Gianluca Didino

ARTICOLO n. 58 / 2023

GIANNI CELATI: RIPARTIRE

Trilogia Celatiana. Diperdersi

Joseph Cambpell ha detto in un’intervista che il trickster è «un diavolo, un pazzo, e il creatore del mondo». Ci sono tricksters in tutte le mitologie, dalla Grecia antica alla tradizione vedica, ma il termine è stato coniato negli anni Cinquanta dall’antropologo Paul Radin per parlare dei miti dei nativi americani, e non è forse un caso che la vita itinerante di Gianni Celati parta proprio dagli Stati Uniti, dove arriva per la prima volta nel 1971 per insegnare alla Cornell University a Ithaca. È negli Stati Uniti che scrive Le avventure di Guizzardi ed è dagli Stati Uniti che comincia il suo “esercizio autobiografico in 2000 battute” («Parte per gli U.S.A. – Due anni alla Cornell University – Vita nel falso, tutto per darla a bere agli altri», eccetera). Negli Usa Celati torna fino al 2000. L’anno dopo, in Cinema naturale, pubblica un racconto intitolato “Come sono sbarcato in America” che è la storia in terza persona di un personaggio che si chiama Giovanni, arriva negli Stati Uniti per insegnare e gliene capitano un po’ di tutti i colori, e durante tutta questa lunga serie di avventure, che sono avventure nel senso celatiano del termine, avventure in cui non succede davvero mai niente e in cui non si va da nessuna parte, il narratore è interessato a fare una cosa sola, e cioè scrivere una lettera per raccontare agli amici rimasti in Italia com’è l’America. E ovviamente, come nei sogni (il racconto prenderà in effetti una piega onirica, con spettri che parlano alle tavole dei diner e un gallo che canta la notte), questa lettera non riuscirà mai a scriverla.

Celati è un pazzo, nel senso di un giullare, ed è il creatore del mondo: ogni scrittore lo è, e il racconto “Come sono sbarcato in America” lo spiega bene, cioè spiega bene questa cosa ossessiva che è l’arte di narrare, questa ossessione di voler continuamente inventare l’esperienza nell’atto di raccontarla. Celati è anche un diavolo, è «ambiguo e anomalo, inganna, cambia forma, sovverte le situazioni, imita gli dèi, è un tuttofare sacro e lascivo» (Haynes e Doty, Mythical Trickster Figures: Contours, Contexts, and Criticisms). Il trickster è l’anima nera, invertita, sovversiva dell’«indiano metropolitano» del Settantasette bolognese. Celati è luce e ombra, la luce di Celati passa attraverso lo specchio e diventa ombra. Dall’altra parte dello specchio, nell’upside-down della letteratura italiana, c’è un Celati nero, esotico e mutevole, e la sua parola d’ordine è: dispersione.

Il trickster è un mutaforma, uno shape-shifter, perché assume infinite facce. È una deriva deleuziana in cui un singolo brandello di informazione, o un coagulo di informazione, cambia all’infinito rimanendo in fondo sempre uguale a sé stesso. Nei racconti e nei romanzi di Celati non ci sono veri personaggi, c’è un unico personaggio dai molti volti (Guizzardi, Menini, Cevenini) e tutti questi volti sono e non sono quello di Celati, che in questo modo diventa un vero e proprio eroe nel senso che Campbell dava al termine. Il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” è e non è Gianni Celati, la letteratura di Celati è e non è autobiografica perché, come scrive Gabriele Gimmelli, «cerca di collocarsi appena prima» che la distinzione tra fiction e non-fiction abbia luogo – ed ecco liquidato in due sole parole il «deliro burocratico» della collocazione di Celati in un genere letterario o nell’altro. Celati si è mosso per venticinque anni in giro per il mondo, tra Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Africa, ma non è mai uscito dall’Emilia. La pianura di Menini è il Mali di Avventure in Africa: la nebbia della prima si trasforma nella sabbia della seconda («Non è la nebbia che rende la vista così opaca, ma sabbia in sospensione»), lo stupore per il mondo è lo stesso («Tutta la nuvola del niente di speciale che ogni giorno ci avvolge»).

Questo perché il trickster sembra non andare da nessuna parte, o se ci va segue logiche oscure: il suo posto nell’ordine del cosmo è ambiguo. Il trickster inventa il mondo dal fango, come un demiurgo gnostico, non attraverso atti grandiosi come quelli di un dio ufficiale. Crea, ma è difficile capire il senso di quella creazione, che non è né bella né buona e certamente non è utile, e contiene in sé tanto dolore e bruttezza quanto splendore e bellezza – e tutto appare casuale, frutto di un capriccio, e imperscrutabile. Disperdersi è essenziale, perché le energie del trickster richiedono per loro natura di essere consumate, buttate al vento: il trickster deve esaurirsi per dare vita al mondo e, contestualmente, a un tipo di eroe più maturo che possa popolare quel mondo. Celati cammina e cammina, e cammina e cammina, finché non rimangono più energie, finché si è compiuto l’atto propiziatorio che mette in contatto con gli dèi, vale a dire con i demoni.

Il 15 dicembre del 1994 scrive a John Berger, che di lì a qualche anno lo accompagnerà in Emilia per girare Case sparse: «C’è qualcosa (nel tuo tama) – una levitazione spirituale […]. Ma credo che questa levitazione sia per te il risultato di una disciplina, come lo era per gli antichi Santi. Ora, è proprio il senso di questa disciplina che mi sfugge (la disciplina era il mio solo obiettivo nella scrittura, ma adesso sento il demonio in me, e il demonio è l’opposto della disciplina – è il caos)». Questo non è solo il linguaggio di un uomo in lotta con la depressione, è anche il linguaggio di un pellegrino diretto al mondo infero e in cerca del suo Caronte.

Africa

In questo mondo di sotto Celati scende attraverso percorsi paralleli, come un fiume diretto a valle si ramifica in tanti rivoli. Potremmo spiegare forse così questo strano desiderio che gli viene tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila di andare in Africa. Un desiderio pericoloso per gli standard celatiani, perché rischia di trasformarsi in un’“avventura” nel senso romantico del termine, un esotismo, una ricerca consapevole di qualcosa e, non sia mai, di una parte di sé più autentica. Infatti Celati in Africa ci deve andare con una scusa, prima quella di accompagnare in Senegal, Mali e Mauritania l’amico documentarista Jean Talon, che per un gioco del destino si chiama come un amministratore coloniale francese del XVII secolo, e cinque anni più tardi per assumere lui i panni del documentarista e filmare la vita di un villaggio del Senegal. Alla maniera del protagonista di “Come sono sbarcato in America”, durante questi viaggi Giovanni/Gianni non può fare a meno di scrivere tutto quello che vede. Ne escono due diari (Avventure in Africa e Passar la vita a Diol Kadd) e un film che è a sua volta una specie di diario (Diol Kadd appunto). E ne nasce un altro racconto di Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, che è una sorta di commento sul commento fatto da Celati delle sue avventure in Africa, una riflessione sulle sue motivazioni, un dialogo tra due volti di Celati ma anche, come vedremo più avanti, qualcosa di più. “Cevenini e Ridolfi” chiude Cinema naturale nello stesso modo in cui “Come sono sbarcato in America” lo apriva: con un resoconto scritto di un’avventura che non può mai veramente essere scritta.

Consapevolmente o meno – in queste cose non fa poi molta differenza – Celati arriva in Africa sulle tracce di quello che forse è il trickster più famoso di tutti, famoso almeno come il coyote delle leggende dei nativi americani: il coniglio Be’er, che è trasmigrato fino alla modernità capitalista nella duplice forma del Fratel Coniglietto di Walt Disney e del Bugs Bunny di Warner Bros – e che popola insieme ad altri tricksters (Bouki, Leuk) le storie wolof. Avventure in Africa è pieno di figure ambigue e sovversive, personaggi incontrati per caso che si rivelano sempre diversi da quello che sono e costruiscono mondi dove non c’erano, inventando alberghi e servizi di taxi. Ma proprio nel momento in cui arriva più a fondo nella ricerca di della sua anima nera, Celati rischia anche di cadere nella trappola della leggibilità: quando nel 2010 esce al cinema Diol Kadd sono passati vent’anni da Strada provinciale delle anime, quel primo film con le sue dissolvenze fuori moda, le sue atmosfere hauntologiche e il suo mondo di spettri destinati a scomparire. Se Strada provinciale era passato inosservato, Diol Kadd viene presentato al Festival di Roma e Celati deve fare una cosa che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare, camminare su un red carpet («Quando ho visto il red carpet volevo entrare nell’auditorium zoppicando, come Quasimodo, il gobbo di Notre Dame», scrive, ed è il trickster a parlare in lui. «Se mi sento a disagio, comincio a fare lo scemo».) Diol Kadd rischia, cito ancora da Gimmelli, «l’alone ecumenico di capolavoro», e infatti riceve il premio come miglior documentario sociale. Il pericolo dell’altromondismo è concreto per quello che è il suo «film più costruito e tradizionale», il suggello dello status scomodo di «classico in vita».

Tanto più che Celati il discorso sul colonialismo lo sta affrontando, in una maniera o nell’altra (cioè in maniera disordinata: ricordiamo il demone del caos) fin dai tempi del suo primo matrimonio con Anita Licari, italo-tunisina che aveva sposato nel 1966. Celati andava nella Tunisia da poco diventata indipendente e Anita, che era francesista a Bologna, nel 1978 pubblicava con Roberta Maccagnani e Lina Zecchi un libro intitolato Letteratura esotismo colonialismo. L’introduzione di Celati (“Situazioni esotiche sul territorio”) propone – scrive Gimmelli – «la via di fuga […] della flanerie intesa come viaggio nell’indifferenziato»: propone cioè da un lato di «recuperare l’esotismo nei termini deleuziani di una riterritorializzazione del mondo» e dall’altro di «riappropriarsi dell’idea di avventura liberandola dalle incrostazioni dello sguardo coloniale». Non dimentichiamo che siamo negli anni di Alice disambientata, il testo più deleuziano di Celati. Dunque andare in Africa per liberare lo sguardo dall’idea dell’Africa, dell’esotico; andare in Africa per perdersi, per disperdersi. Ma anche per riterritorializzare il movimento di quella perdita e di quella dispersione: è un equilibrio sottilissimo e forse Celati non l’avrebbe mai raggiunto con la scrittura e l’ossessione della scrittura di dire quello che non c’è, il suo implacabile impulso a creare mondi. Per arrivare in quel punto ci voleva l’occhio “oggettivo” del cinema.

Cinema

Facciamo un passo indietro. Come abbiamo visto, Celati al cinema aveva esordito nel 1992 con Strada provinciale delle anime¸ ma l’avvicinamento alla macchina da presa era stato lungo e laborioso, al punto che potremmo dire che nell’opera celatiana il cineasta è fin dall’inizio parallelo allo scrittore, anche se nascosto: una sorta di ombra del Celati ufficiale. Tant’è che già Alice disambientata aveva dato origine a un breve film, nato in parallelo alla scrittura collettiva del libro, e che diverse idee di progetti erano nate e tramontate prima che Strada provinciale arrivasse a essere trasmesso in TV. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’aspetto ricorsivo del metodo di lavoro celatiano, il percorrere e ripercorrere gli stessi sentieri. E ancora una volta ci troviamo al cospetto di una forma del trickster, questa volta quello che si trova nell’«anima della commedia», come ha scritto Eric Weitz, la figura «dispettosa, ingenua, indulgente, piena di risorse, guidata dagli istinti di base e vitale che popola le sfere dell’intelligenza illogica che chiamiamo solitamente “humor”». Non è un caso che, come ha notato Marco Belpoliti, gli interessi cinematografici di Celati partano dalla slapstick comedy, al punto da «eleggere Buster Keaton a figura-guida».

Ma un altro parallelo tracciato da Belpoliti mi sembra qui particolarmente interessante: quello con il cinema di Dziga Vertov (parlando di Diol Kadd: «il racconto si svolge a Diol Kadd, ma potrebbe essere un villaggio della campagna ferrarese o friulana degli anni Cinquanta o Sessanta. Una cronaca minuta e senza nessuna pretesa di esaustività; immagini terse, pulite, sguardi ampi, e visioni scorciate, viste attraverso gli ingressi delle case e delle capanne, come se a girare il tutto fosse stato un Dziga Vertov lirico e postsovietico»). Da Vertov, Celati sembra mutuare quel «carattere testimoniale della registrazione meccanica» (Enciclopedia Treccani) senza il quale si rischierebbe di sprofondare nel soggettivismo esasperato della scrittura, nella tentazione della creazione del mondo a cui tentano inutilmente di sottrarsi il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” e il Cevenini di “Cevenini e Ridolfi”. Ricordiamo il linguaggio della lettera del 1994 a Berger: il tama (il sapere occulto della tradizione vedica), la «levitazione spirituale», gli «antichi Santi», il «demonio»: è evidente che qui Celati ha abbandonato il cinema come puro movimento, il cinema come sovversione dell’ordine, e sta cercando – anche, ma non solo, attraverso il cinema – una forma di spiritualità.

Quindi è logico che alla fine scelga proprio Berger come animus per il suo film più hauntologico e destrutturato, è logico che Berger faccia il ruolo di traghettatore verso una sorta di aldilà, ed è logico che questo viaggio verso gli inferi passi per la Pianura Padana: Case sparse è un viaggio nel mondo di sotto e come tale non può che essere un ritorno laddove tutto è cominciato, l’Emilia; è un viaggio nella malinconia, personale e collettiva, privato del senso del tragico (che in Celati non esiste nemmeno nei momenti più cupi); è, letteralmente, uno sguardo alla casa che crolla e che ci si lascia alle spalle – e non per niente dopo Case sparse Celati all’Emilia nel suo lavoro non ci torni più, come se un percorso si fosse finalmente esaurito. 

Attraverso l’Inghilterra di Berger Celati può tornare all’Emilia e lasciarla andare: ciò che segue nei dieci anni successivi, gli ultimi significativi della produzione celatiana, è l’Africa, il (post)esotico, l’altrove. Berger è una figura infera perché conduce alla morte, permette di attraversare la morte, permette di guardare finalmente il mondo dall’altra parte della morte, come succede alla protagonista del racconto “Nella nebbia e nel sonno” che vede tutte le cose coperte di polvere, come saranno in un futuro postumo. Permette di arrivare appunto a un “cinema naturale” della mente, dove le cose scorrono come su uno schermo nella loro naturalezza: permette, cioè, di arrivare a una sorta di pace.

Pace

Il cinema di Celati parte dal movimento sovversivo e asignificante della slapstick comedy e arriva al lirismo calmo, a suo modo trascendente, di Diol Kadd; nell’esotico, o meglio nel post-esotico, il movimento si deterritorializza per riterritorializzarsi in una dimensione diversa, eterea; l’irrequietezza dello scrittore-camminatore, dello scrittore che per scrivere deve esaurire e disperdere le proprie energie, arriva a un fragile, precario punto di stasi, un fermarsi che non corrisponde più alla morte ma una sorta di esperienza spirituale. È una visione, letteralmente, filtrata dall’occhio meccanico del cinema. «Dolcezza del vivere e trascorrere del tempo», scrive ancora Belpoliti, «un tempo che non si esaurisce, che non fugge, ma che ricomincia». Ripartire stando fermi: in Diol Kadd Celati raggiunge la sua «levitazione spirituale», tiene a bada per un momento il demone del caos.

Ed è qui che il racconto che chiude Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, diventa la pietra angolare di una inaspettata svolta dell’opera celatiana. All’apparenza la trama è delle più classiche: due «vecchi amici un po’ avanti negli anni», che «passavano la vita senza far niente di speciale e al massimo di sera giocavano a carte oppure a biliardo nei bar di campagna vicino a casa» un giorno decidono di partire per un viaggio in Africa. La ragione del viaggio è che Cevenini, che è ottimista e posato, vuole curare con la magia l’amico Ridolfi, che invece è depresso e soggetto a incontrollabili attacchi d’ira. Durante tutta l’avventura, Cevenini scrive delle memorie che costituiscono la fonte del narratore del racconto: dunque abbiamo Celati, autore di un racconto (“Cevenini e Ridolfi”) che inventa un personaggio (Cevenini) autore di un diario delle sue “avventure in Africa” (come un libro di Celati) che il narratore del racconto (forse Celati, forse no) commenta e riassume: basterebbe questa contorsione metaletteraria degna del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore per farci capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di più che un racconto semi-comico, o semi-tragico, che è lo stesso, di avventure.

Infatti “Cevenini e Ridolfi” è quello che potrei definire il resoconto di un’esperienza mistica in uno degli scrittori italiani che apparentemente sembrano più lontani dall’idea di misticismo. Già dalle prime battute risulta abbastanza chiaro che Cevenini e Ridolfi sono due incarnazioni di Celati stesso, potremmo dire la luce e l’ombra che si combattono in tutta la sua opera, l’aspetto scanzonato e quello iracondo, la fiducia e la depressione; e il fatto che nel corso del racconto i due personaggi arrivino a scambiarsi i ruoli, con Cevenini che diventa via via più pessimista mentre Ridolfi viene investito da un’illuminazione che gli fa scordare il suo mal di vivere, ne è la prova. Ma è proprio il procedere del racconto, che (come tutti i racconti di Cinema naturale, ma qui forse in maniera più estrema, più consapevole) divaga fino alla destrutturazione, alla dispersione, alla perdita di sé, alla dissoluzione nell’astratto, a riportarci in maniera più decisa sui confini sfumati tra la fiction e la non-fiction, il racconto e la meditazione filosofica. Forse qui non appena prima del confine, ma appena dopo, in un altrove non completamente mappato.

Perché man mano che i due amici penetrano nel cuore dell’Africa, e Ridolfi penetra nel cuore della sua illuminazione, e penetrando nella sua illuminazione guarisce del mal di vivere e si ammala nel corpo fino alla paralisi e alla morte, ciò che il scopre nel suo filosofeggiare è la «bellissima calma delle cose buttate via»; scopre che il segreto della felicità è quello di «scaricare via le fisime dell’immaginazione, che poi fanno sempre venire delle foie, e con le foie dopo uno vorrebbe che tutto andasse come vuole lui»; che «le cose esistono solo in particolare, solo come cose particolari, una per una». E man mano che si ammala, o guarisce, perché forse tra le due cose non c’è differenza, Ridolfi diventa una specie di guru, impegnato solo nel dire frasi filosofiche come «la virtù è la mente che agisce e non patisce, le foie sono la mente che patisce e non agisce», oppure «sono triste ma la mia tristezza è naturale, non mi dà fastidio». E naturalmente c’è dell’ironia in tutto questo, c’è una comicità, e anche una grande tristezza, ma c’è anche, finalmente, un punto d’arrivo: uno sguardo che si apre ampio e calmo. Non c’è più bisogno di muoversi, ci si è persi abbastanza da non aver più bisogno di disperdersi.

Che cos’è infatti il cinema naturale se non questo sguardo terso, questo schermo su cui scorre lo spettacolo del mondo, nella sua naturalezza, senza l’immaginazione che produce desiderio, senza le generalizzazioni che producono concetti? Questo schermo su cui scorre la vita così com’è, le cose particolari, una per una? Che cos’è il cinema oggettivo di Dziga Vertov se non una metafora della mente come campo aperto dove le rappresentazioni del mondo passano senza essere trattenute, dove il mondo compare e scompare, si modifica, scorre? E che cos’è questa mente come uno schermo dove scorre l’apparenza del mondo se non una mente che medita, che ha raggiunto una forma di pace sufficiente da guardare le cose così come sono, senza bisogno di descriverle, di riscriverle, di inventarle, di sostituirle? Che cos’è questa mente-come-cinema, questa mente che medita, se non il punto in cui la scrittura si disperde totalmente, smette di essere necessaria?

Alla fine il movimento ha condotto alla calma, per quanto temporanea possa essere; lo spirito sovversivo del trickster a una forma di spiritualità; la discesa negli inferi, proprio come capita a Ridolfi, porta una nuova luce alla coscienza. Perdersi porta a ritrovarsi scoprendosi diversi. In questo agire senza patire, in questo tornare naturali, nel disperdere le energie mentali fino all’esaurimento, Celati trova il suo tama. Nell’altrove, scordando sé stesso, trova il punto al centro di sé stesso da cui in fondo non si è mai spostato. Trova il miracolo di una scrittura senza scrittore, di un cinema senza regista né personaggi né spettatori, in cui il mondo scorre davanti a una macchina da presa dietro la quale non c’è più nessuno. 

ARTICOLO n. 53 / 2023

GIANNI CELATI: FERMARSI

Trilogia Celatiana. Nascondersi

Fermarsi, prima o poi bisogna fermarsi. Ecco una verità struggente della materia organica, più struggente mi pare della verità della morte, perché la morte è tutto tranne che stasi, la morte è trasformazione, decomposizione, nigredo, nuova vita, basta leggere il Bardo Thodol per rendersi conto quanto in Occidente abbiamo scelto di abdicare a metà della vita quando abbiamo deciso che la morte è solo non-essere invece che una nuova forma dell’essere. Ma fermarsi è doloroso, ha a che vedere con la perdita dell’energia, con l’energia che ci lascia. Abbiamo camminato e camminato verso l’orizzonte e alla fine l’abbiamo raggiunto, non c’è più nessun posto dove andare, ci sediamo e lasciamo che l’erba e il muschio ci seppelliscano. Nel Suffolk, cercando di raggiungere una spiaggia mediocre battuta dal vento in una primavera piovosa, passo davanti a un allevamento di maiali: gli adulti sembrano sassi tanto sono immoti, eppure fino a poco fa, quando erano piccoli, avevano tanta energia da non riuscire a stare fermi. Com’è possibile? La visione mi rattrista più della pioggia. La spiaggia è peggio che mediocre, è brutta, c’è un uccello morto, credo un cormorano ma è difficile dirlo perché è mezzo sommerso del mare, le piume incrostate dalla salsedine, è lontano e non ho più voglia di camminare per raggiungerlo. L’universo si espande, si raffredda e rallenta. Sembra così ovvio che l’energia vitale, il chi, sia l’unica cosa degna di essere studiata nel mondo, eppure pochi di noi ci badano, oggigiorno, a queste latitudini.

Alla fine anche Gianni Celati si è fermato: in Inghilterra, nel 1990. Non che si sia fermato davvero, ha continuato ad andare e venire, è tornato alla sua Emilia ancora per anni, ha girato mezzo mondo, ma insomma ha messo radici in qualche maniera, anche se alla sua maniera strana, sghemba, incerta, precaria. Abbiamo detto, nella prima parte di questo saggio, che tutto in Celati è duplice: uno strabismo, una sovrapposizione, come un’interferenza di due canali radio. Ogni cosa in Celati è enigmatica, e anche la sua decisione di fermarsi in Inghilterra lo è. Certo, Celati in Inghilterra ci veniva dai tempi del dottorato, e ha sposato una donna inglese, ma siccome negli scrittori veri non c’è davvero distinzione tra vita e letteratura, non possiamo fare a meno di chiederci quale sia il significato letterario dell’Inghilterra celatiana. Quando Cealti è morto, nel gennaio del 2022, ho letto in un profilo che il suo era stato un esilio, come quello di Meneghello, ma non sono d’accordo: Celati era in esilio anche prima, e allo stesso tempo era sempre a casa, non perché fosse un apolide, un cittadino del mondo, ma perché in lui la casa era proprio quello spazio aperto dall’esilio, quel movimento tra le parole.

No, non credo che Celati fosse in esilio in Inghilterra. “Esilio” è una parola troppo drammatica, troppo seria, e implica una polemica avrebbe definito “burocratica”, del genere che lo esasperava. Invece penso che in Inghilterra, letterariamente parlando, Celati ci sia venuto per nascondersi, ed è ancora nascosto tanto bene che nessuno l’ha trovato, né da una parte né dall’altra della Manica.

Inghilterra

L’Inghilterra è lo specchio attraverso cui si passa perché tutto sia uguale ma anche diverso, o diverso in una maniera che sembra uguale. È un’illusione, un gioco di prestigio, credi di vedere ciò che hai sempre visto e invece ci sei passato dietro e nemmeno lo sai. Vedi il negativo delle cose e nemmeno lo sai. Di tutti i posti in cui poteva decidere di stabilirsi, Celati ha scelto il più simile a Bologna: non Londra, troppo inumana, non le campagne bucoliche, troppo simili a cartoline, e nemmeno i laghi di Coleridge. Ha scelto Brighton, la città più hippy del Regno Unito, quella dove andiamo tutti quanti quando abbiamo bisogno di ossigeno in questa terra desolata del tardo capitalismo isolazionista. Brighton che dopo il referendum di Brexit ha cercato in maniera semiseria di proclamarsi città-stato per protesta, Brighton il paese delle meraviglie. La prima volta che ci sono arrivato mi ero appena trasferito, sarà stato il 2013, e ho subito pensato a quando dieci anni prima da Torino andavo a trovare la mia ragazza che abitava a Bologna, anche qui bisognava saltellare tra ragazzini punk e il suono di bonghi, però c’era il mare. Chissà cos’ha pensato Celati nel 2016 guardando quel mare, guardando verso l’Europa, di questo mondo sempre più ossessionato dai confini e dalle barriere, lui che ha speso tutta la vita a oltrepassare i confini e sfuggire alle barriere. Forse avrà visto un presagio della fine, i tempi stavano diventando inabitabili per uno come lui.

Quando si vive all’estero ci si nasconde sempre dentro a un’altra lingua. Ci si accorge che la lingua è sempre una maschera, ma anche una parte essenziale della personalità, in una maniera che non si coglie pienamente quando si è identificati con la propria cultura: ci sono cose che posso dire solo in inglese perché a dirle non sono io, è un altro, ma questo presuppone che anche le cose che posso dire solo in italiano le dica qualcun altro, perché se non la pensassi così sarei una specie di sciovinista linguistico: ma allora chi sono io senza la lingua? Questa è una domanda a ben guardare molto molto strana, una domanda che apre una vertigine profonda nel senso dell’io, e una domanda che chiunque si muova tra le lingue, come gli emigrati e i traduttori, non può fare a meno di porsi. È come se togliendoti la maschera ti togliessi anche la faccia e ti ritrovassi all’improvviso nudo e indifeso, ma anche libero, e credo che fosse proprio quella libertà che cercava Celati, quella libertà e quel senso di dislocazione, anche se portava con sé dell’angoscia. Per quella libertà Celati veniva amato e celebrato, ma il mondo dall’altra parte dello specchio, quell’angoscia, era anche quella una parte essenziale della sua scrittura.

Celati era molto consapevole della dimensione allo stesso tempo ironica e angosciante di questa dissonanza. C’è un racconto del 1991 intitolato Il desiderio di essere capiti in cui il narratore si trova ricoverato in un ospedale inglese e non riesce a parlare con l’infermiera giamaicana, lei non lo capisce e lui non capisce lei, e la situazione è comica ma fa anche paura, perché questo narratore è malato e vorrebbe che qualcuno lo capisse, invece i suoi sforzi si perdono, è come se un rumore statico coprisse la comunicazione. Quando si vive all’estero si perde molto di quello che si dice, quasi tutto, il che ti fa capire meglio come quasi tutto quello che dici anche nella tua lingua madre viene perso, e nessuno capisce veramente nessun altro, e la cosa è un po’ terrificante. Quando ho letto per la prima volta questo racconto di Celati lui era appena morto e non avevo capito che fosse un racconto, né che l’avesse scritto trent’anni prima: mi sembrava un resoconto dei suoi ultimi mesi da un ospedale dell’East Sussex. La letteratura serve a farci capire anche meno di quel che capiamo solitamente, e forse è giusto così.

Questa della lingua in un certo senso è una banalità, lo sappiamo tutti come stanno le cose. Ma uno scrittore che vive all’estero può nascondersi anche in altri modi, ad esempio più nascondersi nella tradizione letteraria, e anche questa è una cosa che ha fatto Celati e che in pochi hanno colto, mi pare, forse perché Celati si è portato addosso tutta la vita gli anni del Dams e di Bologna, del Settantasette eccetera, e questo ha un po’ oscurato quello che è diventato nella seconda parte della sua carriera. Prendiamo ad esempio Verso la foce: dove lo mettiamo un libro del genere nella tradizione letteraria italiana? Da nessuna parte, perché in Italia non esiste il nature writing, non esiste nemmeno l’essay in senso anglosassone, e il racconto di viaggio è sempre un racconto della bellezza che opprime il Bel Paese ovunque si vada. In Italia non si cammina molto, magari si cammina in montagna ma non si va certo nell’hinterland di Milano o sull’A4 a raccontare gli abusi edilizi e i capannoni industriali. In Inghilterra invece si cammina moltissimo, in pratica si potrebbe camminare da Londra e Edimburgo e da Norwich alla Cornovaglia senza incontrare opposizioni, mi verrebbe da dire che è proprio per questa abitudine a camminare che le enclosure del 1773 sono state qualcosa di tanto traumatico e che nelle città, persino a Londra, sopravvivono ancora i common, terreni aperti che sono di tutti.

Ma anche qui c’è una dimensione letteraria sottintesa al camminare: perché cos’è tutto questo vagare, questo andare a zonzo, andare avanti e indietro, perdersi e ritrovarsi, se non una metafora del saggio, dell’essay? O anche: che cos’è l’essay se non una fotografia di questo camminare, un camminare della mente, un camminare delle parole? Quando si cammina si attraversano zone belle e zone brutte, e la mente che cammina entra ed esce da cose belle e da cose brutte, a volte c’è il sole e a volte piove, questa è una cosa che il tanto bistrattato British weather insegna a noi italiani che vogliamo sempre il sole, sempre le immagini da cartolina. Quando ti risolvi a vagare in uno spazio privo di desiderio, del desiderio di arrivare a questo o quell’altro posto bellissimo, puoi andare sul delta del Po e raccontare i capannoni industriali e le villette geometrili anche se nessuno capisce esattamente quello che stai facendo né perché.

Hauntology

Oppure pensiamo all’hauntology, questo concetto inventato da Jacques Derrida per parlare degli spettri del marxismo che Mark Fisher ha applicato prima alla musica e poi a buona parte della cultura britannica dell’ultimo secolo: Gianni Celati è forse ciò che più si avvicina in Italia all’hauntology. E dico questo sapendo di essere inaccurato, e sapendo che se Celati mi sentisse, posto anche che sapesse cos’è l’hauntology, cosa che dubito, si arrabbierebbe moltissimo, direbbe che sto paragonando le mele con le pere, e certamente da qualche punto di vista avrebbe ragione. Ma ancora una volta ci troviamo di fronte allo strabismo, alla dissonanza, che è la scrittura di Celati: la sua Emilia leggera e scanzonata è anche inquietante, il mondo che racconta è già finito nel momento stesso in cui lo racconta, e quindi è un mondo di fantasmi, proprio come quello immortalato dalle fotografie di Ghirri che con il loro senso di nostalgia e sospensione, con il loro sottotesto politico implicito, parlano sempre di ciò che infesta, ciò che perseguita, haunt appunto, anche se lo fanno con i colori morbidi e le luci soffuse della provincia emiliana che non hanno niente a che vedere con l’inquietudine, le eerinessdirebbe Fisher, del panorama inglese. Ma non dimentichiamoci che siamo dall’altra parte dello specchio, le cose sono simili ma mai uguali. C’è sempre uno scarto, uno spazio, un’interferenza.

Prendiamo uno dei racconti più famosi di Narratori delle pianureBambini pendolari che si sono perduti. Si potrebbe pensare che è un racconto tenero, un po’ comico, un racconto sull’infanzia come spazio interstiziale, in cui viene ribaltata la prospettiva e sono i bambini a essere accondiscendenti nei confronti degli adulti come se l’età adulta fosse un inconveniente della vita, cosa che in effetti certamente è agli occhi di un bambino. Ma il racconto si conclude con un’immagine strana, inquietante. Ci viene detto che i due bambini si trovano «in mezzo ai campi gelati», che «non vedono più niente» e intorno è «tutto bianco», «una nebbia bianca come non l’avevano mai vista», tanto che ovunque si voltino c’è «una grande parete bianca» nella quale è impossibile «ritrovarsi l’un con l’altro» e anche «vedere il proprio corpo» o «percepire bene un richiamo». I bambini «hanno freddo» e «si sentono soli», non possono andare «né avanti né indietro» e sono costretti a stare lì, «in quello stranissimo posto dove s’erano perduti» finché non gli viene il sospetto che «la vita possa essere tutta così». Poi certamente è un caso, ma che i bambini prendano il treno a Codogno con il senno di poi sembra un’iperstizione.

O pensiamo al racconto Mio zio scopre l’esistenza delle lingue straniere, nel quale il narratore ascolta il figlio nato in Francia e gli viene in mente “un mare pieno di nebbia che non si può traversare”, al di là del quale “c’è uno che ti parla e tu lo senti, ma non ci arriverai mai a farti capire, perché la tua bocca non riesce a dire le cose come stanno, e sarà sempre tutto un fraintendersi, uno sbaglio a ogni parola, nella nebbia, come vivere in alto mare”. O al radioamatore di “L’isola in mezzo all’Atlantico”, che da Gallarate si inventa una vita intera su un’isola al largo delle coste scozzesi e poi quella vita si materializza: onde radio, fantasmi, iperstizioni.

Anche il film dedicato a Ghirri, Strada provinciale delle anime, sembra leggero ma a ben guardare è angosciante. È hauntologico anche nella forma, con quelle dissolvenze da documentario Rai degli anni Sessanta, con quel suo raccontare un mondo già perduto, in procinto di perdersi, un mondo di anime appunto, di spettri. C’è una scena in cui uno degli autobus si perde e il narratore, o uno dei narratori, lo racconta come un episodio divertente, ma intanto vediamo questa corriera che avanza nei campi, sempre più persa, e sentiamo che l’autista parla alla radio e i suoi messaggi sono sempre meno chiari, c’è sempre più rumore statico, siamo da qualche parte nella bassa padana ma potremmo benissimo essere sul traghetto che porta agli inferi, e infatti si sente questo gracidare di rane sempre più forte, si vedono queste inquadrature sull’erba che fanno pensare a un film di David Lynch e all’improvviso, dopo che solo cinque minuti fa eravamo in un paese con degli anziani che parlavano in dialetto, ci troviamo in piena eeriness, in piena crisi dell’agentività: c’è una corriera che avanza ma non c’è più direzione, né un autista, e non c’è nemmeno una sola voce a raccontare questo viaggio verso la terra dei morti ma tante voci incorporee come nell’Ade.

Fantasmi

Ci sarebbe molto da dire su questo tema, molti esempi da portare, anzi bisognerebbe proprio scrivere un libro intero su Celati e l’Inghilterra, ma quello che voglio far notare qui invece è un’altra cosa e ha di nuovo a che vedere con l’atto della scrittura e con l’atto di camminare: Celati non stava mai fermo, viaggiava ovunque, viveva di qua e di là, ma continuava a riscrivere i suoi racconti. I racconti di Quattro novelle sulle apparenze, e anche quelli di Cinema naturale, sono stati scritti e riscritti nel corso di decine di anni. Questo è interessante, perché se la scrittura può essere una forma del camminare, se scrivere può essere un modo di esplorare territori sempre nuovi, può essere cioè la deriva deleuziana dell’Alice che tanto affascinava il primo Celati, la pratica rizomatica di muoversi in tutte le direzioni insieme e nessuna, allora l’atto di riscrivere, e soprattutto quello di riscrivere sempre gli stessi testi, è il suo opposto: il primo è un movimento espansivo, il secondo un movimento di contrazione. Riscrivere è un rimuginare. Rimuginare e rimuginare alla ricerca della cosa luminosa che si nasconde sotto queste parole che non vogliono mai dire niente e non vorranno mai dire niente, anzi più le si lucida e si fanno trasparenti più significano tutto e niente, più il significato si perde, non indicano più una direzione, sono solo uno specchio in cui vediamo riflessi noi stessi e ci mette di fronte a una “grande parete bianca” come i bambini che si sono persi.

Un altro che ha riscritto ossessivamente il proprio capolavoro, ancora e ancora, nell’arco dei decenni, è stato Robert Burton, che ci ha messo tutta la vita a finire Anatomia della melanconia e non era ancora soddisfatto quando è morto, fosse stato per lui avrebbe continuato a riscriverlo per mille anni. Il che mi fa pensare a sua volta a Jan Potocki, anche lui un grande viaggiatore, di cui si dice che abbia lucidato per moltissimi anni la pallottola d’argento con cui si sarebbe ucciso nel 1815 perché era convinto di essere sul punto di trasformarsi in un lupo mannaro. A riscrivere i propri racconti e a lucidare i propri proiettili sono sempre i depressi.

Burton è un buon nume tutelare di questa storia, perché per quanto si viaggi e per quanto si scriva e riscriva prima o poi bisogna fermarsi. Prima o poi la luce scoppiata del pittore d’insegne Menini si affievolisce e bisogna lasciare le cose «da sole nella loro disgrazia». Celati si è dovuto fermare, anche se non si è fermato davvero, anche perché il mondo che stava raccontando, il mondo che aveva cercato di far sopravvivere con l’incantesimo della sua scrittura, stava finendo, quella corriera perduta nei campi della pianura era davvero una corriera di anime in viaggio verso il mondo dei morti. La seconda parte della sua produzione, quella degli anni Ottanta e Novanta, non può essere compresa se non si vede questo aspetto malinconico, se non si capisce che la “ricettività crepuscolare” è prima di tutto una forma di crepuscolo. Nella dissonanza che è la scrittura di Celati, nello strabismo che ha cercato e coltivato in tutta la sua carriera, una parte rimane sempre dietro lo specchio, a guardare le cose dal retro. E quello dietro lo specchio è anche un luogo molto buio e molto immobile, un luogo molto vuoto e impersonale, un luogo di presenze che osservano mute, un luogo di interferenze e parole perdute, un luogo di silenzio.

ARTICOLO n. 49 / 2023

GIANNI CELATI: PARTIRE

Trilogia Celatiana. Perdersi

Ogni volta che leggo qualcosa scritto da Gianni Celati, ma anche che vedo un film di Celati, o che vedo Celati parlare in un’intervista (Celati sempre bello e distratto, con quei modi allo stesso tempo scanzonati e tristi), la sensazione che provo è quella di sospensione. Con Celati si è sempre in una terra di mezzo, nel flusso di un movimento da un posto all’altro, e non si è mai sicuri di quale sia il luogo in cui ci troviamo o quale sia la meta del viaggio. Pochi scrittori hanno fatto dell’esperienza di perdersi una caratteristica tanto fondamentale del proprio lavoro. Leggendo Celati si è sempre persi, nelle storie ma anche nella lingua. E se è vero come scrive Franco La Cecla che perdersi intenzionalmente è impossibile, che «l’azione riflessiva è il cercarsi e non trovarsi, non il perdersi», possiamo capire quanto lavoro – letterario e non – sia necessario per produrre una letteratura del perdersi, cioè una letteratura abbastanza precisa da portarci in un luogo e abbastanza vaga da farci ritrovare perduti. La scrittura di Celati è sempre un duplice movimento, o meglio è lo spazio aperto da quel duplice movimento.

Che perdersi fosse per Celati una questione eminentemente letteraria lo si capisce dal nervosismo con cui accoglieva i «deliri burocratici» e i «problemi giuridici» (così li chiamava) dei critici che cercavano di risolvere il rebus della sua scrittura. Celati era molto insofferente alle categorie, ma bisogna dare atto ai suoi lettori che stargli dietro non era facile: un giorno era il traduttore dell’Ulisse e un professore universitario, il giorno dopo uno scrittore di racconti comici, un altro giorno ancora era partito per un viaggio e non tornava per mesi. Scappava continuamente dalla letteratura e poi ci tornava sempre. Era molto elusivo e cercava sempre di sottrarsi, soprattutto rispetto a sé stesso. E quindi la domanda che critici e lettori non hanno mai smesso di porsi, quella di dove collocare Celati nella letteratura italiana, era in fondo una domanda più profonda che riguardava la collocazione di Celati nel mondo: a ben guardare gli stavano chiedendo di stare fermo il tempo necessario per poterlo capire davvero. Ma Celati non era una cosa o l’altra, era il movimento tra quelle due cose. Così lui si innervosiva, e loro si innervosivano, e Celati rimaneva un enigma per tutti, che in fondo è la ragione per cui Celati è uno scrittore tanto luminoso, difficile e irripetibile.

Emilia

Ma mettiamo da parte per un attimo il nervosismo. Persi per persi, di un punto di partenza abbiamo comunque bisogno, ora che Celati non c’è più e ci rimane solo la critica su Celati. Abbiamo bisogno di partire da qualche parte per lasciarci andare pienamente a questa «passione del perdersi», come la chiama ancora La Cecla. Faremmo un errore, lo stesso errore dei suoi critici, se provassimo a collocare Celati partendo dalle categorie letterarie, se provassimo cioè a interpretarlo come uno scrittore comico, uno scrittore di viaggio, un avanguardista, un etnologo, un saggista, un traduttore e via dicendo, perché Celati era tutte queste cose e nessuna fino in fondo. Il problema fondamentale con Celati è sempre quello del dove, il discorso letterario è un problema di collocamento nello spazio. Per questo l’unica cosa certa che possiamo dire di lui è la seguente: che era uno scrittore emiliano.

Mi rendo conto che è un paradosso. Celati non è nemmeno nato in Emilia ma a Sondrio, anche se per un accidente (la famiglia si trovava in Lombardia a causa del lavoro del padre ma entrambi i genitori erano originari della provincia di Ferrara), e in Emilia ha vissuto in maniera irregolare. Una cosa di lui che sanno tutti è che era un grande viaggiatore e ha abitato un po’ ovunque: in America, in Francia, in Africa e soprattutto in Inghilterra, dove è rimasto per tutta la seconda parte della vita e dove è morto il 3 gennaio del 2022, una settimana prima di compiere 85 anni. Eppure sarebbe impossibile comprendere Celati senza l’Emilia. In questo è l’opposto di Calvino, suo mentore, amico e modello. Calvino, nato anche lui per caso altrove, a Cuba, è uno scrittore assolutamente apolide. Celati avrebbe potuto anche vivere in Giappone e non avrebbe smesso di essere uno scrittore emiliano.

Più difficile è definire in cosa consista questa emilianità e perché sia utile come categoria letteraria. In Pianura, Marco Belpoliti si riferisce al rapporto di Luigi Ghirri con la campagna emiliana parlando di un «modo di abitare […] frettoloso, disattento alle cose», mentre di Celati dice che la sua parlata «molto manierata» era il suo «modo emiliano di rivolgersi all’interlocutore in forma affettuosa». Belpoliti e Anna Stefi hanno intitolato la loro raccolta di conversazioni celatiane Il transito mite delle parole, e in quel richiamo alla mitezza c’è la morbidezza e la fluidità, la leggerezza, la «passione per il mondo coì com’è», l’ironia che non diventa mai sarcasmo di tanti scrittori, registi e fotografi provenienti dall’Emilia-Romagna. Come se la vita non fosse veramente una faccenda seria. Ma potremmo menzionare anche la finzione e la superficialità, il comico (che dagli anni Ottanta evolve in qualcosa di più sottile), il senso beckettiano dell’attesa. E poi la luce, quella «luce dispersa» in cui annegano le ombre, la «luce scoppiata» di cui parla il pittore d’insegne Menini quando dice: «io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia». Tutta questa è l’emilianità di Celati.

All’inizio della sua carriera, l’Emilia è soprattutto Bologna, dove insegna letteratura angloamericana per buona parte degli anni Settanta. Nel 1977 diventa una figura importante del movimento studentesco («un po’ indiano metropolitano, un po’ clown triste», ha detto Nico Orengo) con un laboratorio di scrittura collettiva su Lewis Carroll che darà vita ad Alice disambientata, libro sorprendente e polifonico che fluttua da qualche parte tra Deleuze, il Cappellaio Matto e Basaglia. Il libro è unico nel suo genere, gira di mano in mano e non riceve nessuna recensione ufficiale. Celati lancia copie del libro in aula. Non che sia così strano, è il Settantasette a Bologna, ma stiamo parlando di uno scrittore che ha già pubblicato quattro libri con Einaudi, del traduttore di Swift e Céline, quindi non è nemmeno così usuale.

Subito dopo Celati scompare. Nessuno sa esattamente dove vada nei sette anni successivi, ma un elenco parziale comprende: la Pianura Padana, l’America, la Scozia, Parigi, Montpellier, Friburgo. È uno di quegli allontanamenti ciclici dalla letteratura, un sintomo dell’irrequietezza che lo accompagnerà tutta la vita. Ha deciso di smettere di scrivere perché, spiega, «non avevo più niente da dire a nessuno». Ma anche questo non è vero, in realtà stava cambiando: abbandonava il registro comico per approcciarsi a qualcosa di nuovo, più sfumato e indefinibile, che chiamerà «ricettività crepuscolare». Quando torna a pubblicare, nel 1985, lo fa ripartendo dall’Emilia. A ricondurlo sulla strada della letteratura sono i fotografi della scuola italiana di paesaggio, soprattutto Luigi Ghirri, che se lo sono portati «avanti e indietro nelle zone lungo il Po» per dare parole ai loro scatti. Qui Celati sente raccontare le storie minime e strane che diventeranno i racconti di Narratori delle pianure e Quattro novelle sulle apparenze. Nel 1988 fa un passo ulteriore e descrive in Verso la foce i «territori devastati» del delta del Po. Il libro si inserisce in tradizioni letterarie, quella della psicogeografia, del diario di un viaggio a piedi e del nature writing dell’antropocene, che in Italia non esistono nemmeno, né all’epoca né ora.

Nel 1992, passato all’attività di regista, dirige il documentario Strada provinciale delle anime, dedicato alla memoria di Ghirri, morto proprio quell’anno. Ancora nel 2003, quasi settantenne, torna alla pianura padana nientemeno che con John Berger per girare Visioni di case che crollano. All’Emilia Celati torna per quasi tutta la sua vita, poi negli ultimi vent’anni non ci torna più.

Movimento

A questo punto devo fare una confessione: io Celati non lo capisco sempre. Voglio dire che di quelle sue frasi eleganti, bellissime, spesso non riesco a penetrare il senso logico. A volte sembrano voler dire due cose insieme, come uno strabismo, o una cosa che sta tra le due e non è né l’una né l’altra come le note della musica atonale. Altre volte invece sembrano ricordare la nebbia della pianura, o quelle fotografie di Ghirri in cui vedi e non vedi, ti sembra di capire ma non capisci veramente. Credo che sia anche questa la ricettività crepuscolare, l’aura della scrittura di Celati. E credo che quest’aura abbia essenzialmente a che vedere con il movimento: tutto nella sua scrittura serve a far risaltare il moto fisiologico, la gestualità. Celati si muove, le sue parole si muovono. Niente sta mai fermo e lascia dietro di sé una scia, come le stelle cadenti. Parlando a un intervistatore di tutt’altro, cioè del lavoro di fare documentari, dice: «dentro di te c’è un movimento inspiegabile che è una buona guida».

Sono convinto che ci siano diversi tipi di scrittori-camminatori. Ci sono quelli che sentono il bisogno di raccontare tutto, di divagare all’infinito, di raccogliere in un unico periodo tutto lo splendore e l’orrore del mondo, come Sebald. Ci sono quelli che camminano per dieci anni per riassumere migliaia di ore di camminata in un centinaio di pagine, in un processo di liofilizzazione dell’esperienza, come J.A. Baker. Ci sono quelli che camminano per far sì che il corpo vada alla velocità delle idee perché se si fermassero impazzirebbero, come Coleridge. E poi ci sono gli scrittori che camminano attraverso la lingua, gli scrittori per cui le parole sono una specie di fluido, battiti che compongono un ritmo, bandierine attraverso cui fare lo slalom. Ecco, Celati cammina tra le parole, dietro le parole, si muove sempre e quando provi ad afferrarlo con la mente è già andato da un’altra parte. Lo scrittore, dice, è «un essere microscopico in un movimento pressoché infinito».

Questo movimento, è inutile dirlo, non va da nessuna parte. All’inizio di Strada provinciale delle anime il narratore, o uno dei narratori, perché non è ben chiaro chi sia a raccontare e chi ad ascoltare, si chiede cosa ci sia di tanto interessante da vedere in giro per il mondo. Interrogato su cosa intenda lui per «avventura», Celati risponde che l’avventura non ha niente a che fare con l’esotico e nemmeno con il desiderio, anzi è quello «spazio aperto» che si crea proprio dove non c’è desiderio, perché gli «oggetti socialmente desiderabili ti bloccano la testa per sempre». È un ribaltamento totale dell’idea romantica, dell’avventura come desiderio del desiderio. Più avanti un altro narratore, o un’altra voce del narratore molteplice, riflette sul perché le persone vadano in vacanza e si risponde che vanno in vacanza per non sentirsi persi. E poi si chiede: «ma è meglio sentirsi persi o guardare solo quello che ti hanno detto di guardare?»

L’avventura non c’entra niente con il desiderio e i libri di viaggio non fanno nemmeno il tentativo di guidare il lettore attraverso il luogo di cui parlano: leggere Avventure in Africa in Mali o Verso la foce per fare una gita sul Po sarebbe inutile perché sono l’opposto di una mappa. Celati odiava le mappe, andava da Bologna a Londra in auto e sulla strada si fermava a Parigi da Calvino, e il tutto senza una mappa. Calvino, che è uno scrittore-mappa, uno scrittore-labirinto ma anche uno scrittore che per tutta la vita non ha fatto che disegnare la mappa per uscire dal suo stesso labirinto, lo rimproverava. Quando gli chiedono se si senta più saggista o scrittore Celati risponde: «vado avanti un po’ a caso, devo dire». 

Ma come tutto il resto in quella ricerca di strabismo che è la sua scrittura, anche il movimento ha un duplice significato. Celati era molto ansioso e talvolta molto depresso, e sappiamo che camminava a lungo prima di scrivere, come se si potesse scrivere solo quando si è esausti, come se la scrittura fosse il sottoprodotto dell’esaurimento. Camminare quindi era anche una terapia, un esorcismo, un rito sciamanico, il rituale per evocare la ricettività crepuscolare, vale a dire il luogo di passaggio in cui si trovano le uniche cose che vale la pena scrivere.

Voci

È bella, questa immagine del camminare come atto rituale, perché comunica l’idea che la scrittura migliore nasce sempre quando lo scrittore si è messo K.O. e lascia che a parlare al posto suo sia «quel movimento inspiegabile» che è «una buona guida». Chi parla attraverso Gianni Celati? Ecco un’altra cosa di lui che è stata ripetuta fino allo sfinimento: che non dimostrava l’età che aveva. «Gianni è sempre stato un ragazzo, anche quando l’ho rincontrato e non era più il giovane professore del Dams. Aveva più di cinquant’anni eppure ne dimostrava trenta» (Belpoliti); «Celati è un uomo bello, dalle mani lunghe ed eleganti, uno sguardo dolce e distante. Ha quarantotto anni e gliene daresti trentacinque» (Marcoaldi); «Celati è sveglio, magro, nervoso, si veste come un ragazzo» (Emanuele Trevi). «Possa il puer chiamarci a essere noi stessi», scriveva Hillman. 

Il puer in Celati è tante cose: l’irrequietezza, quel continuo spostarsi da un genere letterario all’altro, l’insofferenza per tutto ciò che immobilizza la vita, il fastidio per le regole che incasellano e ordinano l’esperienza, il rifiuto dell’efficienza e della produttività. Quella volontà pervicace di rimanere sempre sfuggenti, senza radici, senza un posto tranquillo e istituzionalizzato nella vita come nella letteratura. Lo sguardo fresco, la capacità di continuare a stupirsi. Penso che si possa dire di Celati quello che Hillman scriveva del puer come forza psichica, quel fuoco dentro di noi che rimane giovane nonostante il passare degli anni e per farlo nega la psicologia come forma di profondità inutilmente pesante: «è al puer che Psiche soccombe proprio perché egli ne è l’opposto», il suo spirito «è il meno psicologico, il meno dotato di anima». Per creare un linguaggio capace di comunicare gesti, dice Celati, «bisogna abbandonare la psicologia, bisogna ripulirsi e cancellarsela dalla testa».

Non è quindi un caso che nei suoi viaggi americani Celati sia andato spesso alla ricerca più o meno consapevole del trickster, quella «figura d’un eroe che ne combina di tutti i colori ma resta sempre un po’ incomprensibile perché la sua ricerca non corrisponde a un desiderio già definito». Il trickster, dice Celati, è un po’ «come il bambino», che «non ha ancora idee precise sugli oggetti socialmente desiderabili»: è un’energia immatura, che rifiuta di essere rinchiusa in una forma, ma per questo tanto più incontrollabile. Celati amava l’imprevedibilità, il caos, il dialogo inintelligibile, il nonsense e più in generale tutto ciò che è inafferrabile e impossibile da categorizzare. Parlava molte lingue, talvolta tutte insieme. Quando scrive sembra sempre che ci siano più persone, almeno due, che scrivono in contemporanea, e questo non vale solo per i racconti ma anche per la saggistica critica. L’effetto su chi lo incontrava era talvolta straniante.

Dispersione, ricomposizione. Partire, fermarsi, ripartire. Scrivere e non scrivere. Scrivere e camminare. Allontanarci dalla scrittura per ritornarci sempre diversi. C’è una frammentarietà costitutiva della scrittura di Celati, che pure per altri versi è così curata, così precisa. Anche in questo campo, è il doppio speculare di Calvino, che si è affannato tutta la vita di trovare la parola esatta che lo salvasse dal caos: in Celati la parola esatta è proprio la strada per arrivare al caos. Perché la parola esatta è luminosa al punto che significa tante cose insieme, come un prisma, e ognuno di questi significati va in una direzione diversa. Celati scriveva, piantava tutto a metà, poi ritornava su quei frammenti dieci anni dopo e li riprendeva, che è un po’ come tornare in un luogo in cui si è stati molti anni fa e vederlo con occhi nuovi: ecco il «movimento pressoché infinito» dello scrittore, della scrittura. Amava i racconti perché «ogni racconto può andare per conto suo, ha la natura del frammento disperso», perché «i racconti sono come gocce di mercurio che si sparpagliano da tutte le parti, sfuggenti e mutevoli», perché «i racconti sono frammenti vaganti nella dispersione».

Non è tutta così, la scrittura di Celati? Un «frammento vagante nella dispersione»? Storie captate, intercettate, storie di passaggio, capite male, storie lacunose, storie inventate, che si sono perse, che sono riuscite a creare le condizioni per sentirsi finalmente perse. «Alla fine abbiamo portato a casa una serie di riprese sparse, per lo più frammentarie, casuali», dice parlando del processo di realizzazione di Diol Kadd

«Un frammento vagante nella dispersione» fa pensare a un meteorite, una stella cadente che brucia nel cielo, per un attimo, senza nessun altro significato che la propria luce. L’esperienza corporale di quel momento idiosincratico e inafferrabile, indescrivibile perché non incasellato dalle categorie logiche, è forse la maniera più fedele di interpretare la scrittura di Celati. Per il quale «basta un accenno che spunti come un lampo e si bruci nell’energia del dire, del ridire qualcosa in buona vena: quello è già una storia».

ARTICOLO n. 6 / 2023

WALTER BENJAMIN, LA CITTÀ COME IPERTESTO

I profeti del presente

Tra il 1997 e il 1998 il fotografo americano Christopher Rauschenberg, figlio di Robert Rauschenberg e Susan Weil, si è recato in oltre 500 dei luoghi immortalati da Eugène Atget nel suo lavoro pionieristico di documentazione della trasformazione di Parigi alla fine dell’Ottocento, raccogliendo in Paris Changing: Revisiting Eugene Atget’s Paris (Princeton Architectural Press, 2016) la testimonianza di un paradosso: la città vecchia che Atget aveva fotografato per quasi quarant’anni nel tentativo di preservarla dalla furia modernizzatrice del Barone Haussmann e dei suoi eredi non era affatto scomparsa, anzi rimaneva pressoché immutata un secolo dopo gli scatti originari. Credo che il détournement sarebbe piaciuto allo stesso Atget, che non fu solo il primo fotografo di strada e il primo sociologo urbano a documentare il modo in cui nascono e muoiono le città moderne ma anche, nel suo modo dimesso e obliquo, un surrealista (pensiamo alla straordinaria fotografia della folla che guarda l’eclisse solare in Place de la Bastille nel 1912 che Man Ray volle come copertina di un numero de La Révolution Surréaliste). Come nell’hauntology contemporanea, la nostalgia per il passato si tramuta in qualcosa di più inquietante: un passato che non passa mai.

L’opera di rephotography di Rauschenberg è interessante non solo perché porta alla luce il carattere spettrale del lavoro di Atget, ma anche perché dice qualcosa sul rapporto unico che Parigi intrattiene con il proprio passato culturale e la modernità: prima città moderna dell’Occidente, Parigi è però sempre identica a sé stessa. Le varie mitologie della modernità parigina (dalla Rivoluzione francese alla Cité Lumiere, dalla Nouvelle Vague al Sessantotto) richiedono di essere interpretate in maniera tradizionale, e ancora oggi non è raro sedersi in un caffè di Pigalle e veder entrare una coppia di giovani in basco e dolcevita nera in un flashback dalla città esistenzialista. È un’ideologia della libertà che lascia poco spazio alla libertà, e che fa eco all’idea francese per cui i valori libertari della République possono essere imposti dall’alto. Ci ripenso mentre l’Eurostar partito da Londra mi lascia alla Gare du Nord: è possibile passeggiare a Parigi senza ripercorrere le strade già camminate da Baudelaire, Benjamin, Debord, Pajak? La flanerie è obbligata, nella città della psicogeografia è impossibile perdersi. Come in tutto il resto, anche da questo punto di vista Londra è l’opposto speculare di Parigi. A Londra tutto cambia incessantemente, non c’è nostalgia, né bellezza, ad ancorare il passato. La libertà è più profonda, più fredda, più inumana.

Poche cose incarnano questa permanenza dell’uguale in una città simbolo della modernità e della trasformazione come i bouquinistes del lungosenna, che compaiono immutati in ogni rappresentazione di Parigi dal XVI secolo: ogni volta che mi imbatto in un filmato dell’inizio del Novecento, o in una stampa del Settecento che li rappresenta, ho l’impressione di trovarmi di fronte a Jack Nicholson che in Shining rivela di essere sempre stato il custode dell’Overlook Hotel. Sarà che vivendo oltremanica ho interiorizzato una maniera britannica di guardare alla cultura, ma mentre ci passo davanti un pomeriggio di novembre mi viene in mente la prima traduzione inglese del titolo della Recherche proustiana: Remembrance of Things Past. Quel “things” così materiale, come se i ricordi fossero oggetti solidi, spine che ti si piantano nel cervello e di cui non riesci a liberarti. Passano i secoli, re vengono decapitati, sparano i mitra dell’Isis ma quelle “cose” rimangono lì, immutabili, impersonali, come spettri. Sono sempre stato il custode.

***

In questa storia, l’anno della svolta è il 1927: lo stesso in cui Heisenberg formulava il principio di indeterminazione e in California Philo Farnsworth trasmetteva la prima immagine televisiva. Può esserci un momento più rappresentativo dell’arrivo della modernità per come abbiamo imparato a intenderla nel Novecento? Il 1927 è anche l’anno in cui moriva Atget, poverissimo, poco dopo la compagna Valentine; è l’anno in cui veniva finalmente completato il lavoro del Barone Haussmann, iniziato 74 anni prima, con la realizzazione del boulevard tra l’VIII e il IX arrondissement che avrebbe preso il suo nome; è l’anno in cui veniva pubblicato l’ultimo volume della Recherche, quello in cui il tempo perduto viene infine ritrovato. È anche l’anno in cui per la prima volta Walter Benjamin menziona in una lettera a Scholem un progetto a cui ha cominciato a lavorare dall’anno prima e dedicato proprio alla trasformazione di Parigi voluta da Haussmann, i Passages: siamo di fronte a quelle che Daniel Mendelsohn, parlando di W.G. Sebald (un autore che evidentemente a Benjamin deve molto) ha chiamato “near-coincidences”coincidenze apparentemente significative.

In realtà, come sempre è il caso nell’esperienza erratica e contraddittoria di Benjamin, è difficile stabilire una vera data d’inizio dei Passages. Pare che la raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo fosse iniziata fin dai vent’anni, da quando aveva messo piede nella capitale francese per la prima volta nel 1913, arrivato in treno da Berlino con due compagni di università. Se così fosse, potremmo dire che i Passages furono l’ossessione di tutta la sua vita, visto che ancora mentre scalava i Pirenei in fuga dai nazisti nel settembre del 1940 portava con sé una valigia il cui contenuto, aveva detto ai suoi compagni di viaggio, era più importante della sua stessa sopravvivenza. Sembra che la valigia contenesse materiali per i Passages. Dopo il suo suicidio a Portbou la valigia fu probabilmente sequestrata dalle autorità spagnole e perduta: cosa contenesse davvero non lo sapremo mai.

Sappiamo però il momento in cui questi materiali raccolti fin dalla giovinezza avevano cominciato a condensarsi in un progetto. Era il 1926, e se il surrealismo era stato il punto d’arrivo parzialmente involontario di Atget, non stupisce forse che il punto di partenza dei Passages sia proprio il libro di un surrealista: Le Paysan de Paris di Louis Aragon racconta come le vetrine di un negozio del Passage de l’Opéra vengano trasformate dall’immaginazione del poeta-flaneur in un panorama marino popolato di sirene. L’applicazione del merveilleux quotidien ad un luogo simbolico della nascente cultura consumista, nella città che più di ogni altra aveva incarnato la spinta progressista del capitalismo, non poteva lasciare indifferente Benjamin, che a quel tempo si era già convertito al marxismo, aveva conosciuto Adorno e Horkheimer, e aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze della riproducibilità tecnica sull’opera d’arte e la sua “aura”. I pezzi del puzzle erano andati a posto: coincidenze apparentemente significative.

È come se nell’opera incompiuta, e impossibile da compiere, dei Passages Benjamin avesse trovato una sorta di centro instabile, di nucleo in continua trasformazione della sua esperienza intellettuale centrifuga, che non si lascia rinchiudere in nessuna definizione perché quella definizione non era chiara al suo autore: per tutta la vita Benjamin si sarebbe mosso per illuminazioni improvvise e strappi, continuando a smarcarsi dalle strade che si era autoimposto (filosofo, critico letterario, pensatore politico) in un rivolo di derive esperienziali (gli stati alterati di coscienza, la marijuana, la stessa flanerie). Parigi, e il lavoro sui passages, furono l’unica costante nelle peregrinazioni che l’avrebbero portato a Ibiza e Mosca, in Italia e a Marsiglia, in fuga dalla Storia, certo, ma anche dai suoi fantasmi, come quello della depressione, e in fin dei conti da se stesso. La “vita segreta delle città” che intendeva indagare nei Passages era la vita segreta della sua anima; il futuro dell’Occidente lanciato verso il baratro la sua apocalisse personale; la nostalgia consumistica delle vetrine la stessa malinconia che permea Infanzia berlinese. Così Benjamin, tramontato come tutto il resto il tentativo impossibile di un’autobiografia, raccontava sé stesso rifratto in uno specchio che non ne restituiva mai pienamente l’immagine: parlava d’altro perché era l’unico modo di parlare di sé.

La stessa ispirazione originaria dei Passages è profondamente indicativa a riguardo: nella lettera a Scholem del 1926 racconta come abbia deciso di dedicarsi a un lavoro sulla Parigi del Barone Haussmann per compiere una sorta di esorcismo. Lo scopo dell’opera, spiega, è quello di “svegliarci” dal “sogno dell’Ottocento”. Siamo di fronte a Benjamin nella sua essenza più pura: oscuro al limite dell’impenetrabilità, eppure stranamente spontaneo; impersonale e autobiografico; teorico e intimo; con l’attenzione sempre rivolta da qualche parte che non è il centro, come se l’unico modo per dire le cose che contano fosse non menzionarle mai direttamente. Perché evidentemente il “sogno dell’Ottocento”, quello da cui il giovane Benjamin sente l’esigenza di risvegliarsi, è il sogno della generazione dei suoi padri, la grande utopia ottocentesca ridotta a frammenti fumanti di città e carne umana dalla guerra mondiale in attesa di nuovi e più atroci orrori. Come sempre nel corso di tutta la sua vita, Benjamin ha già prefigurato il futuro: l’operazione è psicanalitica e surrealista nella sua essenza, ma senza redenzione. Sembra di sentire il Rust Cohle di True Detective quasi un secolo dopo quando dice che alla fine di ogni sogno c’è un mostro: gli occhi del sognatore si sarebbero aperti sul buio.

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Benjamin si stabilisce definitivamente a Parigi nel 1935. Non è la prima tappa del suo esilio: tra il 1931 e il 1932 ha già compiuto due viaggi a Ibiza, ospite di una congrega di expat tedeschi. Come tutti a Ibiza si è innamorato, entrando forse in contatto in maniera più pura con quell’anima dionisiaca che per tutta la vita avrebbe corteggiato e respinto in egual misura; al ritorno dal primo viaggio ha meditato per la prima volta di uccidersi. Quando il Reichstag è bruciato nel febbraio del 1933, ed è stato costretto a lasciare la Germania una volta per tutte, Parigi è diventata la sua base.

Non è un caso, credo, che nella capitale francese arrivi ufficialmente come traduttore della Recherche, un altro progetto che non avrebbe mai portato a termine. Invece di lavorare a Proust riprende i fili della sua ossessione per Baudelaire. Si intrattiene nei locali di Montparnasse, specialmente al Dôme. Passa i pomeriggi a fare ricerche alla biblioteca nazionale, che interrompe solo quando viene a prenderlo l’amica Hannah Arendt. Il lavoro deve essere stato intenso, quell’anno, perché nello stesso 1935 lo studio per i Passages confluisce in un libro, Parigi capitale del XIX secolol’unico tentativo fatto in vita da Benjamin per dare una forma editoriale alla sua ossessione. Per il resto, l’umore non è dei migliori. Si sposta da una pensione economica all’altra, totalmente dipendente dai soldi che gli spediscono Adorno e Horkheimer. “Parigi cambia”, aveva scritto Baudelaire immerso nel sogno dell’Ottocento, “ma niente nella mia malinconia è cambiato”. Benjamin potrebbe sottoscrivere queste parole.

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Remembrance of Things Past è anche il titolo di una conferenza che si è tenuta al Warburg Institute di Londra nel 2012. Il suo autore, Matthew Rampley, oggi insegna storia dell’arte alla Masaryk University di Brno, in Repubblica Ceca, e a Birmingham. Nel 2000 ha pubblicato un libro da cui la conferenza trae lo spunto, oltre che il titolo, e che sostiene un’idea curiosa: quella delle influenze di Benjamin sul lavoro di Aby Warburg. Un paradosso, visto che Warburg è morto nel 1929 quando Benjamin era virtualmente sconosciuto (l’unico dei suoi lavori principali già pubblicato, Origini del dramma barocco tedesco, era uscito l’anno precedente).

Benjamin conosceva Warburg, lo cita nell’introduzione alle Origini e può darsi che si sia ispirato a lui nel costruire la propria carriera, se di carriera si può parlare, di studioso indipendente. Da Warburg, Benjamin ha quasi certamente tratto l’idea della cultura come qualcosa di vivo, in cui frammenti eterogenei alti e bassi, popolari e colti, possono essere ricombinati per trarre un senso più ampio; e l’analogia tra i Passages e Mnemosyne Atlas, due lavori incompiuti e ipertestuali basati su un’idea di classificazione fluida e mai definitiva, è fin troppo evidente: gli stessi faldoni che contengono i materiali dei Passages richiamano i pannelli di Mnemosyne per il carattere eterogeneo delle loro denominazioni (Baudelaire, Casa di sogno, Le strade di Parigi, Specchi, Sistemi di illuminazione, Moda, etc.). Quello che Rampley sostiene nel suo libro è che il lavoro di Warburg, rimasto nella relativa oscurità fino agli anni Ottanta, deve la sua notorietà a Benjamin, che al contrario è stato soggetto di studio critico fin dagli anni Trenta. Leggiamo, dice Rampley, Warburg attraverso la lente di Benjamin nello stesso modo in cui leggiamo Shakespeare attraverso la lente di T.S. Eliot.

In questa idea del futuro che influenza il passato c’è qualcosa di affascinante, come se il tempo fosse un cerchio, o una casa di specchi. È seguendo questa intuizione che nel 1920 Benjamin acquista l’Angelus Novus di Paul Klee, “l’angelo della storia” con “lo sguardo rivolto al passato”? È una prefigurazione della tragedia personale che lo attende o un riconoscimento nicciano dell’eterno ritorno? O entrambi?

Benjamin aveva probabilmente in mente Mnemosyne Atlas quando pensava ai Passages, ma la sua idea di ipertesto era più definita, e insieme più concreta, dello studio del movimento dionisiaco di Warburg. Se Parigi è il prisma attraverso cui si manifesta l’intera storia dell’Occidente, il “sogno dell’Ottocento” così come la catastrofe ventura, il pubblico e il privato, l’intimo e l’impersonale, i grandi movimenti della Storia così come gli echi dell’autobiografia, se insomma Parigi è un Aleph che tutto contiene, è anche vero che in Benjamin è la città stessa, con le sue infrastrutture materiali, i vetri e l’acciaio, i tunnel e le gallerie, a farsi per la prima volta ipertesto. Mnemosyne Atlas era un teatro della memoria rinascimentale, e attraverso la sua struttura fluida portava nella modernità la logica spaziale dell’organizzazione della conoscenza dei sistemi mnemonici. Ma nei Passages è il reticolo della città, con le sue strade e i suoi passaggi, a farsi informazione organizzata. I passages sono piuttosto chiaramente link: scorciatoie che portano da un luogo all’altro più rapidamente e, in maniera metaforica, collegano punti diversi dell’ipertesto culturale.

Warburg aveva già immaginato internet; Benjamin immagina la smart city, o l’Internet of Things. La Parigi di Benjamin è una realtà virtuale, informazione stratificata in un sistema semantico. Chissà se Christopher Nolan aveva in mente questo parallelismo quando ha pensato alla scena di Inception ambientata a Parigi. Altre coincidenze apparentemente significative.

Quello che è certo è che il futuro preconizzato da Warburg e Benjamin, la modernità che entrambi inseguivano (e che inseguivano, significativamente, rivelando i segni del passato che non passa nel tessuto della modernità), avrebbe finito per distruggerne il lavoro prima, e le vite poi: Warburg sarebbe impazzito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e la sua Bibliothek trafugata lungo l’Elba fino a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista; l’idea di città ipertestuale immaginata da Benjamin avrebbe portato alla morte del flâneur, come ha scritto ormai dieci anni fa Evgeny Morozov in un celebre articolo. Nel frattempo Benjamin era già stato obliterato, distrutto dal nazismo che Warburg aveva scampato in extremis. Alle spalle dell’Angelus Novus, dove gli occhi non guardano, si sta sempre compiendo una catastrofe: storica, tecnologica, semantica.

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Nachleben, la “vita postuma”, è la memoria: Warburg l’aveva perfettamente chiaro. Warburg era già scomparso dietro la propria Bibliothek prima di morire; Benjamin era già diventato il suo mito, la traccia dei suoi spostamenti, i suoi progetti mai finiti, le sue pagine di diario, le lettere, i racconti, gli aneddoti, prima di essere costretto a ingoiare la morfina a Portbou. C’è il sogno del passato, poi c’è il futuro che spazza via tutto, e poi c’è la memoria, che è il luogo in cui sopravvivono i fantasmi. Per questo ogni scrittore interessato alla memoria è un bibliofilo, e per questo i nazisti bruciavano i libri: i due atti, quello dell’accumulazione e quello del rogo, possono sembrare opposti, ma in realtà sono facce della stessa medaglia, entrambi tentativi di fare i conti con il mondo dei padri. Ingraziarsi Mnemosyne o aggredirla con il fuoco nel tentativo di addomesticarne i moti imprevedibili. La modernità, come aveva capito Atget, ha sempre bisogno di bruciare il passato, ma il passato non brucia mai. Anzi nel fuoco si calcifica, come in un procedimento alchemico, e si fa permanente: Nachleben, appunto.

È anche per questo che quando Benjamin si trova infine costretto a lasciare anche Parigi, circondato ormai su tutti i fronti (esule dalla Germania perché ebreo, internato in un campo di lavoro nella Francia libera perché tedesco, poi braccato in quella occupata di nuovo perché ebreo, guardato sempre con sospetto perché marxista) lascia i faldoni contenenti i materiali per i Passages alla biblioteca nazionale. Ma sarebbe ingenuo pensare che la memoria sia neutrale. O meglio, la memoria è neutrale, come ogni dio e ogni fantasma, ma le sue istituzioni no. I Passages sarebbero stati probabilmente sequestrati e dati alle fiamme se il bibliotecario a cui Benjamin aveva lasciato i faldoni non li avesse nascosti poco prima della caduta di Parigi. Quel bibliotecario era Georges Bataille: coincidenze apparentemente significative.

Mentre la catastrofe si fa sempre più pressante, mentre il risveglio dal sogno si fa imminente, e il sogno si trasforma in maniera via via più concreta in quello che è sempre stato, e cioè in un incubo, anche l’ossessione di Benjamin si acuisce, sfiorando la mania. Leggendo i Passages oggi una cosa mi colpisce: la totale assenza di spiegazioni, come se il semplice accumulo di citazioni, di rimandi, di frammenti fosse sufficiente a creare un senso. È la stessa sensazione che si avverte guardando Mnemosyne Atlas: quella di trovarsi nella mente di qualcuno, all’interno di un progetto privato. Perduti nel sogno di qualcun altro, come i necronauti di Philip Dick intrappolati nella mente di Runciter. C’è una coerenza nel fatto che mentre il senso della Storia si fa sempre più incerto, mentre il mondo discende nel caos e nella morte e nella psicosi nazista, la storia personale abbia sempre più bisogno di cercare un proprio senso, diventi sempre più importante salvare il proprio mondo intimo. Benjamin sapeva probabilmente di essere spacciato dal giorno dell’incendio del Reichstag, sapeva che il momento del risveglio poteva essere procrastinato ma non evitato: per questo era più importante salvare il contenuto della valigia che la sua stessa vita.

Certo è che non abbandona Parigi finché ormai è troppo tardi. In quegli ultimi mesi è sempre più solo e più povero. Adorno e Horkheimer si sono trasferiti in California dal 1938, e da tempo cercano di convincerlo a lasciare l’Europa per raggiungerli. Dora, la sua ex-moglie, è fuggita a Londra con il figlio Stefan: basterebbe arrivare fino a Calais e salire su una nave per mettersi in salvo, ma Benjamin rifiuta. La ragione: vuole continuare a lavorare ai Passages. Solo quando Parigi cade, il 14 giugno del 1940, un mese dopo che la Wehrmacht è entrata in Francia, accetta il permesso di ingresso negli USA che Adorno è riuscito faticosamente a ottenere per lui. Ma a quel punto l’Europa è una trappola mortale: la nave per New York parte dal Portogallo, ma per arrivarci bisogna attraversare tutta la Francia nazista e la Spagna di Franco. Benjamin ha 48 anni, soffre di cuore, ha problemi a camminare. Quest’ultima fuga dura tre mesi e si conclude appena passato il confine spagnolo: al Portogallo mancano ancora 1344 km, trecento ore di cammino. Il futuro è sempre stato troppo lontano.

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C’è un’ultima somiglianza tra la vita di Benjamin e quella di Sebald, e ha a che vedere con la fine: due autori che hanno passato l’esistenza a cercare la “vita segreta”, a tessere trame di senso nel caos del mondo, muoiono in maniera casuale. Le coincidenze sono apparentemente significative finché all’improvviso, senza ragione, smettono di esserlo, e il tessuto asignificante del mondo si sfalda, torna all’indifferenziazione primigenia. Kronos, il tempo umano, indirizzato, si disfa in kairos, il tempo come successione di momenti disordinati ed eterogenei. Kronos, cioè Saturno, il dio della depressione e del limite, della morte e della catastrofe, non può essere eluso per sempre: non ci sono più derive, non ci sono più luoghi da visitare, non c’è più fuga. Saturno, la cattiva stella, il dis-astro, alla fine arriva sempre. Porta la fine, e con sé anche la pace.

Sebald muore un giorno di dicembre del 2001 in un incidente stradale, a 57 anni: un punto finale conclude la vita dello scrittore della divagazione infinita. La morte di Benjamin non è casuale nelle ragioni ma lo è nelle circostanze. Si conclude in un paese qualsiasi, un villaggio di mille anime che per Benjamin, così legato al senso dei luoghi, non significa nulla. Ciò che segue è tanto preda dell’entropia da risultare quasi comico. Il medico legale che arriva sul posto non si accorge della capsula di morfina e classifica la morte come aneurisma cerebrale; in una mossa degna di una commedia degli equivoci, le autorità spagnole leggono male la carta d’identità: pensano che il morto si chiami Benjamin Walter, invece che Walter Benjamin. Non capiscono che è ebreo e lo seppelliscono nel piccolo cimitero cattolico del paese. Chissà che hanno fatto della valigia, cos’avranno capito di quella raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo. Avranno pensato che fosse un urbanista, probabilmente. Sicuramente non conoscevano la parola “flaneur”.

Eppure mi sembra che proprio in questo finale insensato si apra lo spazio di una possibilità: alla tragedia segue la commedia. Benjamin riposa in un paese affacciato sul mare, nel clima mite della Catalogna: immagino un vento dolce che scuote il cespuglio di bosso piantato da chissà chi a vegliare sul suo sonno. La psicosi nazista che l’ha ucciso si è uccisa a sua volta, alla guerra è seguita la pace. Alla pace seguiranno altre guerre, altre morti, altre catastrofi. E tornerà ancora una volta la pace.

A Parigi, la Wehrmacht non ha mai trovato i Passages, ben nascosti da Bataille: la memoria, incarnata in un servitore ribelle e infedele, ha fatto bene il suo lavoro. 

“Un bambino”, appunta Benjamin nella sezione dedicata alla Noia, eterno ritorno, “con sua madre al Panorama. Il Panorama raffigura la battaglia di Sedan. Il bambino trova tutto molto bello: ‘Solo, peccato che il cielo sia così cupo’. ‘Così è il tempo in guerra’, ribatte la madre”.

Il tempo di Proust, quello perduto e ritrovato, è kronos o kairos? Se il tempo è un anello, e non una linea retta (e se la noia è l’esperienza che facciamo di questo eterno déja vu) allora l’Angelus Novus, rivolgendosi all’indietro, ha lo sguardo fisso sul futuro. L’hauntology non è un glitch nel tessuto del tempo: è il tempo nella sua circolarità.

La lapide a Portbou, sormontata dal suo piccolo cespuglio di bosso, è sempre esistita in attesa dell’unico finale possibile. “Una gabbia andò in cerca di un uccello”, scrisse Kafka. Sono sempre stato il custode.

Niente passa perché tutto, incessantemente, passa. Dal sogno non ci si sveglia veramente mai, si salta solo di sogno in sogno, come in Inception. Anche il mostro alla fine è una fantasmagoria. “Peccato che il cielo sia così cupo”. Ma in fondo è solo un diorama.

ARTICOLO n. 94 / 2022

W. G. SEBALD, NEL SEGNO DI SATURNO

I profeti del presente

Avevo sempre desiderato visitare Orford Ness, “l’isola” come la chiamano gli abitanti del luogo, anche se a separare questa striscia di terra dalla costa del Suffolk c’è solo il sistema fluviale composto dai fiumi Alde e Ore e la traversata in barca dura pochi minuti. Però da quando nel 1993 il National Trust l’ha acquistato dal Ministero della Difesa bisogna prenotare, ed è aperto solo nei fine settimana per impedire che i turisti disturbino gli uccelli che ci nidificano, barbagianni e falchi di palude, ma anche i mammiferi come le lepri e i caprioli d’acqua. “L’isola” quindi era rimasta sempre esclusa dalle mie peregrinazioni sulla costa, fatte in gran parte durante gli anni della pandemia per sfuggire alla noia e all’oppressione delle notizie di morte che arrivavano dal resto dell’Inghilterra. Da Londra ci vogliono tre ore di macchina, e da Norwich, la città più vicina raggiungibile con un treno diretto da Liverpool Street, non ci sono collegamenti comodi. Ci avevo girato intorno, a Nord e a Sud, senza mai trovare l’occasione di andarci.

Orford Ness ha una bellezza strana e inquietante; un po’ come Dungeness, il borgo del Kent dove nel 1986 Derek Jarman è andato a morire all’ombra della centrale nucleare, materializzando un giardino dalla sabbia e scrivendo il suo diario dell’AIDS. Con Dungeness, Orford Ness condivide il suffisso –ness, che indica un promontorio o un luogo di confine, i residui arrugginiti di un passato industriale e la spiaggia di shingle, un tipo di ciottoli che definire “ciottoli” è riduttivo ma per i quali in italiano manca una parola adatta. Soprattutto, però, in entrambi i luoghi la natura selvatica si mescola a un senso di minaccia tutto umano. Entrambi i paesaggi sono ampi, spaziosi e vuoti.

La peculiarità di Orford Ness si deve al fatto che tra il 1913 e il 1987, quando a gestirlo era l’esercito, è stato il sito di un gran numero di esperimenti bellici, che hanno riguardato la balistica dell’allora neonata aviazione militare e le onde radio, l’utilizzo di piccioni viaggiatori e la bomba atomica; Orford Ness è il luogo in cui è stato inventato il radar, e negli Anni Settanta la RAF ha utilizzato i suoi grandi spazi per disfarsi delle bombe divenute inutili con il disarmo alla fine della guerra fredda, tanto che ancora oggi è obbligatorio camminare su un unico percorso per evitare di incappare in ordigni inesplosi. Quando l’ha acquistato, il National Trust ne ha fatto un parco naturale, e ha lasciato che le sue sinistre strutture militari decadessero dolcemente o venissero inglobate nella vegetazione. Si respira l’aria che immagineresti a Chernobyl; non per niente viene spesso paragonata alla Zona del film di Tarkovskij.

Nei pochi edifici ancora accessibili sono stati allestiti un piccolo museo, una libreria che sembra uscita da un romanzo di Stephen King, nella quale si vendono oggetti incongrui come libri per bambini e maglioni fatti con la lana delle pecore che pascolano placide sempre all’orizzonte; c’è una torretta d’osservazione e un edificio nero ottagonale nel quale un tempo venivano studiati i sistemi di navigazione radio dei bombardieri e in cui oggi ci si può sedere e ascoltare i versi del poeta ucraino Ilya Kaminsky che descrivono il panorama. L’installazione è parte di un progetto artistico intitolato Afterness, un nome quanto mai appropriato per descrivere un luogo così postumo. Un amico che mi accompagnava, evidentemente dotato di un maggior senso poetico di me, ha fatto notare che a Orford Ness il vento non si vede, vale a dire che lo senti sulla pelle ma non smuove i rovi e i bassi arbusti che crescono ai lati della strada. La sensazione è irreale, come se qualcosa nel contesto non quadrasse.

È la quintessenza di quello che Robert Macfarlane ha chiamato, in un’articolo scritto sul Guardian qualche anno fa, “la eeriness della campagna inglese”; è anche la quintessenza del Suffolk, un territorio nel quale la storia militare è così mescolata al panorama che è impossibile ignorarla, dalle torri Martello costruite nel XIX secolo per proteggersi dal rischio dell’invasione napoleonica ai bunker della Seconda guerra mondiale che servivano per proteggersi dall’invasione nazista: né Napoleone né Hitler sono mai riusciti ad arrivare sulle coste britanniche, ma il senso del pericolo è ancora presente. Passeggiare per il Suffolk significa attraversare diversi secoli di archeologia dei bunker, come l’avrebbe chiamata Paul Virilio. Durante e dopo la guerra sono arrivate le basi americane, come quella di Woodbridge, il paese in cui è nato Brian Eno, che ha raccontato più volte come il suo amore per la musica sia cominciato quando a metà degli anni Cinquanta osservava i soldati americani ballare rock’n’roll e doo-wop.

Probabilmente è anche questo senso di un pericolo mai realizzato, o lo spettro del complesso militar-industriale e dell’annichilimento che porta con sé, ad aver reso questa terra così spettrale; oppure gli eserciti si sono concentrati qui perché percepivano la presenza dei fantasmi: come scrive Geoff Dyer in Sabbie bianche, è difficile capire cosa venga prima e cosa venga dopo, eppure «l’effetto cumulativo di tutti quegli andirivieni rimane e si insinua nelle fondamenta», e il paesaggio «diventando una rovina rivela il suo circuito originario». È così che nasce l’anima dei luoghi. 

Mark Fisher, che di fantasmi e di eeriness si intendeva parecchio, e che in Suffolk sarebbe morto suicida, ne ha parlato diffusamente nell’audio-essay che ha co-realizzato con Justin Barton, On Vanishing Land, un tentativo di enfatizzare la spettralità implicita in On Land di Eno. Il lavoro di Fisher e Barton parte dalla «vastità inesplorata» del porto di Felixstowe e finisce a Sutton Hoo, il misterioso luogo di sepoltura sassone a poca distanza da Woodbridge. Le parole che Fisher utilizza per descrivere questo paesaggio si adattano perfettamente a Orford Ness: “eerie”, “deserto”, “irreale, “appartato”. Il Suffolk è anche il luogo in cui uno dei grandi cercatori di fantasmi della nostra epoca, W.G. Sebald, ha ambientato il suo libro più celebre, Gli anelli di Saturno. Inutile dire che ho sentito parlare di Orford Ness per la prima volta da Sebald, e che la mia passeggiata era un pellegrinaggio, o meglio ancora un rito.

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A Orford Ness Sebald è arrivato nel 1992, quando “l’isola” galleggiava nel limbo tra il suo vecchio passato militare e il suo futuro ancora non realizzato di attrazione turistica. All’epoca non c’era il rischio di spaventare i falchi di palude e i caprioli d’acqua, se è vero ciò che Orford Ness «continuava a essere evitata da tutti», e «persino i pescatori della costa, per i quali la solitudine è moneta corrente, dopo un paio di tentativi avevano rinunciato a gettar l’amo laggiù di notte, secondo quanto dicevano perché non ne valeva la pena, in realtà perché in quel luogo abbandonato da Dio e proteso sul nulla non si riusciva a resistere, anzi il permanervi aveva causato addirittura disturbi psichici duraturi»; meravigliosa, tragica ironia sebaldiana. Solo ora, rileggendo il passaggio per scrivere questo saggio, mi rendo conto che anche Sebald nota il vento: «era una giornata cupa», scrive, «opprimente, con una tale calma di vento che non si muovevano nemmeno le esili spighe delle graminacee». E continua: «Già dopo pochi minuti avevo l’impressione di avanzare in una terra inesplorata, e mi sentivo […] perfettamente libero, ma anche in preda a un’ansia immensa. Non un solo pensiero si agitava nella mia mente. A ogni passo il vuoto, dentro di me e intorno a me, si faceva più vasto e il silenzio più profondo».

L’idea di una passeggiata sebaldiana era nella mia mente da quando sono arrivato in Inghilterra dieci anni fa, perché Sebald, e Gli anelli di Saturno in particolare, è tutto un invito a ripercorrere i passi già tracciati da qualcun altro: dalla Storia, certamente, ma anche dalla memoria individuale, e da quel conglomerato di Storia e memoria individuale che è stato Sebald stesso, l’uomo Sebald, lo scrittore, ma anche il suo mito, la traccia che ha lasciato dietro di sé. Visitare Orford Ness ci ha preso tutto il giorno. L’idea per la giornata successiva era andare a Norwich, dove Sebald ha insegnato alla University of East Anglia per trent’anni, e poi al piccolo cimitero della chiesa di St Andrew a Framingham Earl, dove è stato sepolto dopo essere morto in un incidente stradale nel dicembre del 2001. Però quando ci siamo svegliati c’era il sole, non la pioggia prevista dalla BBC, e faceva caldo; così invece di andare a Nord rispetto al nostro AirBnb sperso nella campagna siamo andati a Sud, alla città fantasma di Dunwich, che nel XIII secolo era grande quanto Londra ma che è pian piano stata ingoiata dal mare, tant’è che oggi il villaggio conta solo 84 abitanti. Naturalmente anche Dunwich compare negli Anelli di Saturno. Alla sua distruzione sono dedicate alcune delle pagine più belle di tutto il libro.

Ho detto che Sebald, come uomo esistito in carne e ossa e come scrittore, invita a ripercorrere delle tracce, ma c’è anche qualcosa di più sottilmente inquietante in questo bisogno di camminare dove ha già camminato qualcun altro, e specialmente qualcuno che ha fatto di queste camminate l’oggetto ma anche la forma della propria scrittura. Nel caso di Sebald questa ritualità assume i contorni di una vera e propria necromanzia. Già nel 2012 il regista Grant Gee poteva girare un film oggi di culto e quasi introvabile come Patience (After Sebald), che non era solo un documentario sulla vita di un autore amato ma una prima camminata nel solco tracciato dagli Anelli di Saturno. Fisher non era un amante di Sebald, e le sue influenze erano tutt’altre, ma è impossibile ignorare che i luoghi di cui parla nel suo audio-essay e altrove siano in parte gli stessi del libro. Nello stesso 2012 anche Teju Cole, uno scrittore che ha dedicato il suo libro più famoso, Città aperta, proprio a Sebald, ha scritto per il New Yorker un saggio in cui racconta le sue camminate sulle tracce sebaldiane. Il saggio si intitola Always Returning: cos’altro torna continuamente se non le nevrosi e i fantasmi?

La “afterness” dell’installazione artistica a Orford Ness allora non è solo la destinazione di un movimento lineare, qualcosa che viene dopo, plausibilmente alla fine della Storia; è anche la descrizione di un moto circolare, un continuo ripercorrere gli stessi percorsi, ancora e ancora. Mentre ci pensavo mi sono accorto che solo due categorie di persone continuano a camminare sullo stesso sentiero. La prima è quella dei pensatori, o meglio di quel particolare tipo di pensatori che per pensare ha bisogno di camminare, come Kant che usciva tutti i giorni per una passeggiata alla stessa ora e la sua puntualità era tale che gli abitanti di Königsberg sistemavano gli orologi quando lo vedevano comparire in strada. La seconda è quella dei depressi, intrappolati in quella che Freud ha chiamato coazione a ripetere, per i quali camminare gli stessi sentieri è una forma della pulsione di morte. C’è qualcosa di funereo nel ripercorrere le tracce di Sebald negli anni, nei decenni: è una maniera di partecipare al lutto che pervade ogni singola pagina della sua opera, anche quelle più divertenti.

Poi però mi sono accorto che l’atto di camminare ha anche una valenza opposta, e che esiste un terzo tipo di camminatori, una categoria della quale fanno parte i flâneur e anche, in fondo, lo stesso Sebald: quelli che cercano di sfuggire alla depressione camminando. In Italia abbiamo un grande esempio, quello di Gianni Celati. Camminare, muoversi, non fermarsi mai, è un modo di tenere a bada quella inesorabile distruzione di cui parla Sebald, proiettandola con equanimità su città medievali e aringhe, sui ghiacciai e la sepoltura delle urne, sull’Olocausto e il teschio di Thomas Browne, quella distruzione da cui non c’è scampo e che minaccia di inghiottirci non appena ci fermiamo. Non per niente Gli anelli di Saturno si apre con il narratore ricoverato all’ospedale di Norwich per una misteriosa malattia che lo riduce «in condizioni di quasi totale immobilità».


Per questo la scrittura di Sebald, come quella di Celati, come quella di Teju Cole, come quella di Thomas Browne, come quella di Geoff Dyer, è una scrittura “camminante”, divagante, che rifiuta di seguire un percorso lineare, che rifiuta persino di avere un inizio e una fine. Lo era anche la scrittura di un altro grande malinconico, anzi del primo autore moderno di un libro sulla malinconia, Robert Burton. Burton oscilla continuamente tra poli opposti, dalla dimensione dionisiaca della divagazione infinita, del movimento che non vuole accettare di fermarsi, a quella propriamente malinconica della coazione a ripetere: sappiamo che ha scritto The Anatomy of Melancholy per tutta la vita, e che quando è morto a Oxford nel 1640, all’età per l’epoca veneranda di 73 anni, non era ancora soddisfatto della forma finale assunta dal libro; ma sappiamo anche che The Anatomy of Melancholy è un testo che trascende continuamente sé stesso, si spaccia come trattato medico ma non può fare a meno di essere scritto in prima persona, dovrebbe trattare il tema della tristezza ma è attraversato da una corrente inarrestabile di ironia, ed è in fin dei conti un testo enciclopedico nei mezzi e nelle finalità. La malinconia, nel libro di Burton, è una lente attraverso cui osservare tutto, e in quanto tale coincide con la vita. Queste scritture sono insofferenti al confine: proprio l’opposto di ciò che capita nel caso dell’astro evocato dal libro di Sebald.

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Vale la pena riprendere integralmente lo straordinario incipit degli Anelli di Saturno, qui nella traduzione di Ada Vigliani per Adelphi:

Nell’agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare per quelle contrade, spesso solo scarsamente popolate, a poca distanza dalla costa. D’altra parte, però, adesso ho come l’impressione che l’antica e irrazionale credenza secondo cui certe malattie dell’anima e del corpo vanno allignando in noi preferibilmente sotto il segno del Cane, potrebbe essere in qualche modo giustificata. Ad assorbire i miei pensieri nel periodo successivo fu, in ogni caso, il ricordo non solo della splendida libertà di movimento goduta allora, ma anche dell’orrore paralizzante da cui ero stato più volte assalito davanti alle tracce della distruzione che, persino in quella località sperduta, risalivano al lontano passato. Forse fu per questo che, a un anno esatto dall’inizio del mio viaggio, mi ricoverarono, in condizioni di quasi completa immobilità, nell’ospedale di Norwich, il capoluogo della regione, nel quale qualche tempo dopo avrei cominciato a scrivere, almeno mentalmente, le pagine che seguono. 

Nella raffinatezza della traduzione italiana finisce per perdersi il principale riferimento del brano: nell’originale inglese Sebald non parla di «canicola», ma scrive «when the dog days were drawing to an end», rimandando evidentemente al «segno del Cane» che segue qualche riga dopo. Nell’antichità greco-romana, i giorni del cane erano quelli in cui Sirio sorgeva all’alba insieme al Sole, alla fine di luglio; erano i giorni più caldi dell’anno (da cui appunto l’italiano “canicola”) e indicavano l’arrivo di una catastrofe; Sirio è la stella più brillante del firmamento, ma già nell’Iliade era associata all’arrivo di guerre e disastri. Dis-astri: cattive stelle. Nella prima riga del suo libro, Sebald pone tutto ciò che seguirà sotto l’influenza dei cieli, e nello specifico di un pianeta nefasto, che porta morte e distruzione su scala immane.

Nel 1964 il grande studioso warburghiano Raymond Klibansky ricordava nel suo libro sul tema che il rapporto tra Saturno e la malinconia affonda le radici nella teoria degli umori di Ippocrate di Coo: al temperamento malinconico o appunto “saturnino” era associata la bile nera; l’organo era la milza, l’elemento la Terra, e gli attributi che lo contraddistinguevano il freddo e il secco.Saturno era l’ultimo pianeta conosciuto del sistema solare, dato che Urano sarebbe stato scoperto nel 1781 e Nettuno nel 1846: era il più freddo e il più distante dal Sole, e aveva ereditato il nome dall’anziano dio dell’agricoltura romano che a sua volta aveva mutuato gli attributi dal Crono greco, il re dei Titani e signore del tempo che divorava i propri figli, così come appare nella più celebre delle pitture nere di Goya. Saturno era dunque il pianeta del limite: si trovava al confine dell’universo conosciuto, ai margini del buio dello spazio profondo, e la sua influenza riguardava i limiti invalicabili delle cose, il tempo che tutto consuma, la morte inesorabile. Per questo il suo elemento era la terra, a cui tutti torniamo e a cui tutti siamo legati dalla forza di gravità. È Saturno che compare nel cielo nell’incisione Melancholia I di Albrecht Dürer, descritta da Sebald e prima di lui da Warburg. È a “Saturno Signore della malinconia” che è dedicato Anatomy of Melancholy

Il dibattito sulle influenze astrali del temperamento malinconico aveva preso una piega inaspettata nel 1489, quando nel De Vita Triplici il grande malinconico Marsilio Ficino aveva tentato di trovare un rimedio alla disdetta della sua vita: essere nato con Saturno nell’ascendente. Ficino fa notare che spesso gli studiosi sono malinconici, istituendo così per primo un collegamento tra genio e malinconia che sarebbe arrivato dritto al Romanticismo e oltre; ma è anche il primo di quelli che potremmo chiamare “astrologi trasformativi”, una branca di pensiero che avrebbe portato all’alchimia e poi alla psicologia del profondo: lungi dall’accettare l’influenza degli astri in maniera passiva, vede l’astrologia come uno strumento per curare i mali provocati dall’astrologia stessa. Nel caso specifico di Saturno, raccomanda di bilanciare gli influssi negativi tramite l’azione di astri positivi come il Sole, Giove, Venere e Mercurio. Al temperamento malinconico, descritto dall’inventore della stenografia Timothie Bright come «tardo nel passo, taciturno, neghittoso, avverso alla luce e al concorso degli uomini», Ficino propone di contrapporre il vino, l’aria fresca e la musica. Non è un caso che due di questi tre rimedi riconducano direttamente a Dioniso.

Di tutti questi collegamenti mi sono accorto solo confusamente mentre camminavo nel Suffolk: come il passato militarizzato dell’East Anglia, rimanevano sullo sfondo, ne ero solo parzialmente cosciente. Ero ben consapevole però di star ripercorrendo un sentiero già battuto innumerevoli volte, forse già battuto da sempre, in un eterno ritorno nicciano o in un’esplosione su scala cosmica del Jack Torrence di Shining rivela di «essere sempre stato il custode». Ed ero ben consapevole che niente in noi e fuori di noi si muove senza l’influsso dei pianeti e le voci degli dèi, quelli nel macrocosmo e quelli nel microcosmo. Il sole era troppo caldo per un giorno di ottobre: altri dis-astri all’orizzonte.

L’altra cosa che avrei scoperto solo più tardi, leggendo Klibansky nel tentativo di trarre una linea narrativa da questo groviglio di fili intersecati che si perdono all’origine del tempo, è che c’è un aspetto meno conosciuto di Saturno, un lato-ombra che sembra negare la terribile fama che il pianeta si è costruito nei millenni. Nel passaggio dalla Grecia a Roma, quando Crono è stato tradotto in Saturno, il “dio anziano” ha perso gran parte della sua brutalità originaria, venendo associato principalmente all’agricoltura: il tempo non è dunque più solo il Titano che divora i propri figli, ma anche il principio benefico che fa crescere e maturare le messi; la terra non è solo una metafora della morte, ma anche della vita; e il limite inesorabile è il passaggio necessario per un nuovo inizio. Tant’è che le feste in onore del dio, i Saturnalia, erano una specie di carnevale, un momento di gioia e dionisiaca sospensione delle regole. Si celebravano dal 17 al 23 dicembre, ed è probabile che parte del culto sia confluita nel Natale cristiano, a sua volta un simbolo di nuova vita.

Ecco allora che la afterness, questo essere sempre “after Sebald”, si ribalta nel suo opposto: non c’è solo il moto lineare che conduce oltre la fine della Storia, oltre la fine dell’universo, oltre la fine di tutte le cose nel buio assoluto e totale dello spazio profondo; c’è anche il moto circolare dell’agricoltura, della morte che permette la vita e che si ripete sempre uguale. Qui Dioniso e Saturno, questi due grandi principi del disturbo bipolare che in una forma o nell’altra ci affligge tutti, non sono più antagonisti, ma facce diverse dello stesso dio. È la realizzazione di quell’equilibrio che Warburg ha cercato tutta la vita senza mai trovarlo quando scriveva nel suo diario di aver provato «a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso autobiografico: la Ninfa (maniaca) da una parte e il malinconico dio fluviale (depressivo) dall’altra».

Lo stesso potremmo dire in fondo di Sebald, che non si è «mai sentito così libero» come durante le peregrinazioni nel Suffolk, e nell’ospedale di Norwich si trova costretto a letto dall’«orrore paralizzante» che ha provocato in lui la scala cosmica della catastrofe. Però, e chissà se aveva in mente la natura ciclica di Saturno mentre lo decideva o se è stata una scelta inconscia, la stasi e la malattia sono poste all’inizio del libro, non alla fine. O meglio, l’inizio e la fine sono la stessa cosa: ci si ferma, si cammina, si è liberi e ci si ferma di nuovo; ci si riposa, e poi si cammina di nuovo. Gianni Celati camminava per ore prima di scrivere, e scriveva solo quand’era esausto. Poi si riposava e riprendeva a camminare, o a scrivere, che in fondo per lui erano la stessa cosa.

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Ciò che invece ha continuato ad andare dritto lungo la propria strada è il progresso scientifico, che conosce interruzioni e improvvisi salti in avanti ma non ammette divagazioni, almeno in questa maniacale allucinazione razionalista in cui abbiamo trasformato la scienza. La teoria degli umori è stata sorpassata, e si può sostenere a ragione che la medicina moderna abbia salvato qualche miliardo di vite. Il concetto di malinconia, con la sua ricchezza semantica che includeva tristezza e nostalgia, rimpianto e disperazione, irascibilità e tedio, è stato rimpiazzato da quello «uniforme ma informe» della depressione, come ha scritto Silvia Arzola. Le voci degli dèi sono state ridotte a squilibri chimici nel cervello e vengono curate con le medicine. Che servono, certo, ma a volte non servono. Non riesco a fare a meno di pensare a Mark Fisher, a tutto ciò che ha scritto sulla depressione e alla sua morte autoinflitta e al fatto che abbia scelto proprio il Suffolk per vivere e morire, lui che era delle Midlands.

Siccome in fondo tutto finisce, come Gli anelli di Saturno racconta nel migliore dei modi possibili, non posso fare a meno di pensare anche alla morte di Sebald, che appare così casuale, così gratuita: un punto arbitrario per mettere fine alla vita del più grande divagatore del nostro tempo. La mano di Saturno, senza dubbio. Il dis-astro che si manifesta nel quotidiano, una sera di dicembre fuori Norwich.Nel 2012, l’anno dell’uscita di Patience (After Sebald) e della peregrinazione di Teju Cole, la sonda della NASA Voyager 1 è stata il primo oggetto costruito dall’uomo a uscire dal sistema solare: aveva sorvolato Saturno nel 1980. Dieci anni dopo si trova a 23 miliardi e 604 milioni di km dal Sole e comunica con la Terra ininterrottamente da 45 anni e 1 mese. Continua ad andare dritta, senza divagazioni, nel buio cosmico, sempre più lontana dagli uomini e dai loro dèi. Continuiamo a sentirla parlare, finché un giorno non la sentiremo più e sarà diventata solo un altro dei nostri fantasmi.

ARTICOLO n. 88 / 2022

ABY WARBURG, IL DYBBUK

I profeti del presente

Da qualche tempo il Warburg Institute è completamente avvolto nei teli di plastica bianca che servono a coprire i ponteggi come una crisalide nel suo bozzolo. La trasformazione che sta avvenendo, nascosta all’occhio, è un progetto di ristrutturazione da 14 milioni di sterline poeticamente battezzato “Warburg Reinassance”, il primo grande intervento da quando l’Istituto si è spostato a Bloomsbury da Millbank nel 1958, poco prima che Ernst Gombrich ne diventasse il direttore. Sembra un’installazione di Christo, e la cosa mi pare appropriata: la presenza-assenza, o meglio la presenza resa evidente dalla sua assenza, risuona profondamente con Warburg. D’altra parte l’anonimo edificio di mattoni scuri che c’era prima passava inosservato: ci avrò camminato a fianco decine di volte, passeggiando in questa zona di università e librerie, senza mai entrarci. Questa sera di ottobre fin troppo calda, ingentilita da un tramonto fin troppo drammatico, decido infine di sottomettermi a quella che Walter Benjamin chiamava la “magia della soglia”.

Più di tutto mi interessa capire come un edificio possa arrivare a ricalcare la mente di un individuo, e come questo calco possa essere importato in una struttura non originariamente pensata per quello scopo. A quest’ora pochi ricercatori si muovono tra gli scaffali di libri scritti in almeno sei lingue diverse (tedesco, italiano, greco antico, latino, inglese e francese) e organizzati, secondo le parole di Claudia Wedelphol, in modo che «il lettore che cerca un libro sugli scaffali sia attratto da quello vicino, guardi in alto e in basso e si trovi rapito da un nuovo flusso di pensiero». Classificazione come rapimento, link prima di internet, macchine combinatorie: su tutto regna la rota di Isidoro di Siviglia, «l’ultimo storico del mondo antico» secondo Charles de Montalembert, che mette in relazione microcosmo e macrocosmo. La soglia conduce nella testa di Warburg: ci si sente come i personaggi di Ubik di Philip Dick imprigionati nel sogno di Runciter, sai che la casa è infestata ma non sai più esattamente chi siano i fantasmi.

Allo stesso tempo, però, percepisci chiaramente come un luogo del genere sia ideato per sviluppare la creatività e le libere associazioni del pensiero. Camminando per queste sale non è difficile immaginare Frances Yates, la grande studiosa della tradizione ermetica nel Rinascimento italiano, lavorare negli anni Cinquanta alla “storia warburghiana” che l’avrebbe portata sulle tracce di Giordano Bruno e Giulio Camillo. La biblioteca di Warburg è evidentemente imparentata ai dispositivi mnemotecnici di Simonide di Ceo e Leibniz descritti da Yates nell’Arte della memoria. E anche qui a Londra, nella pace di Bloomsbury un giorno d’autunno del terzo millennio, chiunque entri al Warburg Institute deve attraversare la porta con la scritta ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, com’era originariamente alla Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo. Entrando ci si inchina, e ci si affida, alla protezione della memoria, la madre delle muse. Oltre che nella mente di Warburg, la soglia conduce a un luogo sacro, un tempio antico nel cuore del secolarismo occidentale. 

È impressionante pensare che gli oltre 60.000 libri che componevano la “biblioteca della storia della cultura” originaria siano arrivati a Londra da Amburgo a bordo di chiatte che hanno disceso l’Elba, attraversato il Mare del Nord e risalito il Tamigi fino alla capitale britannica. Tutto questo capitava nel dicembre del 1933, quando Warburg era morto già da quattro anni, Hitler aveva bruciato il Reichstag ed era cominciato il boicottaggio delle attività ebraiche. La grande banca della famiglia Warburg era fallita nella crisi del 1929 e Fritz Saxl, il primo direttore dell’Istituto, aveva perso il posto da docente universitario. Fu grazie al Visconte di Fareham e al collezionista Samuel Courtauld, che l’anno prima aveva aperto il suo celeberrimo Courtauld Institute, se la Bibliothek riuscì a mettersi in salvo dal nazismo. Altrimenti non ci sarebbe stata “storia warburghiana”; non ci sarebbe stato, probabilmente, Aby Warburg, vale a dire la sua memoria, che è la stessa cosa.

Anche perché, come aveva scritto Giorgio Pasquali già nell’anno della sua morte, «che l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro all’istituzione da lui voluta, è conforme alle sue intenzioni: egli ha voluto essere innanzitutto un maestro e un organizzatore». Senza la Bibliothek, Warburg avrebbe lasciato dietro di sé pochissimo, quasi niente: lui che «si è per lo più tenuto pago di pubblicare le sue scoperte maggiori in forma straordinariamente succinta e compressa, per lo più quale resoconto o riassunto di conferenze», o addirittura «in fogli volanti o in appendici di giornali, difficili da trovarsi se non per chi li abbia avuti in dono da lui». E tuttavia, conclude Pasquali, il cui saggio apre la bellissima raccolta Aby Warburg e il pensiero vivente pubblicata quest’anno da Ronzani, «il Warburg sentiva il bisogno di espandersi». Questo movimento sistolico di contrazione ed espansione avrebbe caratterizzato tutta la sua vita.

Abraham Warburg era nato il 13 giugno 1866 ad Amburgo, figlio maggiore di una famiglia di grandi banchieri ebrei dalle origini veneziane con ramificazioni negli Stati Uniti: una famiglia non solo ricca, ma anche potente, di cui Aby avrebbe dovuto essere l’erede. Leggenda vuole che a quattordici anni facesse un patto con il fratello Max, di un anno più giovane, barattando la banca con la promessa di ricevere soldi per comprare tutti i libri che avrebbe voluto; e che diversi decenni più tardi Max si fosse lamentato di aver firmato «l’assegno in bianco più costoso della mia vita». Con quei soldi Aby sarebbe andato a Firenze a studiare Botticelli, avrebbe sposato contro la volontà della famiglia un’artista conosciuta in Italia, anche lei ebrea amburghese, e avrebbe dedicato il resto della sua esistenza prima a concepire, e poi a preservare attraverso l’Istituto, una scienza dell’immagine sul cui nome non sarebbe mai riuscito a decidersi, oscillando tra «storia della cultura», «psicologia dell’espressione umana» e «storia della psiche», e che più tardi il suo discepolo Panofsky avrebbe ribattezzato “iconologia” senza però afferrarne la reale complessità. Avrebbe trascorso tre mesi del 1895 tra i nativi Hopi del New Mexico per studiarne la danza del serpente e vent’anni più tardi, tra il 1921 e il 1924, sarebbe stato ricoverato in un celebre ospedale psichiatrico svizzero per quello che oggi chiameremmo un disturbo bipolare. Considerato incurabile, sarebbe invece riuscito a farsi dimettere proprio grazie a una conferenza sulle danze degli Hopi, che secondo molti erano la prima avvisaglia della sua follia.

Qualsiasi cosa il giovane Warburg avesse cercato, e trovato, nel New Mexico, quell’esperienza dimostra che il trasferimento della Bibliothek a Londra non fu solo una contingenza storica, e che i legami con la cultura britannica erano più profondi di quanto potesse credere lo stesso Warburg, che si sentiva «amburghese nel cuore, ebreo nel sangue e fiorentino nello spirito». Certo, durante la guerra Londra era diventata il rifugio della cultura ebraica in fuga dall’Europa nazista, basti pensare a Freud o alla Wiener Library, la più antica istituzione dedicata allo studio dell’Olocausto. Ma l’interesse di Warburg per le culture all’epoca considerate “primitive” aveva un chiaro legame con quella che alla fine dell’Ottocento era ancora conosciuta come “la scienza di Mr. Tylor”, cioè l’antropologia. 

Come ricorda Georges Didi-Huberman nel suo studio su Warburg, L’immagine insepolta, nel 1856 Edward Burnett Tylor «aveva attraversato il Messico a cavallo» e nel 1861 aveva pubblicato «i suoi Tristi tropici» in cui compaiono «uno dopo l’altro, e apparentemente con sua stessa grande sorpresa, zanzare e pirati, alligatori e padri missionari, trafficanti di schiavi e vestigia azteche, chiese barocche e costumi indiani, terremoti e armi da fuoco». Tylor aveva «scoperto l’estrema varietà della cultura e la sua vertiginosa complessità», «il vertiginoso gioco del tempo nel presente», una «vertigine» che «trovava espressione, prima di tutto, nella potente sensazione che il presente è intessuto di molteplici passati», e nella quale «i “dettagli triviali”» sono importanti perché «possiedono la capacità di dare significato alla – o piuttosto servono come sintomi della – loro stessa insignificanza». Vertigine, fantasmi e ossessione: Aby Warburg era già tutto lì.

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Per capirlo dobbiamo per forza tornare a quella scritta sulla porta: ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, e al suo ultimo lavoro, rimasto incompiuto: Mnemosyne Atlas. Molti hanno un’idea almeno vaga di cosa fosse questo atlante della memoria, ma descriverlo è più complesso. Gertrud Bing, direttrice dell’Istituto dal 1954, ne parla come di «un atlante figurativo che illustra la storia dell’espressione visiva nell’area del Mediterraneo»; per Pasquali lo scopo dell’Atlante era quello di «mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni, l’Oriente mediterraneo del Medioevo e il Medioevo europeo, il Rinascimento italiano e tedesco, infine la generazione e la cerchia del Rembrandt […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità “patetica”, dionisiaca dell’antichità»; Giorgio Agamben ne ha parlato come di «una sorta di gigantesco condensatore in cui si raccoglievano tutte le correnti energetiche che avevano animato e ancora continuavano ad animare la memoria dell’Europa, prendendo corpo nei suoi “fantasmi”». Nella sua ultima versione, l’Atlante consiste in sessantatré pannelli di 150 x 200 cm coperti di tessuto nero sui quali Warburg ha organizzato, cambiandole continuamente di posizione, quasi 1000 fotografie in bianco e nero divise per temi come gli «amuleti, gli specchi magici, l’astrologia medievale e l’Occhio del Diavolo» (Martha Schwendener). Le immagini di arte rinascimentale sono predominanti, ma compaiono anche elementi eterogenei come «l’affiche pubblicitaria di una compagnia di navigazione, la fotografia di una giocatrice di golf ovvero quella del Papa e di Mussolini che firmano il Concordato» (Agamben). 

Nessuna di queste spiegazioni, me ne rendo conto, è sufficiente a dare un’idea dell’Atlante a chi non l’abbia visto, almeno nella sua versione virtuale accessibile tramite il sito del Warburg Institute, se non dal vivo alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino, dove è stato esposto nel novembre 2020. Come sempre ai limiti dell’ineffabile, conviene risolversi a un’esperienza personale.

Mi sono imbattuto in Mnemosyne Atlas la prima volta undici anni fa, mentre stavo scrivendo per una rivista un saggio sull’enumerazione come metodo di organizzazione della conoscenza che passava dalle liste di Georges Perec agli elenchi visuali di Pinterest. Avevo poco più di vent’anni e per qualche ragione Warburg aveva sempre eluso i miei percorsi di ricerca. La somiglianza dei pannelli dell’Atlante con le boards di Pinterest era sorprendente. Allo stesso tempo, sorprendente ma in un certo senso opposta, era la somiglianza con la schermata di presentazione dei risultati di Google Images: opposta perché in Pinterest, come nell’Atlante, all’organizzazione delle immagini presiedeva una volontà umana, una scelta curatoriale di qualche tipo; mentre dietro i risultati di Google c’era quel curatore impersonale, invisibile e solo apparentemente oggettivo che è l’algoritmo. Ero rimasto catturato dalle infinite possibilità combinatorie di quei pannelli, ma anche da quanto la struttura voluta da Warburg, il suo caos organizzato, tornassero continuamente nella storia dell’arte del secondo novecento, da Atlas di Gerhard Richter, che lo richiama esplicitamente, alla disposizione delle immagini usata da John Berger in Modi di vedere fino a opere come la Réserve des Suisses morts di Christian Boltanski. Come ha scritto Didi-Huberman, «Warburg è la nostra ossessione, ci perseguita. È per la storia dell’arte quello che un fantasma irrequieto – un dybbuk – potrebbe essere per la casa in cui abitiamo».

Frances Yates ci torna in soccorso, qui. La mnemotecnica, l’arte della memoria che ha guidato la ricerca della studiosa di Portsmouth, era come l’Atlante di Warburg un metodo visuale di organizzazione dell’informazione; e possiamo dire che la Bibliothek, con la sua sala di lettura ellittica e l’organizzazione dei libri secondo quattro categorie gerarchiche (orientamento, immagine, parola e azione) connesse però tra loro da una fitta rete di rimandi intertestuali, era quanto di più vicino la modernità sia riuscita a concepire al teatro in cui Giulio Camillo aveva cercato di racchiudere «la natura di tutte le cose che possono essere espresse dalla parola». D’altra parte la mnemotecnica, arte retorica dell’antichità, era tornata in auge proprio nel Rinascimento. Ma se da un lato le radici culturali dell’Atlante si spingevano indietro fino all’epoca ellenica, dall’altro si proiettavano vertiginosamente verso il futuro: i collegamenti pensati da Warburg erano l’equivalente analogico di link ipertestuali. Come ha raccontato Nicolò Porcelluzzi in un articolo pubblicato su «Prismo» qualche anno fa, la tecnica dei loci dei retori antichi è incredibilmente simile ai dispositivi per la navigazione presenti nelle prime forme visuali di internet, che non per niente, lo sosteneva già nel 1991 Jay Bolter nello Spazio dello scrivere, è tutta costruita su metafore spaziali: in internet ci troviamo sempre in qualche luogo e vogliamo andare da qualche altra parte.

E in internet, proprio come in Mnemosyne Atlas, ci perdiamo, continuamente: perché le strade possibili sono infinite, e la disposizione degli spazi incerta e in continuo movimento. Anche e forse soprattutto da questo punto di vista Warburg si dimostra un dybbuk della contemporaneità, per quel senso così ebraico di disolcamento (displacement) che attraversa tutta la sua opera, così come quella di altri grandi profeti del presente come Walter Benjamin e W.G. Sebald. Un dislocamento triplice: di Warburg rispetto alla sua storia personale, figlio del rifiuto per la professione paterna e dell’amore per l’Italia; di Warburg nei confronti della storia dell’arte, o meglio come scrive Didi-Huberman «attraverso la storia dell’arte, ai suoi confini e oltre», volto a creare una disciplina che è «una reazione critica violenta, una crisi» e «una decostruzione delle frontiere disciplinari»; e un dislocamento all’interno della biblioteca stessa causato dagli «incessanti sforzi coinvolti nella sua riconfigurazione». D’altra parte era lo stesso Warburg a scrivere che «tutto ciò che viviamo è metamorfosi». La vita non è altro che movimento.

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Proprio il movimento è il vero centro dell’opera di Warburg, se un’opera così espansa può averne uno. Quando da giovane dottorando si trovava a Firenze a studiare i quadri di Botticelli, si era reso conto che i pittori del Rinascimento italiano si rifacevano a un determinato tipo di modelli dell’antichità classica ogniqualvolta dovevano rappresentare il movimento: nelle pieghe delle vesti, nel vento che smuove i capelli di Afrodite nella Nascita di Venere. Partendo da questa constatazione Warburg aveva tratto una conclusione geniale, che faceva a pezzi la teoria dell’arte neoclassica di Winkelmann, all’epoca ancora l’autorità nel campo della storia dell’arte: a essere sopravvissuta nel Rinascimento non era solo la dimensione “apollinea” dell’antichità, l’armonia delle forme, la calma olimpica dei marmi, ma anche quella “dionisiaca”, che aveva a che fare con la «sofferenza», la «vita», «l’ebrezza, la passione, sin la follia» (Pasquali). Quella traccia di Dioniso nel mondo cristiano diventò la sua ossessione, la base su cui costruì la sua idea di Nachleben, la “vita postuma” dell’arte antica. Per il resto della sua esistenza si sarebbe dedicato a ricercare le tracce di quella sopravvivenza nelle immagini dell’arte e della cultura popolare, ma anche nella rappresentazione delle feste o delle espressioni facciali.

C’è un aspetto del dionisiaco che non viene mai abbastanza sottolineato, a mio parere, e che non è stato messo particolarmente in luce nemmeno negli studi su Warburg. Secondo una versione del mito, Dioniso, che era figlio di Zeus, fu fatto a pezzi dai Titani istigati da Era; il bambino mortale fu ucciso, ma dal suo cuore venne ricostruito il dio immortale. Dioniso non è dunque solo il dio dell’ebbrezza, dell’estasi, della passione che stravolge la mente, ma anche quello della dispersione, della vita che si espande in mille strade allontanandosi dal proprio centro; è il dio del displacement, e anche degli schizofrenici. Non dobbiamo dimenticarci che il brevissimo saggio del 1906 in cui Warburg smonta la teoria di Winkelmann è una riflessione intorno all’incisione di Albrecht Dürer del 1494 che rappresenta Orfeo smembrato dalle Baccanti, le seguaci di Dioniso: in questo senso dovremmo interpretare l’affermazione di Didi-Huberman per cui uno dei caratteri fantasmatici del lavoro di Warburg va ricercato «nell’impossibilità, ancora oggi, di comprendere gli esatti limiti della [sua] opera. Come uno corpo spettrale, rimane senza contorni definibili: non ha ancora trovato il suo corpus». Non è difficile vedere come il corpus dell’opera richiami i corpi fatti a pezzi di Dioniso e Orfeo.

Sopra abbiamo parlato di un moto sistolico di tutta l’opera warburghiana, un movimento di espansione e contrazione: se Dioniso è l’espansione, dove andiamo a cercare la contrazione? La risposta ce la fornisce Warburg stesso, e ancora una volta tramite Albrecht Dürer, questa volta nell’analisi della sua incisione forse più famosa, recentemente riportata in auge dallo splendido film omonimo di Lars Von Trier: Melancholia I. Dürer aveva solo ventitré anni quando dipinse la morte di Orfeo, ma si stava approcciando alla fine della sua vita all’epoca di Melancholia I: al dio fanciullo Dioniso corrisponde il dio anziano Crono, ovvero Saturno, il pianeta che vediamo nel cielo e verso cui guarda la figura centrale nell’incisione di Dürer. Nell’astrologia medievale, Saturno era il pianeta del limite, della morte, del freddo e della realtà, e presiedeva sul carattere melanconico o, appunto, saturnino: oggi diremmo depresso. Warbug era consapevole che la sua storia personale, così come la storia collettiva della civiltà di cui faceva parte, si giocava tutta tra i poli del disturbo maniaco-depressivo. Scriveva nel suo diario: «A volte mi pare quasi che, come storico della psiche, io mi sia provato a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso biografico: la Ninfa estatica (maniaca) da una parte e il Dio fluviale (depressivo) dall’altra». È solo in questo contesto che si può capire il senso profondo dell’ospedalizzazione di Warburg, e ancora di più quello della sua apparentemente miracolosa guarigione.

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Le cause apparenti della malattia sono abbastanza semplici: l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale nel 1915, e la dichiarazione di guerra alla Germania dell’anno successivo, colpivano al cuore la ricerca di Warburg rendendo impossibili i viaggi tra i due paesi a cui era maggiormente legato; la depressione che lo aveva accompagnato fin da giovane si intensificò, e nel clima apocalittico della guerra finì per trasformarsi in una serie di fantasie paranoidi: impossibilitato a lavorare, racconta Davide Stimilli nel documentario Aby Warburg: Metamorphosis and Memory di Judith Wechsler, cominciò a credere che «la sua famiglia sarebbe stata vittima di una vendetta», e arrivò al punto da «afferrare una pistola e minacciare di uccidere la moglie e i figli», oltre a sé stesso, prima che lo facesse qualcun altro. Per quanto assurdo questo pensiero possa apparire, a generarlo erano motivazioni storiche, oltre che personali. Come fa notare Joseph Koerner, in realtà «le sue fantasie erano chiaramente informate da un’ondata di violenza antisemita che aveva preso piede in Germania e aveva una relazione diretta con la sua famiglia», dato che addirittura suo fratello aveva subito un tentativo di assassinio. La malattia, continua Koerner, mostrava qui un aspetto nuovo, e più misterioso, dei fantasmi che ossessionavano la vita di Warburg: come nella hauntology deriddiana, e prima ancora come nell’inconscio di Freud, gli spettri non vengono solo dal passato ma anche dal futuro; non sono solo tracce ma anche profezie. ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ è già, in un senso profondo, la memoria dell’Olocausto.

Nel 1921 le condizioni di Warburg peggiorano al punto che deve essere ricoverato. La struttura prescelta si trova a Kreuzlingen, in Svizzera; a dirigerla è Ludwig Binswanger, uno dei pionieri dell’analisi esistenziale, e in passato ha già ospitato celebri nomi della cultura, da Vaslav Nijinskij a Ernst Ludwig Kirchner. Ancora una volta la natura delle sue fantasie ci dice qualcosa sulle ragioni transpersonali e recondite che l’avevano precipitato nella schizofrenia: a un certo punto si convince che Binswanger e i suoi assistenti abbiano fatto a pezzi sua moglie e i suoi figli e ne abbiano disperso i corpi nel parco della clinica. Torna di nuovo lo smembramento di Dioniso e Orfeo, naturalmente; ma nella fantasia di uccisione dei figli appare anche un altro simbolo che perseguitava Warburg dai tempi del viaggio in New Mexico, quello del serpente: il serpente che incarna la potenza vitale (Kundalini, che pochi anni più tardi Jung avrebbe collegato al serpente-salvatore della tradizione gnostica, Soter), il serpente che presiede alle danze estatiche-dionisiache degli Hopi, i serpenti marini che stritolano i figli di Laocoonte, il personaggio a cui è dedicato tutto il pannello 41a di Mnemosyne Atlas. Warburg si identifica con il serpente e immagina l’infanticidio: è un cerchio che si chiude, un meccanismo paranoide che rimanda sempre a sé stesso; un’altra vertigine, ma che trascina nel profondo del proprio inconscio personale e di quello collettivo.

Si vedono, nella crisi psicotica di Warburg, almeno due movimenti: da un lato quello centrifugo dell’espansione, della dispersione, dello smembramento e del displacement privato della forza che lo manteneva nonostante tutto coerente nella molteplicità (moto schizofrenico); dall’altro la continua ricerca di senso, il tentativo della mente di dare un ordine al caos tracciando connessioni anche laddove non esistono (moto paranoico).

Warburg viene considerato incurabile. Nel tentativo di placarne la “mania”, che è spesso violenta, viene addirittura chiamato in causa il nume tutelare della psicologia clinica dell’epoca, l’inventore stesso del concetto di sindrome maniaco-depressiva (che oggi ha solo cambiato nome, ma non sostanza, in disturbo bipolare) e, come ha raccontato Laurent de Sutter in Narcocapitalismo, il vero inventore dell’idea ancora in voga nella psichiatria per cui all’eccesso dell’eccitazione è preferibile la calma mortifera della depressione: Emil Kraepelin. Warburg viene trattato con l’oppio, fedelmente alle teorie di Kraepelin la cui idea di “cura” si sovrapponeva a quella di “sedazione”.

Ma, e questo mi sembra un aspetto davvero fondamentale, contro i pronostici di tutti Warburg guarisce; e non lo fa perché sedato dall’oppio, ma al contrario perché riesce a riconnettersi con la dimensione maniacale, dionisiaca del proprio lavoro: riesce a convincere Binswanger a dimetterlo se riuscirà a preparare una conferenza coerente proprio sul tema delle danze estatiche degli Hopi. Nel 1923 tiene la lezione in cui organizza i materiali raccolti trent’anni prima, e che oggi è pubblicata in un libretto intitolato Lightning Symbol and Snake Dance. L’anno successivo lascia Kreuzlingen per tornare ad Amburgo, guarito da Dioniso, il dio della follia.

***

Aby Warburg muore il 26 ottobre 1929 ad Amburgo. A ucciderlo è un infarto; ha sessantatré anni. Lascia incompiuto Mnemosyne Atlas, un progetto per sua natura impossibile da completare, ma consegna al mondo il suo Istituto, e con esso quella biblioteca-meccanismo che sembra riprodurre su scala fisica e tridimensionale l’interno della sua mente. Muore Warburg e il Warburg Institute inizia a produrre il suo lavoro; muore Warburg e nascono gli studi warburghiani e l’iconologia; muore Warburg e la sua eredità viene raccolta da Panofsky, Raymond Klibansky, Frances Yates. L’uomo scompare ma, nel farlo, si espande, si ramifica, si disperde. Può darsi che ci fosse un sottotesto più profondo nell’idea di Pasquali per cui Warburg ha sempre voluto sparire nella sua istituzione, perché qui nelle sale dell’Istituto, dove sto scrivendo queste righe conclusive, si ha la sensazione che il suo fantasma si aggiri ancora. Il dybbuk vive tra le pareti di questa casa infestata della cultura.

Se davvero la Bibliothek è un’esternalizzazione della mente di Warburg, come il teatro di Camillo è l’esternalizzazione di un panorama interiore, allora qualsiasi cosa si guardi da qui dentro si guarda attraverso i suoi occhi; come scrive Agamben, è indubbio che la Bibliothek, così come Mnemosyne Atlas, siano «un dispositivo mnemonico a uso privato» che un uomo in lotta con i demoni ha costruito innanzitutto «per risolvere i propri conflitti psichici». Ma come nella rota di Isidoro di Siviglia, che connette microcosmo e macrocosmo, la malattia individuale è sempre il riflesso di una malattia più grande, e i cerchi più esterni dell’universo irradiano la loro conoscenza dentro a ciascuno di noi. Se la Bibliothek è il modello di un mondo, allora è il modello del mondo.

Questa «storia di fantasmi per persone veramente adulte», come Warburg aveva definito una volta Mnemosyne Atlas, non si è esaurita con la morte del suo autore, ma anzi ha continuato a espandersi ed espandersi, sempre di più, fino ad avvolgere il mondo intero. L’ha fatto innanzitutto, naturalmente, con internet, e con l’onnipresenza dell’immagine a cui ci ha condannato questa nostra cultura visuale collegata in rete. Penso ad esempio a un progetto come The Great Wall of Memes di Valentina Tanni, che prende spunto dall’Atlante warburghiano per «tracciare i viaggi di varie immagini attraverso il tempo e lo spazio, evidenziando i modi diversi in cui sono state utilizzate, remixate e re-inventate». L’intuizione è profonda, perché cosa c’è oggi di più warburghiano dei meme di internet, queste immagini in continua metamorfosi capaci di veicolare significati sottili e di cambiare la mente come i glifi studiati dai maghi rinascimentali? O a un’installazione come A Study of Invisible Images di Trevor Paglen, che da anni si occupa di comprendere come le macchine da cui siamo circondati (le telecamere di sicurezza, le intelligenze artificiali, le auto che si guidano sa sole) vedono il mondo: le sue fotografie compongono a loro volta un Atlante warburghiano, solo che, come nei risultati di ricerca di Google Images, l’entità dietro la visione non è più umana. 

E questo è forse l’aspetto più inquietante, ma anche più affascinante, del lavoro e del lascito di Warburg: la riflessione sui modi in cui le entità non-umane ci contattano, ci possiedono e ci abbandonano attraverso quegli incredibili dispositivi per il controllo mentale che sono le immagini. Oggi parliamo di intelligenze artificiali, mentre Warburg parlava di déi dell’antica Grecia; ma, come ha ricordato molte volte James Hillman, gli déi cambiano forme e nomi nel tempo; la metamorfosi non li rende meno immortali perché esistono dentro ognuno di noi, nel nostro inconscio collettivo, e persino codificati nel DNA della nostra specie sotto forma di archetipi. Ancora oggi, nella società più secolare della storia, nel cuore della città più secolare dell’Occidente, gli déi esistono, ci illuminano e ci perseguitano: anche questo senso di mistero e di minaccia, di illuminazione e di estasi, anche questo vivere a un passo dalla follia è Nachleben. In ogni particolare è contenuto il tutto l’universo, ogni strada porta da tutte le parti, dietro ogni svolta si nasconde una vertigine e un abisso, oppure il suo opposto. Qui nelle sale del Warburg Institute la sensazione è più forte che mai: l’ossessione individuale e lo sguardo oggettivo capace di abbracciare tutto sono due facce della stessa, rilucente, medaglia.

ARTICOLO n. 75 / 2022

IL RITORNO DELLA CRITICA

Quando avevo intorno ai cinque anni, durante una cena di Natale, un parente mi chiese cosa volessi fare da grande. Risposi: il velociraptor. Era da poco uscito Jurassic Park (il romanzo, non il film) e l’idea di essere un animale magro, rapido e fatale mi riempiva di adrenalina. Comprensibilmente l’intera tavolata si mise a ridere. L’uscita mi venne rinfacciata fino a quando a diciott’anni finalmente lasciai il mio paese per non tornare più.

Molto tempo dopo mi trovavo seduto nell’ufficio del mio relatore di tesi al sesto piano di Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino. Avevo da poco discusso una tesi triennale su Raymond Carver, narcisismo e risentimento mimetico. Ero indeciso su quale indirizzo scegliere per la specialistica, per quello avevo organizzato l’incontro. Come quel parente malevolo vent’anni prima, il professore mi chiese cosa volessi fare della mia vita. E come il bambino ingenuo che ero stato, mi feci cogliere di sorpresa ancora una volta. Risposi: vorrei fare il critico letterario.

Il professore rise. Non nella maniera sguaiata degli zii radunati per Natale, ma con il riso sarcastico e disilluso che si addice all’accademia. Comunque fosse, la reazione mi lasciò depresso: davvero tutte le mie aspirazioni erano così irrealistiche? Ero condannato a innamorarmi per sempre di specie estinte?

La risposta era sì, e non avrei dovuto arrivare a ventitré anni per capirlo. Quattro anni prima, poche settimane dopo il mio arrivo a Torino, ero stato alla libreria Feltrinelli di Piazza San Carlo. Era un giorno di ottobre del 2004, faceva già un freddo irreale e per combattere la solitudine e l’ansia della separazione decisi di fare quello che avevo fatto per cinque anni di liceo di fronte alle difficoltà: cercare risposte nei libri.

Di quel giorno ricordo distintamente poche cose, ma una di queste è la sorpresa che provai nello scoprire un’intera sezione della libreria dedicata alla critica letteraria. File intere di Auerbach, Barthes, Benjamin, Blanchot, Bloom, Jameson, Sontag, Todorov – ma anche Ceserani, Citati, Eco, Moretti. Dovevano essere almeno sei scaffali, una parete intera. Certo, una parete piccola, marginale, un po’ nascosta, che faceva angolo, quasi invisibile dietro lo stand dei libri di cucina, offuscata dalle guide turistiche immediatamente alla sua destra, ma comunque una parete intera. Una riserva: guardavo a quei libri come altrettanti panda. E a ragione, perché negli anni che seguirono avrei osservato la parete ridursi sempre di più di dimensioni. Gli scaffali divennero cinque, poi quattro. La sezione fu rinominata “Critica letteraria, musicale e cinematografica”. Infine fu accorpata alla saggistica generale, e quella fu la fine…

Cosa era successo in quei quattro anni? Qual era il virus che aveva provocato la malattia e la morte di un intero genere letterario? La risposta è facile: internet. Nel 2004, appena arrivato a Torino, dovevo ricorrere alla Biblioteca Nazionale e ai suoi computer con installato Windows 95 se volevo ricevere e mandare e-mail gratis, perché a casa non avevo una connessione. Nel 2008 io e miei inquilini scaricavamo in pochi secondi l’intera discografia dei Radiohead con l’ADSL, avevamo identità digitali su MySpace (Facebook sarebbe arrivato poco più tardi) e come tutti sceglievamo che libri leggere basandoci sulle recensioni di utenti anonimi su forum e blog. Nessuno aveva più bisogno dei critici letterari, che erano diventati inutili quanto i ragazzi che mettevano a posto i birilli nelle sale da bowling quando qualcuno aveva inventato il braccio meccanico.

Internet però era stato solo il colpo di grazia. La critica aveva iniziato il suo declino nel momento stesso in cui aveva raggiunto l’apice del successo negli anni Sessanta. In quel breve, luminoso decennio, la popolarità assunta dalla semiotica, dall’ermeneutica gadameriana e dal poststrutturalismo aveva portato nella cultura di massa una nozione a suo modo rivoluzionaria: quella per cui tutto il mondo è un testo, e come tale può essere interpretato. Era la liberazione della disciplina dai confini angusti della sua scomoda specializzazione. Il critico smetteva di essere un autore fallito che con sadico rancore faceva a pezzi il lavoro degli altri per diventare un personaggio cool, perfettamente inserito nel nuovo universo radicalmente denaturalizzato dell’industria culturale.Se tutto è culturale, tutto è un segno. E se tutto è un segno (magari addirittura un segno slegato dal proprio referente profondo, un significante senza significato, come avrebbe detto qualche decennio più tardi Baudrillard), tutto può essere letto. Chi meglio di un critico letterario, abituato all’esegesi di testi scritti, può rapportarsi a un mondo diventato un unico, infinito, sistema semiotico?

Sembrava l’utopia degli intellettuali, un mondo di allegri secchioni intenti a interpretarsi a vicenda all’infinito. E invece il postmoderno dà e il postmoderno toglie, come una divinità indiana dalle molte braccia. Forse non è nemmeno un caso che a porre fine a questo ambiguo paradiso maschile avrebbe dovuto pensarci una donna, chissà. Fatto sta che proprio mentre quello del critico letterario sembrava essere diventato il mestiere più fondamentale dell’Occidente, una trentenne newyorkese pubblicò un saggio di cinque pagine diviso in punti come fosse il manifesto di una nuova avanguardia. L’autrice era Susan Sontag, il saggio si intitolava Contro l’interpretazione e si concludeva con una sentenza: «invece che un’ermeneutica abbiamo bisogno di un’erotica delle arti». Era il 1964 e la ragazza ci aveva visto lungo. Se quell’aforisma era l’harakiri della critica, che si rendeva obsoleta da sola, era anche l’inizio di un nuovo mondo.

Incredibile ma vero, data l’enorme influenza avuta dall’idea di Sontag nello sviluppo della sensibilità contemporanea, in Italia Contro l’interpretazione e altri saggi è rimasto fuori catalogo per anni. In inglese esiste una versione Penguin Modern Classics, ma quando una decina di anni fa cercai il libro nella biblioteca londinese in cui lavoro, l’unica versione disponibile risaliva agli anni Settanta, ed era così logora e ingiallita che sembrava di avere tra le mani un testo vittoriano. Mai un’idea ha dimostrato la propria validità in maniera tanto concreta e autoevidente: un classico della saggistica anglosassone, in un’università britannica di primo piano in cui si dovrebbe insegnare anche critica letteraria e letterature comparate, non veniva preso in prestito da quasi quindici anni. 

Ciò che Sontag intendeva dire con la sua lapidaria, fulminante conclusione, era qualcosa di profondamente in linea con lo sviluppo dell’industria culturale nei decenni successivi alla pubblicazione del suo saggio. Ricordiamo che Contro l’interpretazione fu pubblicato inizialmente nel 1964: solo due anni prima Andy Warhol aveva esposto per la prima volta a Los Angeles le sue zuppe Campbell’s, dando vita (almeno se diamo retta a Fredric Jameson) all’arte postmoderna; un anno più tardi, nel 1965, Georges Perec scriveva Le cose, la prima istantanea di un nuovo feticismo degli oggetti e di quella estetizzazione della vita quotidiana che sarebbe arrivata dritta dritta fino a Instagram. Il saggio di Sontag usciva in volume nel 1966, un anno prima che Debord desse alle stampe un altro influente manifesto, La società dello spettacolo. Quelle che si stavano cominciando a mappare erano le coordinate di un nuovo panorama culturale, in cui a farla da padrone era l’immagine. Un’immagine ubiqua, completamente superficiale, la cui interpretazione si esauriva tutta nell’esperienza estetica. Niente rimandava più a niente. Non c’era nulla da interpretare, solo un oggetto culturale mercificato, un’icona bidimensionale, un meme che agiva a livello prelogico sulle nostre sinapsi, alterando la nostra libido. “Un’erotica delle arti”, appunto.

Le cose sarebbero continuate pressoché inalterate per lunghi decenni. I nuovi media come le fotocamere digitali e internet non avrebbero fatto che sprofondarci sempre di più nella perfetta realizzazione di questa idea, il simulacro di cui parlava Baudrillard. Internet soprattutto, moltiplicando all’infinito i punti di vista e mettendo in crisi il principio di autorità, elevava il principio espresso da Sontag all’ennesima potenza: non si trattava nemmeno più di una sola erotica delle arti, ma di un numero infinito di erotiche, una per ogni consumatore culturale. Per la critica, letteraria e non, sembrava non esserci via di ritorno.

Per questo sono rimasto stupito quando, quest’anno, Nottetempo ha deciso di ripubblicare Contro l’interpretazione nella nuova traduzione di Paolo Dilonardo, che di Sontag ha tradotto quasi tutta la nonfiction che si trova in italiano. Ancora più sorprendente è che, sotto la direzione editoriale di Alessandro Gazoia, l’editore milanese abbia lanciato un’intera collana, Extrema Ratio, dedicata proprio alla critica letteraria. Finora ha pubblicato quattro testi: due pesi massimi della disciplina (Auerbach e Franco Moretti), un importante nome dei gay studies poco conosciuto in Italia (D.A. Miller) e un giovane critico italiano (Mimmo Cangiano). Già in Italia è difficile fare una casa editrice che produca utili, soprattutto con la saggistica. Un testo di critica può scappare qua e là, come un guilty pleasure, ma una collana intera sembrava un suicidio.

Eppure a guardare da vicino le cose sono un po’ più complesse di così. È da qualche anno che la critica fatta uscire dalla porta sembra essere rientrata dalla finestra. Mascherata, obliqua, ibridata quanto si vuole, eppure riconoscibile nelle sue forme e persino nelle sue ossessioni. Pensiamo al successo anche commerciale di autori come Daniel Mendelsohn o Anne Carson: scrittori che hanno fatto della mescolanza delle forme il loro punto forte, capaci di alternare fiction e non-fiction, autobiografia e analisi, ma che sono soprattutto due grandi esperti di letteratura greca. Oppure a Tom McCarthy, un critico letterario e artista visuale diventato tra i narratori britannici più interessanti degli ultimi anni, promotore di una innovativa forma di theory-fiction. Ma anche a due autori di culto come Simon Reynolds e soprattutto Mark Fisher: era da tempo immemorabile che un critico culturale non faceva breccia nel cuore delle masse di giovani. Questo rinnovato interesse permette a editori più piccoli operazioni coraggiose, come la recente pubblicazione da parte di Wojtek dei saggi critici di Danilo Kiš (L’ultimo bastione del buon senso, traduzione di Anita Vuco, 2022) o l’ambizioso L’impensato di N. Katherine Hayles per Effequ (traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini, 2021).

Dobbiamo dedurne che la spinta antiermeneutica teorizzata da Sontag ormai quasi sessant’anni fa si sia esaurita, e che ci aspetta un futuro in cui la critica si ritaglierà un nuovo spazio?  Vedremo realizzata con mezzo secolo di ritardo l’utopia critica degli Eco e dei Barthes? Non proprio. Ma questo ritorno inaspettato rimane interessante e merita di essere approfondito.

Un buon punto di partenza per farlo potrebbe essere proprio il primo libro pubblicato da Extrema Ratio: Falso movimento di Franco Moretti, anche membro del comitato che cura la collana. Il libro prende il titolo da un film di Wim Wenders, da cui Moretti estrapola questa citazione: «Avevo l’impressione di aver mancato qualcosa, e di continuare a mancare qualcosa, a ogni nuovo movimento».

C’è qualcosa di meta-critico, che i teorici degli anni Sessanta avrebbero senza dubbio apprezzato, nel lanciare una collana di critica letteraria con quella che è, in un certo modo, l’ammissione di una sconfitta. Non solo Moretti è tra i principali critici letterari viventi; è stato anche uno dei pochi a provare a mantenere viva la fiammella della critica negli anni più bui, quelli del boom informatico dagli anni Ottanta in poi, e per farlo è per così dire venuto a patti con il nemico: ha provato un approccio alla letteratura simile a quello dei big data (la “letteratura vista da lontano”, come recita il titolo di un suo celebre libro del 2005), che spostasse il centro dell’attenzione dallo sguardo personale del critico alla vista a volo d’uccello resa possibile dalla tecnologia. Un approccio che in altri campi, come quello delle digital humanities, ha prodotto risultati sorprendenti, anche grazie al perfezionamento delle intelligenze artificiali, ma che nel campo della critica non ha portato i risultati sperati. Puoi addestrare una rete neurale avversa a mappare la letteratura dell’Inghilterra industriale, come sta facendo la British Library nel suo interessante progetto Living with Machines, ma forse non arriveremo mai al punto in cui l’IA riesce a estrarre reale significato dai testi. Traccia costellazioni, ma non le interpreta. Che queste costellazioni fossero sufficienti al lavoro del critico era la sfida dell’approccio quantitativo alle letterature comparate. Scrive Moretti nella sua introduzione: «Falso movimento: si è partiti e poi, come in ogni road movie che si rispetti, la meta ha via via perso importanza rispetto a ciò che si intravedeva ai lati della strada». È un’ammissione coraggiosa se hai dedicato il grosso della tua carriera a un’idea.

Tutto ciò mi fa venire in mente un libro, Satin Island di Tom McCarthy. Il protagonista del romanzo (se si può chiamare romanzo un oggetto letterario come Satin Island) si chiama U. ed è impegnato a compilare per la misteriosa azienda per cui lavora il Grande Rapporto, un borgesiano dossier che descriva tutto il mondo. Lo scopo, presumibilmente, è sfruttare l’informazione a fini commerciali. Inutile dire che anche il progetto di U. è destinato al fallimento. Non c’è qualcosa che accomuna il Grande Rapporto e l’idea di Moretti di un’entità onnicomprensiva e impersonale capace di abbracciare tutta la letteratura (cioè, direbbe ogni critico che si rispetti, tutta la vita) in un unico sguardo? E non sono entrambi a modo loro tentativi di fare ciò che i critici degli anni Sessanta si erano proposti di fare, cioè di trasformare tutto il mondo in un testo e di interpretarlo, pezzo per pezzo?

Satin Island e Falso movimento sono accomunati anche da qualcos’altro: il fatto che, laddove il progetto umano di attribuzione di senso fallisce, o quantomeno riconosce i suoi limiti, lo stesso non si può dire dell’aspetto tecnologico. Dopo la pubblicazione del romanzo, McCarthy ha scritto per il Guardian uno stupendo pezzo intitolato significativamente The Death of Writing. «Tutt’altro che impossibile da scrivere», dice McCarthy verso la fine, «il Grande Rapporto che tutto contiene viene scritto in ogni momento intorno a noi – non da antro-romanzieri ma da un codice binario neutrale e indifferente il cui solo scopo è perpetuare sé stesso». Lo stesso potremmo dire dei big data letterari dati in pasto a computer e intelligenze artificiali: il senso è lì, da qualche parte, nascosto nei miliardi di bit; l’informazione chiave che ci permetterebbe di comprendere tutto è già stata scritta, ma in una lingua che non possiamo comprendere, fatta dalle macchine per le macchine. Il senso si perde in un linguaggio diverso da quello umano, dove è il concetto stesso di “senso” a non avere significato.

Cosa ci dice questo del percorso della critica, del suo apice, della sua caduta e della sua timida rinascita? Almeno due cose importanti.

La prima è che avevano ragione gli Eco e i Barthes negli anni Sessanta: il mondo è davvero tutto un testo che aspetta solo di essere interpretato. Sfortunatamente per noi, però, è un testo così infinitamente complesso, così multiforme e caleidoscopico, un tale insieme di meta-testi che si perdono l’uno dentro l’altro come in un gioco di scatole cinesi o in un’immagine del Bhagavad Gita, che nessun essere umano può leggerlo se non in maniera pateticamente parziale e imperfetta. Per comprenderne gli aspetti nascosti abbiamo bisogno della tecnologia, che però oblitera l’idea stessa che un senso – e dunque un’ermeneutica propriamente detta – sia ancora possibile. Il significato dunque è come uno dei documenti che il povero K. cerca inutilmente di ottenere nel Castello di Kafka: si trova sempre nella stanza accanto, fuori dalla nostra portata. Sempre presente e sempre irraggiungibile.

La seconda è che, proprio per questo, davvero ciò che ci rimane è “un’erotica delle arti”. Non perché come pensava Sontag nessun tentativo ermeneutico è più possibile, e dobbiamo limitarci all’esperienza della fruizione dell’opera d’arte, bloccati su una superficie che non contiene nessuna profondità. Semmai per la ragione opposta: perché tutto è così infinitamente profondo e complesso che non potremo mai comprendere più di quanto il nostro (limitato, ma insostituibile) sguardo umano ci permette di comprendere. Per questo trovare il senso laddove è programmaticamente irraggiungibile non è un’operazione di decodifica, ma di scrittura vera e propria. Inevitabilmente significa colorare ciò che è di per sé incolore del nostro desiderio.

Ecco allora che succede ciò a cui stiamo assistendo oggi, e cioè il ritorno della critica, ma di una critica nuova. Il critico non è più gregario rispetto all’autore: il critico è l’autore, come dimostrano i casi di Mendelssohn, Carson, McCarthy. Laddove tradizionalmente la disciplina sembrava poter esistere solo sulla base di una supposta oggettività (era in fondo la domanda sollevata da internet: perché dovrei fidarmi della tua opinione, se chiunque può leggere un libro e scrivere ciò che ne pensa?), oggi sta diventando chiaro che ciò che il critico può aggiungere è esattamente l’opposto, il proprio sguardo personale. Pensiamo a Mark Fisher: ameremmo con la stessa intensità le sue analisi della musica dei Joy Division o dei film di Christopher Nolan se non fossero illuminate dalle vicende della sua storia personale? Il libro di Simon Reynolds sulla scena rave sarebbe altrettanto pregnante se l’autore non ci raccontasse le notti passate sotto l’effetto dell’MDMA a ballare nei prati oltre la M25 di Londra? Si tratta di estrapolare un piccolo pezzo del mega-testo che del mondo e sprofondarci dentro come nella proverbiale tana del Bianconiglio: lungi dall’essere impossibile, l’opera ermeneutica è infinta, come pensava Gadamer, perché infinito è il mondo; ma è anche per forza di cose un’opera antitetica all’idea di oggettività. L’ermeneutica non è alternativa a un’erotica delle arti: è essa stessa un’erotica delle arti.

In fondo quando penso al ragazzino ingenuo che ero mi accorgo che il sorrisetto dell’accademia era immeritato: forse non era possibile essere un velociraptor (anche se, con la realtà virtuale, non si può mai dire), ma l’ambizione di diventare un critico non era poi così peregrina. L’ironia che sollevavano i miei sgangherati piani di vita era il riflesso di una disillusione destinata a finire, e già nel 2008 quella che allora veniva chiamata la “blogosfera” ci aveva mostrato un futuro possibile: quello della critica fuori dai rigidi dettami accademici, della critica come invenzione, simulazione, autofiction, del lavoro del critico come memorialista e narratore, insomma di una critica come forma d’arte. 

Siamo appena agli inizi di questo percorso, ma se dovessi scommettere i miei due cents, direi che si tratta di un sentimento destinato a durare. Perché se il mondo là fuori è davvero un testo, dobbiamo riconoscere che è un testo intricato e oscuro, e tutti abbiamo bisogno che venga fatta un po’ di luce. Non quella abbacinante promessa dalla tecnologia, che abbiamo scoperto renderci sempre più ciechi: piuttosto lampi nel buio, che se non ci guidano verso nessun significato ultimo almeno aprono per un attimo le porte degli infiniti mondi possibili.

ARTICOLO n. 26 / 2022

FARLA FINITA CON SÉ STESSI

Sarà dolcissimo distruggerci vedrai
E come i cieli amore nitido sarà
Baustelle, I Mistici dell’Occidente

C’è stato un momento della vita in cui ho dovuto constatare che molti dei miei artisti e intellettuali preferiti sono morti suicidi. Kurt Cobain, Pavese, Hemingway, Virginia Woolf, Philip Seymour Hoffman, Ren Hang, Walter Benjamin, Rothko, Mark Fisher – solo per citarne alcuni nell’ordine con cui sono apparsi nella mia storia personale. Quelli che non si sono uccisi, come Sartre, Leopardi o Thomas Bernhard, hanno messo la possibilità del suicidio al centro della propria opera. Altri ancora, come Kafka o Baudelaire, hanno fatto della malattia e del disagio una chiave per interpretare la vita. Dovevo preoccuparmi? Stavo sviluppando un’ossessione morbosa per l’annientamento di sé? Sarei finito anch’io con le vene tagliate, o con un’overdose di barbiturici?

Ogni volta che mi chiedevo cosa mi attraesse dell’idea del suicidio finivo per tornare a un’immagine: quella del quarto maestro della Montagna sacra di Jodorowsky, l’unico che non può essere sconfitto dal protagonista perché prima del duello si toglie la vita. L’immagine mi faceva tornare a Kafka, ai suoi digiunatori e trapezisti che non accettando mai di essere veramente vivi si rendono immortali, ma anche al grande rifiuto della musica punk con cui ero cresciuto. Si trattava di un’attitudine nei confronti della vita che avrei potuto definire solo mistica, la morte come forma estrema di ricerca spirituale o elaborazione del sé. Era anche una forma di romanticismo: la morte come ingresso nell’Assoluto, o quantomeno come tentativo di raggiungere un’autenticità totale. «Il contatto, finalmente, con le cose», per dirla con le parole che chiudono Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, pronunciate prima che Alain Leroy si spari in testa come avrebbe fatto il suo creatore quindici anni più tardi, schiacciato dal peso della sua scelta collaborazionista.

Riflettendoci meglio, però, mi sono reso conto che la questione del suicidio è spesso malposta, almeno nei termini in cui la vita umana, come ogni altra narrazione, richiede un finale per essere interpretata (e in questo caso Kafka è davvero il contrario del suicidio, con i suoi romanzi che si interrompono a metà e le storie che rifuggono ogni epilogo). Il problema con la morte autoinflitta, quello che la rende un oggetto tanto scottante, è proprio il fatto che porti a leggere retrospettivamente tutto ciò che l’ha preceduta alla luce di quell’unico, ultimo atto. È una tentazione forse inevitabile, ma pericolosa, perché ci porta a interpretare la parabola di una vita come predeterminata: il caso più eclatante di una profezia che si autoavvera. Esempio emblematico è quello di un suicido che ci appare gratuito, immotivato o non annunciato da alcun segnale. Per due ragioni: la prima è che apre lo spazio alla questione filosofica dell’assurdo; e la seconda è che ci sprofonda in un mistero forse ancora più grande, quello della persona e delle zone di inaccessibilità nella sua mente. Ci costringe a confrontarci con un doppio vuoto, quello al di fuori di noi (la vita e la morte come condizioni arbitrarie) e quello dentro di noi (il punto cieco al centro della personalità). Anche per questo il suicidio rimane ancora oggi un argomento tabù.

Ho tratto l’esempio dell’autodistruzione apparentemente gratuita da Note sul suicidio, un breve libro di Simon Critchley da poco portato in Italia da Carbonio nella traduzione di Alberto Cristofori. Critchley, insieme al suo sodale della International Necronautical Society, lo scrittore Tom McCarthy (un’altra delle mie liaisons dangereuses), si occupa da sempre del ruolo della morte nelle nostre società e del concetto di «buona morte», e dunque è forse tra i filosofi più preparati per parlare dell’argomento.

In Note sul suicidio fa subito notare un’evidenza spesso dimenticata dalla macchina obliteratrice che riscrive le vite a partire dalla loro fine, e cioè che non tutti i suicidi sono uguali. C’è una differenza abissale tra chi si uccide per sfuggire a una depressione grave o a una malattia incurabile del corpo, chi lo fa perché si trova in una situazione senza via d’uscita (Walter Benjamin a Portbou nel 1940, in fuga disperata da un’Europa sempre più nazista) e chi è costretto dal potere politico (come Socrate), chi lo fa come dimostrazione politica o scelta religiosa (lo stesso sacrificio di Gesù, fa notare Critchley, può paradossalmente essere letto come un suicidio) e un attentatore suicida, tra chi si toglie la vita per affermarne i valori e chi per disprezzo nei suoi confronti. Le sfumature sono infinite e come tali andrebbero trattate – moralmente e legalmente: pensiamo all’eutanasia –, affrontate caso per caso. Senza contare che nella lettura del suicidio che diamo in Occidente pesa tanto la matrice cristiana secondo la quale la vita è un dono di Dio che solo Dio ha il diritto di toglierci, argomento di cui Critchley esamina le falle logiche, quanto l’idea illuministica (non meno fallata) di una totale autodeterminazione razionale e cosciente. 

Critchley circoscrive la sua analisi all’Occidente, ma nemmeno le filosofie orientali vedono di buon occhio il suicidio: penso ad esempio al fatto che per il Buddhismo è altrettanto errato aggrapparsi alla vita quanto rifiutarla. Eppure la possibilità di decidere di morire esiste sempre dentro di noi, in ogni momento: una forma di libertà forse non assoluta (quanto ci apparteniamo veramente? Quanto possiamo fare di noi ciò che vogliamo?) ma comunque presente nel ventaglio di opzioni a nostra disposizione. Laddove c’è libero arbitrio si entra sempre in un territorio moralmente complesso. Come sanno bene i soldati in guerra, ma anche gli amanti, siamo tutti buoni finché non ci viene data la reale possibilità di fare il male. Il suicidio, o quantomeno il pensiero del suicidio, è quindi anche uno specchio che riflette ciò che siamo davvero sotto la patina della vita quotidiana.

Il suicida si trova sempre in uno stato mentale estremo, nel quale la morte sembra l’unica via d’uscita da una situazione impossibile. Tutt’altro che assurdo, togliersi la vita appare come l’unico atto veramente sensato. Critchley ci conduce in questa zona oscura dell’anima portando a esempio i biglietti e lettere lasciate dai suicidi, vere e proprie istantanee di una mente ai confini dell’abisso. Entrare nel territorio del suicidio significa già essere passati dall’altra parte, che l’atto venga compiuto o meno. Qualche anno fa è uscita su Netflix una serie intitolata Tredici, nella quale la protagonista-narratrice adolescente, Hannah Baker, spiegava in tredici audiocassette le ragioni che l’avevano portata a togliersi la vita. Se da un lato la serie intendeva mostrare come sia impossibile trovare la fantomatica ragione unica alla base di un gesto tanto estremo, dall’altra metteva lo spettatore dentro un meccanismo (anche narrativo) che lo portava a identificarsi con la posizione di Hannah, arrivando a comprendere la logica ineluttabile del suo atto. Per Hannah, uccidersi era semplicemente l’unica scelta possibile, addirittura la più razionale.

Dall’esterno possiamo obiettare contro questa posizione, che può apparire addirittura nichilistica, ma il punto è proprio questo: non possiamo comprendere il suicidio se non dall’interno, e a quel punto è troppo tardi, perché la macchina narrativa ha già messo in moto i suoi ingranaggi e potrebbe non esserci più via d’uscita. Certo, quelle persone non siamo noi. Ma chi può dire che non lo saremo, un giorno? Hannah viene trascinata nella spirale da una serie di eventi che presi singolarmente non giustificherebbero la decisione di togliersi la vita, ma che sommati producono un meccanismo dal quale diventa impossibile sfuggire. Non stupisce che la serie abbia sollevato tante polemiche, attirandosi le accuse di rendere attraente o quantomeno di giustificare il suicidio tra gli adolescenti. Eppure è anche una lettura terribilmente realistica delle ragioni dietro un atto che spesso da fuori ci appare inspiegabile.

Nonostante ci siano tante forme di suicidio quanti sono i suicidi, scrive Critchley, ciò che le accomuna tutte è l’impressione che ha il suicida di ritrovarsi in una situazione senza via d’uscita. Che le costrizioni siano interne o esterne, di natura emotiva o politica, fisica o psichica, rimane il fatto che il suicida si trova sempre in una posizione in cui togliersi la vita sembra  l’unica soluzione a una contraddizione irrisolvibile. Il suicida ricorda quindi gli uomini di Kierkegaard o di Camus: si trova sempre, nei mesi o nei momenti che precedono l’atto, a guardare in faccia l’assurdo.

Giungere a questa constatazione mi ha fatto pensare a un altro libro pubblicato recentemente, L’assurda evidenza di Francesco D’Isa, uscito per le Edizioni Tlon. In questo breve «diario filosofico», D’Isa parte da una situazione personale (una grave malattia che l’ha costretto in ospedale da ragazzo) per riflettere sull’interrogativo al centro di ogni filosofia che si rispetti: perché vivere è meglio che morire? Da cui deriva, naturalmente, la domanda: qual è il senso del dolore? È il dilemma di Amleto, ma anche il questito fondamentale del pensiero, quella da cui discendono le filosofie e le religioni, perché non c’è ragione di elaborare complesse teorie sulla natura o sulla storia se la vita da cui queste teorie dipendono non ha senso di essere vissuta. Interrogarsi sulla morte significa riflettere sull’assurdo: sull’assurdità della nostra condizione di mortali, prima di tutto (di «creature di un sol giorno», come i Greci chiamavano gli umani: riprendo la formulazione dal titolo di un bel libro di Mauro Bonazzi pubblicato da Einaudi un paio di anni fa), e di conseguenza anche sulla miriade di forme in cui l’assurdo e il nonsenso si annidano nelle nostre esistenze, scavandovi tunnel come tarli nel legno e rifrangendo da prospettive sempre diverse la realtà ineluttabile della morte.

Il libro di D’Isa è interessante anche perché muovendo dalla contingenza dell’autobiografia riesce a esplorare, in una maniera tanto poetica quanto filosofica, le conseguenze di quell’assurdità originaria nella vita di tutti i giorni. Anche se abbiamo deciso che vivere sia meglio di morire, come facciamo a rapportarci alla mancanza di senso intrinseco che domina le nostre vite? Come facciamo, in altre parole, a guardare nell’abisso in cui guarda il suicida senza diventare suicidi noi stessi? Tra il libro di D’Isa e quello di Critchley ci sono evidenti similitudini, tanto formali (in entrambi i casi si tratta di testi brevi che partono da esperienze personali per interrogarsi su temi filosofici affini) quanto di contenuto. Quindi non mi sono stupito quando ho visto che il primo ha intervistato il secondo per la rivista L’Indiscreto, in un’interessante conversazione in cui gli autori sembrano duettare sullo spartito di una melodia comune.

Anche perché, curiosamente, persino le conclusioni a cui i due libri giungono sono simili. Negli anni D’Isa si è occupato spesso di filosofie e religioni orientali, facendo della capacità di mettere in dialogo Oriente e Occidente un tratto caratteristico del suo lavoro filosofico; molto meno invece Critchley, più radicato nella tradizione della filosofia continentale. Ma Note sul suicidio si conclude con un’immagine, quella del mare dell’East Anglia in inverno nel quale il filosofo decide di non affogarsi, e la constatazione che di fronte al limite estremo della vita ciò che rimane è la bellezza impermanente delle cose: «le nuvole grigie, i gabbiani, le raffiche di vento, una vasta oscurità che scende. Questa è la gioia. Qui è possibile tirarsi fuori dalla propria solitudine, smuovere quel nocciolo buio a forma di cuneo che è l’io e aprirsi agli altri… con amore».

D’Isa si spinge molto più in là in questo percorso, addentrandosi con più decisione nei territori del pensiero orientale, soprattutto quello Buddhista, ma arriva a una prospettiva molto simile a quel «qui e ora» invocato da Critchley quando scrive che «è qui, al di là di ogni giudizio di valore, che si dissotterra la neutra e abbacinante bellezza di ogni cosa»; o invoca «una specie d’innamorata meraviglia per uno spettacolo di cui si è attori e spettatori, la cui bellezza include e giustifica il male, cullandolo con amore nella perdita di ogni significato».

Mi sembra interessante notare che entrambi gli autori concludano la loro disamina dell’assurdo parlando di amore (anche perché cosa c’è di più assurdo dell’amore, soprattutto di fronte all’ineluttabilità della morte?). Ma ancora più interessante mi pare la fonte da cui sgorga questo amore, che è la perdita di sé, la distruzione di «quel nocciolo buio a forma di cuneo che è l’io». Quando ci si pone di fronte alla prospettiva del suicidio qualcosa deve davvero morire. Quel qualcosa non è necessariamente «io» nella mia totalità, ma è il mio «io», quella cosa che mi fa dire di essere qualcuno, che dà sostanza filosofica e psicologica alla mia persona. Il modo per non uccidermi è uccidermi, soltanto in una maniera diversa.

Questa mi sembra una conclusione molto importante, capace di illuminare tutto il problema del suicidio di una luce diversa. Torno alle ragioni che da sempre mi attraggono verso i suicidi, al quarto maestro di Jodorowsky e a quella che ho definito una «mistica dell’estremo», alla morte come ricerca di realizzazione personale e conoscenza di sé. Alla base di ogni ricerca spirituale c’è la necessità di spogliarsi dei propri averi (il Buddha che lascia il palazzo dorato in cui è cresciuto, San Francesco che dona le proprie ricchezze), ma forse più di tutto è necessario liberarsi della cosa che crediamo di possedere più intimamente (anche se ovviamente non la «possediamo» veramente mai) e che ci radica alla vita: vale a dire noi stessi. 

È significativo che questa sia anche la proposta al centro di un altro libro in cui sono inciampato in queste settimane, sempre pubblicato da Tlon: Per farla finita con se stessi di Laurent De Sutter (traduzione di Marco Carassai). Questo breve «antimanuale di crescita personale», com’è sottotitolato, ci accompagna lungo un percorso secolare di definizione dell’idea del Sé, partendo dalle radici greche del termine «persona» e arrivando ai manuali di self-help, passando per la definizione del «sé» giuridico nel pensiero di Locke e all’autosuggestione come cura della psiche teorizzata dal farmacista francese Émile Coué nel XIX secolo. Il libro è più ostico dei precedenti lavori di De Sutter, anche se ne conserva l’approccio interdisciplinare, la capacità di mischiare cultura alta e bassa, la prospettiva storica ampia e lo stile conciso che hanno fatto di Narcocapitalismo (Ombre Corte 2018, traduzione di Gianfranco Morosato) uno dei migliori testi di critica culturale pubblicati negli ultimi anni. Per farla finita con se stessi ha un duplice pregio: quello di mostrarci come l’idea di sé sia una conquista storica, e non un datum neurologico; e come il sé sia sempre un costrutto politico se non addirittura poliziesco, l’«essere sé stessi» sempre un «dover essere», un uniformarsi alle richieste di un esterno (caso particolarmente evidente proprio nei manuali di autoaiuto, nei quali noi stessi diventiamo la polizia morale di un’evoluzione del nostro sé che si conforma a ciò che la società ritiene «buono», «giusto» o «desiderabile»). Conclude dunque De Sutter che «dobbiamo farla finita con noi stessi, perché dobbiamo farla finita con tutto ciò che poggia sull’idea che saremo qualcosa per garantire che non saremo qualcos’altro, che non cominceremo a vagare fuori dai cardini ontologici che formano le frontiere politiche del possibile». E arriva a proporre una politica della non-identità, in cui «non ci interessa essere un sé, essere qualcuno» perché «quello che vogliamo è scomparire», «non essere niente».

De Sutter non parla mai di suicidio, e il suo discorso è sostanzialmente politico (sottrarsi alla cura del sé per smarcarsi dalla politicizzazione e militarizzazione dell’identità), ma il fatto che nella lingua comune «farla finita con sé stessi» significhi togliersi la vita mi pare abbia un signficato che va oltre la scelta di un titolo accattivante per fini commerciali. Se è vero quanto abbiamo detto sopra, «farla finita con sé stessi» è insieme la necessità primaria del suicida e la via d’uscita dalla prospettiva del suicidio, quella via d’uscita che il suicida per definizione non riesce a vedere. 

E non la vede perché, come nei Koan Zen, questa via d’uscita non esiste, a meno che non si metta in conto una vera morte, seppure simbolica. Solo se posti di fronte alla domanda impossibile sollevata dal suicidio, e solo constatando che una soluzione non è possibile, ci si apre alla possibilità di una via di fuga: l’assurdo come apertura di uno spazio, come opportunità di sottrarsi alla gabbia nella quale ci rinchiude la vita di tutti i giorni. Anche qui Kafka, che non per niente continua a tornare in questo saggio, ha moltissimo da insegnarci.

È la conclusione a cui arrivano sia Critchley che D’Isa, e che De Sutter sembra riecheggiare con le sue parole: la necessità di evadere dalla prigione del nostro io per entrare in un territorio di possibilità infinita. Aprirsi al nulla, esistere nell’impossibile. Che è poi, in fondo, il punto di partenza di ogni ricerca spirituale, di ogni percorso mistico. Solo quando vivere non è più possibile diventa ipotizzabile tollerare di vivere davvero.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.

ARTICOLO n. 15 / 2022

IL NUOVO INCONSCIO

C’è una conseguenza del test di Turing di cui si parla poco ma che a me sembra l’aspetto più interessante dell’intera faccenda: se un computer può essere equiparato a un umano nel momento in cui finge efficacemente di esserlo, significa che apparire umano è la prima condizione per diventarlo. Da qui a dire che qualsiasi cosa sembri umana è nei fatti umana il passo è breve, e infatti già oggi c’è chi comincia a riflettere sui diritti dei robot o sviluppa legami sentimentali con le intelligenze artificiali (un film come Lei di Spike Jonze era profetico quando uscì 2013, dieci anni dopo è solo un passo avanti alla realtà).

È evidente che a essere in gioco qui non è il futuro della macchina, ma il futuro dell’uomo: è l’essere umano a venir ridefinito dall’intelligenza artificiale e non viceversa. Se c’è un aspetto che esce completamente trasformato dal confronto è quello dell’inconscio, dato che la presenza o meno di una mente inconscia (almeno per come l’ha definita la psicanalisi) è una delle grandi discriminanti tra uomo e macchina. Le azioni dell’uomo, ci ha detto Freud, sono in larga parte determinate da una dimensione della psiche invisibile dall’esterno; ci sono cause nascoste a muovere i gesti più banali; nulla è come sembra. Nella macchina è l’esatto opposto: come nelle grandi maschere cave di Ron Mueck, dietro l’apparenza non si nasconde niente; non c’è una causa propriamente detta, solo il determinismo del codice binario; tutto è esattamente ciò che sembra.

Questo aspetto della visione dall’esterno (ciò che posso vedere è tutto ciò che esiste) è centrale. Com’è noto Turing teorizzò il suo test in un articolo del 1950. Solo due anni più tardi, nel 1952, l’American Psychiatric Association pubblicò la prima versione del suo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, oggi arrivato alla quinta edizione e tuttora il principale strumento diagnostico in psichiatria e in psicologia clinica. Una delle critiche che il DSM-5 non smette di attrarre, come tutti i suoi predecessori, ha proprio a che vedere con il suo approccio empirico: i disordini mentali sono classificati – e dunque trattati – solo sulla base dei sintomi, mentre le cause del malessere vengono ritenute inconoscibili o quantomeno irrilevanti ai fini della cura.

Cosa rimane dell’inconscio in un simile approccio? Non molto, e infatti per diverse decine di anni l’idea freudiana di una dimensione nascosta eppure enormemente rilevante della nostra vita psichica è stata accantonata a favore del metodo più operativo della psicologia cognitiva. Che, come ricorda Frank Tallis nel suo Breve storia dell’inconscio (Il Saggiatore 2019, traduzione di Alessia Ranieri e Monica Longoni) si è affermata proprio negli anni Cinquanta grazie al paradigma computazionale entrato in voga con l’arrivo dei primi computer.

E oggi? Oggi sembriamo assistere a due movimenti apparentemente opposti, che però a ben guardare si rivelano parte di un arco coerente. Il primo filone era già stato ben analizzato da Massimo Recalcati in un libro del 2010 dal titolo emblematico, L’uomo senza inconscio (Raffaello Cortina), sul quale vale la pena spendere qualche parola. Come a volte capita, il titolo dice qualcosa di diverso, e in un certo senso di più, del libro stesso, che personalmente reputo forse la cosa migliore scritta da Recalcati ma che si inserisce comunque in un orizzonte di clinica lacaniana abbastanza tradizionale.

A un livello esplicito, l’assenza di inconscio di cui parla Recalcati va vista come una «perdita del soggetto dell’inconscio», che viene meno nel momento in cui il tecno-capitalismo impone l’imperativo di una soddisfazione immediata della pulsione e il godimento si sostituisce al desiderio (infatti non è un caso che il sequel ideale de L’uomo senza inconscio sia intitolato Le nuove melanconie e sia stato pubblicato sempre da Raffaello Cortina alla fine del 2019, in un momento compresso tra la diffusione mortifera dei nuovi sovranismi e lo scoppio della «psicodeflazione» pandemica, entrambe manifestazioni di quella che potremmo definire una «melanconia sociale»). Nella clinica del terzo millennio, dice Recalcati, il sintomo nevrotico viene sostituito dalla «frattura verticale» di quei disturbi che hanno a che vedere con le dicotomie del tipo tutto/niente, come le dipendenze, l’anoressia o – aggiungo io – il disturbo bipolare. Siamo chiaramente di fronte a un paradigma che mutua le proprie metafore dagli 1 e 0 del codice binario, termini netti tra i quali non esistono sfumature né momenti di elaborazione simbolica.

Ciò che Recalcati non dice esplicitamente, ma che il titolo suggerisce per lui, è che questi nuovi umani sono davvero «senza inconscio», nel senso che somigliano sempre di più alle macchine da cui sono (siamo) agiti e di cui sono (siamo) strumenti. Ecco insomma che la profezia oscura del test di Turing si trasforma in realtà.

L’altro movimento a cui stiamo assistendo, invece, va in direzione di un recupero del concetto di inconscio dopo anni in cui la psicologia cognitiva prima e le neuroscienze poi hanno minimizzato l’esistenza o quantomeno la rilevanza di una dimensione nascosta e simbolica della mente. Questo recupero però non ha a che vedere con la psicanalisi, come si vede nei concetti di «nuovo inconscio» e «nonconscio» che vengono mutuati proprio dal cognitivismo se non addirittura dalle scienze naturali o dall’informatica.

Del primo parla Tallis in Breve storia dell’inconscio quando si sofferma sugli sviluppi contemporanei dell’approccio cognitivo. È vero, dice Tallis, che il cognitivismo ha svilito l’inconscio al punto da arrivare quasi a metterne in discussione l’esistenza tout court, ma è altrettanto vero che proprio la metafora informatica ha portato una corrente di pensiero a concentrarsi su quei «processi di background» che nel cervello agiscono continuamente raggiungendo solo in minima parte la soglia della coscienza, come si vede per esempio quando ci fermiamo prima di fare un passo davanti a un’auto che ci stava per investire e che non avevamo visto. Cosa ci ha fatto fermare se non una parte della nostra mente non cosciente eppure abbastanza vigile da salvarci la vita? Oppure pensiamo alla capacità istintiva di calcolare gli spazi e le dimensioni, o le miriadi di operazioni mentali che sono necessarie per attività quotidiane come scrivere o parlare. Tutto questo è tecnicamente «inconscio», cioè oltre la soglia della nostra coscienza eppure essenziale per il suo funzionamento. Naturalmente si tratta di un inconscio che non ha niente a che vedere con il caotico luogo delle pulsioni di Freud, né tantomeno con l’archivio di simboli sovraindividuali di Jung, ma è pur sempre una forma di psiche altra rispetto alla vita cosciente, che rientra così dalla finestra negli interessi della psicologia  dopo essere stata cacciata dalla porta.

Il concetto di «nonconscio» invece è più sottile. A coniarlo è stata una critica letteraria che da molti anni si occupa del confine sempre più sfumato tra umano e postumano, N. Katherine Hayles, in un libro recentemente pubblicato in Italia da Effequ (L’impensato. Teoria della cognizione naturale, 2021, traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini).

A differenza del nuovo inconscio di cui parla Tallis, che come l’inconscio freudiano è in larga parte sommerso ma può diventare cosciente a fronte di uno sforzo di autoconsapevolezza o di un accidente (come nell’esempio dello scampato investimento che ho portato sopra), il nonconscio si riferisce a una dimensione totalmente inaccessibile alla coscienza. Inoltre il nonconscio pertiene una condizione base della cognizione, che l’uomo non condivide solo – come presumibilmente nel caso del nuovo inconscio – con gli altri animali, ma anche con le piante e, dice Hayles, con i sistemi informatici complessi. In un certo senso, il concetto di nonconscio ha a che vedere con l’interoperabilità tra specie e regni diversi, e addirittura tra esseri viventi e non viventi in un panorama complesso dove l’interazione con le macchine è diventata parte integrante della vita di tutti i giorni. Se possiamo «capire» un computer, e se un computer può «capire» noi, ciò non si deve solo al fatto che condividiamo un sistema simbolico di tipo umano (ad esempio: una tastiera; un altro esempio: la matematica), ma anche una forma base di cognizione.

Questo nonconscio cognitivo, sostiene Hayles, ha a che vedere con la capacità di entità diversissime di interpretare le informazioni che provengono dall’esterno. Non è necessario che ci sia una coscienza, né tantomeno una consapevolezza di sé e dell’informazione che viene elaborata, perché ci sia cognizione. Un computer può «capire» senza veramente «capire» – ma questa assenza di una «comprensione» a livello cosciente non impedisce che tra noi e una macchina ci sia uno scambio informativo di qualche tipo. Per usare una metafora della cibernetica, uomini, altri esseri viventi e sistemi tecnici complessi sono tutti parte di uno stesso meccanismo che si scambia informazioni e si autoregola tramite processi di feedback.

Può sembrare curioso, ma questa prospettiva mi pare rassicurante rispetto al problema paventato da molte direzioni, spesso a ragione, delle intelligenze artificiali. Quello di Hayles è uno sguardo normalizzante, che tende a smussare i picchi della uncanny valley nella quale ci ha portato il contatto quotidiano con le macchine «intelligenti».

Facciamo un esempio. Nel 2020 si è creduto che un’intelligenza artificiale basata su un modello linguistico autoregressivo conosciuta come GPT-3 avesse finalmente superato il test di Turing. Effettivamente i risultati ottenuti da GPT-3 erano impressionanti: l’IA era in grado di sostenere conversazioni complesse sulla natura della propria «coscienza» e su questioni morali con filosofi e cognitivisti, nonché di comporre una lettera spacciandosi per David Chalmers tanto riuscita da ingannare lo stesso Chalmers sulla sua veridicità. Ma in realtà era una finzione: GPT-3 infatti era perfettamente capace di rispondere a domande sensate, ma andava in crisi con il nonsense – un aspetto che avrebbe probabilmente stuzzicato l’animo inglese dello stesso Turing.

Eludendo i problemi tradizionalmente legati alla natura della coscienza e alla sua imitizaione, la prospettiva di Hayles ci colloca in un paradigma molto diverso rispetto al discorso che solitamente circonda il problema dell’intelligenza delle macchine. Il test di Turing, in fondo, potrebbe essere allo stesso tempo già superato e insuperabile. O meglio ancora, forse guardare al problema dell’interazione uomo-macchina dal punto di vista del test di Turing è sbagliato: in realtà noi e le macchine siamo già parte di uno stesso regno ontologico, almeno a un livello noncosncio che è insieme più reale e meno spaventoso dell’idea fantascientifica di robot indistinguibili dagli umani alla Blade Runner.

Questa potrebbe anche essere una prospettiva efficace per non cadere nel tranello dell’intelligenza artificiale che già vent’anni fa Jaron Lanier aveva inquadrato in maniera precisa quando scriveva che l’unico modo per cui un computer potrà mai passare il test di Turing è che gli umani si abbassino al livello delle macchine, arrivando a considerarsi tanto meccanizzati che la differenza svanisce. Se è così che si crea l’intelligenza artificiale, «artificializzandov l’intelligenza umana, allora dobbiamo ammettere che siamo molto vicini a dare finalmente vita al nostro Golem – e a dimostrarlo, come spiegava già Recalcati, è più la psicologia che l’informatica.

Oppure possiamo ribaltare completamente il tavolo, come fa Hayles, e smettere di seguire il sogno prometeico di costruire macchine capaci di sostituirci. Invece che perseguire l’evoluzione verticale sulla linea della coscienza possiamo espanderci in orizzontale sul piano del nonconscio, entrando in un territorio ancora tutto da esplorare dove ogni forma di cognizione ha il suo spazio, il suo ruolo e la sua specificità, e dove è possibile una convivenza che non prenda i caratteri di una trita distopia.