Maaza Mengiste

ARTICOLO n. 30 / 2021

Polvere, cenere, fuga

TRADUZIONE DI CAMILLA PIERETTI

Mercato

I

Avrebbero iniziato a disseppellire le ossa l’indomani. Alfonso rimase fuori dalla prigione, a guardare il piatto panorama della base militare di Addis Abeba. Era andato lì perché voleva vedere il sito prima che Lara e gli altri scienziati forensi iniziassero il loro lavoro, voleva che il suo occhio di fotografo potesse posarsi con calma sul terreno che avrebbero scavato. Si chiese se sarebbe stato capace di distinguere un femore da un omero, o di capire cosa differenziava le ossa giovani dalle vecchie. Gli scienziati argentini erano in Etiopia alla ricerca dei resti di prigionieri che erano stati sottratti alle loro famiglie e di cui non si era saputo più nulla. Lui era lì per fotografare quei resti, per intrappolare tra otturatore e apertura frammenti di detenuti come quelli che era stato costretto a immortalare in Argentina. Regolò la macchina fotografica in modo da zoomare su un piccone appoggiato a una staccionata di legno. Qualcosa, in quello scialbo complesso, avrebbe mai potuto ricordargli il terreno erboso della Escuela de Mecánica de la Armada di Buenos Aires?

È diverso da quello a cui sei abituato tu, gli aveva detto Lara il giorno in cui aveva finalmente accettato che Alfonso si unisse al team che sarebbe andato in Etiopia. I tuoi soggetti non saranno vivi, aveva continuato, gli occhi nocciola che scrutavano penetranti la sua giacca inamidata, i gemelli graffiati. Non c’è alcuna arte in questo, aveva aggiunto, il disgusto evidente nel sorriso che aveva posato sulla sua attrezzatura fotografica e sul suo portfolio ancora intonso. Era una donna spigolosa, dall’ossatura delicata. Durante tutto il colloquio aveva tenuto con sé un taccuino, senza però scriverci una sola parola mentre lui parlava, preferendo invece piantargli addosso uno sguardo deciso. Aveva l’aria stanca, gli occhi infossati quasi a voler deviare la luce, se avessero potuto, per rimanere a crogiolarsi nell’ombra. Non può non sapere chi sono, avrebbe voluto dirle. Sono stato l’ultimo volto che tanti hanno visto prima di sparire. Chi meglio di me potrebbe fotografare quel che resta?

Gli altri potrebbero chiederti notizie di parenti rinchiusi all’ESMA quando eri là, aveva aggiunto lei alla fine, mentre erano sulla porta del laboratorio al termine del colloquio, la mano di lui tesa ma totalmente ignorata. È meglio lasciare quel genere di discussioni a lavoro concluso, non mischiare le due cose. Aveva fatto un cenno d’assenso ed era tornata alla scrivania.

Alfonso impostò il grandangolo per inquadrare la terra secca e fessurata. Vide due etiopi che lo osservavano attenti, poco lontano. Ognuno di loro teneva una foto all’altezza del petto, l’immagine rivolta nella sua direzione. Sentì lo stomaco contrarsi. Conosceva quel rituale, riconosceva le speranze che cercavano di riporre nelle sue mani. Aveva visto compiere gli stessi identici gesti in Argentina. La gente lo fermava per strada e gli domandava: Non sei quello di cui hanno parlato i giornali? Il fotografo rinchiuso all’ESMA, che ha scattato quelle foto? Poi, dal nulla, un’immagine. Questa è mia madre, mia sorella, mia zia, mio padre, mio nipote. Erano così tanti. Una processione di facce e corpi, in posa o al naturale, che lo fissavano, chiedendo di essere ritrovati, di uscire dal mondo dei desaparecidos per essere reclamati.

Alfonso abbassò la macchina fotografica e alzò entrambe le mani verso i due etiopi che si avvicinavano. Si mise a camminare all’indietro, scuotendo la testa. Yekerta, ripeté, una volta e ancora, ringraziando silenziosamente la guida che aveva insegnato a lui e agli scienziati quella che sarebbe diventata la parola più importante di tutto il viaggio, in questo paese pieno di persone ancora in attesa di poter piangere a dovere i propri morti. Scusate. Mi dispiace.

Fu Lara a proporre di andare al polveroso tej bet vicino all’hotel, alla vigilia del primo scavo. Gli altri membri della squadra, provati da una giornata di riunioni e briefing, si scusarono e andarono a dormire, per cui rimase solo Alfonso.

«Bevo sempre una birra la sera prima di iniziare a lavorare in un posto nuovo», gli disse lei mentre si dirigevano là. «Da domani saprà tutto di terra».

Il bar era un piccolo edificio male illuminato, costruito con quelli che sembravano mattoni d’argilla. Era dipinto di azzurro, con una porta verde chiaro che girava mollemente su cardini arrugginiti. Dietro il bancone, costituito da un’asse di legno tutta rigata, una cameriera di particolare bellezza, gli abiti aderenti alle forme morbide, sorrise e tese loro due birre mentre ancora si sedevano.

Bevvero in silenzio, mentre Alfonso tentava di fingersi del tutto disinteressato alla busta che Lara aveva tirato fuori dalla borsetta e teneva cautamente ai bordi.

Fu allora che entrò Gideon. Lara diresse la sua attenzione alla porta, osservando con interesse il vecchio che si fermò a guardarli stupefatto, per un momento, prima di sedersi all’altra estremità del bancone.

Lei lo fissava come se stesse esaminando un documento. Quando parlò, non sembrava diretta a nessuno in particolare. «Ha perso qualcuno», disse. I capelli, neri e ondulati, le ricaddero sul viso; li ricacciò indietro e bevve un sorso di birra.

Alfonso le lanciò un’altra occhiata. Nonostante ciò che gli era stato detto durante il colloquio, gli altri scienziati lo avevano sommerso di domande sulle persone che conoscevano e che erano state rinchiuse all’ESMA. Lara era l’unica a non avergli mai chiesto niente.

Appoggiarono le birre al bancone e si misero a osservare Gideon, al quale la cameriera aveva iniziato a rivolgersi animata, con voce dolce. Il vecchio sedeva dritto, attento e privo di espressione. Sembrava rifiutarsi di guardare nella loro direzione, sempre più schiacciato sulla sedia, la birra stretta tra le dita, annuendo alle chiacchiere della ragazza. Il modo in cui si fissava le mani spinse Alfonso a guardare le proprie. Che ci faceva ad Addis Abeba?

Era difficile dire quanti anni avesse. Dall’aspetto potevano essere sessanta, ma era segnato da una spossatezza che li faceva sembrare almeno il doppio. Nella luce soffusa che ne sottolineava il naso dritto e la pelle incartapecorita, Gideon aveva l’area di un profeta stanco, un uomo che avrebbe dovuto essere illuminato soltanto da candele morenti.

Tenastilign. Alfonso provò a ripetere nuovamente il saluto. Non sarebbe mai riuscito a imparare le dure consonanti dell’amarico, la cadenza della lingua. Abbassò il capo in un rapido inchino e attese che Gideon ricambiasse. Sorrise, già consapevole, dopo solo quattro giorni ad Addis Abeba, della riservatezza degli etiopi.

Gideon bevve un lungo sorso di birra e si girò dall’altra parte.

Dopo un secondo tentativo di conversazione andato a vuoto, la bella cameriera dallo sguardo da cerbiatta spiegò ad Alfonso che Gideon non parlava. «Cantava», disse nel suo inglese dall’accento marcato. «Famoso. Tanto tempo fa. Ora…». Si mise una mano attorno alla gola e strinse. Lo smalto rosso vivo creava un netto contrasto con la tenue luce della lampadina sopra la sua testa.

«Non può parlare?» chiese Lara chinandosi verso il bancone, animata da un improvviso interesse. «Come mai?».

La giovane scosse la testa. «Ha smesso e basta. Beve una birra ogni sera». Si fermò, imbarazzata, quasi volesse dire altro ma non sapesse come.

Alfonso si accorse che lo osservava, incuriosita dalla loro presenza in un bar lontano da qualunque percorso turistico. Le sorrise e lei si girò di scatto per inserire una cassetta in uno stereo malandato. Una voce dolente emise una nota su una tromba jazz, scendendo la scala a passi lenti.

Il cambiamento in Gideon fu immediato, ma forse lo notò solo lui. Forse solo un uomo che era stato testimone di tanti momenti di terrore era in grado di riconoscerli. Il vecchio si accartocciò su se stesso, divenendo l’ennesimo uomo il cui petto cede, incurvandosi finché la schiena non riesce a piegarsi oltre, solo un altro corpo nella lunga linea di corpi che Alfonso era stato costretto a fotografare, un’altra faccia piena di paura che guardava dritto nell’obiettivo, supplicandolo silenziosamente per una salvezza che soggetto e fotografo sapevano non sarebbe mai arrivata.

«¿Dónde?» domandò Alfonso al comandante, ben sapendo quale fosse il punto in cui la luce che entrava dalla finestra illuminava al meglio lo stanzino della Escuela de Mecánica de la Armada. «¿Aquí?». Deglutì a fatica e puntò il dito, disgustato dall’impulso che lo spingeva comunque a voler scattare una foto nella luce migliore. «Qui va bene».

Il prigioniero si trascinò contro lo spoglio muro bianco e rimase in piedi nella debole lama di luce. Era un ragazzo dal viso allungato, con una massa di capelli ricci ora tutti arruffati. Tremava nelle catene, le braccia sottili coperte di tagli e lividi, gli occhi quasi chiusi da quanto erano gonfi.

«Señor». Alfonso parlò a bassa voce per evitare il gesto improvviso che in genere accompagnava il movimento della macchina fotografica. Lo siento, disse con lo sguardo. «Alzi il mento e guardi verso l’obiettivo», disse con la bocca. Il giovane invece guardò lui, come facevano tutti, e incurvò il petto come per schivare un colpo al cuore. Alfonso udì un lieve piagnucolio, vide le labbra che tremavano e poi si costrinse a incontrare lo sguardo del ragazzo. Percepì il momento in cui l’incredulità lasciò il posto al puro terrore. Mi dispiace, avrebbe voluto dire, ma il comandante era proprio dietro di lui, con il suo respiro pesante e il suo sudore, a mormorare: «Bueno. Bueno, il generalissimo apprezzerà questa foto per la sua collezione. La prossima settimana devi scattarmene una per il nuovo passaporto». Il comandante gli fece l’occhiolino. «Mi farai apparire come un uomo nuovo, ¿sí?».

Stava al quarto piano della Escuela de la Armada. Era stato catturato a San Isidro, poco fuori Buenos Aires, tre mesi prima. Lo avevano fermato ad armi spianate, nella sua auto. La macchina fotografica era appoggiata sul sedile accanto a lui, i finestrini abbassati per godersi quel poco di aria che riusciva a fendere la calda umidità della sera. I soldati erano tre, ma nessuno gli spiegò perché lo trascinavano fuori dalla macchina. Era l’Argentina del 1978, in carica c’era il generale Jorge Videla e le persone sparivano a migliaia. Forse quelle erano ragioni sufficienti. L’unica cosa a cui riuscì a pensare dal buio sedile posteriore della macchina senza targa che percorreva l’Avenida del Libertador a tutta velocità, però, furono i tanti anni in cui si era allontanato dalla madre, una donna così affamata d’affetto che Alfonso era sicuro fosse stato il cuore a ucciderla, non l’asma.

La musica andava scemando. La cameriera canticchiava, la voce esitante sulle ultime note prima di perdersi in un sospiro lieve. Aveva un’espressione sincera, gli occhi dolci. Alfonso avrebbe potuto rimanere a osservarla per un’altra ora, tenendola sotto lo sguardo impassibile dell’obiettivo finché il suo corpo non avesse ondeggiato nel modo giusto, fino a farla diventare null’altro che una figura delineata da una spessa lama d’ombra e da una linea di luce calante.

La giovane alzò gli occhi verso di lui. «Tizita. Una canzone famosa», disse, spegnendo lo stereo con delicatezza per poi inclinarsi verso di lui in modo da appoggiare le braccia vicino alle sue, sul bancone. «Significa memoria. Una bella canzone da ascoltare in Etiopia». Gli lanciò uno sguardo timido da sotto le ciglia, evitando Lara, che intanto aveva estratto dalla busta un articolo di giornale ripiegato con cura.

Alfonso si schiarì la gola e sorrise, incerto. «Birra». Puntò verso di sé, verso Lara e verso Gideon. «Che cos’è quello?», chiese infine a Lara, indicando il pezzo di carta.

«Per me basta, grazie». Lara allontanò la seconda birra. Fece scivolare il ritaglio di giornale verso di lui. «Così capisci cosa andremo a fare domani».

Alfonso diede un’occhiata all’articolo. In un luogo chiamato El Mozote, tra le montagne di Morazán, in El Salvador, era stato sterminato un intero villaggio di uomini, donne e bambini. Erano stati ritrovati centinaia di corpi, inclusi neonati e anziani. Gli abitanti delle aree vicine avevano dichiarato che, dopo la matanza compiuta dall’esercito salvadoregno, il fantasma di una donna aveva iniziato ad aggirarsi tra le montagne circostanti. Nuda, i capelli scarmigliati, la si vedeva accovacciata sulla riva del fiume sotto la luna, a piangere i figli morti con un pesce in fin di vita che le si dibatteva tra le mani. Gli scienziati argentini arrivati sul luogo del massacro per riesumare i corpi erano stati avvertiti dell’apparizione sia dai locali sia dai militari.

Alfonso esaminò attentamente l’immagine di Lara, ritratta insieme a quattro colleghi nei pressi di un’area recintata, mentre indicava tre piccoli teschi sfondati.

«Quanto tempo fa è successo?», chiese. «Sembri molto più giovane».

«Non è importante», fu la risposta. Lara gli prese l’articolo dalle mani, lo ripiegò con precisione e lo rimise nella busta. «Lo spettro che la gente dichiarava di aver visto», disse, girandosi a guardarlo. «Non c’era nessun fantasma. Non esistono queste cose». Si era chinata verso di lui, voltando la schiena alla cameriera e a Gideon.

Alfonso assentì, confuso: «La gente tende a inventarsi di queste storie».

Lara scosse la testa. Parlò con una certa insistenza. «Non c’era nessun fantasma perché, anche se l’esercito aveva ucciso neonati, bambini e donne indifese, anche se aveva bruciato vivi gli uomini, anche se era tornato sui propri passi per accertarsi di non aver tralasciato nessuno… una era sopravvissuta. Più di mille morti, ma una era ancora viva. Si era nascosta tra i cespugli e poi era corsa verso le montagne. L’ho incontrata durante gli scavi. Quando ci ha visto riesumare le ossa, è scesa dai monti. Voleva trovare i suoi figli». Lara si interruppe, gli occhi fissi sulla busta. «Era viva. È ancora viva».

La cameriera porse la seconda birra ad Alfonso, che scosse la testa. Aspettò, senza sapere cosa dire. Lara non gli aveva mai parlato tanto a lungo di qualcosa che non fosse il loro lavoro in Etiopia.

«Solo perché qualcuno è disperso», continuò lei, guardandolo negli occhi, «non significa che lo troveremo. Non c’è niente di certo, finché non se ne hanno le prove». Aveva lo sguardo puntato sulla macchina fotografica. «Se una cosa non la puoi vedere, non hai nulla».

Alfonso si aspettava che dopo quella frase lei si alzasse e se ne andasse, il silenzio sempre più pesante tra loro. Ma non lo fece. Al contrario, fissò la sua macchina fotografica così a lungo da spingerlo a sollevarla all’altezza degli occhi. Quando lei non reagì, tolse il tappo all’obiettivo e regolò l’esposimetro. Improvvisamente, ebbe l’impressione di poterla vedere meglio in questo modo, incorniciata in quel riquadro che lasciava fuori tutto eccetto gli occhi infossati e le guance scavate, il rapido sfarfallio delle ciglia e il lento oscillare della testa. Le dita, lunghe e sottili, salirono ad asciugarle un occhio, per poi ridiscendere lasciando di nuovo spazio al suo sguardo piatto e severo. La inquadrò.

«No», disse lei, decisa. Alfonso trasalì nel vedere il modo in cui Lara aggrottò le sopracciglia, sollevando rapidamente le mani a nascondere il viso.

«No, no… no foto», esclamò la cameriera, allungando la mano come per prendergli la macchina fotografica. «No».

Fu allora che Alfonso si accorse che Gideon si era alzato e si era coperto il capo con un braccio. La cameriera si era spostata in modo da mettersi davanti a lui, il corpo rigido e teso, la schiena dritta, forte. Il viso aveva perso tutta la sua amabilità.

Il vecchio diede loro la schiena e uscì, rapido. La porta cigolò sui cardini, prima di richiudersi. Lara si alzò in piedi.

«Domani cominceremo presto», dichiarò. Poi ringraziò la cameriera e uscì.

Una volta rimasti soli, la giovane si rilassò. «È un brav’uomo, è mio amico», disse, indicando la sedia lasciata vuota da Gideon. «Ma in Qey Shibir…», schioccò le dita, in cerca della parola giusta. «Terrore rosso. La rivoluzione del 1974. Non era buono. Era famoso, molte foto di lui ad Addis Zemen».

Alfonso annuì. Conosceva la storia del Terrore rosso, l’intenso periodo di violenze inflitte al popolo etiope da un dittatore dal pugno di ferro.

La giovane indicò di nuovo la sedia di Gideon. «Era un cantante».

«In un gruppo?» chiese Alfonso, ricordandosi di una piccola brochure del Ghion Hotel che raccontava la storia della celebre band dell’albergo. «Quale?».

Il volto della cameriera si rabbuiò e la ragazza gli porse di nuovo la seconda birra. «Ai funerali».

«Le famiglie lo adoravano, quindi?», chiese Alfonso. «Come Alberto Cortez nel mio paese».

La giovane asciugò l’interno di un bicchiere con uno strofinaccio e lo alzò verso la debole luce per esaminarlo. Poi lo appoggiò con delicatezza. «Era un cantante del Derg». Quando Alfonso scosse la testa, mostrando di non aver capito, continuò: «Cantava per celebrare le morti dei nemici del Derg. Le famiglie lo odiano. Anche adesso, certe persone non dimenticano mai». Lanciò un’occhiata verso la porta, sopra la sua spalla, lo sguardo assente. «Come si può dimenticare? Aveva una voce meravigliosa». Agitò graziosamente le dita di una mano.

A causa delle birre, la stanza cominciava ad assumere contorni sfumati: Alfonso aveva bevuto a stomaco vuoto. La fragile porta in legno, che non riusciva a impedire agli odori di Addis Abeba di penetrare nel bar, iniziò a pulsare lentamente, al ritmo di un’altra canzone che usciva dal vecchio stereo consunto. Gas di scarico, letame, fumo, berbere e, sotto sotto, il profumo dolce e pungente della mirra, misto all’aroma intenso che veniva dalla cameriera o dalla brocca in plastica del tej che non era stato abbastanza coraggioso da assaggiare, preferendo una birra etiope in bottiglia al vino al miele della casa.

«Sei ad Addis Abeba in visita?», chiese la cameriera, il sorriso freddo e lo sguardo acuto che lo costrinsero a riportare gli occhi dai suoi fianchi al viso.

Non sapeva quando l’orrore era diminuito e lui si era ritrovato a mettere in posa i suoi soggetti, aggiustando loro i vestiti e usando le ombre per nascondere i lividi. Era un impulso sviluppatosi a poco a poco, tra rapporti e punti focali. Il leggero movimento per includere l’intero volto nell’inquadratura si trasformò in attenzione all’espressione e alla composizione. Non avrebbe mai chiesto a nessuno di sorridere, si diceva, ma con i prigionieri dall’aspetto migliore, i cui tagli partivano da sotto lo scollo della tunica, si scoprì incapace di resistere. Incurvi un poco la bocca, señorita, ammorbidisca un po’ il viso, sussurrava. Solo per me, non pensi ai soldati. Lo sguardo che gli rivolgevano era pura impotenza.

A un certo punto, dopo aver scattato centinaia di foto a centinaia di prigionieri che erano usciti dall’inquadratura per finire in una sala interrogatori o davanti al plotone di esecuzione, Alfonso aveva cominciato a nascondere al comandante alcuni rullini incriminanti. Aveva sognato la madre, con il suo disprezzo per la fotografia, per quella scelta così borghese in una famiglia di operai. Ti trasformerà in qualcos’altro, gli aveva detto una volta, non sarai più mio figlio. Nel sogno, la madre si era trasformata  in un uccello che aveva becchettato incessantemente il soffitto del quarto piano della Escuela de la Armada fino a fare un buco nella stanza, per poi volare sulla sua macchina fotografica, appollaiandosi sul flash. Gli occhi sgranati, che andavano da lui al lenzuolo che aveva fissato al muro, lo avevano spinto a svegliarsi, la mano che fendeva vanamente l’aria.

«Ci penso io a tenerglieli, Comandante», aveva detto Alfonso il giorno dopo, di fronte all’uomo dal respiro pesante che sudava profusamente, un fazzoletto umido sempre in mano. «Lei non ne ha bisogno, sono solo un impiccio». Si era messo un rullino usato nella tasca dei pantaloni sudici che indossava fin dal giorno dell’arresto. Aveva infilato le pellicole esposte prima nelle tasche davanti, poi nelle tasche dietro, poi nella tasca della camicia e, quando lo spazio era finito, aveva fatto un gran sorriso innocente e se ne era messa qualcuna anche nei calzini.

Ogni volta che poteva, nascondeva una manciata di rullini nella sua cella, uno stanzino squadrato e freddo in cui erano rinchiusi una ventina di prigionieri, a rotazione. Raul, uno studente universitario con un viso infantile e una determinazione incrollabile, aveva scavato un buco nel muro per nasconderli, dormendoci o posizionandocisi davanti, finché un giorno anche lui fu chiamato a posare davanti all’obiettivo. Alfonso incise una R sul contenitore della pellicola che racchiudeva il sorriso indulgente di Raul. Quattro anni più tardi, quando venne rilasciato di prigione dopo la caduta della junta, fu la prima cosa che prese e si fece scivolare nella tasca della camicia.

Se esisteva qualcosa di simile a una redenzione, pensò, avrebbe dato alle famiglie di quei prigionieri la dimostrazione che, una volta, un uomo aveva guardato in faccia i loro cari e ci aveva visto una vita degna di essere ricordata. Sperava che nessuno avrebbe sottolineato il fatto che non aveva mosso un dito per risparmiare loro l’onta di essere fotografati appena prima di morire.

«Sei un turista, in visita?», domandò nuovamente la cameriera.

«Sono qui per lavoro», disse lui, accennando alla sua macchina fotografica.

«Giornalista?», chiese lei, l’espressione improvvisamente curiosa e interessata. «Per il processo agli ufficiali del Derg?». Pronunciò le ultime parole quasi sputando, il viso contorto in una smorfia adirata. «Devono morire per quello che ci hanno fatto. Ci uccidevano, i corpi lasciati in strada. Mia sorella…». Si interruppe e fece un profondo respiro. «È un bene che sei qua», concluse semplicemente e gli diede le spalle, come imbarazzata.

Dopo la rivoluzione che aveva detronizzato Hailé Selassié nel 1974, il regime del Derg aveva regnato fino a tre anni prima, nel 1991. Menghistu Hailé Mariàm aveva dichiarato il Terrore rosso per liberarsi di tutta l’opposizione, costituita da un segmento della popolazione che ad Alfonso era fin troppo familiare: giovani istruiti, idealisti e innocenti, il cui unico crimine era la speranza. Il Terrore rosso aveva quasi privato l’Etiopia di un’intera generazione, mantenendola nelle salde grinfie di una violenza caotica e sanguinosa dal 1977 al 1978. Le violenze, però, erano cominciate ben prima e non si erano fermate fino alla fuga di Menghistu. Molti non erano riusciti a piangere degnamente i propri morti. Altri non avevano neanche mai ritrovato i corpi. Una delle prime iniziative del nuovo governo fu di avviare la procedura per processare gli ufficiali del Derg. Ma il tribunale aveva bisogno di prove.

La squadra di scienziati forensi era arrivata dall’Argentina con competenze affinate nella propria terra, sulle ossa della propria gente. Erano venuti a riaprire le fosse comuni di Addis Abeba per dimostrare ciò che gli ex ufficiali del Derg tentavano di negare. Il gruppo era stato anche in altri paesi ─ Kurdistan, i Balcani, El Mozote, Croazia ─ prima dell’Etiopia, per cui era consapevole del potere che i morti erano ancora in grado di esercitare. Tutti loro lavoravano nella convinzione che i testimoni, i documenti e persino le fotografie potessero ingannare, ma che un teschio ricomposto, un frammento d’ossa, uno scheletro recuperato da una fossa piena di resti di decine di altri raccontassero una verità da cui non ci si poteva difendere.

Alfonso, per parte sua, era andato in Etiopia perché voleva trovarsi davanti a quelle spoglie e fingere che quelle ossa potessero sostituire i prigionieri argentini che sapevano a cosa stavano andando incontro, quando si giravano a guardare il suo obiettivo. So come fotografare i morti, aveva detto a Lara durante il colloquio. Ci conosciamo. Alla fine, lei aveva ceduto.

«Come si chiama il cantante?», chiese alla cameriera, sbattendo rapido le palpebre per trattenere le lacrime. Si sorprendeva ancora di quanto gli capitasse facilmente di piangere, da quando era uscito di prigione. Indicò la porta dietro di sé, come se l’uomo fosse ancora lì.

«Gideon», rispose la giovane. «Un tempo aveva un figlio», aggiunse, scuotendo tristemente la testa.

II

Tornando verso casa sua, vicino al mercato affollato, Gideon non sapeva cosa pensare dei ferenjoch seduti nel suo bar preferito, a parlare con Konjit. Vedere quegli stranieri lo aveva sorpreso a tal punto che aveva mandato giù la sua birra in soli tre sorsi. Forse Konjit aveva messo su quella canzone per i turisti. Forse era il suo modo di chiedergli perché non era andato a trovarla per un’intera settimana. Forse era il suo modo di punirlo. Molti, ad Addis Abeba, trovavano dei modi, per quanto piccoli, di fargli pagare ciò che aveva fatto. Una gomitata ben assestata in mezzo alla folla. Calci sulle gambe. Ritrarsi da lui neanche fosse un lebbroso. Il linguaggio utilizzato in quei momenti lo capiva, se lo aspettava. A volte, quando pensava al figlio, lo desiderava addirittura. Ma la canzone, Tizita, gli aveva fatto l’effetto di uno schiaffo, forte e carico di amarezza: l’improvvisa comparsa della voce di Tilahun Gessesse che si innalzava nella scarsa luce del tej bet era stata come un pugno nel petto. Quella era la canzone che sceglieva sempre per concludere le sue esibizioni a palazzo, prima del Derg.

Samson, avrebbe invocato se avesse avuto una voce, tanto era stato lo shock di risentire quella canzone. Avrebbe invocato il nome del figlio e, nel mondo in cui avesse avuto ancora una voce, avrebbe avuto ancora un figlio, che sarebbe arrivato di corsa. Samson, figlio mio.

Abbaba.

Il canto di un muezzin si alzò nel vento dalla moschea di Anwar, leggero e vibrante. Come faceva ogni giorno quando sentiva la chiamata alla preghiera, pur avendo abbandonato qualsiasi religione molto tempo prima, Gideon si toccò la gola e maledisse il suo dono, deciso a tenerlo intrappolato lì dove l’aveva rinchiuso ormai da anni. Passò davanti a un piccolo caffè, accanto a uno dei negozi stracolmi di gente della zona, e vide un gruppo di uomini chini sopra i giornali, l’aria corrucciata. Un giovane strillone corse verso di lui con i sandali impolverati, agitandogli il giornale in faccia.

«Sono iniziati gli scavi al complesso militare», disse, gli angoli delle labbra secche segnati dall’abitudine di masticare le foglie di qat dall’effetto stordente. Aveva occhi come di vetro, uno sguardo sfocato che un tempo Gideon aveva invidiato e di cui aveva persino creduto di avere bisogno.

Cercò di mandare via il ragazzo e di continuare per la sua strada, ma lui gli infilò una mano in tasca e ne estrasse un piccolo involto di qat. «E queste?» chiese.

Gideon aveva provato le foglie per la prima volta poco dopo la scomparsa di Samson, alla ricerca di qualcosa che alleviasse la solitudine che lo tormentava come una lama piantata nel fianco. Le masticava da solo, in un angolo buio della sua casupola, dove il letto del figlio giaceva sfatto, così come era stato lasciato settimane prima. Era il 1978. Lui non era più un cantante della popolare band tanto amata dall’imperatore Hailé Selassié. L’imperatore era morto. Centinaia di persone avevano lasciato il paese. Cubani e sovietici sembravano essere comparsi dal nulla. C’erano soldati ovunque.

Due poliziotti erano arrivati alle cinque del mattino e avevano portato via Samson per interrogarlo. Avevano promesso che glielo avrebbero riportato a casa. Gideon sapeva di questa popolare menzogna, atta a zittire i genitori costringendoli all’ubbidienza. Aveva afferrato il figlio alla vita con entrambe le braccia e si era lasciato cadere in ginocchio. Uno dei poliziotti aveva preso il fucile e si era messo a colpirlo alla nuca, una volta e poi ancora, finché non aveva mollato la presa. Si era precipitato subito alla prigione, ma gli era stato detto di tornare il giorno dopo. Aveva passato la notte sui gradini, fuori dalla porta e, quando era rientrato con la foto del figlio, un agente dall’aria stanca lo aveva indirizzato all’obitorio dell’ospedale. Provi lì, aveva detto, li hanno portati tutti là ieri notte.

Due settimane dopo, senza essere riuscito a trovare traccia di Samson, si era presentato a un chioschetto del mercato, chiedendo del qat.

«Gideon», gli aveva detto il proprietario, «non è da te. Aspetta, vai in chiesa, vedrai che tuo figlio tornerà». Ma non era riuscito a guardarlo negli occhi e alla fine aveva fatto scivolare verso di lui un piccolo involto di foglie, rifiutando il denaro che gli aveva allungato in cambio.

L’unica cosa che il qat riuscì a fare fu di dare forma al suo dolore rendendolo più vivo, una creatura che gli si annidò nel petto, pelo, denti e tutto, rodendogli la gabbia toracica. Gli pareva di avere il torace teso come un tamburo. La voce che invocava il figlio sembrava quella di sua moglie, ma, quando si girava, non trovava altro che la sua mano che si dimenava invano nell’aria, alla ricerca della donna che gli aveva insegnato ad amare per poi morire di parto.

«Sono iniziati gli scavi», ripeté lo strillone, agitandogli il giornale in faccia. «Leggi, leggi. Stanno lavorando laggiù». Indicò le colline ondulate dove si trovava una base militare. «Se hai perso qualcuno nel Qey Shibir, dovresti leggere l’articolo».

Gideon pagò il giornale e diede una scorsa alla prima pagina. Lì, a lato di una fila di uomini e di una donna dall’aria seria, c’era il turista del bar di Konjit.

Indicò la foto, guardando il giovane strillone con aria interrogativa.

«Non lo sai?», rispose il ragazzo. «Ci sono delle tombe nella base militare. Queste persone», indicò l’immagine sul giornale, «sono venute qui per dissotterrare i corpi. Sanno come si fa».

La mano di Gideon tremò. Suo figlio era stato portato in quella prigione: aveva seguito il camion a piedi, finché aveva potuto, poi aveva preso un taxi fino al cancello. Aveva memorizzato la targa e aveva rivisto lo stesso camion, vuoto, nel parcheggio. Gideon si strinse il giornale al petto e si appoggiò con tanta veemenza sulla gamba buona da rischiare quasi di finire contro lo strillone, il ricordo dei giorni passati a cercare il suo unico figlio che lo schiacciava come una mano greve.

I soldati lo avevano guardato da dietro il banco, la foto di Samson spinta verso di loro da mani tremanti. Si erano rifiutati di rispondere alle sue domande. Avevano cercato di ignorarlo. Gli avevano dato la schiena e lasciato che la voce gli diventasse roca a furia di chiedere dove avessero portato il figlio. Lo avevano fatto restare lì, davanti al bancone, a piangere per lui. Poi avevano iniziato a stancarsi di quel suo dolore senza fine. Uno di loro lo aveva minacciato. Un altro lo aveva supplicato di tornarsene a casa. Quando lui non si era mosso, con quella postura inclinata che lo obbligava ad appoggiare un gomito al banco, lo avevano ricacciato indietro a calci e pugni. Gli avevano colpito la gamba più corta con i fucili e lo avevano guardato cadere. Avevano insultato il nome di suo padre, la sua band, la moglie morta. Eppure, la mattina dopo Gideon si era alzato ed era tornato alla prigione, la foto di Samson tra le mani.

Alla quarta visita, uno dei soldati aveva tirato fuori un foglietto, aveva indicato Gideon e aveva detto: «Forse è lui quello che il generale sta cercando».

Quando lo avevano portato in un altro edificio, accanto alla prigione, non aveva protestato, perché loro sapevano dov’era suo figlio e a lui interessava solo quello. I soldati lo avevano spinto fino davanti a una grossa scrivania in legno, dove un uomo sottile come uno stecco tossiva sulla sua sedia, tenendosi la pancia. L’uomo lo aveva esaminato a partire dai piedi, le labbra che si arricciavano mentre passava da una gamba all’altra, per distendersi in un ampio sorriso quando arrivò al volto.

«La grande voce dell’Etiopia, con un talento degno di un imperatore, è qui nel mio ufficio, a offrirsi di cantare per la nostra causa?», aveva chiesto. «A cosa dobbiamo tanta fortuna?».

Tornando a casa, Gideon si era ricordato di una storia che aveva imparato a scuola. C’era una volta una capra che credeva di essere un re. Fu catturata da un contadino, che scambiò il re per una capra. Devi solo cantare, si disse. Le cose non cambiano perché le si chiama con un altro nome. Una canzone non è altro che una canzone, ma un figlio, pensò una volta e ancora, un figlio… Si fermò e sospirò per tutto ciò che un figlio può significare.

Il suo primo funerale era stato per l’unico figlio di una coppia che non riusciva a smettere di scuotere la testa alla vista della tomba del proprio bambino. «È tutto vero? È lui? Mio figlio?», gemeva la madre, stretta al petto del padre in lutto. Gideon maledisse la propria voce, la propria gola, l’aria che respirava. Tenne le labbra serrate finché non sentì il fucile di un soldato nel fianco. Iniziò con un brano dolce, triste, pieno di dolore e nostalgia, ma i soldati levarono le armi, dichiararono il cadavere un nemico e lo costrinsero a cantare del valore del presidente Menghistu. Dopodiché, puntarono i fucili contro la madre e dissero: «Balla, Emama, non si piange per coloro che odiamo».

Ogni giorno, per una settimana, Gideon andò al bar di Konjit ad aspettare i due ferenjoch. Indossava il suo unico completo, di quando ancora suonava con la band. Era un gessato dal bavero ampio e con un fazzoletto blu cucito nel taschino della giacca. Nella tasca della camicia, invece, teneva la foto di Samson. Ordinava una birra e la beveva lentamente, a piccoli sorsi. E aspettava, ignorando le occhiate interrogative di Konjit e i suoi tentativi di parlargli.

Durante la seconda settimana, una sera, verso l’orario di chiusura, l’uomo arrivò da solo, proprio mentre Konjit stava cercando di convincere Gideon a tornarsene a casa. Il vecchio sentì il palato seccarglisi di colpo, anche se aveva appena mandato giù un po’ di birra. Si girò di scatto, a bocca spalancata, e, per la prima volta in tanti anni, si pentì di aver ingoiato la propria voce, di averla fatta sparire.

L’uomo aveva gli occhi segnati da profonde ombre scure. Era coperto da un sottile strato di polvere e il peso della macchina fotografica che portava su una spalla sembrava farlo pendere di lato. Non guardò né Gideon né Konjit, concentrando lo sguardo sulle lettere amariche dell’etichetta di una bottiglia di birra posata sul bancone. Respirava con la bocca aperta, in brevi singulti. Gideon non riuscì a capire se fosse sul punto di mettersi a piangere o semplicemente esausto.

«Birra?» chiese Konjit, allungandogli una bottiglia fresca. «Sei stanco?». Sorrideva, ma il sorriso le morì sulle labbra quando l’uomo non le restituì lo sguardo. Appoggiò la birra davanti a lui e si girò a impilare i bicchieri puliti su uno scaffale.

Gideon tastò la foto di Samson, i contorni premuti contro la camicia, marchiati a fuoco sulla sua pelle nuda. Il cuore gli martellava contro quel pezzo di carta, facendogli rimbombare il nome del figlio nel petto e su, fino in gola. Aprì e richiuse la bocca in parole silenziose.

L’uomo allontanò da sé la birra e prese a respirare in modo più regolare. Teneva le mani piatte sul bancone, fissandole intensamente. Si mise a svuotare la macchina fotografica, e labbra gli tremarono un poco mentre toglieva il rullino e se lo faceva scivolare nel taschino della camicia. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

Gideon estrasse la foto di Samson dalla tasca e la appoggiò delicatamente sul bancone di fronte a lui. Gli toccò una spalla, lasciando lì la mano in segno di conforto, e guidò lo sguardo dell’uomo prima verso la foto e poi verso se stesso. Ripeté il gesto: Samson e poi lui. Il viso di Samson e poi il suo.

Konjit scosse la testa, lo sguardo triste. L’uomo si voltò dall’altra parte, portandosi entrambe le mani alla faccia come a proteggersi da una luce troppo intensa.

«Please», disse, una delle poche parole inglesi che Gideon era in grado di comprendere. «Per favore, basta». Mosse il capo avanti e indietro e sussurrò qualcosa a Konjit, gli occhi incollati al bancone, fissi sulle mani che stringevano la birra come se quella bottiglia fosse l’unica cosa in grado di tenerlo in piedi.

«Lascialo in pace», disse Konjit a Gideon, gli occhi fissi sulle labbra dell’uomo. «Ha detto che sono arrivate troppe famiglie, oggi».

Gideon scosse la testa e spinse la foto ancor più verso di lui. Gli bussò di nuovo sulla spalla, indicando di nuovo la foto. Samson, scandì, disperato. Samson. Lo guardò e attese.

L’uomo disse qualcosa in inglese a Konjit e poi accennò col capo nella sua direzione.

La giovane fece un profondo respiro e parlò con tono gentile: «Ci sono soltanto ossa ora, Gideon. Non c’è modo di identificarle da una foto».

Ma le ossa non sono tutte diverse? Avrebbe voluto chiedere lui. La forma del volto di mio figlio non è diversa da quella di chiunque altro? Guardate la sua mascella, così forte, con quelle linee decise. Chi altro può averla così, se non il mio Samson? Guardatelo! Gideon avrebbe voluto urlare. Non c’è nessuno come lui. Anche dopo che la carne è diventata polvere, anche dopo che tutto si è trasformato in cenere. Rimane ancora lui.

III

Gideon viene a guardarci scavare tutti i giorni, da una settimana. Si mette sotto un albero e rimane lì tranquillo, reggendo una foto all’altezza del cuore. Indossa un vecchio completo ben stirato. Le scarpe sono lucide come quelle di un soldato e, anche da lontano, noto che una ha un tacco più alto dell’altra. Quando il sole cala e accendiamo le luci per continuare a scavare, Alfonso va a sedersi con lui. Non parlano, ma li vedo lì, seduti vicini, quasi appoggiati l’uno all’altro. Non se ne va finché non mettiamo via l’attrezzatura e saliamo in macchina. Alfonso resta finché Gideon si alza per andare a casa, aiutandolo a tirarsi su e dicendo parole che non riesco a sentire da dove sono accovacciata, a catalogare pezzi di quelli che un tempo erano uomini.

All’inizio avevo negato la richiesta di Alfonso di venire con noi in Etiopia. È solo un peso e un costo in più, avevo detto, cercando di addurre ragioni professionali per il mio rifiuto. Diego mi aveva presa da parte e aveva sussurrato: Lara, non te lo ricordi ai notiziari? Lo hanno tenuto prigioniero per anni. Le cose che gli hanno fatto. Lascia che venga. E poi, ha dato alla mia famiglia l’ultima foto di mio fratello.

Non voglio chiedergli se si ricorda di mia sorella. Non ne ho il coraggio. Alicia è sfuggita alla polizia la notte in cui hanno cercato di arrestarla. Era sempre stata la più veloce della scuola, capace di superare anche i ragazzi. Sarà corsa fin fuori Buenos Aires e si sarà lasciata galleggiare fino a un posto nuovo. Tornerà, quando avremo finito con tutte queste ossa.

Abbiamo quasi terminato. Le spoglie sono state esumate e adagiate su tavoli di metallo, cercando di restituire loro una forma umana. Abbiamo impacchettato ed etichettato vestiti, gioielli e documenti di identità. Tutti i corpi sono stati identificati. Ora il lutto può davvero avere inizio. Il nostro lavoro è finito. Presto ripartiremo per l’Argentina, finché non ci richiameranno, qui o in un altro posto colmo di orrori ancora senza nome.

Ho diviso le informazioni sull’Etiopia tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Tra fatti e ipotesi. Non c’è posto per gli scomparsi. Nel mio rapporto non ci sarà spazio per le speranze di coloro che hanno sentito la storia di Lazzaro e ci hanno creduto. Tutto ciò che abbiamo è quello che possiamo disseppellire, osservare controluce e rimettere dov’era.

Questo è ciò che sappiamo di quest’ultimo scavo: quaranta maschi adulti sono stati portati in un angolo boscoso della base militare e strangolati con una corda di nylon. Alcuni recavano anche i segni di forti colpi al cranio, nasi rotti, fratture a mani e piedi. Ogni pezzo di corda era tagliato esattamente a 159 centimetri, le estremità sigillate con il calore per evitare che si sfilacciassero. I carnefici (una sola persona avrebbe mai avuto la forza di uccidere quaranta uomini che volevano vivere?) avevano praticato dei nodi semplici a ciascuna estremità, per facilitare la presa. Dopodiché, avevano girato la corda attorno al collo dei prigionieri.

Questo, invece, è ciò che possiamo solo ipotizzare: alcuni dei prigionieri avranno provato a ribellarsi, ma non tutti. Era una lotta inutile. Sono morti tutti per strangolamento da corda. Mi chiedo quali abbiano resistito più a lungo e se ogni alito di vita in più sia valso la pena di lottare.

Erano sepolti sotto diversi metri di calce e sassi. Li abbiamo trovati sotto pietre e cenere. Erano vestiti. Tutti, tranne uno, erano avvolti in una coperta: sarà stata una notte fredda. Tutti, tranne quell’uno, avevano ancora la corda di nylon stretta attorno al collo. Quel prigioniero morto senza coperta, la corda lanciata lontano, quale storia potrebbe raccontarci, quale segreto nascondono i suoi resti? Me lo domando mentre copio i dati su carta, registrandoli di modo che, la prossima volta che ci troveremo a scavare, la storia di queste ossa rimanga a guidarci.

Sto prendendo gli ultimi appunti, appoggiata a un albero poco lontano dagli scavi, quando Alfonso e Gideon vengono verso di me. Appena alzo lo sguardo, sembrano esitare.

«¿Sí? Posso aiutarvi?», chiedo ad Alfonso, cercando di non essere scortese, per rispettare quello che deve aver visto e subito alla Escuela de la Armada. Mi accorgo che lo sguardo tormentato che aveva quando è venuto da noi la prima volta non è cambiato. È permanente, come una cicatrice.

«Gideon. Ha qualcosa da farti vedere». Indica il vecchio, che tira fuori una fotografia dalla tasca e la tende verso di me, tenendola tra le mani a coppa come un uccello ferito. «Questo è suo figlio Samson», spiega Alfonso. «È scomparso anni fa, era rinchiuso qui».

Scuoto la testa, sapendo già cosa vuole chiedermi. «Abbiamo trovato tutti. Non è rimasto nessun altro. Digli che mi dispiace». Mi meraviglio di fronte a quest’uomo che vuole trovare le ossa del figlio, che preferisce non credere alla possibilità della fuga.

«Per favore, dai un’occhiata», insiste Alfonso. Si interrompe. «Per il suo bene, dai almeno un’occhiata alla foto. Poi glielo puoi dire».

Vedo un giovanotto, quasi un ragazzino, con lo sguardo attento e un ampio sorriso. Vedo la mascella forte e gli zigomi alti del padre, un dente davanti scheggiato e la fronte spiovente. È carne e sangue, questo ragazzo, così vivo. Noi riesumiamo solo i morti.

«No», dico «non è qui».

— © 2021 Maaza Mengiste