembrare molto democratica ma non lo è. Se i suggerimenti su cosa guardare vengono da un algoritmo che si basa su ciò che si è già visto, quindi unicamente su soggetto o genere, che effetti potranno mai avere sull’arte del cinema?

Le curatele non sono antidemocratiche o “elitiste”, termine ormai talmente abusato da aver perso qualunque significato. Al contrario, sono un atto di generosità, la condivisione di qualcosa che piace e che ispira (le migliori piattaforme di streaming, come Criterion Channel o MUBI, e le emittenti tradizionali come TCM si rifanno alle curatele, per cui ogni contenuto è selezionato con cura). Gli algoritmi invece, per definizione, si basano su calcoli che trattano lo spettatore come un semplice consumatore, niente di più.

Le scelte fatte da distributori come Amos Vogel di Grove Press negli anni Sessanta non erano atti di semplice generosità ma, spesso, anche di coraggio. Dan Talbot, espositore e programmatore, fondò la New Yorker Films per poter distribuire una pellicola che amava: Prima della rivoluzione di Bertolucci… insomma, non proprio una scommessa sicura. I film che arrivarono negli Stati Uniti grazie all’iniziativa di questi e altri distributori, curatori ed espositori portarono alla nascita di un movimento straordinario. Le circostanze che resero possibile quel momento sono ormai sfumate per sempre, dalla predominanza dell’esperienza nelle sale alla trepidazione condivisa per le tante possibilità offerte dal cinema. È per questo che torno spesso su quegli anni. Mi ritengo fortunato a essere stato giovane, vivo e aperto a tutto ciò che succedeva in quel periodo. Il cinema è sempre stato molto più che contenuto, e lo sarà sempre: gli anni in cui spuntavano film da ogni parte del mondo, dialogando l’un l’altro e ridefinendo l’arte cinematografica da una settimana per l’altra, ne sono la prova.

In sostanza, quegli artisti si trovavano continuamente alle prese con la domanda: «Che cos’è il cinema?», che si ripresentava ad ogni nuovo film. Nessuno lavorava isolato, anzi, sembrava che si rispondessero l’un l’altro, alimentandosi a vicenda. Godard e Bertolucci e Antonioni e Bergman e Imamura e Ray e Cassavetes e Kubrick e Varda e Wharol reinventavano il cinema ad ogni nuovo movimento della macchina da presa e ogni nuovo ciak, mentre registi già più affermati come Welles e Bresson e Huston e Visconti attinsero nuove energie dall’impennata di creatività attorno a loro.

Al centro di tutto questo c’era un regista che tutti conoscevano, un artista il cui nome era sinonimo di cinema e di ciò che il cinema poteva fare. Un nome che evocava immediatamente un certo stile, un certo atteggiamento nei confronti del mondo, al punto da essersi trasformato in un aggettivo. Poniamo che si volesse descrivere l’atmosfera surreale di una cena, un matrimonio, un funerale o un congresso politico, o, se è per quello, la follia dell’intero pianeta: bastava usare la parola “felliniano” e la gente capiva subito di cosa si stava parlando.

Negli anni Sessanta, Federico Fellini divenne ben più di un regista. Come Chaplin e Picasso e i Beatles, era un uomo che trascendeva la sua arte. A un certo punto, non fu più questione di questo o quel film, ma di tutte le sue opere combinate a tracciarne le gesta nella galassia. Andare a vedere un film di Fellini era come ammirare la Callas cantare, Olivier recitare o Nureyev danzare. Si arrivò al punto che i titoli cominciarono a includere il suo nome: Fellini Satyricon, Il Casanova di Fellini. L’unico che reggeva il confronto nel settore era Hitchcock, che però era un’altra cosa ancora: un marchio, un genere a sé e per sé. Fellini era il maestro del cinema.

Ormai sono trascorsi quasi trent’anni dalla sua scomparsa. Il periodo in cui la sua influenza sembrava permeare ogni aspetto della cultura è ormai passato. Ecco perché il cofanetto messo insieme da Criterion Channel lo scorso anno per il centenario della sua nascita, Essential Fellini, è più che gradito.

Fellini arrivò a padroneggiare completamente la forma visiva nel 1963 con , film in cui la macchina da presa si libra, aleggia e si innalza tra scenari interiori ed esteriori, secondo gli umori altalenanti e i pensieri segreti dell’alter ego di Fellini, Guido, interpretato da Marcello Mastroianni. Mi capita di guardare dei pezzi di quell’opera, su cui sono tornato più volte di quante sia in grado di contarne, e di trovarmi ancora a chiedermi: Come avrà fatto? Com’è possibile che ogni movimento, ogni gesto, ogni refolo d’aria sembrino inserirsi perfettamente al loro posto? Com’è che tutto pare prodigioso e inevitabile, come in un sogno? Com’è possibile che ogni movimento sia così denso di inesprimibile desiderio?

In questo contesto, il suono svolge una funzione fondamentale. Fellini sapeva essere creativo con il sonoro quanto lo era con le immagini. Il cinema italiano ha una lunga tradizione di doppiaggio, iniziata sotto Mussolini, il quale decretò che tutti i film importati da altri paesi dovessero essere doppiati. In molti film italiani, quindi, persino tra i più celebri, il divario tra sonoro e labiale può risultare spiazzante. Fellini sapeva usare questo spaesamento come uno strumento espressivo. Il suono e le immagini, nei suoi film, cozzano e si amplificano l’un l’altro, in modo tale che l’intera esperienza cinematografica si articola come un brano musicale, o come una lunga pergamena che si srotola. Oggi, la gente si lascia affascinare dalle ultime tecnologie e da quello che sono in grado di fare, ma non sono le telecamere digitali leggere e le tecniche di postproduzione come lo stitching e il morphing a fare il film: dipende tutto dalle scelte compiute nella realizzazione della pellicola nel suo insieme. Per i grandi artisti come Fellini, nessun elemento è mai insignificante: tutto ha una sua importanza. Sono sicuro che le telecamere digitali sarebbero state per lui un’esaltante novità, ma non avrebbero influito sul rigore e sulla precisione delle sue scelte estetiche.

È importante ricordare che Fellini iniziò dal neorealismo: cosa particolarmente interessante se si considera che, per molti versi, ha finito per rappresentare l’esatto opposto. In realtà, è stato proprio tra gli inventori del movimento, in collaborazione con il suo mentore Roberto Rossellini. Quel momento riesce ancora a sorprendermi: è stato una fonte di ispirazione talmente importante per il cinema, che dubito che gli anni Cinquanta e sessanta sarebbero stati animati dalla stessa creatività e dalle stesse sperimentazioni, senza il realismo da cui partire. Più che di un movimento, si è trattato di un gruppo di cineasti che hanno reagito a un periodo inimmaginabile nella vita della propria nazione. Dopo vent’anni di fascismo, dopo tanta crudeltà, terrore e distruzione, in che modo si poteva andare avanti, come individui e come paese? I film di Rossellini e De Sica e Visconti e Zavattini e Fellini e altri, film in cui estetica, moralità e spiritualità erano così legate le une alle altre da risultare indistinguibili, hanno svolto un ruolo fondamentale nel redimere l’Italia agli occhi del mondo.

Fellini è stato coautore di Roma, città aperta e Paisà (per il quale pare che, mentre Rossellini era malato, abbia anche diretto qualche scena dell’episodio di Firenze), oltre ad aver partecipato alla stesura e alla recitazione del Miracolo. Il suo percorso artistico si è chiaramente discosto molto presto da quello di Rossellini, ma i due hanno sempre mantenuto un grande rispetto e affetto reciproco. Un giorno, poi, Fellini fece un’osservazione particolarmente acuta: che quello che la gente descriveva come neorealismo in realtà esisteva davvero soltanto nei film di Rossellini. Al di là di Ladri di biciclette, Umberto D. e La terra trema, credo che Fellini intendesse dire che Rossellini era l’unico ad avere una fiducia così profonda e duratura nella semplicità e nell’umanità, l’unico a lavorare in modo da lasciare che fosse la vita stessa a raccontare quanto più possibile la propria storia. Fellini, al contrario, era uno stilista e un affabulatore, un mago e un cantastorie, ma le basi di etica e di esperienza vissuta che ricevette da Rossellini furono essenziali per lo spirito dei suoi film.

Entrato nella maggiore età proprio mentre Fellini raggiungeva la sua maturità di artista, ho sempre avuto un particolare riguardo per le sue opere. Vidi La strada, la storia di una povera giovane venduta a un forzuto e brutale saltimbanco, quando avevo circa tredici anni e ne rimasi particolarmente colpito. Pur ambientata nell’Italia del dopoguerra, la pellicola si svolgeva come una ballata medievale, se non addirittura qualcosa di precedente, un’emanazione del mondo antico. Lo stesso si può dire della Dolce vita, che però era un panorama, uno spaccato di vita moderna e scissione spirituale. La strada, uscito nel 1954 (e due anni più tardi negli Stati Uniti) è un quadro più piccolo, una favola che ha le sue radici in concetti elementari: terra, cielo, innocenza, crudeltà, devozione, distruzione.

Ai miei occhi, poi, aveva una dimensione aggiunta. Lo vidi per la prima volta insieme alla mia famiglia, alla televisione, e ricordo che per i miei nonni la storia rispecchiava fedelmente le difficoltà che si erano lasciati alle spalle nel vecchio mondo. La strada non ricevette una buona accoglienza in Italia. Alcuni lo considerarono un tradimento del neorealismo (metro di giudizio per molti film italiani dell’epoca), e suppongo che molti spettatori locali abbiano trovato strana l’idea di presentare una storia così dura come se fosse una fiaba. Nel resto del mondo, però, ebbe un successo straordinario, dando a Fellini la notorietà internazionale. Era la pellicola su cui sembrava aver lavorato e sofferto di più: la sceneggiatura era talmente dettagliata da raggiungere le seicento pagine e, verso la fine di una produzione davvero complessa, il regista ebbe un esaurimento nervoso e dovette sottoporsi alla prima (credo) di numerose sessioni di psicanalisi per poter terminare le riprese. Fu anche il film che, per il resto della sua vita, considerò a lui più caro.

Le notti di Cabiria, una serie di episodi fantastici nella vita di una prostituta romana (fonte di ispirazione per il musical di Broadway e film di Bob Fosse Sweet Charity), ne consolidò la reputazione. Come tutti, lo trovai emotivamente travolgente. Ma la grande rivelazione successiva fu La dolce vita. Vederlo appena uscì, in una sala completamente gremita, fu un’esperienza indimenticabile. La dolce vita arrivò negli Stati Uniti nel 1961, tramite la Astor Pictures, e fu trasmesso come evento speciale in un vero cinema di Broadway, con biglietti costosi e posti numerati, da prenotare via posta: il tipo di attenzioni generalmente riservate a leggendarie pellicole a sfondo biblico come Ben Hur. Prendemmo posto, le luci si spensero e, nel guardare questo maestoso, tremendo affresco cinematografico dipanarsi sullo schermo, tutti provammo la sensazione scioccante del riconoscimento. Di fronte a noi c’era un artista che era riuscito a esprimere l’ansia dell’era nucleare, la sensazione che nulla avesse più importanza perché tutto e tutti avrebbero potuto essere annientati in qualsiasi momento. Oltre allo shock, però, percepimmo anche l’euforia suscitata dall’amore di Fellini per l’arte del cinema e, di conseguenza, per la vita stessa. Qualcosa del genere si stava verificando anche nel rock and roll, con i primi album elettronici di Dylan e poi con The White Album e Let It Bleed: pur parlando di ansia e disperazione, erano esperienze elettrizzanti, trascendenti.

Quando presentammo la versione restaurata della Dolce vita a Roma, dieci anni fa, Bertolucci insistette per presenziare. Allora già faticava ad andare in giro, perché era costretto in sedia a rotelle e in preda a incessanti dolori, ma disse che non se la poteva perdere. Al termine della proiezione, mi confessò che La dolce vita era la ragione per cui aveva cominciato a fare cinema. Ne fui sinceramente sorpreso, perché non me ne aveva mai parlato prima. Ma, in fondo, non c’era niente di cui meravigliarsi. Quel film era stata un’esperienza galvanizzante, che aveva scosso un’intera cultura.

Le due opere di Fellini che mi hanno influenzato di più, quelle che mi hanno davvero segnato, sono state I vitelloni e . I vitelloni perché ha saputo cogliere qualcosa di così reale e prezioso da ricollegarsi alla mia personale esperienza; perché ha ridefinito la mia idea di cinema, di cosa fosse e di dove potesse portare.

I vitelloni, uscito nel 1953 in Italia e tre anni più tardi negli Stati Uniti, è il terzo film di Fellini, ma il primo di un certo rilievo. È anche una delle sue opere più personali. Composto da una serie di scene, racconta le vite di cinque amici sulla ventina a Rimini, città dove Fellini è cresciuto: Alberto, interpretato dal grande Alberto Sordi; Leopoldo, interpretato da Leopoldo Trieste; Moraldo, l’alter ego di Fellini, interpretato da Franco Interlenghi; Riccardo, interpretato dal fratello di Fellini; Fausto, interpretato da Franco Fabrizi. I cinque trascorrono le giornate a giocare a biliardo, fare la corte alle ragazze e andarsene a spasso prendendo in giro chiunque incontrino. Tutti sono animati da grandi sogni e progetti. Si comportano come bambini e i genitori li trattano di conseguenza. E la vita va avanti.

Io mi sentivo come se li conoscessi, quei ragazzi, come se facessero parte della mia vita, del mio quartiere. Riconoscevo addirittura parte del loro linguaggio del corpo, del loro umorismo. Anzi, a un certo punto sono stato uno di loro. Capivo cosa provava Moraldo, la sua voglia disperata di andarsene. Fellini riusciva a rappresentare tutto in maniera così perfetta: l’immaturità, la vanità, la noia, la tristezza, la ricerca della prossima distrazione, del prossimo picco di euforia. Era in grado di trasmettere il calore, il cameratismo, le battute, ma anche la tristezza e la disperazione che nascondevano, tutto in un colpo. I vitelloni è una pellicola dolceamara e dolorosamente lirica, che ha svolto un ruolo decisivo nella genesi di Mean Streets. È un grande film sulla propria città natia. Qualunque essa sia.

Per quanto riguarda ,tutti quelli che conoscevo e che cercavano di fare film, all’epoca, avevano una loro pietra miliare, un termine di paragone. Per me era, ed è ancora, .

Cosa si fa dopo aver prodotto una pellicola dal successo travolgente come La dolce vita? Tutti pendono dalle tue labbra, in attesa di scoprire quale sarà il tuo prossimo passo. Un po’ come è successo a Dylan a metà degli anni Sessanta, dopo l’uscita di Blonde on Blonde. Fellini e Dylan erano nella stessa situazione: avevano raggiunto ampie schiere di persone, e tutti pensavano di conoscerli, di capirli e, spesso, di avere dei diritti su di loro. Insomma, era una pressione continua. Pressione dal pubblico, dai fan, dai critici e dai nemici (dove nemici e fan spesso sembrano essere una cosa sola). Pressione per produrre ancora. Pressione per andare avanti. Pressione da se stessi, su se stessi.

Per Fellini, come per Dylan, la risposta fu l’introspezione. Dylan cercava la semplicità, nel senso spirituale attribuitole da Thomas Merton e, dopo il suo incidente in moto, la trovò a Woodstock, dove registrò The Basement Tapes e scrisse i brani di John Wesley Harding.

Fellini partì invece dalla propria situazione dei primi anni Sessanta, girando un film sulla sua crisi artistica. Così facendo, intraprese una pericolosa spedizione in un territorio ancora inesplorato: quello del suo mondo interiore. Il suo alter ego, Guido, è un celebre regista, affetto dall’equivalente cinematografico del blocco dello scrittore e in cerca di un rifugio, di pace e di una guida, come artista e come essere umano. Recatosi in una lussuosa stazione termale per sottoporsi a una “cura”, viene presto assediato dall’amante, dalla moglie, dall’ansioso produttore, dai potenziali attori, dalla troupe e da un’eterogenea processione di ammiratori, parassiti e di altri frequentatori delle terme. Tra loro vi è un critico, il quale afferma che la nuova sceneggiatura «manca di un conflitto centrale o di una premessa filosofica» e si riduce a «una serie di episodi ingiustificati». La pressione aumenta, ricordi di bambino, desideri e fantasie arrivano inattesi ad animare i suoi giorni e le sue notti e lui attende la sua musa ─ che va e viene, eterea, nella persona di Claudia Cardinale ─ per «mettere ordine».

è un arazzo intessuto con i sogni di Fellini. Come in un sogno, tutto sembra solido e ben definito da un lato, ma evanescente ed effimero dall’altro: il tono continua a cambiare, talvolta anche bruscamente. Il flusso di coscienza visivo che si viene a creare mantiene lo spettatore in uno stato di allerta e di sorpresa, in una forma che va ridefinendosi di continuo, man mano che il film va avanti. È come guardare Fellini girare il film davanti ai propri occhi, perché la struttura è il processo creativo stesso. Molti altri registi hanno provato a fare qualcosa sulla stessa linea, ma credo che nessuno sia mai riuscito a ottenere ciò che Fellini è riuscito a fare qui. Solo lui ha avuto l’audacia e la fiducia in sé necessarie per giocare con ogni strumento creativo, per sfruttare la plasticità delle immagini al punto che tutto pare esistere a un livello inconscio. Anche le inquadrature apparentemente più neutre, se esaminate più da vicino, rivelano un qualche elemento della luce o della composizione che spiazza, che in qualche modo è permeato dalla coscienza di Guido. Dopo un po’ uno smette di cercare di capire dov’è, se si tratta di un sogno, di un flashback o della semplice realtà. Vuole solo continuare a perdersi e a vagare con Fellini, arrendendosi all’autorità del suo stile.

La pellicola raggiunge un picco di creatività nella scena in cui Guido incontra il cardinale alle terme, un viaggio in un mondo sotterraneo alla ricerca di un oracolo, un ritorno all’argilla da cui siamo stati plasmati. Come in tutto il resto del film, la macchina da presa è in movimento, irrequieta, ipnotica, si libra nell’aria come se stesse andando incontro a qualcosa di inevitabile e rivelatore. Man mano che Guido scende nei sotterranei vediamo, dal suo punto di vista, una serie di persone che gli vanno incontro, chi consigliandolo su come ingraziarsi il cardinale, chi chiedendogli qualche favore. Entrato in un’anticamera piena di vapore, egli si avvicina all’alto prelato, i cui assistenti lo coprono con un telo di mussola mentre si sveste, lasciandone intravedere soltanto l’ombra. Guido rivela al cardinale di non essere felice e questi risponde semplicemente, memorabilmente: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?». Ogni sequenza di questa scena, ogni parte dell’allestimento e della coreografia tra attori e macchina da presa è straordinariamente complessa. Non riesco nemmeno a immaginare quanto debba essere stata difficile da realizzare. Sullo schermo, si svolge tutto con tale leggerezza da sembrare la cosa più facile del mondo. Per me, l’udienza con il cardinale è l’emblema di un’importante verità su : Fellini ha fatto un film a proposito di un film che poteva esistere solo come film e nient’altro. Non come un brano musicale, né come un romanzo, una poesia, una danza: poteva essere solo un’opera cinematografica.

L’uscita di scatenò dispute senza fine, tanto era il suo effetto drammatico. Ognuno di noi aveva una sua interpretazione e facevamo le ore piccole a discuterne, a sviscerarne ogni scena, ogni secondo. Ovviamente, non raggiungemmo mai un’interpretazione definitiva: l’unico modo per spiegare un sogno è seguire una logica onirica. Il film non termina in maniera definita, cosa che infastidì molte persone. Un giorno, Gore Vidal mi ha raccontato di aver detto a Fellini: «Fred, meno sogni la prossima volta, devi raccontare una storia». Ma la mancanza di un finale in è in linea con il resto del film, perché è il processo artistico stesso a non terminare: bisogna andare avanti. E quando si finisce si è spinti a ricominciare, come Sisifo. E, proprio come accadde a Sisifo, presto spingere il masso su per la collina, ancora e ancora, diventa l’obiettivo di una vita.

Il film ebbe un enorme impatto sugli altri registi, fungendo da fonte di ispirazione per Il mondo di Alex di Paul Mazursky, in cui Fellini interpreta se stesso, Stardust Memories di Woody Allen e All That Jazz di Fosse, per non parlare del musical di Broadway Nine. Come ho già detto, ho perso il conto del numero di volte in cui ho visto e non sto nemmeno a dire in quanti modi mi abbia influenzato. Fellini ci ha mostrato cosa volesse dire essere un artista, soggetto all’impellente bisogno di creare arte. è la più pura espressione di amore per il cinema che io conosca.

Andare avanti dopo La dolce vita? Difficile. Andare avanti dopo ? Non riesco nemmeno a pensarci. Con Toby Dammit, un mediometraggio ispirato a un racconto di Edgar Allan Poe (nonché terza e ultima parte del film collettivo Tre passi nel delirio), Fellini portò il suo immaginario allucinatorio a un livello di raffinatezza estrema. La pellicola è una viscerale discesa negli inferi. In Fellini Satyricon, invece, creò qualcosa di mai visto prima: un affresco del mondo antico, un «saggio di fantascienza del passato», come lui stesso lo ha definito. Amarcord, film semi-autobiografico ambientato nella Rimini dell’era fascista, è oggi una delle sue opere più amate (per esempio, è tra i preferiti di Hou Hsiao-hsien), pur essendo molto meno coraggiosa delle pellicole precedenti. Eppure, è comunque un’opera ricca di punti di vista straordinari (personalmente sono rimasto affascinato dall’ammirazione che Italo Calvino provava per questo film in qualità di ritratto della vita nell’Italia di Mussolini, cosa a cui io non avevo pensato). Dopo Amarcord, ogni film contiene qualche frammento di genio, ma mai quanto Il Casanova di Fellini. Opera glaciale, più fredda dell’ultimo dei gironi infernali danteschi, è un’esperienza straordinaria, delineata con uno stile audace, ma davvero sinistra. Una pellicola che parve segnare una svolta nella carriera del regista. A dire il vero, la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni ottanta sembrano essere stati un periodo di trasformazione decisivo per molti cineasti in tutto il mondo, me incluso. La sensazione di cameratismo che avevamo provato, vera o immaginaria che fosse, parve dissolversi e ognuno di noi finì per isolarsi nel proprio universo, lottando per mettere insieme il film successivo.

Conoscevo Federico abbastanza da definirlo un amico. Ci incontrammo per la prima volta nel 1970, quando arrivai in Italia con una serie di cortometraggi che avevo selezionato per presentarli a un festival cinematografico. Contattai l’ufficio di Fellini e mi fu concessa una mezz’ora del suo tempo. Fu estremamente affabile e cordiale. Gli confessai che, in quello che era il mio primo viaggio a Roma, avevo tenuto lui e la cappella Sistina per ultimi. Rise. Il suo assistente commentò: «Vedi Federico, sei diventato un noioso monumento!». Lo assicurai che avrebbe potuto essere tutto tranne che noioso. Ricordo anche che gli chiesi dove avrei potuto mangiare una buona lasagna e mi consigliò un ottimo ristorante: conosceva sempre i locali migliori, ovunque andasse.

Diversi anni più tardi mi trasferii a Roma per un periodo e cominciammo a vederci abbastanza spesso. Ci capitava di incontrarci per caso e di pranzare insieme. Fellini era sempre e comunque un uomo di spettacolo, e lo spettacolo non si fermava mai. Guardarlo girare un film era un’esperienza eccezionale. Era come se dirigesse una dozzina di orchestre contemporaneamente. Portai i miei genitori sul set di La città delle donne, dove Fellini schizzava da una parte all’altra a blandire, supplicare, simulare parti, scolpire e sistemare ogni elemento della scena fin nei minimi dettagli, per trasformare la sua visione in realtà in un turbine di movimento inarrestabile. Mentre ci allontanavamo, mio padre disse: «Pensavo che avremmo fatto una foto con Fellini». E io risposi: «Ma l’avete fatta!». Era successo talmente in fretta che non se ne erano neanche accorti.

Negli ultimi anni della sua vita, cercai di aiutarlo a far distribuire La voce della luna negli Stati Uniti. Il film gli aveva causato qualche contrasto con i produttori: loro volevano una tipica stravaganza felliniana, mentre lui girò qualcosa di molto più cupo e meditativo. Nessun distributore osava metterci mano e rimasi davvero scioccato nello scoprire che nessuno, neanche tra i principali cinema indipendenti di New York, era interessato a inserirlo in cartellone. I vecchi film sì, ma non quello nuovo, che si rivelò anche l’ultimo. Qualche tempo dopo, lo aiutai a trovare dei finanziamenti per un documentario che aveva in mente, una serie di ritratti di tutti coloro che collaborano alla realizzazione di un film: gli attori, il direttore della fotografia, il produttore, l’addetto ai sopralluoghi (mi ricordo che, nel canovaccio di quell’episodio, il narratore spiegava che la cosa più importante in assoluto era organizzarsi in modo che i luoghi scelti fossero vicini a qualche buon ristorante). Purtroppo, morì prima di poter avviare il suo progetto. Ricordo l’ultima volta che gli parlai al telefono. Aveva una voce molto flebile, capivo che non gli rimaneva più molto da vivere. Fu triste vedere quell’incredibile energia vitale spegnersi a poco a poco.

Oggi tutto è cambiato: sia il cinema sia l’importanza che riveste nella nostra cultura. Ovviamente, è naturale che artisti del calibro di Godard, Bergman, Kubrick e Fellini, che un tempo regnavano su questa grande forma d’arte come dèi, con il passare del tempo cadano nel dimenticatoio. Tuttavia, non possiamo dare più niente per scontato. Non possiamo fare affidamento sull’industria cinematografica odierna perché si prenda cura del cinema. Nell’industria cinematografica, che oggi è diventata l’industria dell’intrattenimento visivo di massa, l’enfasi è sempre sulla parola «industria» e il valore è determinato dalla quantità di denaro che si riesce a ottenere da una data proprietà. In quel senso, ogni film da Aurora a La strada a 2001: Odissea nello spazio è ormai stato spremuto fino all’ultimo centesimo ed è pronto per finire nella categoria “Film d’autore” sulle piattaforme di streaming. Quelli di noi che conoscono il cinema e la sua storia devono condividere il loro amore e le loro conoscenze con quante più persone possibile. E dobbiamo far capire una volta per tutte agli attuali titolari dei diritti legali su queste pellicole che si tratta di ben più di semplici beni da sfruttare per poi metterli sottochiave. Al contrario, sono tra i più grandi patrimoni della nostra cultura e andrebbero trattati di conseguenza.

Suppongo che dovremmo anche affinare la nostra percezione di cosa è cinema e cosa no. Federico Fellini è un buon punto di partenza. Si possono dire molte cose sui suoi film, ma una cosa è certa: quelli sì che sono cinema. Il suo lavoro è stato fondamentale nel definire questa forma d’arte.

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ARTICOLO n. 10 / 2021

Vivere a Sud delle Stelle. Un Manifesto

Che cos’è il Sud

Sud è molto di più di una posizione geografica.

Sud è qualcosa che va oltre lo spazio e il tempo: una goccia d’acqua dell’oceano, un lotto di case popolari di una metropoli, il finito dell’infinito.

È una comprensione sottile delle tracce originarie di ogni cosa: a Sud della sua vita, del suo cammino, della sua luce evolutiva, nasce l’uomo.

La sua fede, la sua devozione, nascono a Sud delle stelle.

Energia di terra, di sangue e anima, un istinto che aspira al sincronismo tra il sentire e il pensare, la tradizione in una civiltà di cemento che ha coperto tutto.

Disperdere, ignorare tutto questo significherebbe per noi un vero e proprio impoverimento.

Potrebbe essere, questa, una riflessione o una considerazione di tipo antropologico ma certamente anche un sentimento vissuto fino in fondo con profonda coscienza.

C’è una tendenza che vive il Sud come se fosse una moda, distaccando l’arte dall’esistenza, riducendola ad una vera e propria farsa, una caricatura che nasce da un tipico atteggiamento borghese.

Come personaggi in cerca d’autore schiavi e oppressi dalle loro preoccupanti contraddizioni tanti vanno avanti con il loro monotono, puntuale partecipare ad ogni festa popolare, vestiti e confezionati per l’evento, ma lontani da quella sensibilità estetica più raffinata e naturale del popolo, che da secoli coltiva i suoi rituali e li consuma in una danza atavica, che salda il legame tra la vera tradizione e quella che nasce ogni giorno che passa.

«L’eredità di un Sud parla da sola». Ha scritto il poeta Ignazio Buttitta:

Un popolo
Mettetegli la catena
Spogliatelo
Tappategli la bocca
È ancora libero
Toglietegli il lavoro
Il passaporto
La tavola dove mangia
Il letto dove dorme
È ancora ricco
Un popolo
Diventa povero e servo
Quando gli rubano la lingua
Adottata dai padri
È perso per sempre…

Usa la parola popolo, il poeta Ignazio Buttitta.

Popolo, il raggruppamento più antico della terra è il punto di partenza della società umana e d’ogni tipo d’estetica. Tra il formalismo europeo apollineo e quello dionisiaco incentrato sull’emozione, l’estetica popolare vive nel presente, perché il passato e il futuro esistono unicamente nel presente come evoluzione dell’essere e della realtà stessa.

Il popolo, lavoratore naturalmente povero, continua a cantilenare i suoi canti proibiti e non proibiti, nelle situazioni e nelle forme più disparate, provando a creare nuovi codici espressivi nello stesso modo in cui si sono sviluppati i dialetti in passato.

Ritorna alla mente il vizio storico dei padroni di mettere in risalto la sua incapacità di parlare. Anche se poi gli stessi padroni restano impressionati nel prestare attenzione a quelle manifestazioni incomprensibili, ma piene di pathos, che solo il Sud vive.

I dialetti, le forme indigene, le somiglianze tra le musiche, le mescolanze, i cambiamenti, le trasformazioni, i fenomeni creano un’estetica ribelle presa a prestito nei secoli anche dalle forme d’arte più seriose come la musica classica, antica, la pittura e il teatro. È una conseguenza naturale che un linguaggio conosciuto da gran parte della gente venga poi utilizzato anche per la fede cristiana. Basta cambiare le parole: spesso la differenza è sottile tra le manifestazioni di protesta popolare e le devozioni dialettali, preghiere spontanee e confidenziali nelle quali il popolo sì allarga con il Signore, a volte fin troppo, tanto da trasformarle in vere e proprie rivendicazioni.

Lo spirito, il respiro che aspira alla vita suona il tamburo mentre il sole nasce dentro di noi; dentro e fuori, notte e giorno, va e viene a ritmo dell’universo.

Ecco l’importanza della musica sia dal punto di vista scientifico che storico-culturale: il trasporto, il possesso dell’anima che ricombina il singolo con il Tutto diventa una via d’accesso alla coscienza del cosmo così come cosmopolita è la tradizione popolare quando è aperta e raccoglie con curiosità le diverse espressioni che si manifestano da tutte le parti del mondo, senza alcuna discriminazione ma contribuendo a renderle storicamente rintracciabili.

La cultura popolare è innanzitutto una coscienza sensoriale, non è teoria ma il sentimento che diventa forma, cambiamento, contenuto.

Il
dialetto
va
approfondito,
evoluto …
e
utilizzato.

L’eco di voci lontane, tesori immensi e segreti immersi nel passato hanno contribuito al processo d’evoluzione della terra, aperta finalmente alle realtà di tutte le minoranze etniche rimaste nell’oscurità voluta dal mondo occidentale.

La memoria storica è coscienza volontaria di contrapporsi all’espropriazione e alla dominazione culturale…contaminati ma non colonizzati.

La contaminazione è unione, interscambio culturale, processo evolutivo. La prevaricazione è l’annullamento dell’altro, del diverso, è l’uomo che prevale sull’uomo.

La contaminazione è l’ibrido che prende vita come nuovo linguaggio.

La dominazione è il mondo che ripete in fotocopia i suoi errori. Negli ultimi decenni alle armi da guerra si è aggiunta la nuova tecnologia della comunicazione che con la sua industria dell’effimero raggiunge con apocalittici risultati l’Everest della negatività.

Il nuovo
giorno
nasce
nel giorno
che
muore.

La cultura popolare genera un’estetica che non è e non sarà mai d’assoggettamento.

Chi non conosce la propria storia deve inventarsene una, comprarsela o prenderla in prestito; se non c’è memoria non c’è identità, un vaso vuoto è riempito da altri. Il recupero della tradizione è il simbolo d’appartenenza alle proprie radici, un ritorno alla fonte, la meta come punto di partenza, la consapevolezza di una comprensione che va da cuore a cuore oltre i confini del già detto, già visto e già fatto.

L’antico che diventa nuovo, il nuovo che sa d’antico, il comune che diventa straordinario. Il pensiero nuovo si muove sempre dall’altra parte della strada, fuori di vista, come un viandante in pellegrinaggio sulla via del futuro.

L’estetica popolare non contempla mai una non evoluzione del linguaggio, è sempre il risultato di un’esperienza e di uno sviluppo comune anche se le sintesi avvengono spesso per opera di singoli individui. Il ritorno al passato? Il passato con gli occhi del futuro senza alcuna sottomissione psicologica e senza imbalsamazioni.

Gli stadi iniziali di un linguaggio e le forme nuove si muovono nel tempo senza riferimenti circoscritti, racchiudendo l’essenza dell’antichità che rivela l’umanità della vita mista ad una ricerca più profonda che nasce dalla paura della morte.

La perdita dell’espressione originale diventa una mancanza d’autonomia e di libertà, la rinuncia alla più gran ricchezza, le chiavi della porta dell’anima per poter volare anche nel disagio, nella sofferenza, nella mancanza e nell’aridità di una realtà incapace di intravedere un futuro.

Credere nei sogni e nelle probabilità a cui segue l’azione è l’unica vera risposta alla sudditanza e all’omologazione che appiattisce e livella gli uomini ad una bassa coscienza e alla nostalgia del ricordo.

Che consola ma non guarisce.

Che cos’è la tradizione

Oggi la tradizione è una vera e propria mappa dei movimenti popolari, tendenti all’universalità in una dimensione ampiamente umana; diventa una risposta stilizzata pur conservando le preoccupazioni sociali ed emotive del linguaggio primitivo. La società divisa si mette al passo con il resto del mondo.

Ogni età della tradizione nasce dal proprio ambiente sociale e psicologico; il tema base è il nucleo d’appartenenza e le vicende collaterali.

C’è sempre un confine culturale che il popolo non può valicare. Non può diventare padrone, e questa forse è la sua vera forza; può avvicinarsi alla cultura dominante ma deve servirsi d’altre risorse: popolane o esoteriche che siano. In questa terra di nessuno riesce a coltivare logica, bellezza e verità.

Quella che è stata definita tradizione popolare è, più d’ogni altra cosa, il risultato d’esperienze plurime sociali e culturali.

È doveroso fare una distinzione tra popolaresco e popolare. Il primo erroneamente definito con aggettivi come ‘semplice’, ‘schietto’, ‘genuino’, in contrapposizione netta alla complessa realtà urbana, spontaneamente dedito ad uno status di finzione che nega quello culturale. Il secondo sempre militante, senza filtri, un linguaggio che permette ad ogni uomo di rapportarsi e confrontarsi con il suo mondo interiore e quello esteriore; l’uomo, il mondo e viceversa.

La consapevolezza sociale della crescente importanza della tradizione e dello sviluppo della sua accettazione ci fa capire com’è impossibile metterla fuorilegge, visto che il popolo non potrebbe mai creare senza questa risposta metafisica al suo naturale desiderio di libertà. Possiamo a questo punto tranquillamente dire che l’incontro etnografico con i gioielli del passato è fondamentale perché ci offre la possibilità di nuovi sviluppi linguistici ed espressivi.

Un
povero
non
ha
che
da
studiare
tanto
se
vuole
credere
nei
sogni
e
nelle
probabilità.

La povertà crea la tradizione. Dire semplicemente questo è impossibile. Così come sembra impossibile che una dichiarazione del genere abbia senso. Questo effetto ha creato una vera e propria condizione intellettuale d’interesse per la tradizione anche come fenomeno sociale come qualsiasi altro tipo di fenomeno.

L’amore, il sesso, il sogno, la solitudine, sono cose, idee, una realtà che crea forme e contenuti anche dove il degrado neutralizza qualsiasi tipo d’emancipazione. Il decentramento della plebe nel tempo ha creato un enorme numero di poveri.

Il popolo, depositario di una conoscenza antica, la saggezza popolare, essendo da sempre proprietà di qualcuno e dovendo dare per dovere tutto ciò che può, che ha e che è, svolge da sempre una funzione integrante della tradizione tra le classi sociali.

La storia di milioni d’uomini provoca enormi cambiamenti anche in quelli che comandano.

Il potere si diverte sulla strada, Il principe e il povero; il popolo sogna il palazzo, Cenerentola.

I padroni attingendo dalla tradizione usanze antiche ed antiche passioni hanno cercato spesso di governare con una mentalità da popolo. Anni di costrizioni e repressioni, di riti liberatori e santi protettori, hanno lasciato un segno indelebile anche nei cuori dei potenti, se di cuore si può parlare.

I demagoghi assumono la leadership del popolo e contribuiscono al conflitto di classe tra i ricchi e i nuovi poveri che fanno da capro espiatorio confondendosi con i ricchi per l’istruzione acquisita e per le pari opportunità che il sistema falsamente fa intravedere con storielle da «saranno famosi». 

Naturalmente l’ondata di molti istruiti, ambiziosi ed entusiasti del consumismo, rispetto alla questione della tradizione si è lavata le mani.

I poveri che si sono arricchiti non amano ricordarsi e si rifugiano in cose futili per vivere e sentirsi sicuri di non perdere la loro tranquillità. La ricostruzione della tradizione così diventa caotica perché è interrotto quel ciclo metodologico basato sull’interrogazione dei testimoni. 

La classe media, nata dopo lo sviluppo economico, si è indirizzata invece su due corsie parallele: da una parte, non dà mai abbastanza importanza alla propria provenienza; dall’altra, ancora peggio, sperimenta l’abbandono di quelle tradizioni e usanze considerate volgari o troppo popolari. Folklore? Il filo è sottile. Non sono state però scelte ideologiche, ma una cosciente affiliazione alla società capitalistica. L’eroe per loro è un povero fortunato, una carrozza per gente comune nel viaggio dell’affermazione-accettazione di una realtà che imitano, annullando se stessi.

Da un punto di vista strettamente artistico i fatti mostrano chiaramente come i vinti si sono appropriati di molti elementi della classe egemone, in particolare di quelli legati al teatro, alla musica e alle rappresentazioni. Chiaramente in questo passaggio una particolare maestria elaborata si dissolve in uno stile essenziale ed imprevedibile. Da un punto di vista strettamente sociologico invece segna l’ingresso dei diseredati nel mondo dell’arte, dello spettacolo, con tutte le implicazioni che un fenomeno del genere comporta.

La Vox Populi è una necessità di gruppo, anche se si pensa che ciascuno abbia la propria voce.

L’arte è un fatto privato e personale circoscritto a piccole comunità, spesso è girovago e quindi di quando in quando ha un pubblico occasionale, cibo, vestiti e, a volte, anche denaro in regalo.

Da sempre si ritiene che tutti possano essere artisti ed è dato per scontato che l’educazione artistica non fa parte della tradizione popolare; il talento è considerato il risultato di un’inclinazione naturale. Data la predisposizione veramente personale non c’è nessun metodo per impararlo. La cosa più importante sono le motivazioni che devono nascere dalla vita.

Anche adesso quando l’arte popolare acquista un certo grado di professionismo diventa qualcosa di radicalmente diverso: non allevia più la fatica, le sofferenze ma dall’occasionale riflessivo personale diventa intrattenimento ufficiale. Nasce così l’artista professionista che, del suo ex modus vivendi, ne fa un modo per guadagnarsi da vivere; muovendosi dal folk, dalla tradizione, con una gestualità emotiva controllata, sfiora l’immaginario collettivo ed entra nella rappresentazione pubblica, nel gusto popolare che favorisce questa trasformazione graduale.

La tradizione artistica popolare è stata riletta oggi molto più di quanto sia successo in passato diffondendosi un certo stile che è ormai divenuto un modello che contribuisce a non standardizzare l’arte popolare.

Proprio come i primi comunicatori hanno diffuso un nuovo codice d’appartenenza oggi da qualsiasi punto della terra arrivano segnali iniziatori del nuovo linguaggio universale che abbracciano uomini d’ogni razza e colore.

L’intercultura è lo sbocco per le nuove realtà sociali, il pane fresco della nuova alba del nostro pianeta.  Soltanto salvando la lezione dei nostri predecessori la società di domani può creare valore aggiunto alla storia.

Questa era, se eredita dalla tradizione tutto quello che incredibilmente ha di bello e d’insegnamento, sarà un’era di carne e ossa ma lascerà il suo spirito che illumina il cammino dei nuovi giorni.

Avanguardia, tradizione ed evoluzione sono il fenomeno di due tendenze umane parallele, una conservatrice e una evolutiva, una primitiva magico-superstiziosa e una sperimentale fantastico-intuitiva.

Le nuove idee spesso nascono dalle forme conservate delle idee precedenti fuse con l’esperienza passata. La contaminazione della fase iniziale cede il posto ad una fenomenologia evolutiva del tutto originale. Un modulo di processo ideale che genera segni stilistici su un piano assolutamente extra storico; la cultura antica si fonde alla moderna.

Il concetto di comunità umana e la semplicità popolare stanno all’origine di tutte le metamorfosi della tradizione.

Bisogna fare attenzione invece alle cartoline folkloriche entrate ormai nei cliché mentali della gente che identifica i gruppi etnici nella cadenza del parlare, nelle eccitazioni sensuali e religiose, nella faziosità del gergo, nel dilagare di una filosofia furbesca o vittimistica. Il pericolo può essere di rientrare in una categoria definita semipopolare che non è né carne né pesce e che è molto lontana dalla novità che nasce dall’alchimia sociale e multirazziale.

La nobiltà vera, la nobiltà di cuore indubbiamente è un elemento distintivo di un popolo che trionfa per motivi, ispirazioni e aspirazioni. La passione, la volontà e la dedizione creano correnti di diverso interesse estetico, associativo e assistenziale, predestinate al miracolo di essere dalla parte di un progresso edificante e veramente applicato da una politica sociale equa e lungimirante, consanguinea della comprensione e della tolleranza.

La primitività moderna surroga un convenzionale spirito di devozione con un realismo d’impatto. Una dimensione psicologica in cui si è devoti, dritti, libidinosi, diabolici e complessi. Una rabbia-rifiuto di tutto il veleno che il vendicativo, il grossolano, consuetudinariamente porta.

Lo sviluppo e la diffusione della cultura, pur non rasentando la perfezione da un punto di vista metodologico, sono interessi specifici per la vita. Il problema è generale, ma nel disordine una ricostruzione dal basso è l’unica risposta.

La repressione e il complesso della miseria creano una cultura di rivalsa in rapporto stretto con la storia popolare e la rivendicazione dialettale; un allargamento quantitativo e qualitativo del campo sociologico.

La tradizione popolare è anche realtà visiva, nel senso che si può comprendere in modo totale solo se si è in grado di assistere al suo svolgimento. Essendo a volte anche espressione di realtà corporea è realizzata con tutto il corpo.

I cultori della tradizione sono perfettamente consci da tempo di quest’elemento visivo o per lo meno l’avvertono inconsciamente. Perciò esistono così tanti libri d’immagini e fotografie.

I responsabili dei programmi televisivi dovrebbero finalmente capire che nessuna realtà è più ottica di tutto ciò che la tradizione popolare offre, e che è necessario per poter convertire la vita in immagine.

Susan Sontag, saggista americana, osserva che si può prendere un oggetto e impossessarsene, dominarlo, semplicemente facendogli una foto, ancora più di quanto non si possa fare con le parole.

Potrebbe naturalmente anche essere un disegno ma la fotografia mostra chiaramente e con assoluta evidenza la bellezza e la temporaneità della vita di una simile realtà. La fotografia, e naturalmente il cinema, è tra le nuove arti il mezzo più potente per avvicinare le esperienze del passato a chi altrimenti non avrebbe la possibilità di venirne a contatto, creando una possibilità percettiva di suoni ed atmosfere vive oggi e domani. La conseguenza è la facoltà di poter giudicare ancora quell’esperienza.

La fotografia ci permette di superare il limite proveniente dalla mancanza di ciò che è rappresentato le cui qualità e caratteristiche valgono di per sé a riassumere e a fornire un immediato colpo d’occhio della situazione che si vuole rivivere.

La maggior parte dei cultori della tradizione vuole solamente la musica. Tutto il resto gli è indifferente. Questo si capisce benissimo ma bisogna sapere anche ciò che implica: chiudere gli occhi davanti alla realtà.

La musica è impensabile senza un ambiente circostante, senza la società nella quale vivono i musicisti, senza il tempo in cui si trasformano i suoi stili, senza i paesi, i luoghi in cui sono cresciuti molti di loro; uomini che vivono coscientemente il loro secolo e che vogliono apprendere qualcosa dei tempi che vivono e qualcosa dai tempi che furono. Naturalmente si sa che con la musica si può apprendere un intero mondo di sensazioni e realtà molto intensamente e spontaneamente più che con altre metodologie.

I testi popolari vogliono contenere solo lo stretto necessario, in quanto l’accento è posto innanzitutto sul lato vero e devono anche per motivi di memoria essere più brevi possibili.

Ciò nondimeno riporteranno tutto quello che è ignoto all’utilizzatore, ossia tutto ciò che non appare nelle altre pubblicazioni. Da un lato non si può rinunciare all’impalcatura di ciò che è già noto, infatti il testo deve orientare un’opera perché s’inserisca nell’adeguato contesto storico-artistico, dall’altro gli autori essendo avvezzi all’arte di scrivere vorrebbero dare molto di più.

La cultura popolare è un collage di citazioni, aneddoti, dichiarazioni originali, atlanti di feste e interviste provenienti da fonti importanti che riportano il pensiero e l’anima irrinunciabile per la continuità della scienza della tradizione.

Il carattere del collage spesso evita le valutazioni eccessivamente personali rappresentando semplicemente le cose come stanno e consentendo così l’accesso ad un mondo vario e multiforme.

La rivisitazione, la rielaborazione o l’invenzione nella composizione degli eventi e dei fenomeni, richiedono una cernita e una predisposizione naturale, che rimane l’opera di un singolo che è conscio della soggettività delle sue idee e d’ altre possibili esposizioni, interpretazioni e opinioni.

World Culture: tradizione e religione del mondo

Si è spesso cercato di definire e di descrivere la cultura del mondo nei modi più disparati: formale, storico, sociologico, sentimentale, innovativo, ma nessuno è mai apparso appagante, del resto ogni definizione statica non da un ritratto rilevante e significativo della cosa ma ne sfiora semplicemente la superficie.

È un fenomeno legato eminentemente alla realtà urbana e al nuovo tempo. Il ricco patrimonio popolare, definito arcaico, è quasi una preistoria della World Culture. Una vera e propria anticipazione i cui successivi sviluppi si sono protratti fino ad oggi, miscelandosi talvolta con alcune delle sue forme più indicative; ora puro folklore, ora semplice parente prossima di una nuova conoscenza. Difficilmente prima d’ora una realtà si è rivelata così feconda sul piano culturale.

Le radici della contaminazione si possono ricercare in qualsiasi paese dove più culture crescono insieme. Nessuna radice è più importante dell’altra o è di minore spessore.

La religione rappresenta qualcosa di sensibilmente importante per il popolo del mondo: essa non è solamente creduta ma anche sentita, in una tale dimensione da penetrare in tutte le forme e sfaccettature della vita.

La vita è per il popolo religione vissuta.

La religione è la coscienza interiore di un rapporto autentico, dinamico: l’individuo, la natura, l’universo. Per questo motivo alcuni eventi dell’arte non sono possibili senza il sentimento della religione.

Deve essere chiaro dall’inizio che il dialogo dell’uomo con Dio o con gli dèi è un mezzo di comunicazione con la natura e con il creato. Una forma che di conseguenza è l’espressione originaria che si rafforza e si materializza in un dialogo tra il singolo e la comunità, tra gli uomini della medicina e gli abitanti del villaggio. I mondi rituali africani, dell’Islam, del Buddismo, dell’Induismo, del Cristianesimo, si svolgono in forma dialogica: invocazione e replica, domanda e risposta.

Il singolo invoca e domanda; la comunità risponde.

I rituali sono perciò d’estrema importanza, non solo perché appartengono a un patrimonio tradizionale ma anche perché essi sono un vero e proprio carattere distintivo, al punto che hanno accompagnato l’evoluzione della tradizione fino ai nostri giorni, sviluppandosi contemporaneamente loro stessi. In questo modo hanno alimentato la contaminazione al punto tale che oggi sono una componente fondamentale nella stilizzazione. Una rete di rapporti fitta tra stili diversi, nuovi e antichi, una ragnatela di scambi e incroci.

È difficile rinvenire nelle storie etnologiche un’evoluzione sempre coerente, limpida e organica. Di contraddizione in contraddizione si può arrivare però ad una sintesi valida per la cultura popolare contemporanea, schieratasi per scelta con le minoranze etniche.

La World culture ama e narra la libertà, la libertà di tutti i popoli: morire e lasciare qualcosa che resti significa tornare di giorno in giorno nel cuore di chi resta.

Il mito, la verità, il richiamo della vita con il suo dolore, la speranza, le terre promesse.

La colpa verso un popolo e verso la storia è estraniarsi in un sogno personale a discapito di una profonda coscienza dell’evoluzione delle masse.

La tradizione popolare continua la sua opera, sia pure con tutte le contraddizioni, le incertezze dell’epoca in cui vivono e le diverse influenze che arrivano da tutte le parti. Dare al mondo ciò che si aspetta è il proclama ufficiale di questo secolo, che però non appartiene a coloro che da sempre vivono agognando il mutamento ed il rinnovamento.

La conoscenza ha milioni di radici ma la radice più forte che dalla sua terra ha dato più frutti è quella della vita. La riscoperta di questa gran verità è stata forse uno degli avvenimenti più interessanti di questi ultimi anni.

Le nuove intuizioni, le grandi idee, non si possono rinchiudere entro i limiti di una frontiera qualsiasi.

Le scoperte individuali devono porre con urgenza il problema di inserire la voce del singolo in un coro che non dà fastidio e non circoscrive la portata degli effetti di un messaggio in un’interpretazione limitatrice. Da quest’esigenza riduttrice hanno avuto origine i tentativi di incapsulare e ritardare la crescente diffusione e influenza della tradizione popolare che grazie ad organizzazioni a volte clandestine, militanti e migranti proveniente dalle correnti progressiste riesce a difende la propria identità in un clima d’agitazione e indignazione.

Le associazioni culturali che oggi ne sono tante e meno slegate di ieri agiscono spesso in sintonia e in collaborazione sui territori recuperando e approfondendo il proprio vissuto. Una ricerca colta fatta di nuove eccitazioni, stimoli e nuovi mezzi tecnici; influenze surrealiste, idee personificate, una foresta di simboli e tendenze decorative.

Il tentativo di utilizzare tutti i mezzi, innanzitutto la scuola per elevare la tradizione popolare ad un’altezza mai conosciuta prima.

La società moderna vive nel caos, nell’alienazione e nell’estraniamento del mondo ormai in crisi totale. I simboli ed i nuovi miti non riescono a frenare quest’eutanasia percepita con animo spaventato ed estraneo.

Una realtà che può essere compresa e dominata solo dalla ragione e dalla volontà che crea un sentimento nuovo della vita, un modo speciale, unitario, di aprire la porta della prigione in cui tutti gli uomini di poca fede quotidiana mente sono costretti a vivere. Una nuova dimensione che nasce dalla consonanza delle dissonanze, dall’armonia sulle disarmonie della società di domani.

La tradizione popolare non può abbracciare tutto quello che non cambia. Questa brutale sincerità svela il senso profondo delle cose della vita.

Una continuità indiscutibile lega gli esordi di ieri ai recentissimi risultati d’oggi che confluiranno nelle conquiste future. Da sempre si ruota intorno ad un manipolo di realtà-chiave: amore, guerra, pace, tempo, gioia, paura, dolore. La civiltà popolare le delimitata all’inizio in un perimetro di linguaggio, nel tempo si è arricchita d’infinite loro variazioni, facendo prevalere a volte l’accanimento civile, la sensualità più sfrenata, altre l’incantesimo mistico, il sarcasmo dell’abbattimento cronico, l’ironia superstite della rassegnazione.

Si avanza per passi, per contrapposizioni, per accumulazioni sulle quali domina la forza della tradizione con il coraggio della sperimentazione. La trasformazione della creta in oro; il tempo, il mondo, tutto il tempo del mondo. La rivolta individuale, l’uomo perennemente in rivolta anche quando le rivoluzioni s’imborghesiscono.

La trasmissione della comprensione è e sarà sempre impegnata in un continuo confronto/scontro che ha come ricompensa quelle verità ultime irraggiungibili o inesistenti circa l’esistenza.

L’uomo cerca un porto sicuro dove non gli sfugge tutto, dove tutto non diventa incontenibile, irremovibile, dove non perde il senso dell’esistere. Ciò nonostante, la battaglia continua, l’umanità è condannata ad alleviare con invenzioni sempre più sorprendenti l’eterno gioco della vita.

L’unico obiettivo è condurre nel migliore dei modi questa continua ricerca, apparentemente senza sbocco.

I Sud del mondo

Il rapporto con il corpus della tradizione popolare e con l’insieme dei saperi etnologici cresciuti attorno ad essa, è una questione ampiamente sentita dai ricercatori della configurazione culturale mondiale contemporanea. La loro profonda erudizione in materia, quanto l’originalità e la varietà dei loro punti di vista ha dato ampie risposte e chiarificazioni sul tema.

Le tradizioni popolari mondiali sono onerose sulle spalle della World Culture. Una montagna di materiale a proposito della tradizione. Nel confrontarsi con essa non bisogna essere precari altrimenti si sprofonda nel buio. Il tema del rapporto tra pensiero della cultura del mondo e saperi delle tradizioni è trattato da un’angolazione particolare: l’educazione.

A differenza del sapere antico, costituito interamente di quesiti sul cosmo, la World Culture non usa direttamente la forma interrogativa ma scioglie una serie di nodi riguardanti il rapporto tra conoscere e ricreare.

L’apprendimento delle lingue, dei dialetti, le opere dei maestri, le invenzioni popolari sono alla base di un’educazione che alimenta il vento leggero del progresso.

Sul tema educativo la scelta è radicale: la memorizzazione della conoscenza antica non basta certo a coglierne l’essenza; l’esercizio non deve essere ridotto a pratica disciplinare ma comparato ad un’attività di chiarore creativo e di rarità espressiva.

La funzione del maestro non deve essere ambigua, né devono più esserci confini nazionali ad un’educazione multipla. Così come essa scivola fuori dalle frontiere nazionali, allo stesso modo le verità scivolano fuori dai saperi.

È proprio sul terreno dell’educazione che, agli occhi di un cittadino del mondo d’oggi, lo statuto intellettuale del conoscere risulta colpito da una crisi radicale.

Guai se la tradizione popolare dovesse contare solo sull’educazione. Le resterebbero oggi ben poche speranze: perdita della memoria, rinuncia e cessazione del desiderio di ricerca.

La cultura non può fare a meno dei saperi della tradizione, problema come si è detto cruciale per l’intera configurazione della comunicazione contemporanea.

La soluzione è una riappropriazione diretta della trasmissione orale saltando qualsiasi mediazione educativa. Tale soluzione è praticata da tutti i cultori del popolare, che pur essendo profondi conoscitori della tradizione, sono tutti degli autodidatti o in ogni modo hanno svolto la loro formazione al di fuori delle istituzioni educative.

L’esigenza è quella di reinventare lo spazio di un sapere a partire dall’odierna ristrettezza. In quest’indigenza, nella condizione di degrado dello spazio culturale d’oggi, può esserci nuovamente conoscenza, anche se circondata da un’immensa palude.

La luce rarefatta, il chiarore naturale della cultura del mondo è capace ancora di illuminare da angoli diversi l’intero pianeta. La precarietà congenita di un’esistenza dall’ossatura fragile come un sogno trova in quest’orizzonte di riferimenti lontani, in quest’impalcatura non ancora smantellata, l’energia necessaria ed inevitabile per cancellare le tracce della sterminata palude che riappaiono come macchie sul foglio della vita.

La posta in gioco è alta: ripulire la storia da quel fango o trasformarlo in materia prima della storia stessa.

Dalla questione affrontata fin qui una parte del mondo ha istituito una forma di distanza. Da questo distanziarsi intrinseco prende forma un nuovo dubbio che saremmo abituati a considerare prettamente filosofico: la relazione tra l’essere e l’apparire. Quale dei due è l’elemento portante della nuova cultura?

L’apparire non può mai essere vero visto che vive nel vuoto intermedio condiviso dall’essere e dal significare. Infatti, in questo spazio immaginario ha origine il vero apparire. L’uomo di domani vorrà essere, sapere ed apparire profondamente vero.

L’insieme delle culture popolari del mondo alla ricerca d’ un codice comune aspirano innanzitutto a cogliere l’essenza dei messaggi singolari personali e oggettivi. I sentimenti terreni, i pensieri celesti; la verità corregge la vita, la vita corregge l’uomo. Molte lingue volano in questo mondo, che sia sempre amore. Questo è il contenuto della World Culture che non si ferma alla fonte degli eventi ma si muove nella corrente del divenire.

Il cuore del popolo sotto milioni di mattoni. I libri nell’acqua per lavare, eliminare, tenere dentro quello che serve e sbarazzarsi dei feticci.

Qualcuno dice che se non si soffre non s’inventa niente, forse è vero perché quando si sta troppo bene le idee sono come arcobaleni, spariscono troppo in fretta. Ecco perché la tradizione popolare che è nata nel disagio e spesso nella disperazione oggi è ancora viva.

Di fronte al progressivo degrado della situazione culturale, il pericoloso deterioramento delle città e il rischioso decadimento delle periferie non si può non restare sorpresi dall’impegno civile e morale della World Culture che con alcuni giornali e radio specializzate riesce a creare e preparare grandi eventi che hanno una diffusione sorprendente anche via internet. Questa posizione ispira in maniera diretta e immediata una cultura di taglio politico immersa nell’attualità. Una scelta che aiuta ad illuminare il nesso profondo tra il cittadino e il mondo, tra l’uomo e la vita.

Dalla riscoperta del passato viene fuori un’idea di ricomporre, passo dopo passo, una sorta di realtà-verità, discipline-attività, episodiche e autonome ma al tempo stesso indissolubilmente connesse. Un movimento caratterizzato da un’energia nuova, da una viva tensione morale e dalla nitidezza di un linguaggio dai contorni netti e forti che dà vita ad una comunicazione felicemente immediata. Il segnale più autentico e più profondo delle culture indigene itineranti. Gli splendori e le tragedie dell’esistenza dei popoli nella voce che riecheggiano sulla terra.

Nel chiuso dei lager costruiti ai margini della civiltà urbana l’unico messaggio è vivere.

L’anima, inglobata ed estraniata, offesa e ghettizzata, riesce a ritrovare ancora l’orgoglio e la dignità che riscatta e l’appaga. La società capitalistica non potrà disintegrare l’universo mitico dell’uomo del popolo che emerge nel silenzio dello squallore. Le culture delle comunità minoritarie, sempre in bilico tra assimilazione e indifferenza ritrovano la condizione per non scomparire.

Investire sulle risorse umane e intellettuali, sulle loro possibilità di sviluppo, significa coinvolgere l’area geografica, puntare sulla fantasia, sull’ingegno.

La consapevolezza delle proprie radici, delle proprie capacità espresse ed inespresse riesce sicuramente ad articolare progetti e percorsi sostanzialmente di valore culturale.

Un profondo rinnovamento democratico e progettuale all’interno della comunità nazionale ed internazionale sta sviluppando un organico e dinamico effetto di crescita destinato a generare sempre più risorse e strumenti appropriati per sostenere una creatività ed una vitalità collettiva.

Nell’era discussa della globalizzazione la cultura tende a tradurre in linguaggio immediato e universale le aspirazioni di tanti che non sono disposti ad accettare il globale, facendo propria una dimensione imparziale e rispettosa delle diversità.

L’intelligenza riesce con fatica a sopravvivere nonostante la grande fabbrica dell’alienazione. Alcuni cultori della tradizione popolare sono diventati promotori delle diverse espressività della terra.

Tutto
il
mondo
è
paese
e
il
grande
villaggio
globale
è
stato
dichiarato
tale
dalle
diverse
culture
del
mondo.

ARTICOLO n. 9 / 2021

La mia patria è la poesia

INTERVISTA DI TOMMASO DI DIO

Tommaso Di Dio. La prima domanda che desidero farle, Adam, è sul rapporto tra la parola e lo spazio. Lei è un uomo abituato a viaggiare: fin da bambino ha sempre vissuto tra culture diverse, tra lingue diverse. Sente che la sua vocazione alla poesia abbia a che fare con questa dimensione nomade? Con l’idea di una parola sradicata, senza confini, disposta a migrare, a muoversi da paese in paese, di voce in voce?

Adam Zagajewski. Direi sì e no. Penso che essere nato in Ucraina, cresciuto in Polonia, aver abitato in tanti altrove, siano elementi molto importanti della mia scrittura. Ciò nonostante, sono sempre rimasto fedele a una sola lingua, la lingua polacca: ho vissuto e appreso molte altre lingue, ma solo la mia mi rassicura. Ho abitato a Berlino, conosco bene il tedesco, leggo i poeti tedeschi, ho abitato in Francia, negli Stati Uniti, ho provato a entrare dentro queste lingue, ma non tanto da sentire che la mia fosse minacciata, mai tanto da metterla in discussione.

T.D.D. L e sue parole mi riportano a quel passo del Libro dell’Inquietudine in cui Fernando Pessoa appunta: «La mia patria è la lingua portoghese». E anche in Czesław Miłosz sembra trasparire lo stesso sentimento quando negli anni Sessanta, risiedendo da tempo in America, scrive: «Mia lingua fedele, ti ho servito […] / Sei stata la mia patria perché un’altra è mancata». Anche per lei la lingua può essere considerata una patria?

A. Z. Sono molto legato alla mia lingua, ma non sento il bisogno di dirlo in una poesia. Ammiro Mia lingua fedele di Miłosz, e ricordo anche il passo di Pessoa, ma per me è come se fosse scontato. Esiste un’esperienza condivisa che va oltre la lingua. C’è la musica, c’è la pittura, c’è la poesia. Per me la poesia è un atto comunicativo, una sorta di comunione. Provo a spiegarmi, quando leggo le poesie di Osip Mandel’štam, uno dei miei poeti preferiti, sento una comunione con lui: ammiro la sua poesia, provo compassione per la sua vita. Ecco, nella poesia c’è un’intesa tra le persone, che va oltre la lingua. E anche se la lingua è fondamentale, nella poesia è come se per un attimo potessimo dimenticarcene.

T.D.D. In questo senso, la poesia diventa un vero e proprio linguaggio universale.

A.Z. Esatto, pensi soltanto a come è iniziata la letteratura moderna in Europa: c’è stato un momento in cui tutti leggevano la poesia latina. All’origine della nostra cultura condivisa c’è un linguaggio universale ed è la poesia di Ovidio e di Virgilio: una comunione, come dicevamo prima, che poi si è scissa in diversi frammenti, certo, ma una traccia evidente è rimasta.

T.D.D. Questi frammenti sono finiti inevitabilmente per creare dei confini. Ha mai sperimentato con dolore l’esperienza dei confini: tra una lingua e l’altra, tra uno stato e l’altro?

A.Z. No, al contrario, ho sempre avvertito un senso di unità, di unità dell’Europa: vivendo in Germania, in Francia, ma anche negli Stati Uniti che per me sono parte dell’Europa, e leggendo i poeti tedeschi, francesi, italiani, ho preso coscienza di questa unità. Ovvio, le lingue dividono, ma c’è un’immaginazione comune che le lega, un’immaginazione segnata più dai punti di contatto che dalle fratture.

T.D.D. Prima parlavamo di Czesław Miłosz. Qual è il suo legame con i maggiori esponenti della poesia polacca? Hanno lasciato in lei un’eredità linguistica che riconosce? Hanno avuto quella «voce che trema» che lei indica essere la voce dei veri maestri?

A.Z. Sì, assolutamente. Il paradosso di questi giganteschi autori polacchi come Miłosz, Herbert, Różewicz, Szymborska, è che le lingue che usano non sono molto distanti tra loro. Questo non significa che siano esattamente identiche – Miłosz è legato alla tradizione, Różewicz è molto prosastico: delle differenze ci sono -, ma non si tratta di universi differenti. È come se fosse un unico universo poetico, e in un certo senso mi sembra di esserci dentro anch’io, in questo universo. Ho imparato molto da loro. E sono sicuro che i miei lettori lo sanno molto meglio di me…

T.D.D. Pensando a questo universo comune, mi piacerebbe far notare questa curiosa corrispondenza: nel 1968 lei aveva 23 anni, Miłosz viveva in America, Jerzy Grotowski pubblicava il manifesto per il suo Teatro Povero, l’anno dopo sarebbe morto Witold Gombrowicz. Mi chiedo come guardasse, in quegli anni, queste espressioni artistiche così complesse. Sentiva già che facevano parte di un kosmos unitario?

A.Z. Un paio di anni fa fui invitato dalla Trinity University Press a fare un’antologia di riflessioni di vari autori polacchi sulla letteratura, all’interno della serie Writers on writing. E raccogliendo questi saggi e pensieri di carattere metaletterario, mi accorgevo di come tutti dialogassero tra loro: mi viene in mente adesso il celebre dialogo tra Gombrowicz e Bruno Schulz, ad esempio. La letteratura era uno spazio di conversazione comune, ma credo che anche gli uomini di teatro seguissero questo dialogo, così come gli uomini del cinema. So che il compositore Witold Lutosławski leggeva molta poesia. Potremmo dire che c’era un’agorà per tutti gli artisti di teatro, cinema, musica.

T.D.D. Spostandoci oltreoceano, vorrei farle una domanda sul suo rapporto con la cultura americana. Ricordo alcuni versi della sua raccolta Dalla vita degli oggetti: «Solo nella bellezza altrui/ vi è consolazione, nella musica/altrui, e nei versi stranieri./ Solo negli altri vi è salvezza…». Lei insegna in America: cosa significa parlare di poesia con un popolo, con «altri» che non condividono la sua storia?

A.Z. Io non sono un americanista. Ho la sensazione di non capire completamente la cultura americana, posseggo solo la mia esperienza personale. Per quanto riguarda la sua domanda, invece: non ce ne ricordiamo, ma soprattutto sulla costa orientale, a New York o a Boston, il pubblico poetico è composto di molti emigranti europei, e loro capiscono perfettamente quella storia. Anche le comunità ebraiche hanno una memoria diversa da quella degli americani. Paradossalmente, credo che sia un ottimo pubblico, e non solo per me, ma per la poesia polacca in generale, perché capisce perfettamente queste nostre poesie, ne capisce l’esperienza. Ed è un paradosso curioso che i poeti polacchi tradotti in inglese abbiano una ricezione molto più forte negli Stati Uniti che in Inghilterra. Sembrava che l’Inghilterra fosse più europea, eppure è negli Stati Uniti che hanno maggiore eco.

T.D.D. Bisogna anche ricordare che l’America è indissolubilmente legata alla sua poesia. Infatti, il suo testo Prova a cantare il mondo mutilato è diventato famosissimo nella versione inglese di Clare Cavanagh (Try to Praise the Mutilated World) perché considerato simbolo del dolore e della tragedia dell’11 settembre. Cosa ha significato per lei vedere i suoi versi assorti a specchio dell’esperienza di così tante persone?

A.Z. Inizialmente sono rimasto stupito. È stato un puro caso che questa poesia sia stata presa e resa una sorta di manifesto. Per me era legata alla mia infanzia, al paesaggio del secondo dopoguerra. Poi all’improvviso gli è stata data una dimensione universale. Qualunque poeta, in una situazione del genere, sarebbe felice di vedere che questo è possibile. Che il linguaggio della poesia può davvero oltrepassare i confini.

T.D.D. In questa nostra conversazione abbiamo ripercorso i suoi viaggi tra nazioni di terra e di carta. In questo nostro peregrinare non possiamo trascurare il peso che l’Italia ha nella sua opera. Dalla poesia alla pittura alla musica. Che ruolo ha avuto l’arte italiana nella sua formazione, quali poeti italiani l’hanno segnata?

A.Z. Quando ero piccolo e cominciavo ad aprire gli occhi sul mondo, la cultura italiana era qualcosa di straordinariamente importante. Penso alla cultura classica italiana, prima di tutto alla pittura, all’architettura, ma anche alla poesia di Dante, di Leopardi. E non era importante soltanto per me. In generale, durante il comunismo, il vostro Paese era una specie di sogno, perché allora non si poteva viaggiare molto: l’Italia, la Francia, erano dei paradisi in cui desideravamo andare. Tra i poeti italiani del XX secolo, il più importante per me è Montale, la cui opera richiama il modernismo europeo; è come se si staccasse dalla nazione della sua lingua di provenienza: Montale è uno dei più grandi modernisti europei, ed è più vicino forse a Gottfried Benn che ad altri poeti italiani. Gli devo molto. Da solo non riesco a riassumere in cosa consista esattamente questo tipo di influenza su di me… Posso dirle che seguo con molta attenzione quello che succede in Italia.

T.D.D. Mi restano le ultime domande da porle, ho necessità però di fare una breve premessa. Nella sua poesia sembra che tutto il dramma profondo e doloroso delle questioni esistenziali trovi un paesaggio musicale, una quiete musicale. Ebbene, in questi giorni stavo rileggendo i suoi libri, e mi sono imbattuto in una poesia dedicata a Friederich Nietzsche, filosofo che lei apprezza molto, e che mi ha fatto venire in mente una piccola provocazione: il filosofo dell’Anticristo sostiene che la Natura ha creato l’uomo come animale capace di fare promesse; lei, al contrario, nella sua prosa Tradimento scrive che tutti quelli che hanno anima mortale sono dei traditori. Ne nasce un principio di contraddizione, tra lei e Nietzsche, un paradosso, tra il credere e il no, tra il fare promesse e il disattenderle. Mi sembra che in tutto il suo lavoro ci sia il tentativo di bilanciare queste due forze opposte: da una parte la fede e dall’altra la libertà, il cambiamento di ogni cosa e l’eternità dell’essere. Nella sua poesia c’è sempre questo contrasto. Adesso arrivo alla mia domanda: mi chiedo se la musica, nei suoi versi, sia lo strumento che usa per ricomporre questo contrasto, questa massima sfida.

A.Z. È una domanda molto complessa. Sento una tensione salutare tra filosofia e musica. La filosofia suscita sempre nuove domande e rende la nostra vita difficile, quasi improbabile. La musica, invece, arriva direttamente. Nella musica non c’è esitazione. C’è melodia, melodia che crea l’essere, un essere vivente, una creatura. Quindi ho bisogno di entrambe le cose: l’incertezza che viene dalla filosofia mi dà una strana ispirazione; e poi quando sono stanco, vado dalla musica che mi propone qualcosa di positivo, una melodia che dona significato.

T.D.D. Vorrei salutarla recuperando la parte finale del suo saggio L’ordinario e il sublime, in cui cita una poesia di Zbigniew Herbert che si chiude con questo verso: «Sii fedele e va’». La poesia di Adam Zagajewski a che cosa chiede di essere fedele?

A.Z. Per me la poesia è essere fedeli all’esperienza interiore. E a tutte le sue complicazioni. La poesia deve sempre essere vicinissima all’esperienza interiore. Non deve tradirla. L’unica fede che esercito è questa. Per me non mentire significa non andare oltre questo. 

Questa conversione con Adam Zagajewski (1945 – 2021) è stata registrata a Bologna il 6 giugno 2019. A Linda Del Sarto, Riccardo Frolloni e Giuseppe Nibali Guzzetta vanno i nostri ringraziamenti.

ARTICOLO n. 8 / 2021

Esercizi di solitudine. Tornare a scoprire noi stessi

Isolato dal mondo, più che mai a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, cerco di scrivere nuove canzoni e rileggo la prima stesura di un libro a cui sto lavorando. Fuori dalla finestra la primavera comincia a dare segnali di sé, annunciata da un maestrale sferzante che fa sbattere le persiane del condominio. I contagi sono in aumento, così come i ricoveri nelle terapie intensive e i morti. Sono avvezzo ormai da un anno a rimanere arroccato nel mio studio, questi quaranta metri quadrati in cui sono ammassati libri, strumenti musicali, oggetti utili o inutili, feticci accumulati nel tempo. Mi sono abituato da un anno a vivere passando più tempo dentro le mura di casa che altrove, avendo dovuto oltretutto rinunciare alla parte sociale e itinerante del mio mestiere di musicista rock, mestiere che è fatto anche di viaggi e cambi di scenario frequenti. In opposizione a questo stile di vita a cui la professione mi costringeva, mi viene da pensare che forse la mia indole è sempre stata quella di adorare più la stasi del movimento, di provare piacere soprattutto nei momenti in cui potevo fermarmi e concedermi il lusso di rinchiudermi nel mio home studio. Non a caso l’isolamento nella turris eburnea è sempre stato creativo. I miei occhi, attraverso le finestre della mia stanza di lavoro, non hanno certo accesso a panorami da cartolina: vedo da qui muri grigi di altri palazzi, e altre finestre affacciate su un cortile. Non ho distrazioni: riesco così a concentrarmi sulla scrittura, musicale o meno, a essere produttivo. Durante il primo lockdown, con la prima brusca interruzione della vita sociale, per la prima volta il soggiorno nello studio ha assunto carattere coercitivo e qualcosa, come per incanto, è cambiato: mi trovavo in fin dei conti a stare nel mio posto preferito, ma il fatto stesso che ci dovessi stare come Napoleone a Sant’Elena ha avuto come risultato un totale blocco creativo. Non sono riuscito a scrivere niente: né una canzone, né una poesia, un raccontino scemo o un aforisma. Non avevo voglia neanche di suonare. Trovavo ripugnante l’idea di organizzare degli streaming casalinghi, cosa che tanti miei colleghi hanno fatto. Io non ci sono riuscito: chiuso dentro queste mura mi sono chiuso anche dentro la mia testa, in silenzio.

Il virus, la pandemia, si diceva. Si dà la colpa al virus. La «vita prima del virus», «come saremo dopo tutto questo», ci si interroga su come sarà il mondo che verrà. Il problema non è il virus, è proprio il mondo. Non era forse mio piacere massimo, prima che esplodesse tutto questo, creare nella mia testa un teatro di apocalisse da cui prendere riparo, e sfruttare questo rifugio di fiction come motore per il mio lavoro creativo? Non ho forse sempre dovuto inventarmi una mia privata pandemia, una peste, una guerra termonucleare globale da cui ripararmi a fini di scrittura? Non ho forse mai fatto altro che inscenare miei Decameron mentali? Non sono mai riuscito a scrivere del mondo standoci dentro, questa è la verità. Ho sempre dovuto distaccarmene, per poterne scrivere.

Bisogna avere il coraggio di ammettere che il mondo è orribile, indipendentemente dalle pandemie, dalle catastrofi naturali, e persino dalle sciagure create per mano dell’uomo. Credo che ci sia un’energia, una forza irrazionale e distruttrice che guida la vita nel mondo; la pulsione vitale in sé è così incatenata alla logica della sopravvivenza da implicare, più o meno in absentia, la morte e l’autodistruzione. Il mondo, la vita nel mondo, l’uomo, gli animali, i vegetali, tutto è animato dal volere, dice il protagonista di Memorie dal Sottosuolo; ciò che guida il mondo è il volere, che è un voler vivere e sopravvivere ma anche, per l’appunto, un volere a tutti i costi, anche a costo di sospendere la razionalità e autodistruggersi. Non si spiegherebbero la seconda guerra dello Schleswig, quella di Secessione americana e altri irrazionali distruttivi accadimenti, dice in quel racconto Dostoevskij, se non col trionfo della volontà individuale sopra ogni altra cosa. Ecco perché il voler vivere della vita è anche un voler morire.

Se assumiamo che il mondo fa schifo, cerchiamo di farci almeno tornare utile questo concetto. Ad esempio l’insensato e orribile funzionamento del mondo, gettando nell’angoscia esistenziale tante vite umane, ha creato da sempre, nella Storia, visioni e produzione di linguaggi non convenzionali.

Credo che si possa affermare senza problemi una correlazione fra presa di coscienza della repulsione verso il mondo e instaurazione di codici espressivi originali. Non è una novità che questa presa di coscienza può certo generare isolamento, depressione, volontà di uscire di scena volontariamente praticando il suicidio, ma anche febbrile produzione artistica. Ciò che chiamiamo «arte», semioticamente parlando invenzione di codici (o, come succede già da un po’ sul Pianeta Terra, semplice rimescolamento dei preesistenti), ha sempre a che vedere con una individuale illuminazione del mondo, e molto spesso questa illuminazione scaturisce da una presa di distanza fra il rappresentante e il rappresentato.

La pittura è stata per secoli realistica e figurativa, ma è sempre stata altresì segno di una volontà individuale di rappresentazione. È difficile tenere nascosto l’autore in ogni tipo di quadro, anche in quelli di maggior realismo. Anche i dipinti che ci sembrano «solari» e ci danno un bel senso di pace per come rappresentano un volto di dama o un paesaggio di campagna non sono altro che la volontà di qualcuno di rapportarsi al mondo. Qualcuno ha scelto, invece, di vivere quel prato verde o quella donna, di mettersi alla debita distanza e ritrarlo. C’è sempre un allontanamento, anche nelle migliori intenzioni.

Si allontanavano i religiosi, praticando l’ascetismo, secoli orsono, in Oriente e in Occidente. Prendevano le distanze dal mondo gli Stoici e i Cinici, e in fondo tutta la filosofia greca dell’età classica era un’istigazione alla fuga e al disprezzo delle cose terrene. Ma ci si allontana dal mondo per andare dove? Qual è la destinazione? La cima di una colonna, come gli stiliti? La botte di Diogene? La casa al numero 918 della Trentacinquesima Strada Ovest di New York, dalla quale si controlla tutto via telefono e via Archie Goodwin come Nero Wolfe? Il deserto, un eremo? È più probabile pensare che la destinazione, l’unica possibile, perché dal mondo materialmente non si fugge, sia un luogo mentale. Dentro la mente allora, tutto si compie: è lì che il bodhisattva cerca il vuoto, è lì che Giacomo Leopardi trovò l’infinito, è lì che Sri Aurobindo, chiuso in una stanza dal 24 novembre 1926 al 5 dicembre 1950 – giorno della sua morte – incontrò Dio («Non è contro il governo britannico che ora devo battermi, questo chiunque può farlo, ma contro l’intera Natura universale!», disse).

Si crea in questi casi volontariamente e inevitabilmente uno stato di solitudine.

Ma la solitudine portata dall’isolamento artistico porta vantaggi. È un isolamento che ridiviene sociale, genera visioni che poi vengono comunicate a un destinatario di qualche tipo, qualcuno che è altro dal loro creatore; vengono reinserite nel mondo, a lui restituite perché diventino di tutti, e da tutti interpretabili. Lo stato di solitudine artistica genera il fenomeno che chiamiamo «ispirazione», quello che secondo alcuni piove magicamente «dall’alto» e che invece non è altro che il risultato di viaggi-vacanze tematici, di percorsi guidati all’interno delle nostre autostrade sinaptiche. L’ispirazione è una grande fuga dal mondo che ha per meta il grande deposito di detriti di mondo (ricordi, psico-fotografie, sogni, impressioni, materiale d’archivio del Magazzino Inconscio) e genera sempre proficue raccolte. Nel viaggio ispirato si collezionano sassolini, funghi, briciole, frammenti, fossili, tessere di mosaico, figurine sfuse, ritagli di universo, e li si fanno scontrare secondo logiche combinatorie non convenzionali: in poche parole, si fanno invenzioni. Si creano altri mondi.

Isolandosi, l’artista pratica una sorta di working solitude. La sua solitudine diventa una fabbrica che produce e fa rumore.

Deve aver fatto parecchio baccano la solitudine di Georges Bataille, che notoriamente fu antisociale e scontroso a livelli estremi. A un ricevimento mondano organizzato da Gallimard, tutti gli scrittori presenti col cocktail in mano si voltarono di scatto verso di lui (che vi era stato trascinato a forza) non appena lo videro entrare, ammutoliti come se avessero visto il diavolo.

Hanno sicuramente fatto rumore le solitudini di Salinger e Lucio Battisti, scomparsi in casa propria dopo aver lasciato il mondo a emozionarsi con Il giovane Holden e con una manciata di dischi indecifrabili, oltre che col mito stesso della loro scomparsa.

H.P. Lovecraft si isolava e volontariamente inventava universi fantastici perché, come diceva lui: «il mondo è banale». Anche la sua solitudine fu produttiva: odiando il mondo perché già noto e conosciuto nel dettaglio, ripudiò la letteratura del reale per rifugiarsi nel  fantastico. Finì per costruire mondi di orrore irreale che erano più reali della realtà: mondi paralleli abitati da esseri disgustosi, fetidi, dementi. Chi ha fatto la conoscenza delle sue creature scalpiccianti e melmose sa bene quanto esse tornino volentieri a tormentare gli uomini nelle notti insonni, a libro già chiuso.

È importante tenere in considerazione però che dare una voce alla solitudine, una voce che sia produttiva e pura, non è impresa facile. Persino i grandi possono fallire.

Rimbaud scrisse tutto ciò che doveva scrivere a proposito del e contro il mondo nei suoi primi diciannove anni di vita. Dopodiché il mondo lo riarruolò. L’isolamento mentale creativo cessò, dalla poesia passò all’avventura, e oscenamente (come tutte le cose del Regno del Reale) si fece negriero e mercante d’armi.

D’altronde anche Salgari si suicidò disperato facendo harakiri perché il mondo lo riportava continuamente a sé: i debiti da pagare, le cartelle da consegnare all’editore senza neanche poter rileggere, la moglie finita in manicomio, la vita grama e squallida nella casetta di Corso Casale. Il mondo lo riportava alla realtà, e quei pirati e quelle giungle immaginate divennero un lusso da non potersi più permettere. Mompracem diventò soltanto una fatica insopportabile.

La pandemia che stiamo vivendo non è altro che un evidenziatore fosforescente dell’orrore del mondo. L’artista, oggi più che mai, può approfittare della condizione di isolamento forzato per tuffarsi dentro di sé e affrontare i propri demoni.

Gli esseri umani dell’Occidente da almeno due secoli hanno esacerbato una contraddizione: hanno vissuto in funzione del fuori, cercato il fuori per imporre sul fuori il proprio potere, il proprio dominio. Si sono dedicati alla conquista del mondo, con l’illusione di sottometterlo, o renderlo meraviglioso e conforme ai propri criteri etici ed estetici.

Questo grave errore ha generato una deprecabile Età dell’Individualismo, un’epoca popolata di cultori del sé, ma dal punto di vista del solo «guscio esterno». Gli uomini si sono dedicati alla pratica dell’ossessiva ed esclusiva comunicazione di questo guscio. La conseguenza, come denuncia il filosofo Byung-Chul Han nel suo La salvezza del bello è una estetizzazione diffusa, dovuta alla veloce proliferazione di immagini levigate da consegnare al consumo. Tutto è levigato. I corpi sono forzatamente resi sani, muscolosi, puliti e piatti per poter durare in eterno nel mondo del fuori. In questa chiesa della forma, in questa spiaggia assolata cosparsa di gusci smerigliati però nulla più accade, nulla più ci tocca nel profondo.

Siamo finiti a curare troppo il nostro fuori per vivere per sempre, nel fuori, dimenticando il dentro.

È giunta l’ora della riconquista del dentro.

L’arte nuova, sconvolgente, il segno che travolge e cambia la vita verrà da chi avrà il coraggio di chiudersi in sé stesso, vivere nel film dell’orrore della propria psiche.

D’ora in poi, quando ci relazioneremo col mondo, sarà necessario imparare a tralasciare l’Ego, che è un po’ il nostro psico-amministratore e gestore degli apparati di difesa e comunicazione, e abbandonarvisi piuttosto in quei momenti in cui lui stesso si abbandona al delirio dell’Es. Dovremo non governare l’inconscio, ma esserne governati.

L’artista pandemico e post-pandemico dovrà affinare questa capacità e renderla insegnamento.

Non si potrà più permettere di essere soltanto razionale, e di agire solo in superficie, calcolando semplicemente i vantaggi e gli svantaggi del proprio agire come fosse un agente di commercio. Non basterà più.

E così, una volta riconquistato il nostro proprio dentro saremo forse capaci di proiettarlo all’esterno per migliorare il fuori.

Nella riconquista del dentro qualcuno si farà male, ma è il prezzo che va pagato. Ogni atto eroico porta con sé il rischio del sangue.

ARTICLE n. 7 / 2021

Meditation On Sale

I’m standing on an undulating field of hyper-saturated purple and turquoise. Pockmarked hills rise around me. I am entirely hairless, and my silver skin shines, even in the diffuse light. I have just been running, in my pink shoulder armor and green thong bodysuit, following the arrows, picking up the juicy peaches that float and spin along the paths.

A digital facsimile of the Canadian singer Peaches, whose lo-fi, angry, sexy feminist record The Teaches of Peaches underscored many nights of my youth, now stands before me in the Transformation Temple. She too has unnaturally shiny skin, as well as extra arms and a surrealist, vaguely crustacean ensemble. A court of equally bizarre minions bob behind her. The Temple appears to have mandibles. «Namaste», she says. «And welcome to the guided meditation… into your groin.»

With that, Peaches begins to lead me us – in a breathing exercise, and then a visualization, as electronic music pulses behind her. «Feel the love you have for yourself», she directs, in misty, Laurie Anderson-esque tones. «Believe it. Believe it. Imagine you are in a phone booth. Isolation. No one can hear you. You can say and do whatever you want. Imagine. What would you do? If no one could hear you. If no one could see you. And you knew this was your time, your time to say I love you. I love me

As you may have gathered, all this is part of a meditation-based video game. The game, Fill the Whole, was created by Peaches and digital artists Pussykrew and recently debuted as one of the headliners of the recent CTM festival, which is usually held in Berlin, but like everything else, took place online this year. The creators describe the game, which can be played directly in your browser, as a «transformative live gaming experience, traversing sensations, emotions, material, and ethereal synergies». The aim is to allow users to «explore the fluid virtual universe and listen to what it has to say» and «embrace the surreal state» and «meditate and grow with Peaches».

Certainly, Fill the Whole is hypnotic. Elsewhere, Peaches delivers self-effacing pep talks and positive affirmations as I run around, kicking rocks that seem to be made out of distorted human heads, hearing out and then dodging an angry avatar, a self-destructive avatar. I’ve certainly never seen anything like it before. As a work of digital art and music, it’s fascinating. But while it is soothing, in a certain way, it doesn’t have much to do with meditation.

In January, a guided meditation tv show called Headspace Guide to Meditation debuted on Netflix, narrated by Andy Puddicombe, who created the popular meditation app Headspace. Like Fill the Whole, it is artful, beautiful even, and sometimes even surprising. The animation is flexible and mesmerizing. Like Fill the Whole, the show can at least claim to be relaxing. Each of the eight episodes is about twenty minutes long, and is split between a short discussion, covering topics like «how do deal with anger» and «how to let go», and a guided meditation.

Puddicombe is an ordained Tibetan Buddhist monk; he knows what he’s talking about, and his presentation is straightforward and gentle. As an introduction to meditation, the show – especially the first episode – isn’t bad. But still I have to wonder: why does it exist?

Meditation is extraordinarily simple – to teach, if not to do. Meditation requires no props or tools. There is nothing to buy. You need nothing outside yourself. And yet, over the last decade, the business of mindfulness has boomed. Maybe you’ve encountered the apps, the podcasts, the corporate retreats, the stretchy pants, the cascade of books, the 11 Mindfulness Products Under $20 To Help You With Your Practice. Meditation has been credited – sometimes with scientific backing – with everything from increased circulation to relaxed muscles to a stress-free existence for the rest of time. Meditation, and its gentler cousin “mindfulness” (gentler because it is less suggestive of having to actually do anything), is everywhere now. And while it’s been a product for years, but only lately have I noticed that it has begun to be marketed as entertainment. It’s not enough to sell it as a tea – now it has to be a television show, a video game, a podcast, an app.

Meditation is not the only ancient practice that Western society has co-opted in the name of self-help (or “self-care”). But it is odd, because meditation, the way I learned it, is the anti-entertainment. «We are talking about how on earth, how in the name of heaven and earth, we can actually become decent human beings without trying to entertain ourselves from here to the next corner», Chögyam Trungpa Rinpoche, the Tibetan lama who brought Buddhism to the West, wrote in Shambhala: The Sacred Path of the Warrior. «The constant search for immediate entertainment is a big problem.»

(That book was published in 1984; I can’t imagine what he’d think of us today.)

In fact, contrary to popular Western belief, meditation is not even supposed to be relaxing. It is not, I am sorry to tell you, a stress relief tool. In a certain sense, we could say that meditation is actually about heightening neurosis, at least temporarily, because it requires you to look directly at your neurotic thoughts, in order to become more aware of them. Meditation teaches you that the story of you that you’ve been telling yourself your entire life is a fiction. Ultimately, it should lead to more clarity, but in the meantime, it’s not exactly a chill experience.

Dzongsar Khyentse Rinpoche once described the primary goal of meditation as being to «loosen the grip that our emotions have on us, and the obsessions we have because of them». It’s hard to even fathom this, because we are so used to feeling that we are our emotions, our obsessions, and yes, our minds—a feeling that is only intensified by isolation. But we’re not. And once you’ve watched your mind for hours and hours, you start to be able to see the patterns, and then, maybe, break them. Or at least not get so completely caught up in them.

When I was growing up, I never heard anyone talk about meditation, much less “mindfulness”, and I especially never heard it used in relation to “self-care”. This was the 80s. The old hippies were (my) parents now, and plastic was king. But my father had been a follower of Chögyam Trungpa Rinpoche, and so I learned to sit and watch my breath from an early age.

(Here’s all you need to know, for the record: sit somewhere, with your back straight. Notice your breath. Let thoughts arise and fall away. Notice what happens. Come back to your breath.)

Now, this simple, centuries-old practice has gone the way of feminism, pinked and branded and sold back to us with its mouth sewn shut, heavily diluted for mass consumption. Again, it’s not just meditation – as a culture, we have become increasingly babyish in our need to have everything brightly colored, candy-coated, and, most importantly: easy.  

But wait, you may be saying. What’s wrong with easy? If the meditation apps and television shows and video games help people relax, isn’t that good?

Well, sure. If people need to take some deep breaths, and all this helps them do it, that’s very nice for them. But even if we take out the capitalist component (which we can’t) and give all of these companies the benefit of the doubt by imagining that their actual goal is to make meditation accessible and available for everyone – spread the good word, as it were – I have to wonder: does selling a watered down version of meditation, turning it into the trendy workout you know you should do because it’s good for you, but only manage a couple times a month, really accomplish this goal? I don’t want to take stress relief away from anyone, but reducing meditation to a relaxation technique removes what is actually transformative about it. It might be temporarily calming to take some deep breaths, but if there isn’t enough meat there, so to speak, newcomers won’t stick around.

I want to compare this to something I hear a lot as someone who works in the literary world: that if a kid is reading something with no literary value, let’s say Twilight, it’s still a good thing, because «at least they’re reading». The underlying suggestion is not only that the act of scanning words on a page is somehow intrinsically valuable, regardless of content, but also that reading bad books will be a gateway into reading good books. I’m not at all convinced that either is true. Reading Twilight has no more intellectual value than watching reality television. Which doesn’t mean it shouldn’t be done! I’ve got no beef with reality television, or with Twilight. It just means that you shouldn’t expect it to transform your (child’s) mind in a positive way, the way that complex literature can. The same is true for playing a meditation video game, I suppose.

I’ll be straight with you: Meditation is work. Boring work – at least at first. True meditation practice is a codified system of working with your mind – a useful technique for getting through life at the best of times; even more so now. Though my family is Buddhist, meditation is not necessarily religious, or even spiritual. It’s almost mercenary. It’s a tool, not a lifestyle. It helps you to see your mind – and by extension, the world around you – as it is. No more, no less. If you learn to watch your mind, you can see what it does, how it responds to things, the loops it creates. If you watch it enough, eventually you can create a little space where there was none before. Maybe you can catch your mind before it responds to stimuli. Wouldn’t it be nice if, when something annoying entered your experience – a screaming child, a blithering troll – you had one brief moment between your experience and your reaction? Maybe even enough space that you could change the nature of that reaction? Or, to speak to the present moment a little more directly: wouldn’t it be nice if you could recognize the moment when you were about to get sucked into bad news sinkhole – leading to obsession, anxiety, and rage – and just… step aside instead? That’s the “muscle” you work when you meditate.

It’s possible that I am unduly protective over meditation practice. In the course of my lifetime, it has gone from being something esoteric, something that felt like a secret kept by my family, to something sold to me on every platform, preached by every self-help blog and ladies’ magazine. Therefore, I admit that my reaction may be slightly petty.

But, well – is nothing sacred?

(This is a rhetorical question; as a Buddhist, I know that nothing is.) 

Ultimately, there’s probably no reversing the capitalist drive. Part of the problem is that it’s not just about those who want to sell us pre-packaged, watered down ancient practices. We want to buy them. We want them made easy for us. If we could buy them in a pill and take them with our coffee, we would. I only hope that some people will decide to go a little further, to discover what’s beneath the shiny surface.

Pointing at the night sky, the Buddha supposedly said, «Don’t mistake the finger for the moon». The finger may be well scrubbed and manicured now (at home, of course, considering), but we should still stop to hear the message.

ARTICOLO n. 6 / 2021

Non c’è abisso tra verità e finzione

Intervista di Andrea Romeo

Andrea Romeo. Werner, vorrei cominciare la nostra conversazione ricordando com’è nata l’idea del tuo nuovo film, Family Romance, LLC. Mi raccontavi che c’è dietro un articolo di cronaca.

Werner Herzog. L’idea è partita da un amico, Roc Morin, che mi ha mandato un suo articolo in cui raccontava la storia di questa straordinaria agenzia giapponese che affitta familiari, fidanzati e amici.  Dopo averlo letto, gli ho consigliato di farne un film, ma lui mi ha risposto che non si sentiva pronto. «Se non lo fai tu, lo faccio io», ho detto. Ed è stato così che abbiamo subito iniziato a girare, io come regista e Roc come produttore. Sin dall’inizio è stato chiaro che non doveva essere un documentario: doveva essere un film a tutti gli effetti, con un copione e degli attori.

A.R. Ma per costruire questa fiction sei partito dai protagonisti reali?

W.H. Già, per prima cosa ho contattato il fondatore e proprietario della società «Family Romance», Yuichi Ishii, e gli ho chiesto due cose: di raccontarmi molti aneddoti sull’attività quotidiana della sua agenzia, soprattutto le cose più strane e memorabili; e poi, di aiutarmi con la selezione del cast. Volevo trovare gli attori del film all’interno dello stesso gruppo di collaboratori dell’agenzia, quelli che vengono chiamati ogni giorno quando qualcuno si sente solo e vuole un amico o desidera trascorrere un pomeriggio diverso dal solito. Oppure quando bisogna sostituire un familiare, magari durante un matrimonio.

A.R. Loro soddisfano il bisogno del cliente, assolvendo allo stesso tempo a una certa utilità sociale…

W.H. Esatto, proprio così. Proviamo a soffermarci sui matrimoni, che in Giappone sono cerimonie estremamente importanti e formali. Attraverso «Family Romance», se una donna che non vuole sposarsi teme di dispiacere i suoi genitori tradizionalisti, può scegliere dal catalogo dell’agenzia un uomo «da sposare»: l’uomo parteciperà veramente ad un matrimonio formale ma finto; e i genitori della sposa, appagati dalla cerimonia, potranno dire: «Finalmente si è sposata!». Ecco, in termini di benessere sociale, l’agenzia aiuta molto.

A.R. Questo è solo uno dei tanti casi che hai esplorato per costruire il tuo film.

W.H. Nel mio film ho immaginato una ragazza di undici anni, Mahiro, a cui manca il padre. I suoi genitori hanno divorziato quando lei aveva soltanto un anno, perciò di lui non ricorda nulla ma ne percepisce l’assenza, sente un vuoto. La madre, allora, decide di affittare un padre, che confessa a Mahiro di avere nuova famiglia, una famiglia che non accetterebbe questo rapporto con la prima figlia. I due cominciano a frequentarsi, a conoscersi, e instaurano un legame molto intenso che fa bene alla ragazza.

A.R. Per me è comunque molto divertente che molti critici, forse ingannati dal realismo, dai diversi livelli di finzione, abbiano creduto si trattasse di un documentario.

W.H. Ma in verità sono tutti attori. La ragazza è un’attrice, la madre della ragazza è un’attrice dell’agenzia, e il padre è il fondatore della vera «Family Romance» …

A.R. Che ti ha pure aiutato per i casting. Come hai gestito questo abisso tra verità e finzione?

W.H. Non c’è abisso tra verità e finzione. È un tutt’uno. Avevo una struttura molto chiara della mia storia e una bozza del copione già scritta. Ti ricordi, però, la scena della donna che ha vinto alla lotteria? Quando ho visto l’attrice ai provini ho pensato immediatamente che dovesse far parte del film, ho deciso che avrei immaginato un episodio apposta per lei e così ho iniziato a inventare sul momento partendo dalla sua straordinaria espressione di disagio. Ho capito che avrebbe interpretato una donna che non era mai stata fortunata in vita sua. Per caso ha sbancato alla lotteria una volta e ora desidera rivivere l’istante di quell’unica vittoria, perciò si rivolge alla Family Romance, LLC perché le permetta di rimettere in scena quell’istante e quell’emozione. Molto nel film è nato così, in corso d’opera.

A.R. A proposito di quella scena, vorrei farti una domanda tecnica. Quando l’agenzia fa rivivere alla donna l’istante della sua vittoria, usi lo slow-motion. Mentre giravi, sapevi già che l’avresti usato per quella scena o ci hai pensato dopo, al momento del montaggio?

W.H. Sì, sapevo già da prima di volerlo fare. E volevo farlo in un momento preciso: quando la vincitrice della lotteria viene circondata dalle ragazze pompon che esultano e ballano per festeggiarla, noi vediamo il suo volto ma la sua reazione è ancora enigmatica, ecco, in quel preciso punto, passo al rallentatore, per riprendere l’improvviso, nascente impatto emotivo. Ho usato lo slow-motion anche in altri film, ad esempio in Woyzeck con Klaus Kinski, nella scena in cui uccide la sua amata, ho fatto vedere l’uccisione con un rallenty molto spinto. È un effetto strano e potente, io sento sempre a istinto quando usarlo.

A.R. Nel film è affascinante questo tuo racconto del Giappone in filigrana: i ciliegi in fiore, una scena di samurai nel parco. Anche questa sottotrama l’hai costruita in corso d’opera, con le persone che lo animavano il giorno che hai girato?

W.H. La scena con i samurai è stata davvero una coincidenza: li ho visti nel parco e mi sono subito precipitato a filmare. Ma trenta secondi dopo di me è arrivato il guardiano e li ha fermati; non è servito a niente spiegargli che le spade erano finte, non ha voluto sentire ragioni. Allora mi sono accostato a loro e ho chiesto se potessero rifare per me la loro coreografia, ma senza spade. Quindi il loro seppuku, il suicidio rituale dei samurai, non viene più commesso con la spada finta, la spada è proprio scomparsa.

A.R. Così è scomparso l’ostacolo oggettivo tra verità e finzione.

W.H. Infatti, e questo più tardi mi ha portato all’idea che il finto padre, sopraffatto dall’amore di Mahiro e di sua madre, dovesse desiderare di morire, dovesse inscenare la propria morte, le procedure funebri, per sfuggire alla finzione da lui stesso creata. Senza però morire realmente. Lo vediamo, infatti, chiedere informazioni in un’agenzia di pompe funebri, provare una bara. Come notavi, il film si sviluppa su molti livelli sovrapposti, e non sempre sintonici.

A.R. Solo in apparenza può sembrare una storia semplice.

W.H. In superficie è illusoriamente semplice, ma è un film che prova a scavare a fondo e indagare la condizione umana. Penso che Family Romance, LLC sia uno dei miei film essenziali, tanto quanto Aguirre, furore di Dio o L’enigma di Kaspar Hauser.

A.R. Credi sia possibile considerarlo anche un film sulla famiglia e sulle sue estreme implicazioni sentimentali?

W.H. Certo, è un film sulla famiglia, racconta di una famiglia spaccata, di un padre scomparso, però apre molte altre questioni e soprattutto è attraversato da diverse domande. Quella che mi angoscia di più è questa: quanto della nostra vita è una performance? Perché anche quando non ce ne accorgiamo, recitiamo tutti tantissimo. Interpretiamo sempre un ruolo sia quando siamo in chiesa, magari durante un matrimonio, sia quando siamo allo stadio. Tutta la nostra vita è una continua performance. Pensa solo a quanto mettiamo in scena di noi stessi mentre stiamo sui social. Cos’è Facebook se non una riscrittura di noi stessi? Una sorta di pantomima; tutto può essere abbellito, falsificato: d’altronde, è naturale voler provare a mostrare agli altri il nostro lato migliore. Ma quanto ci mentiamo a vicenda? Sarebbe banale pensare che sia sbagliato; al contrario, penso sia un meccanismo assolutamente naturale: per sopravvivere nella nostra società dobbiamo accettare questa rappresentazione. Dobbiamo tutti accettare il compito di recitare una parte. Per questo motivo non è poi così assurdo che qualcuno o qualcosa, ogni tanto, ci sostituisca. È già una pratica comune nella nostra quotidianità.

A.R. Ti riferisci a qualche occasione in particolare?

W.H. Quando affittiamo un baby-sitter, ad esempio. È il rimpiazzo di un familiare assente, che affittiamo magari quando vogliamo andare al cinema col nostro compagno. Ma anche l’orsacchiotto di peluche che regaliamo ai nostri figli è un modo per delegare le nostre emozioni a un giocattolo. Molto di tutto questo verrà sostituito presto dai robot, ormai ne siamo circondati, si occupano di noi, sono disponibili, capiscono quello che diciamo, ci rispondono.

A.R. In Family Romance, LLC dedichi una scena molto interessante all’uso dei robot. Secondo te, perché oggi sentiamo così tanto il bisogno di essere sostituiti? Di usare i robot come nostri possibili alter ego?

W.H. Perché stiamo attraversando una stagione di solitudine esistenziale. In questi anni le solitudini si sono esacerbate, sono diventate più profonde, perché viviamo in un tempo che ci spinge di continuo verso la solitudine. In parte è dovuto sicuramente ai social media; ogni giorno deleghiamo le esperienze del mondo reale ad applicazioni del cellulare. Deleghiamo i nostri incontri con altri esseri umani ad uno schermo. Sono convinto che il XXI secolo sarà un’epoca di solitudini, che ci obbligherà ad assistere a un curioso paradosso: a causa di questo enorme incremento di mezzi di comunicazioni, diventeremo più soli. Non saremo isolati, ma saremo profondamente, filosoficamente ed esistenzialmente soli.

A.R. Il protagonista del tuo film dice che abbiamo bisogno di avere molti dettagli per mettere in scena quello che siamo davvero. Vorrei chiederti allora se il cinema, che è un’arte fatta di dettagli, può essere il mezzo attraverso cui capire qualcosa in più di noi. Quanto ha a che fare Family Romance, LLC con il cinema?

W.H. Sì, ovviamente ha a che fare con la vita ma anche con il cinema. Innanzitutto, lo spettatore vede gli strumenti di realizzazione del film, li sente, li percepisce. C’è una sorta di approccio fisico, diretto. Però, ha a che fare soprattutto con quanto del cinema è illusione, proiezione di desideri. Il cinema – l’arte in genere – non ti consente solo di raccontare i fatti, ti dà l’opportunità di arrivare a coglierne le verità profonde. Penso sempre al lavoro che fece Michelangelo quando realizzò la Pietà Vaticana: il volto di Gesù è il volto tormentato di un trentatreenne; il volto della madre Maria è il volto di una quindicenne. Michelangelo ha raccontato una fake news? Ha imbrogliato, ha mentito? No, voleva soltanto offrirci una verità profonda.

A.R. Parlando dell’importanza che ha per te il tuo film, hai evocato alcuni due tuoi capolavori, Aguirre, furore di Dio e L’enigma di Kaspar Hauser, che hanno formato la nostra passione cinefila. Quanto sei legato alla tua passata produzione? Senti ancora quei film come tuoi, del regista e dell’uomo che  sei oggi?

W.H. Penso di essere sempre rimasto coerente con la mia visione. Non c’è dubbio. Sono sempre stato alla ricerca di una comprensione profonda della condizione umana. Credo di aver mantenuto la rotta, ma in un certo senso adesso sono ritornato ai miei primi tempi, proprio quelli di Aguirre, quando non c’erano soldi, a malapena una troupe con cui girare, e io mi avventuravo comunque nell’impresa di fare un film.

A.R. Che consigli daresti oggi ad una/un millennial che vuole diventare regista?

W.H. Se volete fare un film, potete farlo. È questo il mio consiglio per i giovani registi o aspiranti tali. Gli strumenti che servono sono pochi ed economici: si può realizzare un documentario di un’ora e mezza con meno di dieci mila euro, e un film di qualità con circa ventimila euro. Oggi potete farlo! Per Family Romance, LLC ho comprato una telecamera che costava pochissimo, ma era in 4K e aveva un ottimo sistema audio. Il film, alla fine, nonostante le sue dimensioni è stato selezionato a Cannes. Alcune cose che mi piace ripetere sempre alla mia Rogue Film School, che è una scuola di cinema sui generis che ho creato: mentre girate, fate tutto quello che è possibile fare, nei limiti del lecito. Non derubate una banca, vi prenderanno sicuramente. Ma se lo sentite, filmate pure senza permesso. Siate audaci. Bisogna avere una mentalità criminale per fare un film.

A.R. Werner, durante questa nostra conversazione abbiamo volutamente evitato la parola pandemia. Una domanda, però, tengo a fartela: cosa ti manca di più della sala cinematografica?

W.H. Il cinema al cinema è la madre di tutte le battaglie, ed è ciò a cui aspiro. Voglio stare al cinema. Voglio stare lì, in sala, per sentire quando la gente ride e la cascata di risate arriva fino al mio posto. Voglio sentire i respiri, l’attenzione, la tensione. Al momento stiamo trasferendo tutto sulle piattaforme di streaming: è un processo iniziato ben prima della pandemia, ma il cinema non morirà. Dobbiamo difenderlo in quanto spazio pubblico. Dobbiamo difenderlo come luogo di incontro, dove le persone sono collettivamente curiose. La curiosità intellettuale collettiva, il fermento collettivo delle menti: per me è questa la vera definizione di cultura.

A.R. Questo film è indissolubilmente legato al tuo rapporto con il Giappone. Non resisto a chiederti di raccontare ai nostri lettori di The Italian Review di quella volta che ti hanno proposto di incontrare l’imperatore del Giappone.

W.H. Tu la conosci già perché, come ho avuto occasione di dirti, è uno dei più grandi errori della mia vita. Stavo allestendo la prima mondiale di un’opera moderna scritta da un compositore giapponese. Questo compositore teneva che la allestissi io personalmente e visto che mi piaceva la sua musica ho accettato di andare in Giappone. Un giorno, durante le prove, si diffonde la voce che sia successa una cosa incredibile: l’imperatore del Giappone aveva manifestato l’intenzione di incontrarmi in un’udienza privata. E lì ho fatto una cosa stupida, di cui mi vergogno ancora ora: ho rifiutato. Ho detto che non ci sarei andato. A mia discolpa posso dire che pensai sarebbe stata un’occasione molto formale, piena di frasi di circostanza, e priva di un valore reale. Tutte cose che all’epoca sentivo che non erano sostenibili per me. Ma alla mia reazione tutte le persone presenti in quel momento nel teatro sembravano raggelate, sconvolte dal mio gesto. Rifiutare un invito dell’imperatore è una cosa inaudita: forse la cosa peggiore che si possa fare in Giappone, e oggi mi pento di averlo fatto. D’un tratto qualcuno però mi ha chiesto: «Ma se non vuoi incontrare l’imperatore qual è allora il giapponese che sogneresti di poter incontrare?».

A.R. Eh eh, vedi allora che ti sei fatto un regalo? Perché la tua risposta è stata…

W.H. Hiroo Onoda. Lui è stato l’ultimo soldato giapponese asserragliato in un’isola filippina ad arrendersi, ventinove anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Pensava che la guerra non fosse ancora finita. Aveva continuato a vedere gli aerei militari volare verso le Filippine, ma si trattava della guerra in Corea. Negli anni Sessanta, poi, aveva visto passare un grande bombardiere B-52, ma si trattava della guerra in Vietnam. Lui credeva che fosse sempre la stessa guerra che stava combattendo lui: che la Seconda Guerra Mondiale non fosse mai terminata. E così l’ho incontrato davvero. Ho instaurato con lui un ottimo dialogo, e da allora ci siamo ritrovati molte volte. Ora ho da poco finito di scrivere un libro sulle nostre conversazioni, si intitola The last days, e verrà pubblicato l’anno prossimo.

A.R. Un’ultima domanda prima di salutarci. La pandemia cambierà il nostro modo di raccontare le storie?

W.H. Ancora non riesco a dirtelo. Non sono un profeta, sono un regista. Ritengo, però, che questo periodo ci stia riportando alle cose essenziali. Ci stia indicando ciò a cui dovremmo tornare: riscoprire i valori della famiglia, riscoprire il nostro rapporto con la Natura. Ci sta riconnettendo con la lettura dei libri. Vedi, credo specialmente che i giovani comincino a dubitare. Credo che molti non vogliano più leggere solo i tweet, solo gli scambi nelle chat, dove ci sono frasi di due righe o di due parole. Confrontarsi con la letteratura dà accesso alla poesia, al pensiero concettuale, ti connette al mondo in un modo strano e profondo. Ecco, riguardo ai consigli che mi chiedevi per i giovani registi aggiungerei questo: se volete diventare validi registi, dovete leggere, leggere, leggere.

ARTICOLO n. 5 / 2021

Dopo Sanremo: meditazioni sul silenzio

Veronica Lucchesi & Dario Mangiaracina

Il silenzio, da solo, è tutto silenzio. Il silenzio, se ci sono io ad ascoltarlo, diventa significato. C’è bisogno di uno spettatore, di qualcuno che proclami di fronte a quella quiete: «Madonna che silenzio c’è stasera!».

Non basta un polo elettrico a suscitare una scintilla, ce ne vogliono due. Peter Brook ci ha insegnato che la tensione tra chi è in scena e chi sta in platea è come una corda di violino. Solo la giusta tensione fa sì che la corda possa risuonare. Da soli non c’è incontro, non c’è vita, non c’è lotta, non c’è genesi, non c’è speculazione, non c’è arte.

Sembriamo nati per questo ruolo, siamo interpreti e spettatori. Abbiamo imparato parole e suoni per esprimerci e raccontare a chi c’è dopo di noi o a chi non sa ancora vedere, il senso che diamo alla natura delle cose.

In teatro ci hanno insegnato ad andare in scena anche quando c’era un solo spettatore in sala, due occhi, due orecchie, un corpo.

Il teatro si realizza ogni qual volta ci sia una relazione tra almeno uno che agisce dal vivo in uno spazio scenico e uno spettatore che dal vivo ne segue le azioni. La parola singola “agisce” solo quando ne incontra una seconda che la provoca, diceva Rodari, costringendola a uscire dai binari dell’abitudine, a scoprirsi nuove capacità di significare. Ma allora, se diamo per assodato che quando performiamo davanti a una telecamera uno spettatore è tale anche dall’altra parte di uno schermo, cosa cambia anche se la platea è vuota?

Cambia tutto. Manca il rito, il silenzio, la terza fila che ti dice di fare silenzio se ti distrai, mancano gli sbadigli, i colpi di tosse, le celebri caramelle alla menta contro la tosse scartate nei momenti salienti del monologo, manca l’attenzione che accompagna il ritmo, manca il ritmo, l’attesa trepidante di coloro che saranno con te parte integrante dello spettacolo. Perché sì, il pubblico è parte dello show.

All’Ariston i fonici hanno dovuto ripensare completamente l’acustica del teatro per sopperire alla mancanza di pubblico. Credo che abbiano aggiunto teli e pannelli in platea. Farà ridere, ma il pubblico è anche il miglior materiale fonoassorbente che un teatro possa avere.

Il teatro è un’esperienza di vita. Vedere dal vivo un’opera ti cambia la vita. Sentire gli attori, le attrici, le musiciste, i musicisti vibrare, sudare, ti fa tremare le ginocchia. La potenza degli strumenti che risuona nella tua cassa toracica è musica da toccare, sono corpi da odorare, se sei in prima fila, è carne viva che ti parla.

Come un atto sacrificale, chi è sul palco si dona, in pasto. I dettagli dal vivo sono fatti per essere sviscerati, sono sangue caldo.

Mi raccontarono una volta che De Filippo, durante una replica, rispose così a uno spettatore che dal loggione urlò di alzare la voce: «Non si permetta! Quello che sto dicendo è qualcosa di intimo che deve rimanere tra me e mia moglie».

Nel rito dello spettacolo dal vivo c’è un momento per tutto. C’è il “dopo-spettacolo” che non ha nulla a che vedere con i commenti live mentre stai cantando in diretta streaming. Durante il lockdown, gli spettacoli in streaming, senza la ritualità codificata nei millenni dal teatro, ci restituivano la solitudine e l’alienazione stessa della quarantena, senza riuscire a sublimare il dolore di quei giorni, la crisi, nel più catartico degli ingegni umani, la messa in scena.

Ma dal vivo, c’è un focus su quello che stiamo vivendo insieme che non distrae, a meno che quello che senti e vedi non ti piaccia e allora ti alzi e te ne vai e anche questa azione non passa inosservata. E invece sui social entri ed esci a tuo piacimento. Lo spettatore è invisibile, è un numero on line, che interviene solo attraverso reazioni codificate, reactions che non sono altro che il surrogato delle emozioni che potremmo provare. Nel mondo dello spettacolo dal vivo, se te ne vai è un fatto. La gente si volta a guardarti, si fa delle domande, l’attore e l’attrice lo sanno, la regista lo vede, tutti capiamo qualcosa. In una stanza virtuale la porta che sbatte non fa rumore.

Poi c’è l’applauso. Lo scoppio finale. Il pubblico diventa un corpo solo come direbbe Canetti. Partecipa attivamente al rito. Durante una delle più celebri esecuzioni della Callas di Una voce poco fa, uno spettatore applaudì e gridò di gioia prima della fine dell’aria, e il pubblico lo ammonì per aver rotto quella magia. Le regole del loggione sono ferree. Si respira insieme, si capisce quando tacere, si cambia idea, si applaude insieme oppure si sta in silenzio rispettoso. Si incrociano le braccia per dissenso. Ci si alza in piedi come massima espressione di plauso, se le mani non bastano più.

C’è un attimo da vivere ancora quando la scena va al buio. A volte passano secondi prima che il pubblico capisca che lo spettacolo è finito. Quel tempo è il pensiero. Quegli attimi sono teatro nudo, sono musica.

I nostri maestri di teatro Civilleri/Lo Sicco erano affascinati e allo stesso tempo terrorizzati da quei momenti di silenzio. Hanno studiato il silenzio in teatro fino a cercare di cancellarlo inserendo dei bordoni invisibili all’orecchio che accompagnano tutta la pièce.

Dentro il rito c’è dell’altro. Si esce fuori dal luogo deputato allo spettacolo. E lì come il vento che sparge i semi di un soffione, lo spettacolo si sparge per le strade. C’è il dopo-concerto, il dopo-cinema, il dopo-teatro, il momento di incontro tra spettatori, che dibattono su quello appena visto, con forza, carichi della necessità di un confronto. Ci sono le attrici e gli attori, musicisti e musiciste da incontrare in carne ed ossa. Non ci si nasconde e ci si mette la faccia e si risponde a tono oppure si cambia idea.

È vecchio tutto questo? È già morto? Stiamo piangendo un defunto? Gli dei del teatro sono su tutte le furie. Le maschere adesso si occupano di beauty, e non vediamo altro che maschere di bellezza, i costumi li tiriamo fuori solo a carnevale, il corpo di ballo, l’abbiamo lanciato su Tik Tok, la dizione e il birignao ci hanno detto ciao, Dario Fo, a chi lo do? Carmelo Bene, benino, De Filippo, a casa Cupiello, Romeo… Castellucci di sabbia in spiaggia, Motus? Fermus. Emma Dante? in Via Castellana Bandiera, in barba a Eugenio Barba, Kantor, Grotowsky e Peter Brook li leggiamo sugli e-book.

Perché lo facciamo? Per uscire di casa, per mettere il naso fuori dalla nostra comfort zone, per metterci in discussione, per condividere un’idea, un punto di vista sulla vita e la società. Si riceve consenso o dissenso. Si cresce, si cambia punto di vista, ci si incontra, ci si innamora ai concerti. Sì, ai concerti ci si innamora e noi ne abbiamo le prove.

Si fa l’amore nei bagni del locale, ti vedo ballare e sei bellissimo, mi vedi piangere e ho voglia di farlo anche io, possiamo ridere insieme, scambiarci opinioni sulla vita. Ti posso toccare, sfiorare per sbaglio, cercarti in mezzo alla folla, perdermi, trovarmi, volare.

Dal vivo posso vedere rappresentato un mondo che mi appartiene o di cui voglio fare parte. Posso abitare un’utopia, stare dentro al mio sogno. Trovare una comunità.

Spesso ci siamo chiesti quanto gli artisti contribuiscano a formalizzare dubbi e punti di domanda drammatici nella vita della gente. Tantissime volte ci siamo soffermati a pensare quanto, con i nostri versi insinuanti nei confronti delle relazioni, della vita, degli altri, abbiamo potuto creare crisi difficili da superare. Scrivere, come abbiamo detto più volte, significa fornire a chi ti ascolta un vocabolario più o meno complesso di emozioni, significa costringere chi ti ascolta a ripercorrere il percorso interiore che hai fatto quando hai scritto quei versi. L’arte è maledizione, il teatro ti rovina, la musica ti consuma e noi non metteremo mai, né limiti né filtri, a questa carneficina.

Ma c’è un luogo dove questa scanna (per dirla con le parole di un drammaturgo Palermitano, Davide Enia) avviene in un setting protetto e regolamentato, c’è un solo spazio dove il respiro di una collettività, la violenza di chi è contrario, si esprimono nel rispetto come massima espressione della nostra umanità: quel luogo è il teatro (e tutti i luoghi dove l’arte avviene). Ed è per questo che non possiamo rinunciare alle platee e ai parterre, perché i corpi e la voci vive di chi si incontra in quei luoghi sono un’architettura fondamentale per costruire una società libera, critica, solidale e consapevole.

ARTICLE n. 4 / 2021

Some Can’t, Others Don’t

WRITTEN WITH PATRICIJA MALIČEV

I’m not special,
but I’m different.

All autobiographies begin with a sense of solitude –  that feeling simply cannot be escaped. I was born in a bomb shelter in 1943. It is one of the things that happened to me in my life that defined me the most; perhaps it was the most important thing. That shelter. Although it was a sort of unconscious memory, it absolutely informed the way I think and feel about the world.

The world, hollow, populated with a million pairs of eyes, the eyes of both people and animals, gazing at each other without even knowing why.

Finality is announced and imposed on humanity. And here is also the unrelenting and arbitrary nature of things—one minute you’re alive, the next minute you may be dead. In between some shivering, and also, of course, confident decisions that mean that our lives are in our own hands.  Ha! What a feeling! Expectations? Never completely fulfilled. Because always, but always, it is unbearably difficult to live with what you are, and even harder to be something that others believe you have to be.

Some can’t, others don’t.

This happened to me very early on: my parents expected a girl. They even had a name ready—some Scandinavian  name, Silke. But I was a boy so they called me Frank. Not long after, two more Franks were born near the place where we lived, so they renamed me Uwe. It rhymes, almost like poetry. Eventually I realized it was difficult later for others to pronounce. So I changed it to Ulay.

I was a wild child. When I was eleven, despite the disapproval of my parents, I simply refused to go back to school because they wanted to make me part of the system. A decision like this changes your expectations of life. You have a different outlook, an outlook that keeps getting stronger and stronger. You become more distinct—I don’t want to say better or more intelligent—but you become different. For myself, as an artist, I think this difference was essential throughout my entire career.

I’ve never conformed. Over time I believe that I created or generated a logic in myself that is based on a different outlook in relation to many of the things in the Western society where I live. But I am stuck here. I cannot ignore it. I have to deal with it every single day. But how?

Other opinions don’t easily excite me. If asked, I express my particular opinion. But if I am not asked, I seldom feel the need to egotistically proclaim my own truth and logic. It is an issue of truth and reality. In German, these words are Wahrheit and Wirklichkeit, and sound so beautiful. To me: everything is true. Even a lie is true especially if it is an effective lie. I’ve always merged truth and reality and this has brought me to a kind of ethics of reality.

Have I ever failed? Of course I have, but that is part of the package. If you can allow yourself to fail, you won’t have any problems. Failure is hard for many people. It can knock you out mentally, emotionally, socially, professionally. Failure isn’t considered a positive concept for those who strive politically, economically, socially, scientifically. However, if you’re honest with yourself when you fail, you’ll discover extra space within yourself. Failure is a great experience.

I’m not special, but I’m different.

I lived with my parents on a street called Lindenbaumstrasse on the outskirts of Solingen. There was a big garden that belonged to a convent opposite the place where we lived. I remember that I often climbed the fence to steal rhubarb. I still really like rhubarb. Just outside, to the left and the right, there were ruined houses with only cellars and basements left. They were overgrown with weeds, grass, scrubs, things like that. Apart from the garden, that was the closest I got to nature. I had two friends. One was named Frank. He was small and he would scramble over this third kind of landscape, over the bombed houses. A lot of water and heating systems remained. We were fascinated by this and would try to rip out the pipes. Later, we did it with more intention, because pipes, especially copper ones, were very valuable. During the postwar era, you could get money for collecting and selling metal by the kilo. It  was a hustle and not really a suitable activity for children. The area was soon fenced off but we figured out how to get under the perimeter. We would take things and pass them back under the fence. 

There was a park a little further down, behind my first school, and there was a bomb shelter in this park. The bomb shelter had huge steel doors that were no longer locked anymore so we could go inside and explore. It was smelly because people used to shit in there. Then, from this place, across the fields, you could go into a forest. It was incredibly idyllic, romantic and beautiful, because, down that hill, you were already a kilometre from home. In the forest, there were brooks, little streams, and a beautiful watermill with huge wheels that powered a great hammer mechanism. People hammered steel there and it made a really amazing sound. We found more friends, and together, we went into the forest and picked blueberries, dropping them into our buckets.

I would love to go there again and do that. Ja. I want to put the blueberries on my porridge.

Later, even though we were hardly experts, we would go further into the forest and collect mushrooms. They looked magical, as if they came from fairy tales. We would collect mushrooms and bring them home. Of course, my mother always threw them away, but the joy was in harvesting them with the other children, dropping them in our buckets.

Once I was walking the same way through the fields—already lush with tall and yellow corn, not long before it was set to be harvested—and I heard a shot. I heard the shot and then the bullet hit me. It went through my rubber boot. I assumed it was a 22 calibre. I could put a single finger through the hole. Someone was trying to shoot a deer or a pheasant or something like that but had missed and hit me. My foot bled like hell. Of course, when I got home, my mother was completely terrified. She took me to the doctor and he took the bullet out.

My first school was in Solingen. There were two large buildings—one for Catholics and the other for Protestants—with a big common playground. Although my parents had no religious convictions, they decided to send me to the Protestants as they were considered to be more serious and more straightforward. The school wasn’t far from our house. I knew a path, a shortcut, where I could climb a fence rather than going all the way round. There were two big buildings: the one on the right was the Protestant school, the one on the left the Catholic one, and in between the big schoolyard. The Protestant kids met up the Catholic kids in the schoolyard. For some reason they always played Cowboys and Indians. We called the Catholics black, the Protestants blue—don’t ask me how I or anyone else my age knew about all of this—and we got into fights. I mean, they were childish fights, but there was already an awareness of religious discrimination. Ja, it was very interesting. I went to a Protestant school.

My first grade teacher at that school was Ms. Busch. I don’t think that she was married or maybe her husband had died in one of the wars. She was like a mother hen with her little ones. What do you call it? In German, it is Henna. When the chicks are in danger, they hide under her wings, and she protects them. That was Ms. Busch. She lived close to where my parents lived. By the second year—not yet the first year—she definitely doted on me perhaps because of my shy character or maybe just because we were neighbours. There was a bond between us. And I was very good at school. You should see my report cards. They were really good. All the highest grades. I did my best and I did it mostly for her. She used to put her hand on my head. She even trusted me with her keys. If she came into class in the morning and had forgotten something, she would ask me to go to her home and get it. She would say: “You have the keys. Go to my room, on the desk, something about this or that, and go get it for me.” I really loved this and I do think that the good grades I managed to get were entirely due to her. My mother had no patience to sit down and study with me at the time. My father was always busy. So Ms. Busch became a substitute. She did what my parents didn’t do.

She was a very simple person, also in the way she taught. She had particularly strong nerves to deal with wartime children, to give them hope and to learn well, to behave well and dress well. Some of them had lost their fathers, some had lost other relatives, some had lost everything. She was the hope that gave them new wings. That’s what she did. Ms. Busch—I’ll never forget her. She complimented me. I think at that time she knew—as a woman with such a lot of experience and such a big heart—that the main thing was to give encouragement. That’s what children needed at the time. Thank you, Ms. Busch.

I remember once, when it was almost summertime, we made a camp and something to eat and drink. There was this one girl named Dagmar. She lived very close to us. Dagmar played on the street after school and I became close to her.  Ms. Busch knew everything, of course, and she said: “Well, I’m just going to have to marry you two. Make sure you’re nicely dressed. We’ll go home together and I’ll marry you and invite all the other children.” So, I could say that I was married for the first time, in 1950 or 1951, to Dagmar.

We left Solingen when I was eleven because of my father’s condition. That was very difficult for me, because I didn’t want to leave my friends or the neighbourhood, having explored it so much. We had a lovely home. My father had a great job. My mother was a housewife. Everything seemed perfect and bourgeois. Then we moved to a little village in Westerwald. There were only around two hundred people there. There was just one class in the small village school with all the children from six to fourteen. The younger ones sat in the front and the older ones in the back. The school was Catholic. I loved the priest, the Catholic priest, who lived in the village. I loved his religion lessons. I particularly loved reading the little booklets about all the saints. I loved it, just loved it. The priest was a pretty crazy fellow, and he would act out what he was saying and reading, throwing himself on the floor or hanging himself from various objects. It was fantastic. It was compulsory for the whole class to attend the funerals behind the church—great funerals in the cemetery. Every so often, processions would go four and a half kilometres into the forest. I really liked them.

The village school had a very tough teacher. He was perhaps fifty-five years old, maybe closer to sixty, and very tough. Germany didn’t have a great choice of teachers back then because so many had perished during the war. This one had a very short haircut and glasses. He had a rod, a thin rod, and, if you misbehaved, you had to open your hands and he would hit you really hard with the rod or he would pull your hair. He’d also put you in the corner. I used to snap my fingers when I knew something. He took me from my bench to make me face the corner and stare into it for an hour. Things like that. It was a really tough school, not very beneficial educationally.

My father’s health got so bad that he had attacks of breathlessness at night that were really horrific. My mother would wake me up—we didn’t have a telephone—and I would run, wearing just my pyjamas to get the doctor. It was eight hundred meters away. I lived with the fear of something happening to my father. Whenever someone knocked at the door of the village school, I was always sure that something had happened to my father.

I grew very fast and had an odd food deficiency. I was very pale and often got dizzy. My parents went to a children’s healthcare organization and they always said the same thing: “He needs fresh air.” So they sent me to a boarding school on an island in West Frisia. It was a complete disaster. I was terribly unhappy even though there was sea, good air, all of that. After only one month I couldn’t take it any more—I misbehaved and they sent me back. That was a short excursion for my wellbeing.

I lived in the village from the age of eleven to fourteen. I spent a lot of time with farmers, cleaning stables, herding cows, making caramel—you make caramel in a little pan with a little sugar and a little milk over a fire. Herding cows in the autumn, you would see them everywhere, because the fields had already been cut. I spent a lot of time in the winter in the forest with the whole class, collecting chestnuts or gathering hay or straw. I grew stronger and stronger and was quite fortunate to spend time in the countryside—in the forest and fields with the farmers. It was how I survived, I think, and what makes me strong even now.

I developed well and cared for my father because he couldn’t move anymore. I wanted to give him some joy in his life. He liked to look through catalogues of plants and trees—that was his great pleasure. He would tell me where he would like to plant the roses, the trees or bushes, and then I would do the digging and the planting. My nails were always dirty from all the digging, and I liked that. Once I said to Thomas McEvilley, a good friend I met fifty years later: “We shouldn’t work for white nails anymore. Work for dirty hands and dirty nails.”

Then came a very dramatic period—only four years after we purchased the house in the village, my father got so bad that he turned completely yellow and was hospitalized. He was dead in a week. His liver had disintegrated. He had taken medicine for his breathing, for his panic attacks, a powder called Felsor that you put in water, then mix and drink. I don’t think it did his liver any good. Eventually the remedy that chemists gave him to ease his breathing ruined his liver. What I don’t know is whether he also had hepatitis because he’d served in World War One in France where we know they used poisonous weapons. I don’t know about World War Two, but they definitely used poison during the first one.

After that, I was sent to secondary school. The nearest one was twenty-eight kilometres away. I had to get up at five o’clock in the morning to catch the bus at about quarter past six. Then I arrived in a place called Altenkirchen. The school was improvised from barracks, a school located in barracks. In addition to German, we had French lessons. Some of the teachers were brought in from Belgium or from other places because there was a shortage of qualified teachers in German. The French teacher was Belgian and a very mean man. He would really hit you. I was thirteen, fourteen. He would hit children very hard. Some even lost their teeth. He also hit me. The only power I had over him was to refuse to learn French. I decided not to speak French. Later on we spoke to the older kids at the school—they were in Oberprima, so about nineteen years old—we told them about this and they got hold of him and beat him badly. That was the end of that story.

Most of the things that happened in my childhood were somehow connected with fear. Almost never with happiness. Having been born in Solingen in 1943, all fear was subconscious. The town had been bombed, bombed really badly in 1944 and 1945, and I lived through that. When we ran in terror to an air raid shelter, I think I was about two years old, my mother threw her body over mine and forced my mouth open so that my lungs wouldn’t implode from the exploding bombs. That’s fear, that’s…I call it an ‘inborn’ fear, which means that it’s stored somewhere from early childhood experience. I can’t talk in detail about this inborn fear, because my parents were never able to talk about these things. I didn’t ask, because I was too young to ask about those sorts of things. Only later did I understand how important, how formative, that period was for me, especially for the development of my anti-aesthetic, all of my games on ruins, sites of conflagration, buildings and social systems… One day I found beside the wall of a ruined house a helpless sparrow whose life left it as it lay in my hands. I dismembered it and that is how I created my first anagrammatic body. I returned to this concept much later in my Polaroid period, and I also recreated it in my documentary photographs of women and my first photographs from Amsterdam. The same anti-aesthetic.

Unfortunately, I don’t think I can recall much else. I never went to psychoanalysis or to rebirthing or whatever you want to call it. I wouldn’t like that. I would just make fun of the psychiatrist. I like psychiatrists but I would have made fun of them I think. However, there’s something, of course, from the war years, living through that, all of those sounds and smells—it was unbelievable. All of that must be stored somewhere. 

But certainly, I became an artist out of discontent, not out of creativity, not out of a need to work in an aestheticized, formalist manner. Discontent with myself, with society, and with art-meaning and in particular late modernism. I was not sure who I was, so first I tried to figure it out through photography. Looking back at my self-portraits helped me to see that identity is a frail boat with an anchor the size of a tanker’s sailing on the ocean. And also that any act of art, whether consciously or subconsciously, deals with identity, with self-reflection, as a matter of course, whether it is the core of artistic expression or the subject of it.

The text you have just read is an excerpt from Ulay’s upcoming autobiography, written with Patricija Maličev, soon to be published by il Saggiatore.

ARTICOLO n. 3 / 2021

Rosa Luxemburg, tutti i fiori parlano di te

Rosa… Rosa… Rosa… Tutti i fiori e le piante parlano di te.

Per il tuo compleanno ho comprato una monstera deliciosa, quella pianta tropicale con le foglie grandissime, lucide, frastagliate.  

Prima ne avevo ordinata una simile: un filodendro. Mi ricordava quello che ha abitato – per trent’anni – in casa di mia madre.  Questo filodendro invece – altro che trent’anni – è morto appena arrivato a casa mia. Ha cominciato a perdere le foglie, ad una ad una, e poi via: fino a che è rimasto solo il nudo tronco.

«Ha preso freddo in viaggio» ha detto Giovanni, che conosce le piante, come te.

«Devi trasportarle di persona, non comprarle on line» ha sospirato.

«Le piante non sono fatte per spostarsi. Bisogna muoverle con attenzione, non puoi fartele spedire come il cibo del gatto.»

Gli ho chiesto dove era meglio sistemare la tua monstera e ogni quanto annaffiarla.

«Vuole tanta luce diffusa, non il sole addosso» si è raccomandato. «Ma darti ricette sarebbe un errore botanico: dipende da tante cose. Ogni ambiente ha temperature diverse. Tu bagna in abbondanza il terriccio quando – tastandolo con le dita – ti sembra asciutto.»

Quali piante crescevano sulle basse colline attorno a Zamość, nel sud della Polonia, dove sei nata tu? 

C’era il «sambuco dai frutti che cadono in grappoli fitti e pesanti tra grandi foglie pennate e a ventaglio» di cui scrivi a Sophie Liebknecht dal carcere di Breslavia, pochi mesi prima che i miliziani dei Freikorps ti uccidessero insieme a suo marito Karl, il tuo compagno di lotta?

C’era «il ligustro con le dritte pannocchiette di bacche slanciate e graziose e foglioline verdi lunghe e sottili»?

E «il cotognastro dalle bacche rosaviolacee nascoste sotto minute foglioline appuntite alle estremità… simili a quelle del mirto»?

Tu scrivevi a Sophie, ma io credo sia a me che raccomandavi di «prendere la vita con coraggio, impavida e sorridente, nonostante tutto». Le raccontavi come «in questo terzo Natale passato in gattabuia, calma e serena come sempre, sto pensando a quanto è strano che, senza alcun motivo, mi senta sempre immersa in un’ebbrezza gioiosa».

Come si fa a essere come te, Rosa?

Succede se non scendi mai a compromessi, come hai fatto tu?

«Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigione invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito.»

Vorrei lo regalassi a me il «mantello trapunto di stelle in grado di proteggere da quanto è meschino, dozzinale e angosciante» che volevi donare a Sophie.

Povera Sophie, con lei non ha funzionato, il mantello.

E povero Leo, che per scoprire i responsabili del tuo omicidio è corso a Berlino, dove tre mesi dopo hanno ammazzato anche lui.

Rosa… Rosa… Rosa… I tuoi genitori erano ebrei di così scarsa osservanza da darti il nome di una santa palermitana: Rosalia. L’hai accorciato tu in Rosa, vero?

In casa non parlavate yiddish né ebraico, ma polacco, russo e tedesco, ai quali tu hai aggiunto il francese.

Intelligentissima, studiosissima, esuberante: troppo. Al ginnasio non ti hanno dato la benemerenza – anche se eri la più brava della scuola – per il tuo «atteggiamento ribelle nei confronti delle autorità»: a tredici anni avevi già scritto un poemetto satirico per sbeffeggiare Guglielmo I di Prussia in visita a Varsavia, dove vi eravate trasferiti quando avevi due anni.

A sedici anni eri marxista e rivoluzionaria, organizzavi scioperi, militavi in una formazione clandestina che si chiamava Proletariat. Che spettacolo di ragazza eri, Rosa.

A diciotto anni, inseguita dalla polizia zarista, sei dovuta scappare dall’impero russo a quello austroungarico nascosta in un carro di fieno. E hai dovuto vivere dieci anni a Zurigo, anche se allora era il rifugio dei rivoluzionari, mica dei banchieri.

Hai voluto studiare di tutto: filosofia, scienze naturali, matematica, giurisprudenza, scienze politiche, letteratura. Ma la tua passione era la natura. Che favola era il tuo erbario di ragazza! Hai studiato di tutto, ma gli ultimi tempi avevi voglia di rileggere solo libri di scienze naturali, di botanica e zoologia.

Eri zoppicante per una malattia infantile che ti aveva lasciato una malformazione all’anca, bassa di statura e con la testa grossa. E così affascinante, colta e passionale che chiunque, dopo mezz’ora che parlavate, si innamorava di te.

Leo Jogiches, lui sì che era bello, quel testardo. Quanto lo hai amato. E anche lui amava te. Ma non come volevi, non abbastanza: e dopo dieci anni lo hai lasciato per un amore molto più giovane e devoto. E quando quello è morto in guerra, con uno più giovane e devoto ancora. Esiste l’amore assoluto, Rosa mia?

Cosa importa. 

Hai vissuto come volevi, sia in politica che in amore. E sei morta come volevi: «Spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere» hai scritto. Così è stato. Avevi quarantotto anni.

Quello dei centocinquant’anni è un compleanno importante: ho voluto una pianta alta come te, per festeggiarti. Un metro e mezzo di fascino. Giovanni non approva, dice che in tuo onore dovevo piantare sul terrazzo rose antiche. Gli ho spiegato che volevo una pianta sfacciata e seducente, per darle il tuo nome. E che dovevo stupirti: non potevo chiamare Rosa una rosa.

Dice Giovanni che alla tua pianta gioverebbe una certa idratazione del tutore muschiato, che dovrei nebulizzarlo di tanto in tanto. Quando mai ho nebulizzato una pianta, io? Non so nemmeno cosa voglia dire. E cos’è il tutore muschiato? Ma imparerò, per te. La tua monstera deve essere longeva come il filodendro di mia madre, anzi, di più.

Compi gli anni lo stesso giorno del mio primogenito: il cinque marzo. Lo stesso in cui è nato Pier Paolo Pasolini. Centocinquant’anni tu, ventiquattro mio figlio, novantanove Pier Paolo.

La rivoluzione è un fiore che non muore mai?

Forse, Rosa: a costo di non aspettarsi niente.

Volevi che sulla tua tomba fosse scritto il verso della cinciallegra: «La mia tomba, come la mia vita, non recherà traccia di frasi altisonanti. Sulla mia lapide voglio che si leggano solo due sillabe. “Zvi-zvi”. È il richiamo delle cinciallegre, che so imitare tanto bene da farle accorrere subito. Da qualche giorno in questo Zvi-zvi, che di solito scintilla chiaro e acuto nell’aria come un ago d’acciaio, c’è un minuscolo trillo, una piccolissima nota di petto… È il primo lieve trasalire della primavera imminente; nonostante la neve, il gelo e la solitudine, noi – le cinciallegre ed io – crediamo alla primavera in arrivo! E se per troppa impazienza non la dovessi vivere, non dimentichi che sulla mia lapide non deve esserci altro che “Zvi-zvi”» scrivevi dal carcere a Mathilde Jacob, aggiungendo un abbraccio per la tua gatta Mimì, quella che Lenin aveva definito «barskii kot», gatto sontuoso.

Lenin definì sontuosa Mimì e presuntuosa te: fanno così, con le donne più intelligenti di loro.

Non l’hai vissuta, Rosa, quella primavera.

Ti hanno uccisa nel cuore dell’inverno: il 15 gennaio. Che schifo di freddo faceva a Berlino quel giorno. 

Prima ti hanno colpita col calcio del fucile, poi ti hanno sparato alla nuca e hanno buttato il tuo corpo nel Landwehrkanal, uno dei canali della Sprea.

Sono andata a vederlo, insieme alla mia figlia minore, il punto dove ti hanno ripescata tre mesi e mezzo dopo l’omicidio, che poi chissà se eri davvero tu, ma cosa importa. 

Hanno messo il tuo nome scritto a larghe lettere di ferro, e una ghirlanda di fiori appesi alla ringhiera del canale.

«Ora è sparita anche la Rosa rossa. Dove è sepolta non si sa. Siccome disse ai poveri la verità i ricchi l’hanno spedita nell’aldilà» scrisse Bertolt Brecht prima che ritrovassero il tuo corpo.

Ai tuoi funerali, il 13 giugno 1919, la folla sventolava rami di palma e reggeva corone di rose rosse. 

«Quando si ha la cattiva abitudine di cercare una gocciolina di veleno in ogni fiore schiuso, si trova, fino alla morte, qualche motivo per lamentarsi» avevi scritto.

«Guarda quindi le cose da un angolo diverso e cerca il miele in ogni fiore: troverai sempre qualche motivo di sereno buonumore.»

E poi, definitiva: «Nel mio intimo, mi sento molto più a casa mia in un giardinetto o in un campo, in mezzo all’erba e ai calabroni, che in un congresso di partito».

Ho deciso: non porterò fiori il cinque marzo al Memoriale dei Socialisti del cimitero di Friedrichsfelde a Berlino, dove hanno sepolto le ossa che hanno attribuito a te, mia Rosa. 

Una scienziata italiana che ti piacerebbe molto – si chiama Barbara Mazzolai – ha scoperto, come tu hai sempre saputo, che le piante sono anche più intelligenti degli uomini e degli animali, perché sono più antiche.

Niente fiori recisi, Rosa mia: solo grandi piante, piante grandi e felici, come la tua monstera.

Imparerò a curarle, lo farò per te, Rosa Monstera Deliciosa.

Le guarderò come guardo i gatti e i bambini, e in ognuna riconoscerò un po’ della tua intelligenza, del tuo rigore e del tuo coraggio.

E sulla tua nuda tomba, sopra quella brutta targa di bronzo dove hanno scritto solo il tuo nome con la data di morte e la parola ermordet, assassinato (perché non ti hanno voluta ascoltare neanche da morta), lascerò una piccola targa di pietra.

Ci ho fatto incidere quel che volevi tu, solo due sillabe. Solo il richiamo della cinciallegra: Zvi-zvi.

© Daria Bignardi 2021

ARTICOLO n. 2 / 2021

Fiaba virale

C’era una volta un dio crudele che scese sulla terra e si incarnò in un virus.

C’era una volta un dio pietoso che scese sulla terra e si incarnò in un virus.

Meglio sarebbe dire che si invirò.

Non era la prima volta che scendeva su quel pianeta. La prima volta lo aveva fatto incarnandosi in un umano. Ma gli altri umani lo avevano pestato a sangue e condannato a un’orribile morte. Che poi… se era davvero Dio e nello stesso tempo umano allora voleva dire che gli umani uccidendo Dio avevano ucciso se stessi, che uccidendo se stessi avevano ucciso Dio, voleva dire che potevano uccidere Dio. E allora che Dio era? Ma lasciamo perdere…

E poi ne aveva mandati altri, sotto diverse forme, di artisti folli, persino di personaggi di romanzo e di fiaba: Van Gogh, Don Chisciotte, il principe Myškin, la bambina dei fiammiferi, Pinocchio, lo scarafaggio di Kafka… Ma gli umani non se ne erano neanche accorti, Dio non era riuscito, attraverso di essi, ad aprire i loro occhi, a toccare le loro menti e i loro cuori.

«Questa volta» si era detto «mi incarnerò in un virus, mi invirerò, e allora voglio proprio vedere se finalmente lo vorranno capire che non sono la specie onnipotente che credono di essere, che non sono superiori al resto della natura, che stanno correndo con gli occhi bendati verso un precipizio.»

Però, prima di prendere una simile decisione, aveva convocato alcuni umani morti di cui si serviva certe volte come consiglieri o come avvocati del diavolo.

Che erano: Leopardi, Darwin, Marx, Freud, Nietzsche.

Però, a differenza di altre volte, questa volta erano tutti entusiasti dell’idea di Dio. Le loro voci si accavallavano le une alle altre.

Leopardi: «Buona idea, così gli umani, vivendo continuamente al cospetto della morte, ne avranno sollievo, perché alle mille pene e paure della loro vita e della loro mente se ne sarà sostituita una sola…».

Darwin: «Buona idea, perché la mia teoria della selezione naturale sembra non funzionare con gli umani, infatti sono stati selezionati i peggiori e non i migliori, non i più adatti ma i meno adatti alla sopravvivenza di specie, quelli che stanno distruggendo il loro habitat naturale e le condizioni della loro stessa vita. E così magari ci sarà una bella smazzata di carte…».

Freud: «Buona idea, così trovandosi di fronte alla morte reale gli umani si libereranno della pulsione di morte che li tiene in scacco da molto tempo, si abitueranno a convivere con la morte e a portarne lo stigma, capiranno che la morte è tutta dentro la vita e la vita è tutta dentro la morte, e così non avranno più bisogno di feticizzarla rendendo tutta la loro vita simile alla morte…».

Marx: «Buona idea, perché la prima volta non mi è andata bene con il proletariato, che non è riuscito a portare liberazione e che poi il tardocapitalismo ha trasformato in orde di miserabili oppure di piccolo borghesi fascistoidi e frustrati, e allora questo virus interclassista potrebbe imprimere alle meccaniche produttive una svolta robotica tale da dare vita a un proletariato di robot da programmare per un nuovo assalto al cielo…».

Nietzsche: «Buona idea, ne potrebbe nascere un nuovo oltreuomo virale, una nuova razza superumana passata attraverso la morte e la vita ormai trasformata in morte…».

Dio ascoltava in silenzio, e intanto si diceva: «Io non lo so perché me la prendo così tanto per quella specie perduta».

Però alla fine si era deciso a invirarsi per cominciare così la sua ultima e disperata missione.

E dopo? Cosa successe dopo sul pianeta Terra?

Successe che questo invisibile virus cominciò a diffondersi a macchia d’olio, passando da un corpo umano all’altro e replicandosi attraverso continue variazioni. Gli umani si domandavano da dove fosse nato quell’alieno che stava sbaragliando le loro difese immunitarie e mettendo in ginocchio le loro strutture economiche, politiche, culturali, che stava prendendosi gioco della loro stupidità e arroganza, che stava mostrando la miseria della loro presunta superiorità sul resto della natura e del mondo. Cercavano la sua origine nei laboratori, nei corpi dei pipistrelli e di altri ripugnanti animali, dappertutto meno che nella mente di Dio. Non passava loro neanche per la testa che quel virus potesse essere nato nella mente di Dio, che quel virus fosse Dio.

Vivevano rintanati nelle loro case, andavano in giro con i volti coperti da maschere, si lavavano e si disinfettavano le mani cento volte al giorno per mandare via il virus di Dio, che li aveva posti di fronte a uno specchio. Le loro città erano silenziose e vuote, la morte aleggiava sulle loro vite. Erano tutti al cospetto della morte, erano tutti al cospetto della vita.

Però alla fine gli umani riuscirono a fabbricare un vaccino di tipo nuovo, in grado di andare a snidare e combattere questo virus divino fin negli abissi genetici e chimici della vita, e a poco a poco riuscirono a sgominare le divine legioni di molecole replicanti che avevano preso possesso dei loro corpi.

Ci volle del tempo, ma si arrivò infine all’ultimo contagiato e all’ultimo virus.

Adesso Dio era completamente solo: unico e solo.

«Lo sapevo che sarebbe finita così…» si diceva l’ultimo, quintessenziale virus divino mentre veniva aggredito da ogni parte e stava per disattivarsi: «Chissà se il mio sacrificio sarà almeno servito, questa volta, a differenza delle altre volte, o se gli umani continueranno a correre verso il loro precipizio di specie senza cambiare niente, senza imparare niente. Chissà se riusciranno a inventarsi una nuova vita o se riprenderanno quella di prima, la stessa identica che li ha portati in questo vicolo cieco?».

E poi, siccome si vede che conservava memoria delle sue passioni e morti precedenti, nelle figurazioni che si sovrapponevano a lampi e si confondevano in lui nel delirio a ritroso che precedeva la fine, continuava a pensare o a fantasticare:

Passione e morte del virus

«Non ci sono più le mie legioni virali… Dove sono andate a finire le mie legioni? Legioni? Ma le legioni non erano quelle del demonio? Allora che io sia il demonio? Sono Dio o sono il demonio? Forse, al punto in cui siamo, io e il demonio abbiamo dovuto raccogliere le nostre forze, riconciliarci, dopo questa lunga, terribile, inutile ed estenuante guerra che non poteva avere vincitori. Perché io ho portato la morte e non la vita, per portare la vita ho dovuto portare la morte. Perché lui che doveva portare la morte ha portato la vita, per portare la morte ha dovuto portare la vita. E adesso cosa sta succedendo? Dove sono? Cosa sono diventato? Chi sono? Che cosa sono tutte queste zampine che si muovono a raggiera fuori dal mio controllo? Che cos’è quel suono di violino che mi rapisce e sconvolge e che cerco di andare ad ascoltare da più vicino senza farmi vedere, nascondendo dietro la porta il mio ripugnante corpo di Dio insetto? E non c’è più il sole… Dov’è finito il sole? Dove sono finite le stelle? Dove sono finiti i miei cieli in fiamme? Me li sto mangiando, sto ingurgitando i colori con i quali li avrei mostrati al mondo… E allora che fine farò, dove andrò adesso che tutto sta precipitando e sparendo? Dove andrò con il mio divino corpicino di legno da burattino? Verrò bruciato anch’io in un enorme falò insieme a tutti gli umani, in quei cieli in fiamme? O sono già stato mangiato insieme ai colori del fuoco e del mondo? Dove sei, mio principe burattino che mi tenevi compagnia nelle notti in cui ero sola e con i piedini nudi, nel gelo, con il mio povero mazzetto di fiammiferi che accendevo uno dopo l’altro per aprire una visione nella loro breve luce e riaprire il mondo? Ah, ecco, sono arrivata alla fine, questo è l’ultimo dei miei fiammiferi… Lo accendo. Oh… che visione è questa? Cosa stanno vedendo adesso i miei occhietti gelati, nella sua luce? Che cos’è questa caverna buia piena di cavalieri e di altre nobili figure che vagano nell’ultramondo? E adesso che cosa vedo? Ecco… sto vedendo me stesso sulla croce. Sono un virus in croce. Si era mai vista una cosa simile? Come ho fatto a finire su questa croce? Ma… cosa sta succedendo ancora? Non è come l’altra volta. Non ci sono più quei due ladroni vicino a me. Perché non ci sono più quei due ladroni virali? Non c’è più nessuno. Tutto il cielo è nero. Mi pare di scorgere solo, sotto di me e sotto questa croce, al posto di quelli che c’erano l’altra volta: soldati armati di lance e con l’elmo dal sottogola slacciato per il caldo, apostoli terrorizzati, donne scarmigliate e piangenti… un ridicolo cavaliere con una bacinella da barbiere in testa, un giovane principe epilettico che trema e che si contorce, con la bava alla bocca, un burattino di legno, una bambina con un fiammifero che si sta spegnendo, un uomo con le lacrime agli occhi e con la bocca blu e gialla come di chi abbia appena ingoiato dei colori e li stia rigurgitando, un impressionante insetto gigante che solleva verso di me le sue file di zampette anteriori e le sue lunghe antenne vibranti… Oh, Dio mio, perché mi hai scaraventato nel mondo sotto forma di un virus e poi mi hai abbandonato? Ecco, adesso è davvero la fine. Mi sembra ancora di vedere, anche se non ho gli occhi, un burattino che all’improvviso solleva verso di me le sue sottili braccine. Mi sembra ancora di sentire, anche se non ho le orecchie, un rumore assordante e secco in tutta questa desolazione. Sono le sue manine di legno che stanno battendo l’una contro l’altra, con forza, per applaudirmi fino alla fine dei tempi in questo spaventoso silenzio chimico.»

— Published by arrangement with The Italian Literary Agency

ARTICOLO n. 1 / 2021

Discorso per il Premio Nobel

traduzione di Valeria Gorla

Quando ero una bambina, di cinque o sei anni, credo, inscenai nella mia mente una competizione, una gara per decidere quale fosse la più grande poesia del mondo. C’erano due finalisti: Il bimbo nero di Blake e Swanee River di Stephen Foster. Camminavo avanti e indietro nella seconda camera da letto della casa di mia nonna a Cedarhurst, un paesino sulla costa meridionale di Long Island, recitando come preferivo, nella mia testa e non con la bocca, l’indimenticabile poesia di Blake, e cantando, sempre nella mia testa, la triste canzone di Foster. Come fossi arrivata a leggere Blake è un mistero. Credo che ci fossero alcune antologie di poesia nella casa dei miei genitori, oltre ai normali libri di politica e storia e i numerosi romanzi. Ma associo Blake alla casa di mia nonna. Mia nonna non era un’amante dei libri. Ma c’era Blake, I canti dell’innocenza e dell’esperienza, e anche un libretto di canzoni tratte dalle opere di Shakespeare, molte delle quali imparai a memoria. In particolare amavo la canzone tratta dal Cimbelino, probabilmente senza comprenderne nemmeno una parola ma percependone il tono, le cadenze, gli imperativi risonanti, elettrizzanti per una bambina molto timida e paurosa. «Abbi tomba famosa senza confine». Lo speravo.

Le competizioni di questo tipo, per l’onore, un’alta ricompensa, mi sembravano naturali; i miti che costituivano le mie prime letture ne erano pieni. La più grande poesia del mondo mi sembrava, perfino da giovanissima, la più alta fra tutte le alte onorificenze. Questo era anche il modo in cui mia sorella e io fummo allevate, per salvare la Francia (Giovanna d’Arco), per scoprire il radio (Marie Curie). In seguito cominciai a comprendere i pericoli e i limiti del pensiero gerarchico, ma durante l’infanzia mi sembrava importante conferire un premio. In cima alla montagna c’era un’unica persona, visibile da lontano, la sola cosa degna d’interesse sulla montagna. La persona un po’ più sotto era invisibile.

O, in questo caso, la poesia. Ero sicura che soprattutto Blake fosse in qualche modo consapevole di questo evento, che fosse attento al risultato. Capivo che era morto, ma avevo la sensazione che fosse ancora vivo, dato che sentivo la sua voce che mi parlava; camuffata, ma era la sua voce. Parlava, così mi sembrava, solo a me o soprattutto a me. Mi sentivo eletta, privilegiata; sentivo anche che era a Blake che aspiravo a parlare, a lui, insieme a Shakespeare, stavo già parlando.

Blake fu il vincitore della competizione. Ma in seguito mi resi conto di quanto fossero simili questi due testi; ero attratta, allora come ora, dalla voce umana solitaria, alzata in lamento o desiderio. E i poeti a cui tornavo a mano a mano che crescevo erano i poeti nelle cui opere svolgevo, quale ascoltatrice eletta, un ruolo cruciale. Intimi, seducenti, spesso furtivi o clandestini. Non poeti da stadio. Non poeti che parlavano a se stessi.

Mi piaceva questo patto, mi piaceva il senso secondo cui ciò che la poesia diceva era essenziale e anche privato, il messaggio ricevuto dal prete o dall’analista.

La cerimonia di premiazione nella seconda camera da letto di mia nonna sembrava, in virtù della sua segretezza, un’estensione dell’intensa relazione che la poesia aveva creato: un’estensione, non una violazione.

Blake mi parlava attraverso il bimbo nero; era l’origine nascosta di quella voce. Non lo si poteva vedere, proprio come il bimbo nero non veniva visto, o veniva visto in modo impreciso, dal bimbo bianco ottuso e sprezzante. Ma io sapevo che ciò che diceva era vero, che il suo provvisorio corpo mortale conteneva un’anima di luminosa purezza; lo sapevo perché ciò che dice il bimbo nero, la sua descrizione dei propri sentimenti e della propria esperienza, non contengono biasimo, nessun desiderio di vendicarsi, solo la convinzione che, nel mondo perfetto che gli è stato promesso dopo la morte, sarà riconosciuto per quello che è, e in un eccesso di gioia proteggerà il più fragile bambino bianco dall’improvviso eccesso di luce. Il fatto che questa non sia una speranza realistica, che ignori il reale, rende la poesia struggente e anche profondamente politica. Il dolore e la giusta rabbia che il bimbo nero non può permettersi di provare, da cui sua madre cerca di difenderlo, sono provati dal lettore o dall’ascoltatore. Anche quando quel lettore è un bambino.

Ma l’onore pubblico è un’altra faccenda.

Le poesie da cui sono stata attratta con più ardore, nel corso di tutta la mia vita, sono poesie del tipo che ho descritto, poesie di selezione o collusione intima, poesie a cui l’ascoltatore o il lettore dà un contributo essenziale, in quanto destinatario di una confidenza o di un grido di protesta, a volte in quanto cospiratore. «Io sono Nessuno» dice Dickinson. «Sei Nessuno anche tu? / Allora siamo in due! / Non dirlo…» O Eliot: «Allora andiamo, tu ed io, / Quando la sera si stende contro il cielo / Come un paziente eterizzato disteso su una tavola…». Eliot non sta radunando una truppa di boy scout. Sta chiedendo qualcosa al lettore. Al contrario, per esempio, di «Devo paragonarti a una giornata estiva?» di Shakespeare: Shakespeare non mi sta paragonando a una giornata estiva. Mi è concesso di cogliere un virtuosismo abbagliante, ma la poesia non richiede la mia presenza.

Nel tipo di arte da cui sono attratta, la voce o il giudizio della collettività sono pericolosi. La precarietà del discorso intimo rafforza il suo potere e il potere del lettore, che con la sua azione incoraggia la voce nella sua urgente richiesta o confidenza.

Che cosa succede a un poeta di questo tipo quando la collettività, invece di esiliarlo o ignorarlo, lo applaude o eleva? Mi viene da dire che un tale poeta si sentirebbe minacciato, superato in astuzia.

È di questo che parla Dickinson. Non sempre, ma spesso.

Ho letto Emily Dickinson con grandissima passione quando ero adolescente. Di solito a tarda notte, passata l’ora di andare a letto, sul divano del soggiorno.

Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?

E, nella versione che leggevo allora e che ancora preferisco:

Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero esiliarci, lo sai…

Dickinson mi aveva scelta, o riconosciuta, mentre sedevo lì sul divano. Eravamo un’élite, compagne d’invisibilità, un fatto noto solo a noi, che ciascuna corroborava all’altra. Nel mondo, non eravamo nessuno.

Ma cosa potrebbe costituire esilio per gente che esiste come facevamo noi, al sicuro sotto il tronco? L’esilio è quando il tronco viene spostato.

Non parlo qui della perniciosa influenza di Emily Dickinson sulle ragazze adolescenti. Parlo di un temperamento che diffida della vita pubblica o la considera il regno in cui la generalizzazione cancella la precisione, e la verità parziale sostituisce il candore e la rivelazione pregna. A mo’ di esempio: supponete che la voce della cospiratrice, la voce di Dickinson, sia sostituita dalla voce del tribunale. «Noi siamo Nessuno, tu chi sei?» Il messaggio diventa all’improvviso sinistro.

Per me è stata una sorpresa, la mattina dell’8 ottobre, provare il genere di panico che ho descritto. La luce era troppo intensa. Le dimensioni troppo ampie.

Chi fra noi scrive libri desidera presumibilmente raggiungere molte persone. Ma alcuni poeti non vedono l’obiettivo di raggiungere molte persone in termini spaziali, nel senso di un auditorium pieno. Vedono il raggiungere molte persone in senso temporale, in maniera sequenziale, molte nel tempo, nel futuro; ma in qualche modo profondo questi lettori arrivano sempre singolarmente, uno a uno.

Credo che nell’assegnarmi questo premio, l’Accademia svedese stia scegliendo di onorare la voce intima, privata, che il discorso pubblico può a volte accrescere o estendere, ma mai sostituire.