Fabio Cantelli Anibaldi

ARTICOLO n. 51 / 2021

CHE COS’È L’AMORE

Il mio interesse per il tema «amore» è sempre stato tiepido. Al punto che, per quel che mi riguardava, la faccenda poteva essere liquidata con un paio di citazioni ad hoc.  La prima è il folgorante incipit de L’erotismo di Georges Bataille, libro che lessi nel 1979, a diciassette anni: «Dell’erotismo possiamo dire, innanzitutto, che è l’approvazione della vita sin dentro la morte». La seconda è una frase del Viaggio al termine della notte di Céline, letto nel 1995 a trentadue: «L’amore – Arturo – è l’infinito messo alla portata dei cani».

Parto da Bataille, dunque. Di L’erotismo mi colpì molto, al di là di quella frase, la riflessione che sempre nelle pagine introduttive Bataille sviluppa attorno al concetto di «continuità», asserendo che noi umani, esseri discontinui, non smettiamo proprio per questo di desiderare una «continuità perduta». Ebbe un effetto simile, quell’osservazione sulla continuità, all’«Io è un altro» della Lettera del veggente di Rimbaud: una di quelle cose che a diciassette anni sembrano cambiare all’improvviso e in modo definitivo il tuo sguardo non solo sulla realtà ma anche – senti con un misto di entusiasmo e allarme – su te stesso. Ecco dunque cosa cercavamo, io e la mia fidanzata Cristina, quando amoreggiavamo per finire avvinghiati in un abbraccio che presto rivelava un’urgenza erotica, un bisogno di sconfinamento e di fusione: la continuità perduta. Ma allora perché il nostro primo rapporto sessuale mi era parso così difficile, macchinoso, il piacere finale un lampo che non pareva giustificare il protratto travaglio? E perché anche nei seguenti compiuti senza più timori, pudori, goffaggini, ancora quel residuo di perplessità: «Tutta qui, la faccenda per cui gli umani spasimano e a volte perdono la testa, tutto qui l’esito del desiderio più potente, fuoco che continua ad ardere sotto la brace della vita sociale, sotto il lenzuolo lindo e stirato delle sue forme?».

L’aveva dunque sparata grossa, Bataille? Non è che la «continuità perduta» era qualcosa che stava solo nella sua testa di mistico intemperante, di asceta intermittente? Uno che voleva tutto e il contrario di tutto: il bordello e l’altare, la preghiera e l’orgasmo, la bestemmia e la benedizione?

Seconda scena. Dopo le prime, deludenti, esperienze sessuali ho l’occasione, nell’estate del ’79, di passare un periodo in totale solitudine, a casa. Animato dal desiderio di assomigliare il più possibile alla figura eletta a mio alter ego, David Bowie, provo il digiuno vero, radicale, ad oltranza. E scopro che alla mattina del quarto giorno, spariti di colpo spossatezza e affanno, in una sorta di gioioso commercio d’amore mente e corpo si sono scambiati parti e connotati: il corpo è più che mai etereo ma al tempo stesso traboccante di energia, la mente così potente da riuscire a scartare come regali a lei destinati le cose che le si manifestano – oggetti, finestre, pareti – per guardarci dentro e attraverso.

Alla fine dell’estate rivedo la mia fidanzata – «Cris, ho un segreto pazzesco da rivelarti» – e così cominciamo a digiunare insieme, inventandoci di volta in volta scuse per fugare sospetti e sotterfugi per depistare controlli. Finché un giorno, fuori dal liceo, le vado incontro sventolando un libro: «Cris, ho finalmente capito chi siamo!» e apro il libro – Dopo Nietzsche di Giorgio Colli – nel punto di un aforisma cui l’autore ha dato un titolo intrigante: «Aristofane e Freud».

Partendo dal mito dell’androgino contenuto nel Simposio di Platone, in poche righe folgoranti Colli confronta il sentimento d’amore dei Greci con quello di noi moderni influenzati dalla lettura di Freud, confronto a tutto vantaggio dei primi. Per chi non conosca il mito, ecco una sintesi: racconta Aristofane che anticamente i mortali appartenevano a tre generi – maschile, femminile e androgino – e che tutti erano di forma sferica come gli astri loro progenitori: il sole del maschio, la terra della donna, la luna dell’androgino. Avevano dunque ciascuno quattro braccia, quattro gambe, una testa con due facce rivolte ai lati e due organi sessuali rivolti anch’essi all’esterno. Allarmato dalla loro sfrenata ambizione, Zeus decide un giorno di tagliarli in due, ed ecco apparire gli umani così come li conosciamo: due gambe, due braccia, un volto. Ma, come impazzite, le metà separate cominciano disperatamente a cercarsi e quando hanno la fortuna di ritrovarsi e riconoscersi si abbracciano per non staccarsi più, ricomposte e felici. Al punto che, perse nell’estasi dell’unità ritrovata, dimenticano persino di mangiare e muoiono. Ecco allora il secondo intervento di Zeus, questa volta pietoso: volge all’interno gli organi genitali in modo che quando le metà si ritrovano l’abbraccio sia in grado di generare. La specie umana è salva e, con lei, le offerte e i sacrifici destinati agli Dei.

Giorgio Colli, con micidiale affondo, commenta che l’eros non ha nulla a che fare con la sessualità perché «la precede e la sovrasta». Più nello specifico, eros è desiderio di oltrepassare l’individualità e, se possibile, estinguerla in quanto ostacolo alla pienezza del Tutto, mentre la sessualità evocata da Freud come presunta regista di ogni nostra azione e omissione, semplice artificio per consentire la conservazione della specie e ribadire la subalternità – diciamo pure la sudditanza – dell’umano al divino. Ero troppo acerbo per capire che quell’analisi spiegava con implacabile esattezza il mio controverso rapporto con la sessualità, sicché a Cristina dico solo che noi siamo le due metà di un androgino, metà che si sono ritrovate per non lasciarsi più nel segno di David Bowie, il nostro androgino ideale di bellezza. E mentre lo dico penso a certi pomeriggi passati insieme, al terzo o quarto giorno di digiuno: io e lei distesi sulla moquette – arredo tipico, in quegli anni, delle case dei borghesi benestanti – che ascoltiamo Bowie o il suo selvatico doppio Iggy Pop. Siamo seminudi dopo esserci scambiati vestiti e biancheria intima, leggiamo frammenti dell’Eliogabalo di Antonin Artaud e, pur strusciandoci l’un l’altro come due gatti, non sentiamo il bisogno di fare l’amore: ci basta l’abbraccio, la penetrazione delle nostre anime, di cui il corpo è ormai pura appendice. Non siamo mai stati così felici. Non potevo immaginare che presto nemmeno la sublime unità erotica non carnale rivelata dal digiuno, unità che secondo Colli «precede e sovrasta» la sessualità, mi sarebbe bastata. E che il dio del digiuno avrebbe lasciato il posto a un dio ancor più immediato e potente: quello della droga.

Terza scena. Agosto 1981: è più di un anno che m’inietto eroina, ma avendolo fatto saltuariamente, mai più di due giorni di seguito, non ho ancora sviluppato una dipendenza fisica. Psichica però sì, e più di quanto non immaginassi. Trangugiato l’enorme rospo di una mia passeggera infatuazione per la ragazza che mi avrebbe iniettato la prima dose, Cristina, pensando mi sia pentito di colpe ed errori – il tradimento e la droga – mi convince a partire per una vacanza in Grecia con gli amici del liceo. Grecia è nome che non mi lascia indifferente: è infatti in Grecia, tre anni prima, che ho vissuto la mia prima vacanza per così dire in libertà condizionata, affidato ad amici dei miei. Per la prima volta, sull’isola di Skiathos, ho incontrato le meraviglie della solitudine crogiolandomi in emozioni che risuonavano come mai prima, specchi della mia profondità e unicità. È iniziato lì, il narcisismo tragico che connota alcune adolescenze e che di certo ha segnato la mia. Fatto sta che per quaranta giorni rigo dritto, anche perché non è facile trovare eroina a Paros, Ios o in altre isole delle Cicladi. Ma durante il viaggio di ritorno, mentre il traghetto attraversa lento lo Stretto di Corinto, accade uno di quei fatti che dividono la vita in un prima e in un dopo. Cristina mi chiede che cosa intenda fare una volta rimesso piede a Milano, visto che ho perso un anno e ne devo recuperare ormai due per conseguire la maturità. «Ci penserò, ancora non lo so, Cris – le dico affettando impazienza – una cosa però so di certo: appena arrivo a Milano vado a comprare un po’ di roba perché ho una voglia matta di farmi». Scoppia il finimondo: Cristina prima mi copre d’insulti, poi m’insegue impugnando una forbice da parrucchiere. Alla fine, stremata, si accovaccia in un angolo del traghetto, lontano dagli amici e dai turisti che hanno osservato la scena esterrefatti. Mi avvicino cauto, ma prima ancora che spiccichi parola mi blocca: «No, non dirmi nulla, Fabio. Tanto a questo punto non mi restano che due possibilità». «E quali sarebbero, se posso sapere?». «Ti lascio… Oppure ti seguo fino in fondo». Quindici giorni dopo, il 13 settembre 1981, timorosa e trepidante Cris mi porge il braccio sinistro e si fa iniettare la prima dose d’eroina: aveva deciso di seguirmi fino in fondo, pur di non perdermi. Cristina non c’è più: è morta di Aids il 9 aprile 1995. Ma sarà sempre in me, con me, finché non ci riabbracceremo e, pur dimenticandoci di mangiare non moriremo d’inedia, abbracciati per l’eternità come le due metà dell’androgino nel mito di Platone.

Cristina è stata la prima – non l’ultima, per mia fortuna – a mostrarmi l’amore incondizionato. L’amore che ama l’altro integralmente, per quello che è e anche, a volte, nonostante quello che è. La prima ad avermi mostrato che non può esserci amore senza rischio, messa in gioco, coraggio. Un altro che mi ha amato coraggiosamente è stato Vincenzo Muccioli. Ci vuole un enorme coraggio per assumersi la responsabilità di un reato grave come il sequestro di persona per cercare di salvare una persona in pericolo di vita, tanto più se non hai con lei legami di sangue o amicizia. Solo l’amore incondizionato te lo fa fare. L’amore di chi ama l’altro non come sé stesso – secondo precetto evangelico – ma al di là di sé stesso.

E qui vengo al punto cruciale di questa mia spericolata riflessione sull’amore. «Amore» – per quello che la mia limitata esperienza mi ha fatto capire – è parola che sta al posto di un’altra, e quest’altra parola che dice davvero l’essenza dell’amore è: autotrascendenza. L’amore è quella sensazione di pace, beatitudine e cosmica compiutezza che proviamo quando andiamo oltre noi stessi, quando la baldanzosa corrazzata dell’io diventa il «battello ebbro» di Rimbaud. È il bene che ci pervade quando ci abbandoniamo alla vita che c’incarna e ci attraversa, l’estasi del divenire – del ritornare – «aria nell’aria, acqua nell’acqua», come diceva Bataille. Vita nella vita, mi permetto di aggiungere… L’amore, in tal senso, ha a che fare col sacrificio, a patto di non intendere la parola come una privazione o una rinuncia ma, letteralmente, come un «rendere sacro» o meglio rendere al sacro, cioè riportare l’io che s’abbandona alla sua sorgente e alla sua foce, alla sua origine e destinazione divine, come la vita.

Non ci può essere insomma compatibilità tra l’amore e l’io: l’amore senza autotrascendenza non è amore ma possesso e, fatalmente, violenza. È assoggettamento dell’altro da parte di chi non ha compiuto il passo decisivo per accedere alla conoscenza fondamentale, base di ogni altra: riconoscere l’altro in sé, l’altro che noi stessi siamo, come scrisse Rimbaud. 

Chiudo tornando alle due citazioni iniziali. Bataille e l’erotismo come «approvazione della vita sin dentro la morte». Affermazione forte, affascinante e profondamente vera a patto di comprendere che, per chi ha trasceso l’io, l’opposizione vita e morte non sussiste più. È solo per l’«io» che vita e morte si contrappongono. Per chi è andato al di là dell’«io» l’essere esplode come divenire, metamorfosi, evento che muore e proprio perciò rinasce a ogni istante. A costui, come allo Zarathustra di Nietzsche, è accaduto nell’«ora senza voce» di ascoltare la voce del silenzio chiedergli: «Che importa di te, Zarathustra!». A costui è capitato di tornare alla solitudine e ai silenzi dell’adolescenza, dove in embrione c’era già tutto.

Infine Céline: l’amore come «infinito alla portata dei cani». Ci sono foto meravigliose che ritraggono Céline a Meudon, negli ultimi anni di vita, insieme ai suoi cani danesi. Céline amava molto gli animali, li amava più degli uomini, si sarebbe tentati di dire: cani, gatti, il pappagallo del Gabon che pure visse con lui e la compagna Lucette, insegnante di danza, a Meudon. Mi piace dunque pensare che quel «a portata dei cani» sia da intendere come un «all’altezza» o «alla capacità di». Come un innalzamento e non un abbassamento o, peggio, una riduzione. Mi piace pensare che nell’amore – anch’esso incondizionato – che un cane arriva a sentire per un essere umano, il solitario, scorbutico ma generoso Louis Ferdinand Auguste Destouches detto Céline – quante visite mediche gratuite ai poveri del circondario! – abbia visto l’amore di cui ogni umano dovrebbe essere capace.