Francesca d'Aloja

ARTICOLO n. 23 / 2024

LA MUSICA DELLE PAROLE

Dopo essere stati travolti dall’overdose sanremese, in cui si è disquisito di tutto, dall’outfit (oddio, l’ho scritto!) di uno al colore dei capelli dell’altra, dalle pseudo-polemiche agli pseudo-scandali, mi è venuta voglia di parlare di musica. Mi correggo: siccome della musica non ha molto senso parlare (la musica la si ascolta), mi soffermerò su ciò di cui parla la musica, ovvero i testi delle canzoni. Tanto per rimanere sul più grande fenomeno canoro italiano, citerò alcune strofe raccolte a caso dei brani sanremesi di quest’anno (oltre all’immarcescibile parola “amore”, la più ricorrente pare sia “mare” seguita da “cielo”):

Se avessi un telecomando non ti cambierei mai / tagliami il cuore se vuoi con un paio di forbici
L’amore spacca il cuore a metà / ti lascia in coma dentro al solito bar / nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle / e vomito anche l’anima per sentirmi vivo dentro ‘sto casino
Con cosa son rimasto / con ‘sta nostalgia del cazzo
Sai che dentro ho un mare nero che m’illumina
La mia collana non ha perle di saggezza / a me hanno dato le perline colorate / per le bimbe incasinate con i traumi/da snodare piano piano con l’età/eppure sto una Pasqua guarda zero drammi
Stamattina io mi lavo i denti col gin / metto i soliti jeans / sono un nomade in un attico chic
Le tue pupille sembrano pallottole se mi guardi mi ferisci / tu sai che avevo bisogno d’aiuto potevi pure mandarmi a fanculo
L’amore è una sala slot / mi gioco tutto
Questo amore è una sparatoria / con le tue armi puntate verso di me / siamo pieni di rimpianti fino all’overdose.

Ecco qui. Ora non sto a lambiccarmi se debba o meno lasciare il segno un testo scritto per quel palcoscenico fiorito, abbandono dunque il festival rivolgendo lo sguardo (e in seguito l’orecchio) alle canzoni i cui testi, insieme alle note, hanno segnato la mia esistenza, e comincerò dal gruppo che più di ogni altro associo alla mia biografia: i Genesis. Credo di conoscere a memoria quasi tutti i testi degli album prodotti dal 1970 al 1976, vale a dire da Trespass a Wind and Wuthering, che segna la fine della mia cieca devozione. 

La maggioranza delle persone ascolta una canzone senza tener conto delle parole che la compongono, vuoi perché non conoscendo la lingua ne ignora il significato, vuoi perché considera il testo elemento accessorio alla melodia. Per me invece i testi sono fondamentali. Posso dire di aver imparato l’inglese per poter capire le lyrics dei Genesis, e seppure la padronanza della lingua non ha chiarito il senso di quelle parole misteriose imbevute di mitologia e simbolismi, mi ha però offerto l’impagabile piacere di cantare insieme a Gabriel, Rutherford, Hackett, Banks e Collins le migliaia di volte che ho schiacciato il tasto play per ascoltarli. I’ve got sunshine in my stomach… 

Già solo questo attacco: “Ho il sole nello stomaco”, me li fa amare senza riserve. La concezione musicale (di questo si tratta, di concezioni) dei Genesis è strettamente legata al testo, le celeberrime suite sono interminabili poemi musicali, e pazienza se le ambiguità, i doppi sensi, gli scioglilingua, le ripetute metafore di cui sono farciti i versi rendono ardua la comprensione, pazienza… Li avrei amati allo stesso modo senza conoscere i testi delle loro canzoni? Non credo. Mi piace sapere che in Get’em out by Friday vengano evocati dei “dirigenti dell’Ente Controllo Genetica” che decidono la statura massima delle persone così da sfruttare lo spazio abitabile delle case: I hear the Directors of Genetic Control / have been buying all the properties that have recently been sold / taking risk oh so bold / it’s said now people will be shorter in height / they can fit twice as many / in the same building site. Così come mi appassiona sapere che Supper’s ready nasce da un’esperienza paranormale vissuta da Peter Gabriel e sua moglie Jill, nel salotto, divenuto improvvisamente teatro di spaventosi fenomeni, della casa dei genitori di lei. Si racconta di visioni soprannaturali, tende svolazzanti, strani rumori, e di uno stato di trance che trasfigura il volto di Jill: Walking across the sitting room / I turn the television off / Sitting beside you / I look into your eyes / As the sound of motor cars / Fades in the nighttime / I swear I saw your face change / it didn’t seem quite right.

Capire il significato del testo rende il brano, già grandioso nella sua composizione, ancora più potente. Naturalmente la metrica è fondamentale, la traduzione rischia talvolta di far apparire un testo ancora più assurdo di quanto già non lo sia in originale. Cito l’esempio di un’altra band che ricorre nelle stagioni della mia vita: I King Crimson. 

Disse l’uomo onesto all’uomo in ritardo / Dove sei stato? / Sono stato qui e sono stato lì / e ho vissuto a metà / Io parlo al vento / il vento non sente, il vento non può sentire.

I talk to the wind è il titolo del brano: Said the straight man to the late man / Where have you been? / I’ve been here and / I’ve been there / And I’ve been in between.

Non si tratta quasi mai di parole appese tanto per soddisfare il ritmo di una melodia, è evidente la ricerca di un valore letterario, il tentativo di far combaciare due linguaggi senza che uno prevalga sull’altro.

Between the iron gates of fate / the seeds of time were sown / and watered by the deeds of those / who know and who are known / knowledge is a deadly friend / if no one sets the rules / the fate of all mankind I see / is in the hand of fools.

Tra i cancelli di ferro del destino / furono piantati i semi del tempo / e innaffiati dalle azioni di quelli che conoscono e da quelli che sono conosciuti / la conoscenza è un’amica mortale / se nessuno stabilisce le regole / il destino di tutta l’umanità che vedo / è nelle mani dei pazzi.

Epitaph è il titolo del brano contenuto nell’album In the court of the Crimson King. Echi shakespeariani e musica sublime. Non a caso, ai testi, interpretati dalla voce distorta di Greg Lake, collaborò il poeta Peter Sinfield. Vi è incluso anche l’apocalittico (e profetico) 21st Century schizoid man: 

Un tormento di sangue / filo spinato / un rogo di politici /innocenti stuprati con il fuoco del Napalm / uomo schizoide del ventunesimo secolo / La morte semina l’avidità dell’uomo cieco / i figli dei poeti affamati sanguinano / Non ha nulla di cui abbia veramente bisogno / l’uomo schizoide del ventunesimo secolo.

“L’uomo schizoide del ventunesimo secolo” potrebbe essere il titolo del momento, invece è datato 1969. Inutile citare la copertina, probabilmente la più bella mai realizzata (da un ragazzo di ventitré anni che morì l’anno successivo senza sapere quale prodigio aveva compiuto). Chi non la conosce vive sulla luna.

«Nei nostri concerti vedo migliaia di persone felici di ascoltare questo pezzo, ignari di ciò che dice», ha detto in un’intervista Thom Yorke a proposito di Street Spirit (fade out), brano dei Radiohead contenuto nell’album The Bends. Un testo disperato, Street Spirit, come disperata è la voce di Yorke: Uova frantumate, uccelli morti / urlano mentre lottano per la vita / sento la morte, vedo i suoi minuscoli occhi / queste cose matureranno / queste cose ingoieremo un giorno.

Cracked eggs, dead birds / scream as they fight for life / I can feel death, can see its beady eyes / all these things into position / all these things we’ll one day swallow whole.

Esistono diverse cover dei brani dei Radiohead (lo stesso Peter Gabriel ha prodotto una sua dolentissima versione di Street Spirit), ma i testi di Thom Yorke, così criptici, psicanalitici, concettuali, se cantati da altri suonano come appropriazioni indebite. Basta leggerli per capire che non esiste altro modo possibile di interpretarli se non con la voce del loro autore, così come accade con i poeti, gli unici legittimi declamatori dei loro versi. 

Il più grande scrittore (sì, scrittore) di testi è senza dubbio Bob Dylan, probabilmente uno dei Nobel per la letteratura più meritati degli ultimi anni, con buona pace di chi ha sollevato riserve. Lo cito per dovere di cronaca pur non facendo egli parte delle mie ossessioni musicali. Possiedo però un libro ponderoso (1225 pagine) intitolato Bob Dylan Lyrics 1962-2001 (mancano dunque più di vent’anni di brani aggiuntivi), del quale ogni tanto mi diletto ad aprire una pagina a caso, e ogni volta casco su qualche perla. Come in questo momento: p.585, Sign on the CrossI know in my head / that we’re all so misled / and it’s that ol’sign on the cross / that worries me / Now, when I was just a bawlin’ child / I saw what I wanted to be / and it’s all for the sake / of that picture I should see / but I was lost on the moon / as I heard that front door slam / and that old sign on the cross / still worries me.

Ce l’ho ben chiaro in testa / che siamo tutti sulla strada sbagliata / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri / Sin da quando ero un bambino che frignava / sapevo cosa volevo fare da grande / ed è tutto per via / di quella figura che poi dovevo vedere / ma ero perso sulla luna / quando ho sentito sbattere la porta / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri.

Proviamo di nuovo. Casco sulla pagina 1025. Il titolo è Dignity. La dignità.

Fat man lookin’ in a blade of steel
Il grasso la cerca in una lama d’acciaio
Thin man lookin’ at his last meal
Il magro la cerca nel suo ultimo pasto
Hollow man lookin’ in a cottonfield
Un guscio d’uomo la cerca in un campo di cotone
For dignity
La dignità
Wise man lookin’ in a blade of grass
Il saggio la cerca in un filo d’erba
Young man lookin’ in the shadows that pass
Il giovane la cerca nelle ombre che passano
Poor man lookin’ through painted glass
Il povero cerca di scorgerla in un vetro dipinto
For dignity
La dignità

È tutto chiaro. Ciascuna parola ha il suo significato.

Per una stramba associazione penso a Syd Barrett e ai suoi testi, i cui significati vagavano nei bui meandri del suo cervello: An effervescing elephant / with tiny eyes and great big trunk / once whispered to the tiny ear / the ear of one inferior / that by next june he’d die, oh yeah.

Un elefante effervescente…

I versi enigmatici sono quelli che prediligo. Inestimabile Mogol, ma Pasquale Panella, per Battisti, di questo è stato capace: 

Ti piacciono i dolci / ed io sul tuo terrazzo impianto / un’impastatrice industriale / che mescola e sciorina la crema per le scale.

Vuoi prendere un treno di notte / pieno di paralumi e di damasco per dormire / Sennò a che serve un treno? / Alzo con le mie leve tutti i binari / E, senza alcun disagio di viaggiare in discesa / Scivolano da te tutti i vagoni / Detto così è semplice / E infatti lo è detto così.

Se nulla capivo, qui tu finalmente / Nulla lasciavi germogliare sulla brulla / Paradossale, tra noi terra infondata / Dove sono i leoni / Ammattiti e marroni / Lasciando immaginare / La sposa occidentale.

I leoni ammattiti e marroni…

E poi c’è De Gregori con l’inarrivabile: Conoscete per caso una ragazza di Roma / la cui faccia ricorda il crollo di una diga.

O l’ancora più bello: Ditele che la perdono per averla tradita.

E infine vorrei ricordare un autore ignorato in Italia e molto popolare in Francia. Personaggio eclettico (è attore, scultore, disegnatore, regista) dall’aspetto buffonesco, è autore di testi sublimi nascosti in motivetti elementari, apparentemente leggeri. Un pezzo unico nella patria degli chansonniers. Il suo nome è Philippe Katrine, e questo è ciò che scrive nel brano Mort à la poésie:

Je fais de ma vie un chef d’œuvre / Faccio della mia vita un capolavoro
Que l’on visite pour 100 francs / Visitabile con 100 franchi
Tous les deux ou trois ans / Ogni due o tre anni
J’écrase des insectes merveilleux / schiaccio insetti meravigliosi
Sur des visages adolescents / su visi adolescenti
Et absolument consentants / e assolutamente consenzienti
Je marcherais nu sur la Pont Neuf / Camminerò nudo sul Pont Neuf
Le 7 avril de 2009 / Il 7 aprile 2009
En criant: / Gridando:
«Mort à la poésie ! Mort à la poésie ! / Morte alla poesia! Morte alla poesia!
Je suis un homme libre» / Sono un uomo libero»


Concludo con il suo testo più bello, Où je vais la nuit. Versi che Baudelaire avrebbe amato:

Si tu savais où je vais la nuit / Se tu sapessi dove vado di notte
Je nage dans tes yeux comme en Océanie / Nuoto nei tuoi occhi come in Oceania
Je marche dans tes cheveux sans trouver mon chemain / Cammino nei tuoi capelli senza trovare la strada
J’escalade tes seins avec l’aide des dieux / Scalo i tuoi seni con l’aiuto degli dèi
Si tu savais / Se tu sapessi
Où je vais la nuit / Dove vado di notte
J’embrasse tes ancêtres sur leur bouche adorée / Bacio i tuoi antenati sulla bocca adorata
Et toutes les terres qu’ils ont un jour foulé / E tutte le terre che calpestarono un tempo
Je les embrasse pareil à un nouveau né / Li bacio come farei con un neonato
Puis je pleure un peu pauvre con que je suis / Poi piangerei un po’, povero fesso che sono
Si tu savais où je vais la nuit / Se tu sapessi dove vado di notte
Tu resterais, toi ou ton fantôme / Rimarresti, tu o il tuo fantasma
Qui métamorphose mes nuits en royaume / che trasforma le mie notti in un reame
Sauvage et délicat / Selvaggio e delicato
Reste dans mes bras / Resta fra le mie braccia

ARTICOLO n. 85 / 2023

TRASFORMARE LA REALTÀ IN UNA STORIA

Non avrei mai pensato di intervistare mio (ora ex) marito, ma la vita è bella perché imprevedibile e dunque eccomi qua, a fare domande al regista Marco Risi, padre di mio figlio. Parleremo di cinema, argomento che lo interessa più di ogni altro, e salvo il fatto che risponderà alle mie domande allungato sul divano a piedi scalzi, i crismi di una vera intervista saranno rispettati, mi è bastato schiacciare il tasto play del registratore per materializzare un diaframma perfetto.

Francesca d’Aloja: Hai cominciato a lavorare nel cinema nel 1982, le motivazioni che ti hanno spinto a intraprendere questo percorso sono sempre le stesse o sono cambiate in corso d’opera?

Marco Risi: In realtà ho cominciato un bel po’ prima: nel ’70 come assistente alla regia di mio zio Nelo e poi con Alberto Sordi, Duccio Tessari e il mio amico Carlo Vanzina. Però, sì, le motivazioni sono sempre quelle.

F. d.A. E cioè?

M. R. Il desiderio di raccontare, di trasformare la realtà in una storia. Fin da piccolo, quando qualcosa succedeva intorno a me, a casa, o per strada, fantasticavo su come tramutare ciò che vedevo in immagini proiettate su uno schermo. Da ragazzo andavo anche tre volte al giorno al cinema, e ancora ricordo la sensazione, uscendo dalla sala, di sentirmi diverso rispetto a quando ero entrato. Sono cresciuto con il cinema, non soltanto da un punto di vista familiare. Certamente il fatto di avere un padre regista probabilmente mi ha condizionato.

F. d.A. Anche se tuo padre tendeva a separare la vita privata da quella professionale…

M. R. Sì, è vero, non ci coinvolgeva, a me e mio fratello. Non ci portava sul set per esempio. Però quando da ragazzo ho attraversato un momento difficile fu lui a propormi di collaborare insieme a Bernardino Zapponi alla stesura della sceneggiatura di Caro Papà.

F. d.A. Trovo molto interessante che tuo padre ti abbia fatto “debuttare” in un film che metteva in scena un figlio (terrorista) che vuole uccidere il padre… materiale ghiotto per uno psicanalista!

M. R. Allora potremmo aggiungere che il ragazzo incappucciato che spara al padre, interpretato da Gassman, è mio fratello Claudio! Forse ha prevalso il passato da psichiatra di papà.

F. d.A. Dopo questo “battesimo” ti sei sentito “autorizzato” a cimentarti nel suo stesso mestiere?

M. R. Oddio, no. Non ho mai espresso apertamente il desiderio di fare il regista, me ne sono guardato bene… In fin dei conti non cercavo un’investitura da parte sua, me la sono cavata da solo, anche se ogni tanto gli facevo leggere delle cose che avevo scritto, sketch, piccole scene, davanti alle quali reagiva o con freddezza o con indifferenza… Insomma, diciamo che non è stato molto incoraggiante. Probabilmente voleva mettermi alla prova e valutare se il mio fosse soltanto un desiderio, diciamo così, fatuo.

F. d.A. E alla fine hai fatto il tuo primo film.

M. R. Sì, anche se avrei voluto esordire con il mio terzo film [Colpo di fulmine, n.d.r], una storia che sentivo molto più consona ai miei gusti, però le condizioni per farlo non erano ancora mature e ho optato per una commedia, Vado a vivere da solo, che mi servì più che altro a dimostrare le mie capacità. Quando lo vide mio padre il suo commento fu: “Sei un professionista”. Non ho mai capito se fosse un complimento. Non credo.

F. d.A. Il protagonista era Jerry Calà, che hai scelto anche nei due successivi.

M. R. Sì, dopo Vado a vivere da solo girai Un ragazzo e una ragazza, scritto insieme a Furio Scarpelli. Andarono entrambi molto bene, e questo mi incoraggiò a realizzare Colpo di fulmine, il racconto di un amore platonico e tutt’altro che morboso fra un trentenne nevrotico bisognoso di innocenza e una bambina di undici anni. Lo proposi a vari attori, fra cui Nanni Moretti, ma il successo dei due precedenti impose la partecipazione di nuovo di Jerry Calà, senza il quale non sarei riuscito a montare il progetto. Però quella volta non andò così bene, tanto che mio padre, attribuendo gli scarsi incassi alla presenza di Jerry Calà, se ne uscì con una delle sue fulminanti battute: “Levategli l’accento”.

F. d.A. Poi, a un certo punto, la svolta. Basta commedie.

M. R. A me piacciono molto le commedie, però fu grazie a Scarpelli che cambiai, se vogliamo dire così, direzione. Nel periodo in cui lavoravamo insieme mi segnalò una sceneggiatura, scritta da Marco Modugno, ambientata all’interno di una caserma. Non era certo una commedia, trattava di abuso di potere, nonnismo, conflitti generazionali. Mi sembrava interessante. Insieme a Stefano Sudrié e Scarpelli abbiamo apportato delle modifiche alla sceneggiatura originale e così è nato Soldati 365 giorni all’alba. Si apriva per me un nuovo capitolo che con Mery per sempre, arrivato subito dopo, ha trovato la sua quadratura.

F. d.A. Con quel film, per il quale fu coniato il neologismo “neo-neorealista”, hai avuto la sensazione di aver trovato la tua personale chiave espressiva?

M. R. È stato un passo importante per la mia vita. Lavorare con ragazzi senza nessuna esperienza cinematografica, avere a disposizione una “materia grezza” e dunque purissima mi ha stimolato a osservare le cose, e se vogliamo la realtà, da un altro punto di vista. Un’esperienza nuova che ho voluto replicare con Ragazzi fuori, seguito ideale di Mery per sempre. Avevo voglia di tornare a girare a Palermo e inoltre mi sembrava giusto offrire a quei ragazzi, alcuni dei quali davvero notevoli, un’altra occasione per esprimere il loro talento.

F. d.A. A te interessa avere uno stile? Riconoscerti in uno stile ed essere riconosciuto per uno stile?

M. R. Non so se posso ritenermi un autore, e non so nemmeno se la cosa mi interessi, mi considero semmai un artigiano. Più che al mio stile mi adeguo al film, vengo guidato dal sentimento che provo verso la scrittura, i personaggi… mi metto al servizio del film e non il contrario. Certo ogni tanto, mentre lavoro, mi chiedo: “ma si riconosce che è un mio film?”

F. d.A. È importante essere riconoscibili?

M. R. Se ambisci a essere considerato un autore, sì.

F. d.A. Facciamo un esempio: William Friedkin era un autore o un regista?

M. R. Friedkin era un grandissimo regista, i suoi film sono tutti diversi e non riconoscibili, però è fuor di dubbio che nessun altro avrebbe potuto fare l’Esorcista come l’ha fatto lui. E non solo quello, pensiamo a Cruising. Esiste una schiera di registi, di grandi registi, soprattutto americani, che non vengono ricordati come autori. Se per esempio oggi fai il nome di John Sturges, in pochi sanno chi sia, eppure ha realizzato film come La grande fuga, I magnifici sette o il dimenticato Giorno maledetto, bellissimo, con un formidabile Spencer Tracy nella parte di un veterano di guerra senza un braccio, che va a indagare su un fattaccio avvenuto in uno sperduto villaggio del sud e scopre che tutti gli abitanti sono colpevoli. Chi non si considera autore in un certo senso è più libero, sia di sbagliare che di fare grandi film. Inoltre la definizione di autore è ambigua:Scorsese è indiscutibilmente un autore, però non scrive i suoi film, mentre qui difficilmente un autore viene considerato tale se si limita alla regia.

F. d.A. È difficile oggi capire quale direzione stia prendendo il linguaggio cinematografico. Un tempo i “generi” connotavano un’epoca, più precisamente dei decenni: il neorealismo del dopoguerra, la commedia all’italiana degli Anni Sessanta, i film d’impegno Anni Settanta, …

M. R. I linguaggi si sono moltiplicati e il cinema si è parcellizzato in nuove forme espressive, frantumandosi. Se ci pensi bene, in tutti quei film, pur con approcci diversi, si raccontava la realtà. La commedia all’italiana, ad esempio, ha rappresentato la società italiana meglio di qualsiasi altra forma espressiva, idem il neorealismo e, in fondo, si potrebbe dire che anche la commedia all’italiana era neorealismo, in chiave comica. Una volta chiesi a Scarpelli perché avessero smesso, lui e i suoi colleghi sceneggiatori, di raccontare il nostro paese con la stessa ferocia e leggerezza di un tempo. Lui rispose che l’insorgere dei cosiddetti anni di piombo aveva messo fine all’ironia. Nessuno avrebbe osato fare una commedia sulle Brigate Rosse. Io penso invece che si sarebbe potuto tentare di sbeffeggiarli, di avere questo coraggio. Con mio fratello avevamo anche scritto un soggettino nel quale le Brigate Rosse entravano in crisi con un ostaggio perché si stava avvicinando l’estate, le vacanze! Comunque sì, il racconto degli Anni Settanta nel cinema si alternava fra film d’impegno e commediole inoffensive, ma la capacità di rappresentare la società con quell’insolenza, quell’amarezza, quel saper far ridere graffiando si sono via via perduti.

F. d.A. Così come il filone dei film “d’impegno” portato avanti da Petri, Rosi, Pontecorvo e poi Bellocchio, Bertolucci, …

M. R. Già. La società si è progressivamente disimpegnata, grazie anche o sarebbe meglio dire per colpa dell’arrivo delle TV commerciali, e così i registi che dovevano rappresentarla, quella realtà.

F. d.A. Anche tu ti sei cimentato con i film d’impegno.

M. R. Sì, ma al contrario dei registi che hai menzionato, dalla forte connotazione politica, io ho cercato, semmai, di fare film d’inchiesta.

F. d.A. Non posso fare a meno di citare una tua frase che la dice lunga sul tuo impegno, o meglio disimpegno, politico: “Io non ho fatto il ’68 perché abitavo sulla Cassia”.

M. R. Ecco, appunto. È una battuta ovviamente, ma non così lontana dalla realtà. Mi sono sempre tenuto a una certa distanza dalla politica, nella vita come nella professione. Ho scelto la strada dell’inchiesta, stimolato da Andrea Purgatori, con il quale abbiamo scritto Il muro di gomma sulla strage di Ustica e Fortapásc sull’omicidio del giornalista del Mattino Giancarlo Siani.

F. d.A. Com’è nata la vostra collaborazione?

M. R. Mentre giravo Ragazzi fuori a Palermo si presentò il produttore Maurizio Tedesco accompagnato da Andrea Purgatori, che non conoscevo personalmente, per sottopormi il trattamento de Il muro di gomma, scritto da Andrea a seguito del suo lungo lavoro di indagine sulla tragedia del volo Itavia. Inizialmente non ero completamente convinto, ma l’incontro con Giovanna Giau, vedova di Alberto Bonfietti, morto nella sciagura, cambiò il mio atteggiamento. La bellezza del suo sguardo, l’assenza di risentimento e la pacata rassegnazione riguardo all’impossibilità di arrivare a una verità, anzi, alla verità, mi convinsero che fosse giusto fare il film, eticamente giusto.

Lo stesso avvenne con Fortapásc: l’incontro con il fratello di Giancarlo Siani fu determinante per convincermi a realizzare il film, il fattore umano vince sempre sulle parole. Ricordo ancora quando a casa sua mi mise sulle ginocchia le camicie di Giancarlo, un gesto di fiducia che non ho dimenticato. Dei film scritti insieme ad Andrea, Fortapásc è quello a cui sono più legato, e pensare che non ci siano più né Andrea né Picchio [Libero De Rienzo, che nel film interpretava Siani, n.d.r], né Corso Salani del Muro di gomma mi rattrista molto. 

F. d.A. L’uscita del film Muro di gomma fu determinante per la riapertura dell’inchiesta su Ustica.

M. R. Non esattamente, diciamo però che contribuì a tenere le luci accese, sì. E certamente è stato per me e per Andrea, che su quei fatti aveva indagato con tenacia, motivo di grande orgoglio. Al di là del valore artistico, un film può aiutare a riaccendere l’attenzione su fatti che la cronaca, e non solo, tende a dimenticare. Rivedendo il film mi accorgo che avrei potuto raccontarlo in maniera meno diretta, io penso che la realtà si possa restituire anche inventandola. Non è necessario, anche quando si tratta di fatti realmente accaduti, essere fedeli alla loro veridicità. La realtà può essere interpretata senza essere tradita, è questo ciò che fanno gli artisti. Altrimenti tanto vale fare un documentario. Ogni tanto è bello prendersi delle libertà, tentare degli azzardi. Ecco, forse è proprio l’azzardo ciò che oggi, spesso, manca nel cinema. Detto questo Andrea Purgatori mi manca tantissimo e con lui si stava pensando a un altro progetto, un altro film, ancora una volta su un giornalista: Mino Pecorelli.

F. d.A. Senza nulla togliere all’importanza dei film d’inchiesta, che come abbiamo detto possono contribuire mediaticamente a illuminare le zone d’ombra su fatti e misfatti, personalmente sono un po’ stufa dei film “tratti da una storia vera”. Nella letteratura come al cinema si è persa la voglia di inventarle le storie, non credi?

M. R. Mah, diciamo che un po’ si è perduto il gusto del racconto, dell’invenzione, lo si vede anche dalla quantità di remake. Oggi si privilegia l’autofiction, si raccontano storie personali legate comunque alla realtà. Io nel mio piccolo ci ho provato con L’ultimo Capodanno (tratto dal libro di Niccolò Ammaniti, n.d.r.), a fare un film che di realistico aveva ben poco, ma come sai non è andata molto bene.

F. d.A. Uno dei più grandi flop del cinema italiano! Diventato però un cult movie.

M. R. Si è creata una piccola setta di cultori. L’insuccesso clamoroso de L’ultimo Capodanno è tuttora un mistero, ma d’altra parte l’esito commerciale di un film è sempre imprevedibile. Contribuiscono tanti fattori, nessuno dei quali può essere previsto in anticipo. Sono molto legato a quel film, mi sono divertito, sia durante la stesura della sceneggiatura con Niccolò che sul set.

F. d.A. A chi lo dici… 

M. R. Facevi una bella fine! [il personaggio che interpretava Francesca veniva trafitto da un razzo scagliato da uno dei condomini del palazzo in cui era ambientato il film, n.d.r.]Quella scena era piuttosto complicata. La macchina da presa, che era stata fissata con una carrucola su dei cavi, doveva precipitare dall’alto e arrestarsi a pochi centimetri dal tuo viso… Il macchinista mi sussurrò in un orecchio: “Quanto me dai se non la fermo?”

F. d.A. Già, il solito cinismo der cinema! Delle diverse fasi creative di un film quale ti piace di più?

M. R. Al primo posto metto la fase delle riprese, poi la scrittura e infine il montaggio. Sul set c’è vita, confusione, mi piace avere gente intorno e governare la nave.

F. d.A. Al di là delle capacità professionali, cosa non può mancare a un regista?

M. R. L’energia. Se ti manca l’energia è finita. Sul set è molto importante comunicare entusiasmo e passione. Altra regola è quella di non mostrare, se mai dovesse presentarsi, la propria indecisione. La troupe deve poter contare sulla determinazione del regista, altrimenti non ti segue e vai a sbattere sugli scogli.  

F. d.A. Molti registi si sono legati professionalmente a uno specifico attore dando vita a connubi artistici indissolubili, penso a Fellini con Mastroianni, Scorsese con De Niro (e adesso con Di Caprio), Sorrentino con Tony Servillo, De Sica con la Loren e lo stesso tuo padre con Gassman. Quando questo accade penso sia una fortuna per entrambi, non credi? 

M. R. A me piace lavorare con gli attori, diciamo però che preferisco i non professionisti. Con gli attori di mestiere possono sorgere dei conflitti, soprattutto se metti in discussione la loro preparazione, e in quel caso spesso parte un tira e molla spiacevole. Gli attori sono fragili, hanno bisogno di essere accuditi. Ultimamente ho abbandonato l’utilizzo del combo per tornare a stare accanto alla macchina da presa, così da seguirli in diretta, stargli accanto, vicino. Credo sia più rassicurante per loro. Il fatto è che io so quello che voglio, ma più che altro so quello che non voglio, e quando un attore fa qualcosa che non voglio, che non mi piace, allora intervengo drasticamente, ma se propone una modifica, un suggerimento riguardo al suo personaggio che ritengo giusti, ben venga. Detto ciò, quello che dici è vero. Stabilire un forte rapporto con un attore, un’attrice, non solo favorisce il lavoro ma anche i tempi di lavorazione poiché l’intesa annulla le divergenze, ci si capisce al volo senza bisogno di spiegare, diventa tutto più fluido. Inoltre si costruisce qualcosa insieme, si va nella stessa direzione.

F. d.A. C’è un attore in particolare con cui ti piacerebbe lavorare?

M. R. Joaquin Phoenix. Non succederà mai, lo so. Lui è un grandissimo attore. Va oltre: imprevedibile, folle e pieno di talento. Sicuramente è bello lavorare con i professionisti, a me però fanno arrabbiare quelli che mettono in discussione la sceneggiatura dimenticando che su quella virgola, su quella parola, su quel punto esclamativo lo sceneggiatore ci ha passato del tempo, ne ha discusso insieme agli altri sceneggiatori prima di decidere, e quando l’attore si presenta sul set senza aver studiato la parte adducendo la scusa che “sennò viene meccanica”. Ma io ti piglio a calci in culo! Altro che meccanica!

ARTICOLO n. 41 / 2022

UN FILM SULLA GUERRA CHE SENZA LA GUERRA NON AVREI CONOSCIUTO

L’ascesa di Larisa Shepitko

Voskhozhdenie (L’Ascesa) è un film sulla guerra che senza la guerra non avrei conosciuto. Ne ho scoperta l’esistenza per due ragioni tristemente attuali: il tema del film e la nazionalità della regista.

Fino al 24 febbraio l’Ucraina, oggi centro del mondo, ci riguardava marginalmente. Era un paese distante dai nostri pensieri, dalle nostre prospettive. Quanti di noi sono stati a Kiev, a Leopoli, o nella mitica Odessa? L’Ucraina non faceva parte delle mete ideali né rientrava nel nostro immaginario, era semmai l’Italia a rappresentare un ideale per uomini, e soprattutto donne, ucraini, alcuni dei quali entrati a far parte delle nostre famiglie (nel mio caso, Olga, di Leopoli, che da oltre vent’anni è presenza costante nella mia vita). L’Ucraina esisteva attraverso i loro ricordi, i loro racconti, le loro fotografie. 

E dunque confesso che quando i miei occhi hanno deciso di soffermarsi su una soltanto fra le centinaia di immagini che quotidianamente sorvolano, non è stato tanto per la bellezza indiscutibile della fotografia in bianco e nero, quanto per la didascalia che l’accompagnava: «Immagine dal film L’Ascesa, ambientato durante la seconda guerra mondiale, diretto dalla regista ucraina Larisa Shepitko nel 1977.»

Si trattava del primo piano di un uomo disteso nella neve, il volto semi nascosto dal bavero sollevato del cappotto, gli occhi sbarrati rivolti al cielo. Era vivo? Morto? Chi era quell’uomo? E soprattutto chi era la regista di cui non conoscevo nulla?

Tempo pochi secondi e Larisa Shepitko era entrata nel mio motore di ricerca.

A impressionare è innanzitutto la sua avvenenza. È una donna davvero bellissima Larisa, il viso dai tratti spigolosi e raffinati ricorda Anouk Aimée. Gli occhi scuri, profondi, dal taglio orientale. Leggo alcune note della sua biografia: nata nel 1938 ad Artemovsk, nella regione del Donetsk (oggi nota enclave filorussa, territorio di scontri dal 2014) in Ucraina orientale. Figlia di un ufficiale persiano (ecco da dove vengono quegli occhi…) che ha presto abbandonato la famiglia per seguire l’esercito, Larisa è cresciuta insieme alla madre e ai fratelli. La guerra, subita da bambina e causa di un’infanzia infelice, sarà il tema centrale della sua vita di donna e di artista. Lo affronta sin dal primo film, Krylya (Ali), nel quale mette in scena il conflitto interiore di una pilota pluridecorata per le sue imprese durante la Seconda guerra mondiale, che una volta cessato il conflitto non riesce ad adattarsi al tempo di pace. Le sfumature della vita reale le sono aliene, spiega la regista: «La guerra rende tutto brutale, definitivo ed elementare: un nemico è un nemico, un codardo è un codardo.» L’esperienza drammatica della guerra ha trasformato inesorabilmente gli individui che mai più torneranno a essere ciò che erano prima. Nella filmografia di Shepitko (breve, ahimè, formata solo da cinque film) i personaggi devono sempre superare una prova, sia fisica sia spirituale, e affinché ciò venga onestamente rappresentato, la regista accetta di sottoporre se stessa e la sua troupe a condizioni estreme. Durante le riprese del lungometraggio Znoy (Calore), realizzato per ottenere il diploma di regista dalla prestigiosa università statale pan-russa di cinematografia VGIK (la stessa che laureò Ejzenštejn, Dovzhenko, Tarkovskij, Michalkov, alla quale si era iscritta all’età di sedici anni nonostante le fosse stato suggerito, in quanto donna e bella, di orientarsi verso la recitazione), Shepitko mette in serio pericolo la propria salute fisica. Ambientato nelle steppe arroventate del Kirghizistan, il film inscena il conflitto tra due personalità (e dunque tra due opposte civiltà): un tiranno legato al passato e un idealista proiettato verso il futuro. Le temperature sul set raggiungono i 50°, i tecnici devono “raffreddare” la macchina da presa, la pellicola si squaglia letteralmente. La regista si ammala, sviene diverse volte fino a collassare, le viene diagnosticata un’epatite. Ma non ha nessuna intenzione di fermarsi: pur di portare a termine le riprese dirige il film distesa su una barella. «Se non lavoro, muoio»: per Larisa Shepitko il lavoro di cineasta è anzitutto una missione, e in quanto tale deve essere condotta con spirito di abnegazione e sacrificio. L’Ascesa ne è l’apoteosi.

È davvero un film straordinarioLo si intuisce sin dalla prima immagine: un’inquadratura in campo lungo su una distesa di neve abbagliante che trasmette un senso di vastità, di solennità. 

Il paesaggio pare deserto, qua e là spuntano sghembi pali della luce inclinati dal vento, sembrano croci piantate nel bianco (il colore predominante del film). Ed ecco che dai cumuli di neve emerge una figura solitaria, è ripresa da lontano, la macchina da presa non si avvicina, rimane distante per tutta la sequenza. Dal nulla bianco spuntano altre sagome come burattini in un teatrino. Si guardano intorno, poi cominciano ad avanzare nella nebbia. Ora la macchina da presa si avvicina e li inquadra: è un gruppo di uomini donne e bambini. Affondano i piedi nella neve trascinando slitte, valigie, suppellettili. Per tutta la durata dei titoli di testa seguiamo la loro sfibrante avanzata. «Tedeschi!» urla una voce. Capiamo così che si tratta di gente in fuga, partigiani che cercano di mettersi al riparo dal fuoco dei nazisti. La rappresentazione del loro patimento, della fatica, del freddo è quasi insostenibile. Shepitko ci mette subito in guardia: quel che stiamo per vedere è molto più di un film; non soltanto per noi spettatori, ma anche per la troupe che lo ha realizzato. Il freddo, la neve, la fatica: è tutto vero. Davanti e dietro la macchina da presa si soffre allo stesso modo, la temperatura scende a -40° gradi, e per buona parte del film le riprese si svolgono in esterno. Anche in questo caso Larisa sottopone il suo corpo a prove difficilissime, e di nuovo la sua salute ne risente. Lo spirito sacrificale che contraddistingue le opere di Shepitko, nel L’Ascesa, si acutizza. Larisa sembra aver introiettato come un dogma imprescindibile la lezione del suo mentore Aleksandr Dovzhenko, il grande cineasta ucraino, che alla scuola di cinematografia le aveva detto: «Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo». Un monito che ha il sapore della profezia. 

L’Ascesa è stato concepito durante un periodo molto doloroso: una lesione alla colonna vertebrale, a seguito di una caduta, costringe Larisa Shepitko a sette mesi di immobilità in un letto di ospedale. Durante la convalescenza, «un lungo viaggio dentro me stessa», la trentacinquenne cineasta legge molto, soprattutto Dostoevskij, poi si imbatte in un romanzo di Vasil Bykau, intitolato Sotnikov e decide che quello sarà il suo «testamento artistico». Il suo prossimo film deve «appartenerle totalmente», e non subire dunque l’influenza di nessuno, come era accaduto in passato. La censura politica è una costante minaccia per i cineasti sovietici, i due film precedenti hanno dovuto subire tagli e interventi.  

L’incidente le lascia addosso un senso di morte insieme alla terribile consapevolezza, malgrado la giovane età, di una fine imminente. Si dedica meticolosamente alla sceneggiatura e sebbene non abbia ancora recuperato le forze necessarie, non si risparmia durante l’impegnativa realizzazione del film. L’afflato religioso che ammanta L’Ascesa è tangibile. A cominciare dal titolo, che allude alla Passione di Cristo. La vicenda che unisce i due protagonisti Sotnikov e Rybak, il loro rapporto, le prove che sono chiamati a superare, i dialoghi, richiamano la parabola cristiana.

Sotnikov, uomo schivo, di poche parole, è un insegnante di matematica. Tossisce spesso, respira male. L’altro, Rybac, è un chiacchierone, energico e ottimista. I due sono stati mandati a cercare del cibo: i loro compagni, braccati dai nazisti, sono rimasti bloccati nella neve. Comincia così la loro peregrinazione in un paesaggio ostile e desolato, attraverso villaggi depredati e fattorie distrutte. Intercettati dai tedeschi riescono a mettersi in fuga, ma Sotnikov viene colpito a una gamba e resta indietro. La solitudine dell’uomo, ferito e accasciato nella neve, le grida minacciose dei tedeschi in lontananza, la decisone di uccidersi pur di non cedere al nemico, il primo piano di Sotnikov, che mentre sta per premere il grilletto verso se stesso osserva il cielo, il globo solare offuscato dalla foschia, ed esita quel tanto che basta al compagno per tornare a soccorrerlo, sono descritti attraverso un utilizzo  magistrale delle  inquadrature, dei primi piani e della musica (la colonna sonora è di Alfred Schnittke). Da questo momento in poi, il film cambia registro e vira verso una messa in scena dell’esperienza cristologica. La sofferenza di Sotnikov, incarnata da un attore formidabile, Boris Plotnikov (qui al suo debutto), diventa metafora del martirio. 

Quando i due uomini saranno catturati dai tedeschi le loro personalità si rivelano: se Sotnikov dimostra lealtà, integrità morale e altissimo spirito di sacrificio, Rybak svela la propria debolezza, il desiderio di sopravvivere a ogni costo. Il primo resiste alle torture e rifiuta di collaborare, l’altro cede al nemico in cambio della salvezza. «Ci sono cose più importanti della propria pelle» dice Sotnikov dopo essere stato marchiato a fuoco sulla carne viva. Non vorrei raccontare il finale che per quanto prevedibile nel suo esito si rivela imprevedibile nella mise en scène. Shepitko, reduce dall’aver visto «la morte molto da vicino» restituisce questa prossimità, ne evoca la forza spirituale, il potere purificatorio. Le sequenze finali del film sono straordinarie, chi di voi lo vedrà (me lo auguro) difficilmente dimenticherà la forza di certe immagini (una su tutte: lo scambio di sguardi fra un bambino e Sotnikov, più eloquente di qualsivoglia dialogo). Difficilmente dimenticherà i primi piani, le inquadrature asimmetriche, il sonoro, i paesaggi, la fotografia in bianco e nero, i simbolismi di questo capolavoro del cinema sovietico. 

«Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo»

Due anni dopo l’uscita de L’Ascesa (che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 1977), Larisa è pronta per un nuovo film. Si è aggiudicata i diritti del romanzo Addio a Matyora di Valentin Rasputin, che inizialmente si era opposto a una riduzione cinematografica del libro. «Dopo averla conosciuta, non ho potuto dirle di no» dichiarerà lo scrittore, «era così appassionata, così convincente, così sorprendentemente seria…». La toccante storia di una piccola comunità costretta ad abbandonare il proprio villaggio per consentire la costruzione di una diga idroelettrica accende l’entusiasmo di Larisa, sarà quello il film della consacrazione. È tutto pronto, mancano solo gli ultimi sopralluoghi per le location. Insieme ai suoi più stretti collaboratori, parte in automobile per San Pietroburgo. Non arriveranno mai. Un incidente metterà fine al loro viaggio e alla loro esistenza. All’apice della sua carriera e della sua vita, Larisa Shepitko se ne va, a soli quarant’anni.

Le riprese del film saranno portate a termine dal marito di Larisa, Elem Klimov, regista, sul quale sarebbe giusto inaugurare un altro capitolo, cominciando magari dal suo nome, acronimo di Engels, Lenin e Marx. Non mi dilungherò su di lui salvo citare due suoi film: Va’ e vedi, del 1985, forse l’opera più allucinata, devastante e potente mai realizzata sulla guerra e le sue conseguenze, e Larisa, una struggente dichiarazione d’amore alla moglie scomparsa.

PS: vi invito a cercare (e vedere) i film di Larisa Shepitko. Su YouTube esiste una versione de L’Ascesa con una qualità sorprendentemente buona…

ARTICOLO n. 7 / 2022

OLTRE LE SBARRE

per me si va tra la perduta gente.
DANTE, Inferno, Canto III

È cominciato tutto da una dimenticanza.

Ero in partenza per un viaggio. In aeroporto mi accorgo di aver lasciato a casa il libro da leggere nella lunga trasferta, così, superato il check-in, mi infilo nell’edicola/libreria del terminal in cerca di una sostituzione. Passando in rassegna riviste e best seller, inciampo su un volume, fatto cadere inavvertitamente da qualcuno. Sulla copertina, l’immagine di una mano che simula il profilo di una pistola, con il pollice sollevato e l’indice e il medio puntati in avanti. Il titolo: A mano armata. Sottotitolo: Vita violenta di Giusva Fioravanti

Dò un’occhiata alla quarta di copertina: «Noi siamo sopravvissuti per caso, le pallottole ci hanno risparmiato. Volevamo dimostrare che il mondo non appartiene solo ai grandi, che non ci può essere qualcuno che decide sempre per te. Abbiamo fatto un macello per questo. E alla fine, sia gli amici sia le vittime sono morti inutilmente…». 

Decido che quel libro partirà insieme a me.

Della vita violenta di Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, conoscevo ciò che riferiva la cronaca all’epoca dei fatti che avevano insanguinato il nostro paese per oltre un decennio. Un periodo storico che avevo vissuto, adolescente, con un sentimento ambivalente di paura ed eccitazione, attrazione e repulsione. Ero troppo giovane per afferrare il significato delle varie sigle e acronimi che rivendicavano, a turno, le azioni politiche, gli attentati, le rapine, gli atti dimostrativi. Cosa volessero dimostrare, appunto, mi sfuggiva, ma una cosa è certa: la mia giovinezza romana sarebbe stata segnata dalla febbre di quegli anni, poiché nulla di così incredibile era mai accaduto prima. 

Fioravanti apparteneva all’oscura galassia del terrorismo nero, del quale poco si parlava e meno ancora si capiva: ma probabilmente il suo nome, nella mia memoria, si sarebbe confuso insieme a quello di tanti altri, se il suo volto di bambino, di bravo bambino, non fosse apparso, per contrasto, accanto alle foto segnaletiche del giovane 

uomo cattivo che era diventato. Il piccolo Giusva, protagonista de La Famiglia Benvenuti, popolare sceneggiato televisivo degli anni ’60, divenuto un criminale di spicco della destra eversiva, suscitava l’interesse della stampa che aveva trovato il soggetto ideale per opinioni e considerazioni di ogni genere.

Col tempo, e con la distanza necessaria per una riflessione, ho cominciato ad approfondire la conoscenza di quel periodo ormai tramontato, volevo capire cosa avesse spinto dei giovani verso una deriva così spietata e autolesionista. Quel libro caduto ai miei piedi è stato per me l’inizio di un lungo percorso.

Rientrata a Roma, avevo un solo obiettivo: acquistare i diritti di A mano armata e scriverne una sceneggiatura. La storia raccontata da Giovanni Bianconi conteneva un’infinità di elementi drammaturgici interessanti: l’infanzia borghese, il successo nel cinema, l’insofferenza verso l’autorità, gli studi in America, il senso di protezione nei confronti del fratello minore (preludio di un viaggio senza ritorno), la storia d’amore con Francesca Mambro, la morte degli amici, la morte dei nemici, la latitanza, l’arresto, il carcere. Il personaggio Giusva Fioravanti, anomalo rispetto ai terroristi della sua frangia politica e così diverso per generazione ed educazione dei combattenti di sinistra, poteva essere raccontato in un film, malgrado le inevitabili difficoltà e i rischi legati alla rappresentazione di vicende reali così dolorose. Questo credevo, e questo hanno creduto anche Giovanni Bianconi e Sandro Veronesi con i quali scrivemmo la sceneggiatura, e Marco Risi, mio marito, che avrebbe diretto il film.

La stesura della sceneggiatura è stata lunga e sofferta. Avevamo a che fare con un materiale incandescente, si trattava di risollevare il velo su fatti e misfatti che bruciavano e bruciano tuttora, sentivamo il peso e la responsabilità di raccontare eventi realmente accaduti cercando di aggirare le infinite trappole seminate dal confronto, talvolta impari, fra l’onestà intellettuale e le esigenze artistiche. Avevo raccolto una quantità enorme di materiali: fotografie, articoli di giornali, testimonianze dei familiari delle vittime, sopralluoghi nei quartieri in cui si erano svolti i fatti, processi ancora in corso… Ero stata travolta dalle ricerche, e più andavo avanti più volevo andare a fondo senza accorgermi che stavo girando a vuoto. I miei compagni di lavoro se ne resero conto molto prima di me: il film su cui ci stavamo lambiccando da mesi non si sarebbe mai fatto. I produttori traccheggiavano, e non per una questione di soldi. «I tempi non sono ancora maturi» è la frase che ho sentito ripetere più volte, e forse era davvero troppo presto: il processo per la strage di Bologna, avvenuta quindici anni prima, era ancora in corso, e da quella tragedia, per la quale non era ancora stata emessa una sentenza definitiva, il nostro racconto non poteva prescindere. E dunque, come spesso accade a chi lavora nel cinema, la sceneggiatura fu messa in un cassetto, con l’amara consapevolezza che lì sarebbe rimasta. Con saggezza i miei compagni passarono ad altri progetti, e lo stesso feci anch’io. Partii per la Turchia per le riprese di un film a me molto caro, Il Bagno turco, opera prima di Ferzan Ozpetek, ma nonostante il coinvolgimento e l’entusiasmo, non riuscivo a non pensare all’altro film, a quello che non si sarebbe fatto (infelice chi non gode di ciò che possiede e rimpiange quel che non ha…). Il tarlo scavava nella mia mente, e così, un giorno, decisi di scrivere una lettera. 

Destinatario: Giuseppe Valerio Fioravanti. 

Indirizzo: Via Raffaele Majetti 70, Carcere Circondariale di Rebibbia. 

«Mi chiamo Francesca d’Aloja, sono un’attrice. Ho passato un anno a documentarmi sulla tua vita. So molte cose di te, e tu non sai niente di me. Mi sembrava giusto dirti chi sono e informarti che il progetto del film tratto dal libro di Giovanni Bianconi A mano armata si è arenato. Il film non si farà…»

Aggiunsi alcune note biografiche, raccontai qualche dettaglio sulla sceneggiatura (esitai a lungo sul confidenziale «tu», ma l’azzardo di scrivergli una lettera era talmente sfacciato che usare il «lei» mi sembrò ipocrita), e spedii la lettera, dando per scontato che mai avrei ricevuto risposta, ma a me bastava. Era il punto finale che andavo cercando.

Fu solo l’inizio.

Arrivò la risposta pochi giorni dopo:

«So benissimo chi sei. Ricordo di averti vista passare, vestita di nero, in un’aula bunker durante uno dei miei tanti processi. Hai i capelli lunghi. Sei alta e magra. Mi conforta sapere che il film non si farà, e se ne hai voglia posso spiegarti perché. Sai dove trovarmi, basta chiedere un permesso…»

La lettera era molto più lunga, ma queste sono le frasi che ho letto e riletto più volte. Sai dove trovarmi… Basta chiedere un permesso…

Prima di allora immaginavo fosse difficile entrare in un carcere. Perché mai – mi chiedevo – dovrebbero concedermi il permesso di incontrare un pluriergastolano senza avere nessuna parentela o titolo professionale che ne giustifichi la richiesta? Oggi risponderei che quando circostanze apparentemente difficili si rivelano praticabili, o viceversa, quando ciò che appare semplice diventa insormontabile, il significato è uno solo: è il momento giusto, oppure non lo è. Quel luogo ostile e lontano da tutto ciò che aveva fatto parte della mia vita, mi stava aspettando. E quello strano appuntamento non era altro che il mezzo per entrarci.

Fui accolta dal direttore del carcere, Maurizio Barbera. Gentile, disponibile, loquace, non corrispondeva a nessun immaginario cinematografico (è naturale e quasi inevitabile l’associazione mondo carcerario/cinema, l’unica a nostra disposizione, almeno fino a quando i cancelli blindati non si aprono davvero, come accadde a me quel giorno). Mi scortò per un lungo percorso fatto di corridoi rivestiti di linoleum, cancelli aperti e subito richiusi, saluti frettolosi con il personale e descrizioni minuziose dei luoghi che via via attraversavamo: la biblioteca, la palestra, le cucine, l’area verde…  Ero curiosa, sfacciata. Approfittavo della disponibilità del direttore incalzandolo di domande alle quali rispondeva senza indugi, forse anche lui grato dell’occasione. All’epoca non erano frequenti visite non ufficiali, se non per scontare una pena, in carcere ci si va per svolgere un lavoro, ottemperare un impegno, altrimenti lo si evita. 

Senza arte né parte, mi aggiravo nei meandri della prigione ringraziando la sorte (e la mia sfrontatezza) per l’opportunità che mi veniva concessa. Ricordo ancora oggi lo stato d’animo che accompagnava i miei passi: mi sentivo a mio agio, incredibilmente a mio agio. 

Entrammo in una piccola stanza arredata con un tavolino in formica e due seggiole: «Può attendere qui, Fioravanti la raggiungerà al più presto.»

E il direttore se ne andò.

La prima cosa che mi colpì fu il suo abbigliamento. Camicia pulita e pantaloni di buona fattura. Niente a che vedere con quella che mi era sembrata la divisa di ordinanza di quasi tutti i detenuti intravisti durante quell’oretta di visita: tuta acrilica o felpe fuorimisura. E un nuovo cliché prodotto dal mio immaginario veniva smentito dalla realtà: nella mia mente un ergastolano, con diciassette anni di detenzione alle spalle, si sarebbe dovuto presentare con la barba lunga e i vestiti casuali di chi ha da tempo abbandonato l’idea del decoro mondano. E invece era vestito come ci si veste fuori. La faccia era la stessa del ragazzino di tanti anni prima, forse per via di quei lineamenti affilati, zigomi alti, mascelle pronunciate, naso sottile, che il tempo non aveva intaccato. Ci stringemmo la mano, mi rivolse un sorriso, ricambiai.

Mi sentivo a disagio?

Meno di quanto avrei immaginato. E questo mi mise a disagio.

Parlammo a lungo. Di tantissime cose. Roma, la nostra città, era il centro della conversazione, e ancora mi stupii della sua totale mancanza di toni nostalgici nell’evocare luoghi conosciuti: piazze, strade, cinema, negozi o gelaterie. La sensazione che avevo provato durante i lunghi mesi di immersione nelle vicende che lo riguardavano, e che un’intima censura desiderava fosse smentita, fu invece avvalorata: quel giovane uomo, che citava titoli di film che avevo amato, gruppi musicali che avevano segnato la mia adolescenza, autori per me fondamentali (Camus su tutti), fino a un certo punto della sua esistenza sarebbe potuto diventare mio amico. Quel certo punto, il punto di non ritorno, quello che avrebbe interrotto definitivamente la nostra possibile amicizia, rappresentava il cardine del mio interesse. La domanda sul perché una persona, cresciuta in contesti simili ai miei (educazione borghese, buone scuole, addirittura la stessa piscina del Foro Italico, come allievi, in anni diversi, del corso di tuffi condotto da Klaus Di Biasi…), in apparenza nessun motivo valido di ribellione, decida improvvisamente di distruggere ogni cosa, arrivando al punto di uccidere e farsi uccidere, era per me centrale. La politica non c’entrava nulla, a me interessava altro. 

Rincasai frastornata, ma nella confusione dei pensieri si insinuava il desiderio, sempre più urgente, di tornare. Il carcere era un luogo che volevo, dovevo, conoscere. Ancora non sapevo quanto sarebbe stato importante farlo.

Giorni dopo ricevetti una lettera di Fioravanti. Calligrafia rotonda, femminile. Si diceva contento di avermi incontrata. Nelle poche frasi si percepiva, tuttavia, un sottile stupore riguardo alla mia curiosità di conoscere il luogo in cui era costretto a vivere.

(Lo stesso stupore mi par di cogliere in alcuni di voi… Non riguarda il luogo, ma la persona che in quel luogo viveva. Vi starete chiedendo, non dite di no, quali oscure manovre della mia mente mi abbiano condotto verso «quella» persona e perché mai il giudizio, il sacrosanto giudizio, non abbia prevalso. Vi rispondo che è forse l’aver sospeso tale giudizio ad avermi aperto le porte del carcere. È la regola fondamentale seguita da chiunque voglia varcare quei cancelli con la fedina penale pulita. Insufficiente come risposta? Può darsi. E in questo caso, il giudizio lo lascio a voi che leggete.)

A quella lettera fece seguito una lunga, fitta corrispondenza. Dai molti argomenti affrontati emergeva una personalità poliedrica, molto distante dal profilo medio dei simpatizzanti di destra che proliferavano nel mio quartiere (i Parioli), verso i quali nutrivo un’avversione furiosa. Mi chiedevo se tale distanza fosse stata generata dalla lunga detenzione, se la capacità di analisi e riflessione, così evidente nei suoi scritti, e praticamente assente nella stragrande maggioranza dei «fasci» che avevo incrociato, fosse il frutto di una crescita esistenziale maturata fra le quattro mura di una cella. Tuttavia, dalla storia della sua vita, così ben raccontata da Giovanni Bianconi, affiorava un carattere solitario e introspettivo che avrebbe lasciato presagire un futuro ben diverso. L’intelligenza mal riposta è stato il primo dei delitti di Valerio Fioravanti. Glielo feci notare, anni dopo, in nome di quel «perché?» che continuava a pungolarmi. «Sono tante le risposte – mi disse – potrei imputare le mie scelte alla città in cui vivevo, al momento storico, alla scuola che frequentavo, a mio padre, mio fratello, agli amici che mi ero scelto, ma sarei disonesto se non considerassi una personale vocazione al male, farina esclusiva del mio sacco.»

Quando manifestai il mio desiderio di conoscere il carcere, lui commentò con un sarcastico «Allora sei più stramba di me». Non ricordo se ritenni necessario fornirgli le mie motivazioni, forse perché allora non mi erano così chiare come lo sono adesso, con tanti anni di distanza. Da ragazza insoddisfatta degli ambienti nei quali ero cresciuta, avevo bisogno di sconfinare in territori sconosciuti. Distanti da me. Un carcere maschile era quanto di più lontano potessi immaginare. (Ma forse, e lo dico col beneficio del dubbio, ciò che aveva spinto i miei passi all’interno di quel luogo era l’impareggiabile opportunità di fiancheggiare il male stando dalla parte del bene, di respirarne lo zolfo ben protetta dal mio statuto di persona onesta. E poi, onesta? Chi può davvero ritenersi tale fino in fondo? Mettermi alla prova significava concedermi la possibilità di scardinare le mie certezze, dubitare delle mie convinzioni. Sono stata ingenua, lo confesso, e anche alquanto presuntuosa. Credere di sconfinare mettendosi accanto a persone che avevano sconfinato sul serio era una forma di presunzione. Ero giovane allora, ma non così giovane…)

Ottenere il permesso per un incontro occasionale si rivelò relativamente semplice, ma come avrei fatto a garantirmi un accesso regolare? Mi fu d’aiuto Pablo Echaurren, che conoscevo solo come autore della famosa copertina di Porci con le ali. Pablo aveva creato dei laboratori di pittura all’interno del carcere, e grazie a lui ottenni un colloquio con l’allora responsabile del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Michele Coiro, persona preziosa senza la quale non avrei potuto ottenere nulla. Gli chiesi un permesso temporaneo con il patto che se entro tre mesi non avessi portato un progetto concreto sarebbe stato revocato. Si fidò di me, non so perché.

(Parentesi fondamentale: nell’attesa di ricevere il lasciapassare, le maglie del destino imbastivano una nuova trama. Sandro, Sandro Veronesi, l’amico che più di altri avrebbe avuto a che fare con le incognite della mia vita, mi disse che avrei dovuto conoscere Edoardo Albinati: «Insegna in carcere da alcuni anni, potrebbe esserti d’aiuto». E fu così che a una cena organizzata dal mio migliore amico per agevolare la mia nuova avventura, incontrai l’uomo cardine del mio futuro. Non lo sapevo ancora, nessuno di noi lo sapeva. Eravamo felicemente partecipi di altre vite.)

Trascorsi alcuni giorni, mi ritrovai fra le mani il tesserino plastificato «Art.17», che mi consentiva di muovermi nella quasi totale libertà all’interno dei reparti. E così cominciò il mio viaggio.

Per diversi mesi sono entrata a Rebibbia ogni giorno, esclusi alcuni fine settimana. Ci arrivavo al mattino e me ne andavo al tramonto.

Cosa facevo?

Si può dire che trascorrevo il mio tempo parlando, ma soprattutto, ascoltando. 

Superata l’iniziale diffidenza nei miei confronti (che vuole questa qui…?), i detenuti mi raccontavano le loro storie, e via via che accumulavo aneddoti e confidenze si materializzava l’idea di raccoglierle in un film. 

Insieme a Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti, la nostra guida all’interno di un luogo pieno di trappole e insidie che nella mia ingenuità talvolta non coglievo, abbiamo speso ore e ore a trascrivere o a registrare le voci dei reclusi. Ho imparato ben presto che dispensare saluti e sorrisi lì dentro aveva un altro significato, mostrare interesse nei confronti di qualcuno poteva generare invidie e gelosie, dimenticare, anche per un solo istante, la realtà del luogo in cui mi trovavo era imprudente. Non ho mai voluto sapere per quali reati erano stati incarcerati. È stata un’esperienza faticosa e difficile, eppure non dimenticherò mai la sensazione di appagamento che mi portavo a casa la sera e il desiderio di farvi ritorno l’indomani.

L’impegno preso con Michele Coiro venne onorato, allo scadere del terzo mese avevo un progetto: girare un film su e con i detenuti. Miei co-autori, Fioravanti ed Echaurren. Avremmo messo in scena la quotidianità, la routine ripetitiva e insensata di un gruppo di reclusi, selezionati durante quei mesi di colloqui. Titolo: Piccoli Ergastoli.

Riunii una piccola troupe di collaboratori e cominciarono le riprese. Si trattava della mia prima prova di regia, affrontata senza ponderare fino in fondo la difficoltà dell’impresa: una volta chiusi i cancelli alle mie spalle, non avrei potuto contare sull’aiuto di nessuno, non potevo telefonare né ricevere assistenza dall’esterno. Dovevamo cavarcela da soli, adattando le nostre esigenze alle ristrettezze del luogo. Inoltre, non consideravo il rischio di lavorare con persone il cui unico legame era basato sulla reciproca fiducia e la cui disponibilità poteva essere messa in discussione a ogni istante. Non erano professionisti che avevano stipulato un contratto, non percepivano un compenso (vietato dalla legge), non avevano dunque nessun obbligo. È capitato più di una volta che uno degli «attori» non se la sentisse di girare perché reduce da un turbolento colloquio con l’avvocato, o con la moglie, o che, nottetempo, fosse stato trasferito altrove. In quei casi dovevamo improvvisare una nuova situazione (rimpiangerò sempre di non aver potuto riprendere Drago, zingaro con una faccia impareggiabile, sempre vestito di nero, che mi accolse nella sua cella per raccontarmi la sua storia, e mentre parlava, le mani scivolavano languidamente sulle decine di fotografie di donne nude attaccate alle sue spalle…). L’indisponibilità di Drago offrì una nuova occasione al mio destino. Dovendo tamponare il buco, mi venne in mente che Edoardo Albinati stava svolgendo il suo lavoro di insegnante nel reparto accanto. Perché non riprendere una lezione? Bussammo alla porta della sua classe. Nello sguardo, l’ennesimo, eloquente: «che vuole questa?». Chiedemmo gentilmente il permesso di riprendere una tranche di lezione, e lui e i suoi studenti gentilmente acconsentirono…

Malgrado gli imprevisti e le difficoltà portammo a termine le riprese.

Il film, preceduto da critiche e commenti di ogni genere, fu presentato al Festival di Venezia. La conferenza stampa si rivelò come una delle prove più difficili. Il nome di Valerio Fioravanti, presente nei titoli, scatenò la reazione dei familiari delle vittime e non fu affatto semplice sostenere le ragioni di un lavoro nato come un esperimento che offriva ai carcerati la possibilità di raccontarsi, dunque di esistere. Non era mai accaduto prima. Ci fu d’aiuto il direttore del carcere, Barbera, insieme a noi a Venezia, ma il fatto che Fioravanti non apparisse nel film (il titolo stesso ne avrebbe escluso la presenza…) non fu sufficiente a placare gli animi. Inutile dire che di Piccoli Ergastoli si parlò più di quanto avrebbe meritato, si trattava in fondo di un piccolo film, realizzato con pochissimi mezzi. Un’opera prima sincera, sì, ma sgangherata e approssimativa che certo non ambiva a palcoscenici internazionali. Divenne un caso nostro malgrado, tanto che la Rai lo mandò in onda in contemporanea con una proiezione all’interno di Rebibbia cui fece seguito un dibattito al quale parteciparono detenuti, giornalisti e rappresentanti dello Stato. In diretta. Mi tremavano le gambe.

Spenti, come si dice, i riflettori, avrei potuto considerare conclusa la mia immersione carceraria. Non fu così. Decisi di continuare. Da sola, questa volta. Senza collaboratori, senza nessuno. Chiesi il rinnovo del permesso e restai, come volontaria, per altri due anni. Non osavo confessare ai reclusi che mi piaceva stare lì. È facile, se sai di poterne uscire, avrebbero commentato. 

Entrare in un luogo in cui tutto era diverso, gli equilibri e la sostanza, l’importanza di un oggetto, la sospensione del tempo, il significato delle parole, degli sguardi, di un raggio di sole, di una promessa non mantenuta, l’assurdità delle regole, il rumore costante, gli odori: tutto questo rendeva anche me prigioniera.

E poi volevo spingermi oltre. Tornare da sola era tutta un’altra faccenda. Pensavo di sapermi muovere dopo mesi di frequentazione. Era un luogo che conoscevo, l’avevo percorso in lungo e in largo tante volte… Di nuovo ingenua e presuntuosa. Ho fatto una montagna di errori, perlomeno all’inizio. Poi forse ho imparato. Ecco, se c’è una cosa che ho imparato frequentando un carcere è l’importanza, l’importanza fondamentale dell’equilibrio. Tutto è in bilico. Lo è fuori, sempre, figuriamoci dentro. Attenzione ai toni, agli sguardi, alle confidenze, ai passi falsi, alle false gentilezze, ai pregiudizi (presenti anche quando credi di esserne immune), all’illudersi di essere al sicuro, al ritenersi superiori. Attenzione alla cattiveria ma anche alla bontà.

Chi, all’esterno, era a conoscenza del mio viaggio fra la perduta gente, manifestava stupore e insieme ammirazione per un impegno giudicato difficile da perseguire: «che brava che sei… che coraggio…». Così vengono spesso considerate le persone che prestano servizio in un carcere, varcare quei cancelli volontariamente può apparire un gesto eroico, e talvolta tali attestati sono ben riposti. Ma io, onestamente, non li meritavo. Non era l’altruismo a spingermi là dentro. Non era per loro che andavo. Lo facevo per me. Ne avevo bisogno. Volevo spingermi in un altrove, forse perché nello sconfinare si trovano le chiavi per conoscersi, per capire un po’ meglio se stessi. Io, di me, non ho mai capito nulla. E però, da ciascun uomo conosciuto in prigione e in ciascuno dei giorni lì trascorsi, ho imparato qualcosa (sono passati più di vent’anni da allora, eppure, ancora oggi, considero quell’esperienza una delle più importanti della mia vita). Tre anni straordinari, stranissimi, irripetibili, che si conclusero un giorno ben preciso.

Mi trovavo a passeggiare insieme ai detenuti nel cortile, durante l’ora d’aria. E a un certo punto, da un altoparlante sentii distintamente una voce scandire il mio nome: «DALOIA, al colloquio!»

Se l’avessi visto scritto, sarebbe stato diverso. Ma sul momento, pensai che l’ordine fosse rivolto a me e non a un detenuto il cui cognome si pronunciava come il mio. Ed ebbi paura. Pensai di essere entrata nell’ingranaggio, e che mai più ne sarei uscita.

Non avevo mai avuto paura, entrando e uscendo dalle celle, transitando nei vari reparti, andando su e giù per il cortile. E avevo sbagliato. 

Quella voce, per quanto suonasse surreale, mi riportava alla realtà. Mi ricordava che io, lì dentro, ero solo di passaggio.

ARTICOLO n. 54 / 2021

LA SCATOLA

«Il signor Landolfi? Lorenzo Landolfi?…»
«Sono io, con chi parlo?»
«Commissariato di zona.»

Era una mattina lattiginosa e pesante, la cappa di calore che opprimeva da giorni la città non mollava la presa, come un serpente che soffoca piano piano la sua preda. Mi sentivo spossato e con i riflessi rallentati, dovetti chiedere alla voce nella cornetta di ripetere una seconda volta la frase asciutta e lapidaria che non lasciava dubbi alla sua interpretazione: «Dovrebbe recarsi nel nostro ufficio». Malgrado la perentorietà della richiesta, il tono era gentile e ciò fu sufficiente a stemperare lo stato di allerta che sentivo crescermi dentro. Provai a richiedere maggiori informazioni ma il funzionario replicò che si trattava di «una faccenda delicata» e che sarebbe stato meglio parlarne a voce, infine mi ricordò l’indirizzo del commissariato sottolineando che si trovava «a due passi dalla sua abitazione», il che significava: non perdiamo tempo al telefono, venga qui e saprà di cosa si tratta.

Nel breve tratto di strada che conduceva alla mia destinazione provavo a elencare i possibili motivi della convocazione. L’ultima volta che mi ero presentato in commissariato era stato per denunciare il furto dell’ennesimo motorino, l’avevano forse ritrovato? Scartai subito l’ipotesi, non solo perché erano già trascorsi due anni e ritenevo pressoché impossibile l’eventualità di un ritrovamento, ma perché definire «faccenda delicata» il recupero di un motorino suonava inappropriato oltre che ridicolo. Ero incuriosito e infastidito in eguale misura, diviso fra la certezza di avere la coscienza a posto e l’inconscia possibilità di non averla affatto.

Per misteriose ragioni l’ufficio era privo di aria condizionata e i due ventilatori impolverati piazzati all’interno risultavano inspiegabilmente spenti, sicché la temperatura raggiungeva picchi incommensurabili. Non era cambiato nulla dall’ultima volta, l’odore stantio, le pareti sudicie e le voci che rimbombavano da una stanza all’altra. Rimasi in attesa qualche minuto, poi l’usciere mi disse di salire al primo piano, «stanza 5, ufficio armi».

Ufficio armi?

Bussai alla porta socchiusa. L’uomo seduto alla scrivania fece cenno di entrare senza distogliere lo sguardo dal computer acceso che riverberava una luce bluastra sul suo volto. Diede un ultimo colpetto sulla tastiera e finalmente mi rivolse la parola. Riconobbi la voce che mi aveva parlato al telefono.

«Dunque, signor Landolfi» cominciò, come dando seguito a un discorso da poco interrotto, mentre con la mano frugava i fascicoli accatastati. «Il dottor Carlo Landolfi è suo padre, giusto?»

«Sì, certo…»

«Ecco. Ci risulta che suo padre possiede…» e qui prese a leggere: «una pistola semiautomatica Beretta, modello 31 calibro 7,65 con relativi proiettili…»

Lo interruppi esibendo un sorriso forzato: «Ci deve essere un errore, mio padre ha quasi novant’anni e sinceramente non credo…». Mi interruppe a sua volta: «È proprio questo il punto. La pistola è stata regolarmente denunciata dal signor Carlo Landolfi, suo padre, nel 1976, non si tratta dunque di detenzione illegale. Ora però il denunciante ha ottantanove anni e a questa età non è più consentito detenere armi nel proprio domicilio. Dobbiamo recuperarla il prima possibile.» Il tono si era fatto sbrigativo, il fascicolo «Landolfi» rappresentava solo una delle mille pratiche da sbrigare. Quello che c’era da dire era stato detto, ora la rogna passava a me. «Ci parli, gli spieghi la situazione e poi si metta in contatto con noi.» Accompagnò l’ultima frase con la mano tesa in segno di congedo. Avevo le mani sudate, ma le sue lo erano ancora di più.

Carlo Landolfi, classe 1929. L’uomo più mite che abbia mai conosciuto. Non l’ho mai sentito alzare la voce e men che meno le mani su noi fratelli, non ricordo una litigata degna di questo nome con mia madre, o un amico, un collega. Se dovessi associare mio padre a un’immagine mi viene in mente un laghetto di montagna, limpido, placido, immobile. Non riuscivo a trovare un motivo plausibile che giustificasse il possesso di una pistola. Mai stato cacciatore papà, ha sempre odiato la violenza e tutto ciò che la rappresenta. Per anni ha votato repubblicano evitando schieramenti e polemiche, si è visto surclassare da colleghi più scaltri senza mai provare risentimento, accontentandosi di una carriera lenta ma sicura alla Corte dei Conti che gli ha garantito stima, rispetto e una dignitosissima pensione: che diavolo ci faceva con quella pistola, e perché non ci ha mai detto niente? Aveva forse a che fare con il suo lavoro? Con il suo passato? L’ipotesi difesa personale (rapinatori/ladri) non l’ho presa in considerazione neanche per un secondo.

Decisi di andare a casa sua, la casa dove eravamo nati e cresciuti e che ora divideva con mia madre, che invece avrebbe voluto vivere altrove. «Troppo grande e troppo vuota» diceva sempre.

Stava seduto sulla sua poltrona, la stessa di sempre, con un plaid sulle gambe rinsecchite malgrado il caldo e lo sguardo rassegnato di chi sa che la sua unica, vera occupazione, consiste nell’attesa. Non è mai stato un tipo loquace mio padre, mai sprecato una parola. Un atteggiamento che ha trasmesso a noi figli e al quale nostra madre si è pervicacemente sottratta, lei ama parlare povera donna, quante volte l’ho sentita farlo da sola, tanto per assecondare la smania insoddisfatta di un interlocutore. Tempo fa le ho regalato una radio e da allora non è mai successo che entrando in casa la trovassi spenta. Passa il tempo così, e non se ne lamenta. Quel giorno le note del «Concerto del mattino», il suo programma preferito, aleggiavano per le stanze vuote insieme al profumo di un caffè da poco consumato.

«Ciao papà» dissi, sfiorandogli la testa con un bacio.

«Lollino…» (non ha mai smesso di chiamarmi così) «qual buon vento?».

Ero passato a trovarlo alcuni giorni prima e ogni volta mi accoglieva come fossero trascorsi dei mesi. Inforcò gli occhiali per guardarmi meglio, lasciando che la realtà degli affetti lo riportasse nel presente. Da tempo viveva in un mondo distante fatto di pensieri e forse di ricordi, e pur essendo ancora lucido e padrone di sé, non si interessava degli accadimenti mondani, ciò che avveniva fuori dalla sua stanza non aveva importanza, non l’aveva più. Mi capitava a volte di provare invidia per la condizione esistenziale nella quale si era rifugiato, considerando che gran parte degli affanni altro non sono che logorio, inutile consumo di energia. Forse il distacco è la vera intelligenza.

«Hai qualcosa da dirmi?» come avesse intuito che la mia presenza non era casuale.

Gli raccontai della telefonata e di ciò che ne era seguito. Ascoltava in silenzio, senza fare domande. Sembrava sereno, non manifestava alcun stupore. Fui io a stupirmi della sua reazione quando gli dissi che avrei contattato il funzionario per comunicargli l’assenso alla consegna dell’arma. Non so davvero perché lo ritenessi scontato.

«È fuori discussione. La pistola non si tocca.»

Esibì un tono perentorio che non ricordo avergli mai sentito, e addirittura la voce, la sua voce, pareva artefatta, come fosse incisa su un nastro. Provai a farlo ragionare, gli dissi che non poteva tenere in casa una pistola, era pericoloso. Mi guardava come fossi un estraneo, e continuava a fare no con la testa. Più insistevo più aumentava la sua insofferenza, cominciò ad agitarsi sulla poltrona, poi, per mettere fine alla discussione sussurrò: «Sono stanco, finiamola qui. Riferisci pure al tuo commissario che la pistola resta a casa.»

«Ma perché? Che cos’ha ’sta pistola di tanto speciale?…»

Lo vidi trasfigurare, stringeva le mascelle per non dire quello che avrebbe dovuto dire, dirmi. Gli occhi si fecero lucidi e l’insofferenza lasciò posto alla rabbia: «Non insistere Lorenzo, la questione è chiusa».

Soltanto in quel momento mi resi conto di quanto poco sapessi di lui, della sua storia. I nostri genitori non esistono prima del nostro arrivo, non riusciamo a immaginarli bambini, giovani. E nelle fotografie che li ritraggono ragazzi sono i nostri tratti che cerchiamo, non i loro. Chissà quante cose non conoscevo, e se è vero che mio padre ha omesso di raccontarci episodi della sua vita, altrettanto vero è che a nessuno di noi è venuto in mente di chiedere. E anche adesso, non chiesi nulla. Non feci più domande. Nonostante la curiosità decisi di rispettare il suo silenzio e mi pentii dell’arroganza dei miei anni.

Il giorno successivo chiamai Castelli, il funzionario dell’ufficio armi. Gli spiegai la situazione. A dire il vero spiegai ben poco, non avendo argomenti da sostenere. Mi limitai a riferire le intenzioni di mio padre. Forse condizionato dal mestiere del mio interlocutore, mi aspettavo una serie di domande alle quali non avrei saputo rispondere, ma quello non insistette, e anzi, mi offrì una soluzione: «Se suo padre ha intenzione di detenere l’arma è necessario inertizzarla». Confesso la mia ignoranza, non avevo mai sentito prima d’ora il verbo inertizzare. Castelli intuì la mia lacuna e si affrettò a colmarla:

«Deve farla disattivare, renderla inerte, appunto.»

«Ah… e come si fa?»

«È una faccenda piuttosto lunga, se mi dà la sua mail le invio il procedimento per gli adempimenti burocratici.»

Il termine adempimenti burocratici mi provocò un sentimento di sconfitta, la sensazione di trovarmi di fronte a una montagna da scalare a piedi scalzi. Quando lessi la mail lo sconforto fu definitivo:

La disattivazione delle armi da fuoco è regolamentata, per quanto concerne le procedure tecniche, dal Reg. UE 2403/2015 come da ultimo modificato dal Reg. UE 337/2018.

Per quanto concerne gli adempimenti burocratici, bisogna invece consultare il D.M. 08.04.2016, che all’art. 5 rubricato   Disposizioni procedurali e adempimenti per la disattivazione” dispone che il possessore dell’arma deve comunicare per iscritto alla questura competente che intende attivare la relativa disattivazione. La comunicazione deve indicare i dati identificativi e tecnici dell’arma medesima, ovvero tipo, marca, modello, calibro e numero di matricola, nonché i dati identificativi del soggetto che effettua la disattivazione (pertanto l’interessato avrà già preso contatti con l’armeria che poi effettuerà la disattivazione). Entro quindici giorni dalla ricezione della comunicazione, la questura informa il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, rivolgendosi alla Soprintendenza per i beni storici, artistici e demoetnoantropologici competente per territorio, al fine di verificare se si tratti di un’arma antica, artistica o rara d’importanza storica o comunque di interesse culturale e, all’esito degli adempimenti, la questura medesima provvede, entro i trenta giorni dalla ricezione della comunicazione, a rendere nota al richiedente la presa d’atto (quindi l’assenso a procedere alla disattivazione).

Eccetera eccetera eccetera…

Mi girava la testa. Rilessi un paio di volte senza riuscire a trattenere un sorriso di scherno riguardo allo stile grottesco dello scritto che raggiungeva il suo apice nell’espressione: «… che intende attivare la relativa disattivazione» o nel termine «demoetnoantropologici». Cristo santo, mi ero ficcato in una bella rogna.

Spensi il computer, mi accesi una sigaretta e rimandai il problema all’indomani, confidando sul potere dissuasivo dello spettro burocratico, forse più efficace, alle orecchie di mio padre, delle mie sagge ma inascoltate parole.

Lasciai passare due giorni. Volevo dare tempo a papà di riflettere sulla questione, sarei tornato da lui con spirito diverso rispetto alla precedente visita, più accondiscendente e meno intransigente. Pensavo inoltre che la proposta dell’inertizzazione, sebbene complicata, potesse ammorbidirlo nei miei confronti, avrebbe se non altro apprezzato le mie buone intenzioni.

Stava seduto al solito posto, nella penombra del pomeriggio, lo sguardo rivolto alla finestra. Appena mi vide entrare fece scivolare sul lato del cuscino un quadernetto scuro, poi mi rivolse un sorriso. «Ciao Lollino, che bello vederti». Non vi era traccia di ostilità nei suoi occhi, sembrava più rilassato del solito, e felice, sinceramente felice di vedermi. Si capiva, dai suoi gesti, il desiderio di cancellare l’amarezza del nostro ultimo incontro.

«Siediti qui» disse «accanto a me.»

Restammo in silenzio qualche minuto. Dalla cucina proveniva il sonoro ovattato della radio e dalla strada lo sfilare veloce di qualche automobile.

«Mi dispiace per l’altro giorno papà. Non volevo turbarti… io non so nulla di quella pistola, non so da dove viene né perché la tieni in casa, però ho capito che per te è importante e se davvero non vuoi consegnarla, esiste una possibilità… si tratta di riempire un modulo… tu non devi fare niente, me ne occuperò io…». Mi alzai per recuperare il foglio nella tasca della giacca e quando mi voltai, lui stava piangendo.

In oltre quarant’anni non lo avevo mai visto in lacrime.

Non smise di piangere fino alla fine del racconto.

«È successo tanto tempo fa… Avevo quattordici anni, ero un ragazzino. C’era la guerra, ma io quasi non me ne accorgevo perché vivevo nella grande casa che tu ben conosci, distante da tutto. All’epoca non avevano ancora costruito nulla intorno a noi e la villa pareva davvero isolata dal mondo. Passavo le mie giornate in giardino o chiuso nella mia stanza, dovevo fare silenzio, non potevamo disturbare mio padre… tuo nonno… Era molto malato. Leucemia… che brutta parola, vero? Vedevo i dottori che entravano nella sua stanza e subito si chiudevano la porta alle spalle e io li sentivo sussurrare e non capivo cosa stesse succedendo. Ogni tanto provenivano dei lamenti e io mi tappavo le orecchie o canticchiavo una canzone, per non ascoltarli. Non ho mai chiesto nulla a mia madre, non so se era per non sapere, o perché già sapevo. Non avevo voglia di entrare in camera di mio padre, non è bello per un figlio vedere il proprio padre indebolirsi, i padri non possono ammalarsi, non devono… Ero triste, certo, ma facevo finta di niente. Un giorno però fu lui a chiamarmi. Sentii distintamente pronunciare il mio nome, nonostante la voce flebile. Carlo!… vieni… e poiché non rispondevo alzò leggermente il tono. Entrai in punta di piedi. La stanza era semibuia. Ricordo un odore che non mi piaceva. Stava steso nel letto, il corpo avvolto dalle coperte, tranne un braccio che fuoriusciva dal lenzuolo. Era così magro, così… piccolo. Diede un paio di colpetti con la mano sul lato del letto, per invitarmi a sedere accanto a lui. E poi, la mano, la poggiò sul mio ginocchio. Devi fare una cosa per me Carlo. E non devi dirlo a nessuno. Promesso?… Dissi di sì, anche se preoccupato. Cosa stava per chiedermi? Ero incuriosito, e orgoglioso che avesse scelto me.

Vai nel mio studio, e apri il secondo cassetto a destra della mia scrivania… in fondo troverai una scatola, una scatola marrone… portamela. Non farti vedere da nessuno, mi raccomando, è un segreto fra te e me… È importante figlio mio, è una cosa importante… mi alzai dal letto, ubbidiente, ma lui mi afferrò la mano. Carlo, non dimenticarti mai le cose belle. Non dissi una parola, ricordo che il suo sguardo, quei suoi occhi dolenti e folli, e il suo corpo così fragile, mi facevano paura… ma al tempo stesso avevo una gran voglia di abbracciarlo… non riuscivo a mettere in ordine i sentimenti che mi stringevano la gola e mi paralizzavano.  Su, adesso vai, fai quello che ti ho detto. Per raggiungere lo studio dovevo attraversare il corridoio e passare dal salotto. Ci arrivai a passi felpati, come fossi un ladro. Non ci entravo quasi mai in quella stanza, la porta era sempre chiusa ma questo non aveva mai solleticato la mia curiosità. Era un luogo che non mi apparteneva e io sto bene attento a non sconfinare in territori altrui… era tutto in ordine, un ordine definitivo, che non aveva nulla di provvisorio, perché chi avrebbe potuto scombinarlo non ne aveva più facoltà. Frugai in fondo al cassetto e trovai la scatola. La soppesai, più per istinto che per calcolo. Uscii in fretta, ma quando arrivai in corridoio incrociai il dottore che si dirigeva, accompagnato da mia madre, verso la stanza di mio padre. Nascosi la scatola sotto al maglione, salutai il dottore, e mi avviai verso la mia camera, in attesa di un momento più propizio. Li osservai avanzare dalla mia soglia, non si curarono di me. Bussarono e scivolarono dentro la stanza. Mi rimase nell’orecchio il rumore secco della porta che si richiudeva. Se chiudo gli occhi lo sento ancora quel rumore. Non avevo intenzione di scoprire il contenuto della scatola, ma quando la posai sul mio letto, la curiosità fu più forte del mio senso del dovere. Si trattava in fondo di sollevare un coperchio… Penso tu abbia capito di cosa si trattava. Io invece non me lo sarei mai immaginato. Quando la vidi, quella piccola pistola lucente, capii immediatamente, e mi mancò il respiro. Provai un terrore freddo e benedissi il cielo per l’arrivo del dottore che aveva salvato mio padre, sì, ma anche me… Come gli era venuto in mente di chiedermi una cosa del genere? Come avrei vissuto il resto dei miei giorni con quel peso sul cuore? Ero arrabbiato, arrabbiato e disperato. Chiusi la scatola e la nascosi sotto il letto, ricordo che la seppellii sotto altri oggetti per cancellarne ingenuamente la presenza, e poi di notte, non riuscendo a dormire la spostai di nuovo e la ficcai in fondo a una cesta dove ancora erano conservati i miei giocattoli di bambino. Da allora, quella scatola non mi ha mai lasciato, e quel giorno, quel maledetto giorno, fu l’ultimo in cui vidi mio padre. Non sono mai più entrato in camera sua, mai più. Per tre lunghissimi mesi, il tempo che gli era rimasto. E sai perché non l’ho fatto? Perché, per quanto ritenessi giusta la mia azione, mi sentivo in colpa. Avevo paura di guardarlo negli occhi, di vedere la sua pena. Quei tre lunghi mesi di dolore hanno pesato sulla mia coscienza per tutta la vita. Lui voleva mettere fine alla sua sofferenza, era un suo diritto… E io gliel’ho impedito. Ero davvero nel giusto? Cos’era più importante, la sua salvezza o la mia? E poi, ci siamo forse salvati?…  Pensavo fossero i miei quattordici anni a impedirmi di capire, ma tutti questi anni non mi hanno illuminato. Io ancora non so… Ecco, adesso sai perché possiedo quella pistola. Sei la sola persona a cui l’ho raccontato.»

Non ebbi paura di abbracciarlo come accadde a lui tanti anni addietro, e lo strinsi forte fra le mie braccia. «Hai fatto la cosa giusta papà, la sola che potessi fare.»

Il primo pensiero che mi venne in mente fu associativo: padri che dividono un segreto con i figli, poi la simmetria mi parve ancora più incredibile dal momento che anche io, come lui, ero stato prescelto. Anche mio padre aveva dei fratelli. Tre, come me. Ieri lui, oggi io, entrambi depositari di un segreto. A quasi settantacinque anni di distanza si replicava una scena familiare analoga.

«Chiama il commissariato e di’ che possono venirsela a prendere. Adesso.»

Non provai a rilanciare l’ipotesi inertizzazione, e non perché volessi risparmiarmi una scocciatura, ma perché avevo capito. Quel racconto sofferto, tenuto a lungo nascosto nel profondo del suo cuore, lo aveva liberato. E furono le sue parole a rendere inerte la pistola. Non c’era più motivo di nasconderla.

I poliziotti arrivarono poco dopo. Erano in due, uno molto alto con mani affusolate da pianista, l’altro più tarchiato ma scattante, nervoso. Non indossavano la divisa e di questo fui intimamente grato. Si rivolsero a mio padre con garbo e gentilezza, lui disse loro che voleva fossi io a recuperare la pistola, poi mi diede una chiave, sfilata dalla tasca della vestaglia.

«Vai alla mia scrivania, e apri il secondo cassetto a destra. In fondo troverai la scatola marrone…». Di nuovo, la storia si ripeteva: la scrivania, il secondo cassetto, la scatola marrone.

Tutto si svolse in silenzio, come durante una cerimonia. Di questo si trattava, in fondo. Eseguii gli ordini di mio padre e consegnai la scatola nelle mani del poliziotto alto, il quale, dopo aver sollevato il coperchio e afferrato l’arma, mi chiese se fosse stato possibile trasferirsi in un posto riparato (disse proprio così) della casa, «magari all’aperto». Scambiai uno sguardo con mio padre, che abbassò la testa in segno di assenso. «Certo», risposi, e invitai l’uomo a seguirmi in terrazza.

Le tapparelle erano abbassate per via del caldo e quando aprii la porta finestra la luce abbacinante e il calore mi riportarono alla realtà di quei giorni infuocati.

«Rimanga dentro», mi intimò il poliziotto.

Osservai la scena dall’interno. L’uomo si guardò intorno alla ricerca del «riparo».  che individuò in un grosso vaso dietro al quale si accucciò. Vedevo la sua sagoma imponente stagliarsi fra le fronde dell’oleandro. Rimase lì ad armeggiare (è il caso di dirlo) qualche istante per poi rientrare in casa rivolgendomi un mezzo sorriso di soddisfazione. «C’era un colpo in canna».

Un colpo in canna, uno solo.

ARTICOLO n. 33 / 2021

Io me ne frego dell’empatia

RITRATTO DI RICHARD YATES

Rientro in quella categoria di maniaci che quando gli piace uno scrittore ne divorano l’opera completa. Di Richard Yates ho letto tutto l’esistente, fosse stato possibile avrei sbirciato volentieri anche la sua lista della spesa, certa di trovarvi annotazioni interessanti (anche se in parte posso immaginarmela, la spesa di Yates, composta prevalentemente di spirits, alcolici…). Dovendo formulare le ragioni del mio indiscusso amore per lo scrittore americano, comincerei proprio dal termine spirito, inteso come essenza, anima, se vogliamo. Quella caratteristica che ci fa riconoscere all’istante lo stile di un autore.

Lo spirito di Yates, inconfondibile, pervade una per una le migliaia di pagine che ha scritto, tanto che non ci sarebbe bisogno di una copertina a rivelarne l’identità. Per farsene un’idea, basta pescare a caso uno dei formidabili dialoghi in cui sono incessantemente impegnati i suoi personaggi (tanto che non si capisce come mai non sia diventato un grande sceneggiatore, ma questo è uno dei tanti quesiti che lo riguardano). Gli si potrebbe rimproverare di aver raccontato, in fondo, sempre la stessa storia. La struttura dei suoi romanzi si ripropone quasi identica, i personaggi sono quasi intercambiabili, idem gli ambienti e i luoghi, eppure è in questa ripetitività che si nasconde la sua forza: nulla si esaurisce davvero e la stessa vicenda può essere raccontata e sviscerata all’infinito. È artista colui che ripete senza replicare, e così facendo approfondisce: un metodo che si ritrova di frequente, ad esempio, nella pittura.

I protagonisti di Yates (ma anche gli antagonisti, o le semplici comparse) sono tutti condannati dallo stesso inesorabile destino: si illudono di non essere quello che sono e ciecamente vanno incontro alla sconfitta. Perdenti che si affannano per andare avanti restando in realtà fermi, e verso i quali lo stesso autore non prova nessuna compassione. Una lotta per la sopravvivenza che non possiede la nobiltà del soldato in trincea, del povero diseredato o del naufrago. Sono uomini qualunque: pavidi, bugiardi, invidiosi. Pessimi genitori, coniugi fedifraghi, compagni di scuola bastardi. Gente con cui non vorremmo mai avere a che fare. Eppure… eppure non possiamo fare a meno di amarli. Eccolo qui il prodigio ordito da Yates, la ragnatela sottile nella quale ci imprigiona. Gli strumenti di tale incantamento vanno senza dubbio attribuiti alla perizia della sua prosa che pare semplice ma non lo è affatto (è nota la precisione parossistica con la quale selezionava gli aggettivi o controllava la punteggiatura, per non parlare delle infinite riletture dei suoi testi che avrebbero reso superflui gli eventuali interventi degli editor), ma il segreto, se abbiamo voglia di conoscerlo, ce lo rivela l’uomo Richard Yates. Il suo è infatti uno dei rari casi in cui l’opera non può essere separata dalla vita del suo autore, poiché essa ne sta all’origine, è la fonte primaria di ogni racconto. La vita, la durissima vita di Richard Yates era nient’altro che una scusa per scrivere, e l’unico senso che lui le attribuiva era l’ispirazione che poteva fornire ai suoi libri.

Naturalmente si possono leggere le opere di Richard Yates ignorando i dettagli della sua biografia, la loro bellezza risulterebbe comunque lampante, ma sapere che dietro ogni personaggio, dentro ogni appartamento, lungo i viali delle periferie suburbane o davanti agli innumerevoli banconi dei bar si nasconda lo stesso Yates, rende il racconto vivido e oltremodo straziante. Inoltrandomi nella monumentale biografia scritta da Blake Bailey (quasi 700 pagine, ma l’ho detto che sono maniacale…) è scattato lo stesso straniante meccanismo già provato nei confronti di Frank e April Wheeler di Revolutionary Road, o delle sorelle Emily e Sarah Grimes di Easter Parade, o di John Wilder in Disturbo della quiete pubblica, solo per citarne alcuni, e cioè quell’inspiegabile trasporto sentimentale nei confronti di esseri umani respingenti, che non fanno nulla per sedurti, e che nonostante questo, come ho già detto, non puoi impedirti di amare.

Richard Yates era un ubriacone, pazzo, misogino, sprezzante, eternamente in guerra con il mondo, e tuttavia chi ha avuto a che fare con lui lo ha molto amato. Forse perché, malgrado tutti gli sforzi per tentare di offuscarla, scintillava una natura gentile e vulnerabile, messa a dura prova da un irriducibile impulso autolesionista del quale probabilmente non si sarebbe mai liberato, neanche se le cose fossero andate diversamente. Certo è che quell’esordio folgorante, amaramente definito da Yates «la mia maledizione», ha pregiudicato il suo cammino di scrittore di successo. Nel 1962, un anno dopo la pubblicazione di Revolutionary Road, accolto da critiche entusiastiche (che tuttavia non servirono a fargli vincere l’ambito National Book Award né tantomeno a scalare le classifiche di vendita), Yates dà alle stampe la sua seconda prova, la raccolta di racconti Undici solitudini: ma le reazioni, seppur benevole, risultano tiepide. È chiaro sin dall’inizio che da lui ci si aspetta un romanzo altrettanto potente, i racconti vengono considerati interlocutori. È la prima di una lunga serie di delusioni, ciascuna delle quali verrà annaffiata con spaventosi quantitativi di alcool che comprometteranno il suo già instabile equilibrio psichico. Il primo episodio pubblico di escandescenza è a suo modo spettacolare (e naturalmente sarà raccontato per filo e per segno nel penultimo romanzo, Il vento selvaggio che passa). Durante un prestigioso convegno di scrittori (la Bread Loaf Writers Conference), Yates, invitato a seguito del successo di Revolutionary Road, si ubriaca fino a perdere il controllo: seminudo, sale sul tetto dell’antico edificio e si mette a gridare a squarciagola «Sono il Messia!». Gli increduli colleghi lo vedranno uscire di scena a bordo di un’ambulanza con la camicia di forza al posto del blazer. 

Il bisogno commovente di far parte di una comunità che lo esclude si riflette nel destino dei suoi personaggi sui quali incombe la minaccia del fallimento, e che Yates descrive con l’apparente distacco della terza persona dietro cui si nasconde, sempre, un riferimento intimo: Yates non ha bisogno di dire io per parlare di sé. «Gli esseri umani sono irreparabilmente soli, e lì c’è la loro tragedia». Nella bellissima prefazione a Cold spring harbor, Luca Rastello sottolinea il senso di moralità di Richard Yates, a torto considerato un cinico. La rabbia e il disincanto (Yates ricorda e racconta con rabbia) si rivolgono a un mondo che non corrisponde al suo modello etico.

E se osserva ciò che lo circonda con sarcasmo è per sottolineare l’insensatezza della vita: «Adesso, però, che se ne stava lì sdraiato senza dormire ad aspettare che la giornata trascorresse, si sentiva incapace di mettere insieme anche un solo pensiero coerente che non fosse l’idea sconsolante e tenace che niente aveva senso. Non si poteva ricavare un senso dalle forze e dagli avvenimenti che aveva sotto gli occhi». È la conclusione a cui arriva il tredicenne Phil Drake, ennesimo alter ego di Richard Yates nell’amaro Cold spring harbor, suo ultimo romanzo.

Ci si chiede come mai uno scrittore di un simile talento, da alcuni considerato un maestro (Carver e Cheever devono molto a Yates), non sia mai stato davvero riconosciuto nonostante la stima di molti suoi colleghi e il plauso di alcuni importanti critici. Le vendite dei suoi libri non hanno mai superato le diecimila copie e molti hanno subito l’oltraggio del fuori catalogo. Al di là dell’imperscrutabile legge del successo si può ipotizzare che la pervicacia con la quale Yates ha sistematicamente infranto il sogno americano gli sia stata fatale. Non ha mai strizzato l’occhio al lettore, né fatto sconti («Io me ne frego dell’empatia»).

L’happy ending nelle sue storie non esiste, le illusioni sono un inganno e persino i luoghi non mantengono le promesse: la scuola privata, i quartieri residenziali, le villette a schiera, non sono altro che facciate. Ogni tentativo di uscire dal seminato, ogni azzardo verrà inevitabilmente punito. Non c’è scampo, sembra dirci Yates (senza per questo risparmiarci grasse risate, ci sono pagine esilaranti nei suoi romanzi), e ce lo dice col disincanto di chi la sa lunga e può permettersi di scherzarci sopra. Un’altra ragione va cercata nella personalità complicata e contraddittoria dello scrittore, al tempo stesso affabile e detestabile, disciplinato e autodistruttivo, generoso ed egoista, liberale e bigotto. «Non stava mai bene nemmeno quando stava bene» ricorda la figlia Monica.

Incapace di adattarsi al mondo, Yates ha messo a dura prova la pazienza di chiunque, anche e soprattutto quella degli affetti più cari. Due divorzi, tre figlie lontane e dunque amatissime, amici fedeli che hanno fatto di tutto per aiutarlo fino al punto di arrendersi di fronte a un’inesorabile deriva autodistruttiva: cinque pacchetti di sigarette al giorno inflitti a polmoni provati dalla tubercolosi contratta in guerra (il fantasma della guerra aleggia su ogni vicenda raccontata da Yates, è nascosto nel passato di qualcuno o nel futuro imminente di qualcun altro), litri di whisky ingollati dalla mattina alla sera (tutti i suoi personaggi hanno sempre un bicchiere tintinnante nelle mani), innumerevoli ricoveri in ospedali psichiatrici (altro tema ricorrente, prima o poi uno dei suoi personaggi finisce in manicomio), e costante bisogno di soldi (che il suo editore, sant’uomo, anticipava sapendo che non li avrebbe mai rivisti).

Mi sono chiesta tante volte come diavolo sia stato capace, in quelle condizioni pietose e perseveranti, di scrivere in maniera così lucida e precisa (sono sette i romanzi prodotti e due raccolte di short stories). Per un periodo ha lavorato come ghost writer dei discorsi di Robert Kennedy il quale, pur conoscendo le abitudini poco ortodosse dello scrittore ha comunque confermato il suo incarico, a dimostrazione che l’abilità riusciva a emergere in ogni caso. Fino all’ultimo, Yates ha scritto. Si può dire che non abbia fatto altro nella vita insieme a bere e fumare. Tre diverse forme di addiction, due gli hanno distrutto il fisico, la terza lo ha fatto impazzire di rabbia e risentimento. Posso immaginare il suo sconforto il giorno che si trovò, solo, di fronte a una sala completamente vuota per un reading di Bugiardi e innamorati. O quando la critica stroncò ferocemente il bellissimo Il vento selvaggio che passa (l’amico Kurt Vonnegut, gli scrisse: «Immagino la tua tensione per l’uscita del libro, e credo sia per te più dura che per chiunque altro, perché tu sei tu e per te le cose sono più difficili»). O ancora, quando per la quindicesima volta gli venne rifiutato un racconto sul New Yorker. La faccenda del New Yorker, capitolo tristissimo, rappresenta un esempio di perfidia editoriale da manuale, soprattutto se si considera che quando, finalmente, la rivista si decise a pubblicare un suo racconto, Yates era morto da nove anni.

Gli anni ottanta sono il decennio più triste, gli anni dell’oblio. Solo, sempre ubriaco, Yates non può più permettersi di insegnare e non ha più un soldo. Il suo editore non ha intenzione di elargire altri anticipi e dubita che lo scrittore possa onorare il contratto che lo vede impegnato per un altro libro (cosa che invece farà, il caro, onesto Richard).

Trascorre gli ultimi anni della sua vita a Tuscaloosa, in Alabama. Ogni giorno trascina il suo lungo corpo fra il locale Crossroads dove mangia poco e beve molto, e il miserabile appartamentino in cui vive, e scrive. Seduto al suo tavolo da lavoro ricoperto di fogli, portacenere e bottiglie di birra, osserva le fotografie delle figlie appese al muro mentre alterna una boccata di sigaretta a una di ossigeno, rischiando di farsi saltare per aria. Ma a lui della vita poco importa.

Una volta diede fuoco al suo studio per aver dimenticato di spegnere l’ennesima cicca lasciata in giro. Incurante della propria incolumità, fece di tutto per mettere in salvo il manoscritto di Una buona scuola, ustionandosi le mani e intossicando ulteriormente i polmoni. Quell’episodio segnò un punto di non ritorno: ricoverato di nuovo al Belleville, la clinica psichiatrica di New York (onnipresente nei suoi libri), Yates ha le allucinazioni, è convinto di essere circondato da truppe tedesche, si nasconde sotto il letto. La sua sembra una causa persa, ogni tentativo di rimettersi in carreggiata è destinato a fallire. Nessuno va più a trovarlo tranne uno suo ex studente (Yates ha tenuto corsi di scrittura in varie università americane, conquistandosi l’ammirazione e l’affetto dei suoi allievi che lo ricordano come uno dei migliori insegnanti possibili), che uscendo dal Belleville dirà: «Non immaginavo che un uomo potesse degenerare a quel modo».

La tenacia del suo corpo lo ha tenuto in vita fino a 66 anni, fosse morto molto giovane o molto più vecchio avrebbe conosciuto la gloria, chissà.

Qualche giorno prima di morire telefona a un vecchio amico: «Vuoi sapere cosa ho fatto stanotte? Mi sono seduto sul letto, ho letto ad alta voce il primo capitolo di Revolutionary Road e mi sono messo a piangere come un bambino».

Ecco perché è importante sapere chi fosse Richard Yates, e ancora più importante è leggere le sue opere, in Italia pubblicate da minimum fax: se non ci è più possibile risarcire l’uomo, possiamo almeno rendere onore al grande scrittore e commuoverci a nostra volta sapendo che il Times, nel 2005, ha inserito Revolutionary Road fra i cento migliori romanzi in lingua inglese di tutti i tempi.

ARTICOLO n. 20 / 2021

Sapete chi è Tamino?

Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio
RAINER MARIA RILKE

La prima volta che sono entrata nel teatro Olimpico di Vicenza mi sono sentita male. Era pomeriggio, il teatro deserto e silenzioso.

Ho aperto una porticina dopo aver percorso un lungo corridoio, e di colpo, vertigini, spaesamento, lacrime. Forse la consuetudine nel frequentare i palcoscenici mi aveva tratto in inganno. Pensavo di sapere dove mi trovavo.

L’Olimpico è un monumento prima ancora di essere un teatro, e questo ne contraddice l’essenza: le scene fisse progettate dal Palladio, sontuose e inamovibili, fagocitano qualsiasi rappresentazione, diventando protagoniste esclusive della scena: il tradizionale vuoto del palcoscenico, necessario all’impianto delle scenografie, lì è già riempito. Tutt’altro che facile recitare in quel contesto. La ragione del mio mancamento non aveva tuttavia niente a che fare con il mestiere che ho svolto per tanti anni, non c’entrava nulla il timore reverenziale verso le tavole del palcoscenico.

Mi era accaduto ciò che notoriamente si racconta accadde a Stendhal, in visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Nel suo caso, mi si conceda l’azzardo, sentirsi sopraffatto di fronte a tali espressioni artistiche risulta alquanto scontato, se si possiede un animo sensibile. Ho visitato centinaia di luoghi da «togliere il fiato» (per il semplice fatto di vivere in Italia), e sarei in serio pericolo se mi fossi lasciata travolgere da tanta meraviglia. Ciò che mi trafigge è lo splendore inaspettato, è ciò che si nasconde dietro la porticina anonima. Mi è successo a Istanbul, scendendo gli scalini che conducevano alla cisterna Yerebatan, il meraviglioso palazzo sommerso, o lungo le rive del Gange, quando la nebbia del mattino, diradandosi, svelava lo spettacolo irreale della città di Varanasi.

Colpisce all’improvviso, come un temporale estivo, cogliendomi impreparata, perciò più vulnerabile. Ecco, sì, la vulnerabilità è la chiave di tutto. È causa dell’evento e al tempo stesso ne diviene effetto.  La crudeltà della bellezza infierisce sui più deboli, i quali soffrono e ringraziano. Mi fa male, ma sono felice, come quando massaggiando una parte dolente del corpo si prova quello strano miscuglio di dolore e sollievo…

E poi, di nuovo il nulla. L’apatia delle emozioni sopite che non vedono l’ora di essere risvegliate. Ringrazio iddio di non aver ancora perduto la capacità di farmi stupire malgrado il mio senso estetico si sia fatto sempre più esigente, e di conseguenza costantemente insoddisfatto. Le forme della bellezza sono per fortuna molteplici e talvolta ci vengono offerte, regalate, da chi ci conosce e sa dove colpire. È successo giorni fa.

Un sms: «Hai mai sentito Tamino?».

Chi mi scrive è l’amico più caro che ho e per ciò stesso so che in quel messaggio è contenuto un dono. La risposta «No» è contemporanea alla ricerca su Google, che in pochi istanti mi illumina e mi rivela chi sia questo Tamino.

Un ragazzo di appena venticinque anni, praticamente l’età di mio figlio. Nato ad Anversa (città che non conosco ma sulla quale fantasticavo da giorni, curiosa coincidenza, per via di un mio articolo sullo scultore Rembrandt Bugatti, che in quella città ha vissuto) da madre belga e padre egiziano. È molto bello Tamino, il cui nome mozartiano si deve a sua madre; possiede quello splendente e raro fascino frutto di fortunati incroci, e certamente è la sua avvenenza a colpire per prima: il viso scavato, gli zigomi alti, i grandi occhi mediorientali e tristi cerchiati da folte ciglia che paiono linee di kajal, i capelli forti di ventenne e il corpo magro ed elegante. Ma dal momento che nel messaggio mi si chiedeva se lo avessi «sentito», l’interrogativo riguardava l’udito più che la vista.

Infatti Tamino Amir Fouad è un cantante. Polistrumentista e compositore. E allora ascoltiamolo questo giovane fiammingo che canta in inglese.

È difficile, se non inutile descrivere l’udibile ma mi auguro facciate ciò che ho fatto io immediatamente dopo aver ricevuto il messaggio del mio amico Sandro, avendo l’accortezza di accedere ai video disponibili, perché è proprio dall’unione dei due sensi, vista e udito, che si produce l’incanto (anche se sarebbe meglio ascoltarlo prima di vederlo, e godersi la doppia sorpresa… da una voce così bella non si pretende un volto alla sua altezza, ci si accontenta, sapendo quanto sia poco generoso il Dio che la dispensa la bellezza, un Dio che con Tamino ha infranto le sue regole…). La voce ricorda Jeff Buckley, stessa dolenza e intensità. Stessa giovinezza prestata a un timbro adulto e profondissimo, a cui si aggiunge un’antichissima eco orientale. Comincio con Indigo Night e mi sembra di riconoscere sonorità a me care introdotte da un accordo di chitarra, semplice, lento ed essenziale che si stempera su immagini di una città ripresa dall’alto da un drone che vola su tetti e terrazze ricoperti di parabole, pochi secondi per capire che si tratta del Cairo. Poi Tamino comincia a cantare e sono sufficienti le prime note per intuire che Sandro ci ha preso. Non ho idea da dove arrivi quella voce, ma a me pare abbia attraversato continenti e spazi e tempo.

«Non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore» diceva Baudelaire. Anche io riesco a malapena a concepirla una bellezza senza malinconia, ho sempre detestato le canzoncine allegre, mi fanno tristezza. La voce di questo ragazzo è quanto di più struggente abbia mai ascoltato, è davvero difficile non farsi trascinare dal suo canto, e allora mi ci tuffo in quella malinconia e vado avanti cercandola negli altri suoi brani fino ad arrivare al più commovente di tutti: Habibi, «Amore mio». Non è a una ragazza che si riferisce il titolo, bensì al padre, che così lo chiamava quando Tamino era bambino (nulla è mai banale nei suoi testi), un padre egiziano figlio del più celebrato attore-musicista del suo paese a cui il nipote somiglia nei tratti e nel talento.

Scavando nella rete in cerca di informazioni che lo riguardano (ormai stregata dal suo incantesimo) capisco che è proprio la bellezza l’elemento che gira intorno alla famiglia Fouad, basta guardare le foto del famoso nonno (lo chiamavano «la voce del Nilo») ma soprattutto quelle del fratello minore Ramy, che ricorda l’efebico Tadzio di Morte a Venezia di Visconti, biondo, lineamenti minuti in contrasto con quelli del fratello, ma altrettanto impressionanti. E anche nel suo caso l’avvenenza non è fine a se stessa (e lo ripeto, già sarebbe sufficiente), ma si accompagna a un talento imprevedibile. Ramy, ventun anni (ventuno…) è infatti il regista dei video di suo fratello. Anche lui dotato di una maturità artistica sorprendente. Esemplare nella semplicità, e dunque nella perfezione, del video che accompagna il lamento dolente di Habibi: un impercettibile movimento di macchina che da un primo piano di Tamino dolcemente si allontana, discreto ed elegante, a piccoli passi, come se non volesse disturbare l’esecuzione della canzone…

Viene voglia di conoscerli i genitori che hanno messo al mondo tanta meraviglia, mi piacerebbe incontrare la madre, così importante nella formazione artistica dei figli. È lei che ha insegnato a suonare il pianoforte a Tamino, lei ha avuto l’intuizione, appena nato, di dargli il nome del giovane principe che combatte le forze del male con il suo flauto magico (Tamino Amir significa il principe Tamino), un nome da predestinato.

Lei che lo ha lasciato libero di andare ad Amsterdam, a soli diciassette anni, per frequentare il conservatorio. «Ero solo e non conoscevo nessuno, passavo le mie giornate in camera a scrivere canzoni» racconta Tamino nelle interviste dove non manca mai di ringraziare la madre, per «avermi fatto scoprire il mio destino».

I suoi riferimenti sono singolari per un ventenne di oggi, Leonard Cohen è un punto fermo così come i Radiohead, che il caso ha voluto mettere sulla sua strada. Di passaggio ad Anversa, il bassista della band Colin Greenwood, è andato ad ascoltarlo in un locale e ne è rimasto folgorato, tanto da voler collaborare alla registrazione di Indigo Night (ecco da dove venivano quelle sonorità a me familiari…). Avrebbe tutte le ragioni per montarsi la testa Tamino, prima fra tutte la giovane età, ma leggendo o ascoltando le sue interviste, emerge una peculiarità rara quanto la sua bellezza (o forse ne è l’origine?): l’umiltà.  Senza alcuna superbia, ma anzi con timidezza (quando scende dal palco torna a essere giovanissimo), Tamino dichiara il suo amore per la letteratura e cita Dostoevskij, Kundera, Keats come numi tutelari. Ciò che colpisce è la semplicità con cui si presenta davanti al pubblico: nessun artificio, non indossa costumi appariscenti, niente giochi di luce o trucchi scenografici. Non ne ha bisogno. Sul palco lui e la sua chitarra, tastiere e batteria lo accompagnano con discrezione. Vale la pena andare a vedere, su YouTube, il concerto dato all’Olympia di Parigi un paio di anni fa, nel quale Tamino invita il suo vecchio maestro di musica (da lui ha imparato a suonare l’Oud, il liuto mediorientale), il siriano Tarek Al Sayed, e gli rende omaggio lasciandogli la scena. L’umiltà.

Fra i tanti commenti sul concerto parigino, il più preciso è senza dubbio questo: «Painfully beautiful…».

Nell’album d’esordio, Amir, Tamino ha fortemente voluto la partecipazione dell’orchestra Nagham Zikrayat, composta da rifugiati siriani e iracheni, perché anche se è nato in Belgio e non parla una parola di arabo, sa che le sue radici affondano nella sabbia del deserto.

Non so cosa mi faccia credere con tanta certezza che la sua stella brillerà a lungo, forse l’incrollabile fiducia nel potere della bellezza (che non salverà il mondo, non lo salverà affatto) a cui mi aggrappo ingenuamente pur sapendo che gli ostacoli da superare, le trappole da aggirare, si affacceranno implacabili sul suo cammino. Il luminoso cammino di Tamino.

(L’avete mai sentito Tamino…?)