Djarah Kan

ARTICOLO n. 62 / 2023

PER FORTUNA I NERI MUOIONO SOLO D’ESTATE

La temperatura dell’estate

In edicola, tra una bionda con un sorriso di cera e il nuovo numero di una terribile rivista femminile che in regalo offre alle sue lettrici un mazzo di tarocchi dal Negro, c’è il volto tondo e sorridente di un uomo nero. Sulla copertina della rivista, la sua pelle è lucida. Deve essere morto, perché la foto pubblicata è il tipico ritratto del morto. Si tratta di Frederick Akwasi Adofo, quarant’anni. Sotto una didascalia scritta in caratteri cubitali, rossi, parla di lui. Senzatetto. Immigrato. Clochard. Ucciso da due minorenni di cui non si sa molto. Foto sgranata. Forse l’unica. Lui, benvoluto da tutti. Innocuo. Infantilizzato al fine di creare maggiore trasporto emotivo tra la vittima e il pubblico. Se la gente non vede il nero grosso come un bambinone, non capirà che è morto un uomo. Penseranno solo a un extracomunitario. Invece in questo modo è meglio. Più pietà. Più tenerezza. Un grosso, bambino nero di quarant’anni, con i tipici problemi degli immigrati neri adulti, che oramai però, vista la retorica e i tempi che corrono, non bucano più né lo schermo, né i cuori della gente. Tant’è che la sua esistenza, prima della sua cancellazione, era nota solamente ai volontari e gli operatori che lo avevano sostenuto nel suo percorso per l’ottenimento della licenza media, mentre ora il suo caso veniva reso noto a tutto il Paese, come l’ennesima storia di un nero che muore d’estate, ucciso dai bianchi.

E gli assassini? Dei ragazzini abbandonati a loro stessi di appena sedici anni che postano il video di quella atroce violenza sui social. Come se quelle mazzate date a un senzatetto prima di andare a dormire fossero un rito giornaliero di liberazione da una ferocia che viene raccontata come disumana, ma che di umano e comune ha ogni suo singolo pezzetto. E mentre il ventre della società civile si appresta a espellere i resti di questi giovani abortiti, in pochi si chiedono come mai ci sia questa fretta di prendere le distanze da questi giovani Caini, gli assassini dell’Abele nero.

Saranno questi trentasette gradi e mezzo a farmi poco bene, ma leggere quei caratteri accesi di rosso, che parlano di quell’uomo nero, morto di botte nell’androne di un palazzo, mi dà le vertigini. È una storia che conosco. Una storia che quelli come me si aspettano. Perché ce lo aspettiamo sempre, che cose di questo tipo accadano. Il punto è quando, e come. Ma l’epilogo è sempre lo stesso.

Consapevolezza: conosci la tua casa. Conosci ogni sua stanza. Conosci il tetto, e le finestre che ti proteggono dal Mondo di fuori. Conosci anche il tuo Paese. Che è la tua casa nella diaspora. Misura la sua temperatura, calcola il peso specifico di ogni singola parola che utilizzano per categorizzarti ed etichettarti. In TV, per strada, in fila alle Poste, al supermercato, mentre passeggi. Ogni movimento e reazione inconsulta è un segno, un indicazione della temperatura delle cose. E bisogna stare dietro ai dettagli, se si vogliono prevenire i casini.

Era da un po’ che il clima in Italia non faceva tanto schifo. Né freddo, né caldo. Semplicemente duro, asfissiante, soprattutto nebbioso. L’aria stessa che si respira pesa come una marcia militare, i cui passi avanzano pesanti su un asfalto rovente. Lentamente, adagio, tornano i simboli del fascismo, riproposti in una salsa moderna, eppure così terribilmente vecchia. La nuova tolleranza stabilita dal Governo ha un occhio di riguardo e una mano gentile, solo a favore dei violenti e dei conservatori, che vedono in qualsiasi fluttuazione dell’esistenza una minaccia all’integrità del Paese. È importante quindi che si faccia particolare attenzione ai racconti che si fanno delle minoranze, e al modo in cui le giurie popolari che dalle radio e dalla televisione emettono le loro sentenze sul Mondo che verrà, e che vogliono evitare che arrivi. Le persone nere con un po’ di sale in zucca controllano il polso del Paese, con tutti i suoi battiti. E stanno ad aspettare la prossima mossa. Sanno che quando la temperatura sale, la sacca che contiene la rabbia bianca si riempie per esplodere. Per questo la morte dell’uomo nella foto non mi sorprende. Ho un cerchio alla testa, e una sensazione terribilmente familiare, come se stessi rivivendo lo stesso evento, ma con i dettagli differenti.

Il déjà-vu che sto vivendo è forte. Sono già stata qui, in questo luogo della mia anima, dove mi raccolgo per constatare in silenzio che un’altra persona nera è stata uccisa da una persona bianca. Sembra quasi la formula per una delle tante ricette del Caos. Una formula a cui molti sono così abituati da darla per scontata, al punto da non riuscire nemmeno più a vedere tutto quello che c’è intorno alla cancellazione del corpo di una persona povera, nera, che vegeta sulla soglia di un privilegio al quale non ha alcuna possibilità di accesso. Lui resta e muore in un margine invisibile, scavato da concezioni secolari classiste e razziste, che nonostante l’usura e la sfida del tempo arrivano fino a noi del tutto intatte.  

C’è un motivo per cui quella notizia mi risuona così familiare. Tutto mi rimanda alla morte di Alika Ogorchukwu, il cittadino nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo nel 2022, a Civitanova Marche.

Ricordo perfettamente che per commemorare la sua morte venne indetta una manifestazione antirazzista. Io c’ero. Mi recai a Civitanova Marche con un gruppo di amiche e amici. Parlando con la gente di lì, nessuno voleva cedere all’idea del movente razziale. Ciò che noi, in quanto persone razzializzate, vedevamo con una chiarezza più pura del cristallo, per la gente di lì non era altro che lo spettro di illazioni su un presunto razzismo che a Civitanova Marche, come a Pomigliano d’Arco, non esisteva. Era come se fossimo tutti spettatori di una realtà che, nonostante lo spazio abitato insieme, non condividevamo. 

Non solo non credevano ai motivi razziali dietro l’omicidio di Alika Ogorchukwu, ma ciò che forse più li offendeva nel loro onor, era l’idea che tutto il paese reale li avesse etichettati con l’appellativo di razzisti. Civitanova Marche, la città dove l’indifferenza e il razzismo hanno un ucciso un immigrato disabile. L’onta del razzismo, svuotata del suo significato e potere, e quindi ridotta soltanto a una parola triviale e offensiva, è un’accusa che nemmeno i fascisti accettano.

E a distanza di un anno, con una temperatura che arriva a sfiorare i trentasette gradi, ecco che viene ucciso un altro uomo. Questa volta nel Sud Italia, a Pomigliano d’Arco. Anche lui povero, anche lui nero. Espulso dal circuito dell’accoglienza come una ciste infetta arrivata alla fine del suo ciclo vitale e spedito a vivere per strada, su una panchina, senza nessuna possibilità di negoziare con lo Stato i termini della sua marginalità. 

La storia di Frederick Akwasi Adofo, chiamato dalla gente di Pomigliano d’Arco semplicemente Frederick, il senzatetto che non avrebbe fatto male a una mosca nemmeno se avesse voluto, è fatta di elemosina, e chiacchiere coi passanti. Un uomo povero e disoccupato che, escluso dal circuito dell’accoglienza, si era ritrovato a dormire su una panchina. Per via di queste due condizioni, che non è mai bene si accompagnino insieme, era stato più volte vittima di violenze da parte di sconosciuti. Era già successo, ma, per qualche ragione, qualcuno ha pensato non fosse necessario proteggere un uomo il cui corpo e la cui vita, secondo alcuni, non avrebbe valso mai abbastanza da spingere qualcuno a proteggerlo. Frederick valeva soltanto per chi lo amava, ma i singoli che amano altri singoli non sono sufficienti a proteggere persone come lui. Dunque, chi era quest’uomo? E perché mi sembra di vivere un déjà-vu?  

Vorrei urlare al Mondo intero che ho visto quell’uomo nelle mie visioni fatte di ansia quotidiana. Chi sarà il prossimo? Perché ce ne sono stati altri prima di lui. E gli somigliavano nelle linee generali. Uomini neri poveri cancellati. Uomini neri poveri uccisi a mani nude. Uomini neri poveri che spariscono tra le ceneri di ghetti dati alle fiamme dalla Camorra, che storicamente è portatrice di odio razziale, come dimostra la storia della repressione dei ghetti di Rosarno, o della Strage di Castel Volturno del 2008, in cui sette giovani uomini neri vennero giustiziati dalla Camorra con fucili d’assalto.

Filippo Ferlazzo dice qualcosa di emblematico all’indomani dell’arresto per l’omicidio di Ogorchukwu. Non voleva uccidere, ma solamente “dare una lezione” a quell’uomo nero incivile e maleducato, venuto nel suo Paese per chiedergli l’elemosina. Certo, dicono i cittadini di Civitanova Marche, Alika era un po’ insistente, ma non meritava di morire soffocato dalle sue stesse stampelle. Ci vogliono una forza e una volontà di ferro per uccidere un uomo in quel modo. Non ci può essere casualità alcuna in quel tentativo coloniale di raddrizzare il non raddrizzabile, lo straniero, il negro che vuole restare negro e che con la sua negrezza disturba e deturpa le aiuole, infestando con la sua miseria un panorama fatto di luccichii e altre ossessioni piccolo borghesi, che escludono a priori una tale irruzione della realtà, come quella imposta da un corpo nero disabile e fuori dalle fantasie che promette quel profumo di eterno benessere estivo, che solo le località balneari sanno trattenere tra le loro grinfie. Chissà perché la maleducazione e l’inciviltà che tipicamente si trovano in giro non avevano mai scatenato, prima d’allora, l’ira e la ferocia di Ferlazzo. Mia madre mi diceva di vestirmi sempre bene. E di comportarmi come una signorina. Perché ciò che è concesso a un bianco non viene mai concesso a un nero. Non a caso, l’ordine che vigeva nelle colonie conservava in sé una filosofia terrificante, una politica dell’annientamento fisico che si celava dietro l’intento di insegnare ai non-uomini delle colonie come essere uomini veri simili ai bianchi, e non animali. Anche loro non volevano radere al suolo civiltà secolari, ma insegnare a vivere meglio, alla Occidentale. E così, ecco, il regime coloniale crea Uomini e Donne rinati nel Cristo e nella Patria che li sottomette a suon di mazzate e di discriminazioni. E non conta che nel processo di apprendimento qualcuno muoia o resti lesionato a vita dallo zelo dei professori della strada, che di notte ti prendono a calci in faccia o ti soffocano con una stampella. Il tutto sta nel riuscire a sopravvivere a questo brutale processo di apprendimento che è sì violento, ma per i più necessario ad assurgere al nobile scopo di far capire ai selvaggi dalla pelle cupa come funziona la civiltà in Italia e quanto bisogna incassare per diventare dei cittadini italiani. Degli italiani brava gente. 

ARTICOLO n. 29 / 2023

CORPI IN ASCOLTO

Conflitto, rivolta, femminismo

Quando parliamo di femminismo, comunicazione, corpi e teorie c’è sempre un momento in cui dobbiamo scegliere se ascoltare anche la nostra voce critica oppure andare avanti senza ascoltare i dubbi, le immobilità, le incoerenze che una pratica come quella femminista inevitabilmente si porta dietro. Djarah Kan è una scrittrice, una femminista e un’attivista. Ha la forza comunicativa di un vulcano in eruzione e non ha paura di infilarsi dentro gli argomenti più complessi e spinosi, per questo andiamo d’accordo. In due ore di conversazione abbiamo toccato tanti punti, spesso difficili e complessi, ma con un ascolto costante e reciproco importante. Vi serve un divano comodo, una birretta e un po’ di tempo a disposizione. Buon viaggio!

Giulia Paganelli

Parole e contesti

Djarah Kan: Quindi stai abbracciando la tua ombra ora.

Giulia Paganelli: In realtà io ho sempre studiato tanto i mostri e le ombre. Perché raccontano l’imperfezione, ma anche perché generalmente vengono affrontati come narrazione superficiale di una struttura sociale vera, e cioè: esistono corpi che sono costantemente presi come modello di negatività – se studiamo Michel Foucault è chiaramente questo ciò che dice sui corpi non conformi, che cioè sono corpi resi oggetto per educare le altre persone a non diventare mai quelle ombre. Quindi in questo momento forse sto guardando tutte le cose – me compresa – da fuori, e penso che ci siano tante cose che posso provare a fare, così come altre che posso fare meglio.  

D.K. Stai attenta però, stai attenta a questo tipo di pensiero, perché è molto insidioso. Sulla base della mia esperienza, che è individuale ma è anche universale perché comunque io sono parte di un tutto, quando mi sono trovata a fare questo tipo di pensiero sono caduta in un imbuto, perché ero convinta che, qualsiasi cosa facessi, potevo sempre farla meglio. Quindi mentre facevo una cosa proiettavo su di me un desiderio di insoddisfazione che in qualche maniera governava in modo nascosto tutto quello che facevo. Come se ci fosse qualcuno di invisibile che io non vedevo, ma percepivo, che muoveva le mie mani, che muoveva anche il modo in cui strutturavo una cosa, il modo in cui la immaginavo. Sono inciampata nei miei piedi e sono dovuta ritornare un po’ indietro e capire che tutto quello che io faccio è abbastanza, l’importante è non fermarsi mai. L’assurdo è la quantità, la qualità è una cosa che dentro di te sai quando c’è. Bisogna stare attente perché il perfezionismo è un suicidio.

G.P. Il perfezionismo è una delle cose che sto razionalizzando, che sto osservando in tutte le sue sfaccettature caotiche, perché non mi sono mai accorta di essere governata da questi fili. 

D.K. Perché abbiamo questa convinzione hollywoodiana del perfezionismo, della pulizia e del controllo totale. Invece il perfezionismo è caotico, per essere perfezionista devi avere un caos dentro infernale. Il perfezionista sta chiuso in una caverna per anni perché deve spostare un frammento da un posto all’altro.

G.P. il perfezionismo è una narrazione coercitiva. Perché se le cose vengono fatte con ordine di facciata, sono più controllabili. Quindi ricade sempre all’interno della struttura di potere. 

D.K. Infatti in questo periodo ho detto “fanculo l’ordine”, io sono per la vendetta e il caos più totale. Non mi interessa più nulla. Mi ha fatto male in questi anni pensare che l’ordine mi avrebbe portato alla gioia. No, ciao e vendetta. 

G.P. Mentre parliamo provo un senso di sollievo molto profondo, perché sento una persona che ascolta – e ascoltare è cosa rara. Perché per quanto facciamo proclami sull’ascolto e sull’intersezionalità della nostra pratica… 

D.K. Ma quando mai. Sono messaggeri di un mondo che non vogliono nemmeno loro. Io non credo che le persone sappiano cosa stanno creando ed è drammatico. Vogliono tutte essere perfette, sai cosa diceva mia madre? Una cosa molto vera: tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire. Crescendo, questo detto è cambiato in ogni fase della mia vita. Oggi tutte le persone vogliono creare questo mondo pacificato, dove non ci sono più conflitti e dove le persone devono imparare solo in un ambiente protetto che sono i libri, le conferenze, le newsletter, i pantheon di persone che ti insegnano cose. Un ambiente medicalizzato, e a me non piace perché, forse, sono cresciuta come un animaletto che ha subito sul suo corpo un controllo poliziesco e non sono, quindi, molto amante del controllo in alcuna sua forma. 

G.P. Diventa un controllo quasi poliziesco della realtà, dei comportamenti. E questo diventa difficile poi da applicare alla formulazione del ragionamento che, per sua natura, ha bisogno di non avere vincoli e confini e di essere conflittuale. Il ragionamento riconosce ciò che non è coerente con i tuoi valori, ma sondare anche quello che non condividiamo è urgente per comprendere le dinamiche generali. 

D.K. L’altro giorno sono andata al bar e il barista, che avevo visto un paio di volte, mi ha tirato i capelli per capire se era una parrucca oppure no. Ti rendi conto? Era il mio quarto Negroni, però ti dico una cosa. Lui è stato molto maleducato, ma il suo gesto non era cattivo. Un ragazzo a cui nessuno ha insegnato l’educazione, che non significa razzista, significa che non sa comportarsi. Io noto che non sappiamo gestirci, mi è successo anche a me di pisciare fuori dal vaso. E tutta questa retorica del controllo poliziesco delle nostre relazioni sociali, tutta la retorica del self-help anche, tutta la narrazione della tossicità sono forme di controllo sociale che mirano ad annullare i conflitti che sono alla base dei processi che servono per imparare a relazionarsi. Ed è dura. Io a volte ho a che fare con persone bianche più progressiste, ragazze della mia età, che parlano con me e dicono “no ma io da persona bianca privilegiata penso che…”, allora io le guardo e dico »ti rendi conto che abbiamo entrambe 20 anni, ci stiamo bevendo un caffè e ci facciamo una chiacchiera e tu mi stai mettendo in una posizione di subordinazione perché ti relazioni con me sapendo che sei superiore, però ti dispiace e allora me lo vuoi dimostrare». 

G.P. Se non c’è conflitto, non c’è storia. Questo per me è uno spunto interessante perché quando parlo di privilegio e dico »guardate che il privilegio non è una proprietà dell’individuo, ma è qualcosa che viene calato dall’alto dai poteri e in cui tu sei avvolto e coccolato perché facendoti venire voglia di mantenerlo, inneschi la competizione sociale. Ma non è mai in tuo potere». 

D.K. Molte persone, infatti, sono convinte di avere la proprietà del privilegio. “Il mio privilegio”. Ma alle persone che iniziano con me una conversazione impostata in questo modo io chiedo ma tu chi cazzo sei. La mia migliore amica è nigeriana, viene da una famiglia benestante e i suoi genitori sono ricchi. L’altro giorno mi dice: «sai stavo riflettendo sulla questione delle quote razziali all’interno delle università che cercano di fare diversity & inclusion, però a me fa ridere perché sinceramente come fai a dire in partenza che io sono svantaggiata? Io sono ricca. E come fai a dire che una persona bianca è più avvantaggiata di me quando, per esempio, ha dovuto lavorare e fare sacrifici per pagarsi l’università restando indietro anche con gli esami. Come fai a dare per scontato che la sola etnia generi una situazione di svantaggio?» Lei è una mia compagna, è intelligente, è progressista e a me fa ridere pensare a tutte le persone progressiste che guardandola affermano che è una povera nera.

G.P. Secondo me dovremmo rivedere anche la hit parade del privilegio, perché se non partiamo dalla ricchezza e dalla povertà sbagliamo la lettura di tutto quanto. 

D.K. Certo, perché tu puoi insultarmi e darmi della ne*ra, ma se le tue offese non fungono da ostacoli per la mia carriera o per la mia realizzazione a me cosa me ne frega? La categoria della classe è la prima forma di discriminazione. E se teniamo a mente questa cosa poi riusciamo anche a capire dove sta il privilegio e, soprattutto, chi agisce il privilegio. Non c’è nulla di più razzista che stare lì a pensare in automatico che tu sei superiore perché sei bianca. Solo che adesso l’arco del razzismo è cambiato, perché è stato attraversato dal discorso liberale e progressista, per cui io riconosco il mio personale privilegio di essere una persona bianca, però mi dispiace perché tu non lo sei. 

G.P. Esiste, indubbiamente, la tendenza a voler eliminare il conflitto, ma se elimini il conflitto annulli le storie personali e la narrazione. E la narrazione è fondamentale per poter evolvere e risolvere le questioni. 

D.K. Ma io come faccio a capire se sono nel giusto o nello sbagliato se con te non mi scontro? Devo stare buona ad ascoltare la lezioncina che mi fai dal tuo essere dispiaciuta non perché sei bianca, ma perché non lo sono io? L’altra sera a Carnevale un ragazzo aveva una maschera di scimmia e mi fa «hai visto che mi sono travestito da te?» Lui era un altro che pensava di essere talmente progressista da poter dire questa cosa. Io non ho detto una parola, l’ho guardato per un quarto d’ora. Io penso di aver fatto di più guardandolo con disprezzo per un quarto d’ora che a fargli un discorsetto perché non aveva gli strumenti per capirlo. 

G.P. Qui ci sono due ragioni che si intrecciano secondo me. La prima è che tutte le persone sono vittime di una carenza sostanziosa di educazione emotiva, quindi se fai riferimento alle sei emozioni di base – tipo Inside Out – le uniche che capiscono, le persone forse ci arrivano. La seconda è che non stiamo mai affrontando il problema dell’accessibilità alla comunicazione. Io mi domando spesso: ma noi, esattamente, a chi stiamo parlando? Perché mi sembra sempre di essere tra quattro persone e che non si riesca mai ad andare fuori. Per parlare fuori con le persone che non ci conoscono, non conoscono le nostre marginalizzazioni, non hanno studiato le cose di cui parliamo, dobbiamo essere noi a tradurci. 

D.K. Noi viviamo nel capitalismo. Le persone sono educate a lavorare, riprodursi e a soffrire il meno possibile. Questo è lo stato delle cose. Noi dobbiamo capire che tipo di umanità ci offre questo sistema economico e sociale. Allora tu, sulla base dello scenario che hai davanti, puoi cominciare a pensare a un linguaggio. Ma non possiamo pensare che il contadino o la tua vicina di casa che lavora dodici ore al giorno voglia sorbirsi il discorso sulla razza che gli vuoi fare. Quel ragazzo faceva il garzone, probabilmente non aveva mai avuto modo di confrontarsi su questi temi in modo complesso. Ma io devo tenerne conto, io devo capire il suo livello di socialità. Allora è meglio guardarlo con disprezzo per un quarto d’ora perché quello lui può comprenderlo a un livello che va oltre i processi cognitivi.

G.P. Capire il contesto in cui ci troviamo e ci muoviamo è fondamentale, perché non con tutte le persone ti puoi mettere a fare i discorsi alti argomentando l’offesa. Dobbiamo capire in che contesto ci troviamo, altrimenti non possiamo farci capire.

D.K. Io dopo gli ho detto «ma secondo te questo che hai detto è una cosa accettabile per una persona nera? non ti sembra datato ormai come concetto?» E lui mi ha risposto che bisogna essere autoironici, «ho un sacco di amici neri». E lui ha continuato a parlare, sempre più a disagio, sempre più a disagio mentre io lo fissavo e basta fumando una sigaretta. Secondo te gli è rimasto più questo o una bella lezioncina sul razzismo?

La scrittura 

G.P. Cosa stai facendo in questo momento? 

D.K. Io scrivo e cerco di scrivere. Per me è molto difficile gestire questa cosa della scrittura soprattutto quando hai una tecnica che deriva dai tuoi stati emotivi e dalla tua capacità di rimanere concentrata. Non è facile. Però sì, ora sto ricominciando a trovare il senso di scrivere di nuovo, perché per un periodo per me non ha avuto molto senso scrivere, non avevo niente, ero troppo concentrata sul mio dolore. Quindi sì, ora sto cercando di finire il mio libro. 

G.P. Parliamo della difficoltà della scrittura. Sentire l’urgenza della storia da raccontare impone un ritmo in cui tu, inevitabilmente, ti perdi. Almeno, io passo tanto tempo rincorrendo parole e mi rendo conto che se dovessi definirmi come scrittrice di certo non userei la parola “veloce”. La pratica della scrittura per me a volte è una gabbia. “Devi scrivere perché hai delle deadline” solo che io sono una persona di fuoco, funziono a sfiammate. Ci sono giorni in cui parto e posso farlo per 14 -16 ore, altri in cui non posso restare davanti al computer oltre i cinque minuti. E mi rendo conto che questa incostanza genera un artefatto: io scrivo secondo le mie regole che non sono quelle degli altri, ma mentre io non voglio imporre le mie regole a nessuno, il mondo fuori vuole impormi le sue. 

D.K. Io ho capito che non posso affidare la scrittura a come mi sento. Quando devo scrivere mi do un metodo: non esco, zero relazioni sociali. Non sempre è una cosa positiva, ma ne ho bisogno, perché per me scrivere è una cosa molto violenta. L’atto di scrivere costantemente e di restare iper-concentrate su una cosa richiede un rapporto di reciproca comprensione con questa violenza. Ed è una scelta, secondo me. A un certo punto devi scegliere se essere una persona che vive normalmente nel mondo oppure essere una che scrive. Perché se scrivi cambia anche il tuo processo cognitivo e la comprensione di tutto.

G.P. Hai detto bene, è un gesto violento. Perché devi guardare attraverso quelle lenti. 

D.K. Io a volte ho paura di guardare perché non è detto che tutto sia trascrivibile per il mondo dei vivi, a volte ci sono cose che non possono essere scritte. Lo scrittore è una sorta di strana bestia che vive a metà tra il mondo degli esseri umani e un mondo davvero molto diverso, fatto di immagini e suggestioni, fatto di cose spesso misteriose. E tu continuamente fai questo passaggio, tra un mondo e l’altro, un viaggio tra dentro e fuori come Caronte. 

G.P. E Caronte, comunque, non era uno risolto.

D.K. Certo, guardare e osservare quelle ombre, fare in modo che quelle ombre abbiano una sostanza attraverso le tue parole e che si traducano in una lingua che è la tua lingua. E deve farla capire alle persone. 

G.P. È il mito della Caverna di Platone. Tanti abituati a guardare le ombre proiettate sul muro convinti che siano reali e poi il folle che distrugge la catena e vuole colmare quel corpo opaco, vuole tradurla ai suoi compagni. Ma i suoi compagni non lo ascoltano. 

D.K. Certo, la scrittura è sempre fraintendimento. Deve generare un momento di conflitto. Per questo io mi infastidisco quando sento «eh ma quella persona ha usato quella parola e non doveva»Le parole non sono situate in un solo luogo. La parola non ha una casa. Come la n* word, per me non ha una sola casa. Ha tante case diverse perché le persone si muovono nel tempo e nello spazio. 

G.P. Quindi parliamo del politicamente corretto. 

D.K. Il principio del Politicamente Corretto è giusto, ma la sua applicazione è problematica. Se le parole non restano in un solo luogo, l’utilizzo di una parola in me cambia significato nel tempo. 

G.P. Io decido di non usare alcune parole come atto politico. La mia scrittura non perde niente, possiamo usare la lingua con più sinonimi al mondo. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di chiedermi quanto valore abbia oggi, quando si sono polarizzate due parti, da una parte la rivendicazione della libertà di espressione e dall’altra l’ascolto obbediente e pio delle istanze. Mi manca la parte di conversazione in mezzo, lo spazio in cui capiamo che le parole non sono immobili e costruiamo una lingua collettiva. Io oggi non vedo questo terreno comune, neanche dentro al Femminismo Intersezionale. 

D.K. io per molto tempo ho usato la n*word, poi l’ho smessa, poi l’ho ripresa. Ma il modo in cui la uso io è chiaramente diverso dal mondo in cui lo usa una persona in modo dispregiativo. Noi dobbiamo iniziare a valutare questi contesti, dobbiamo iniziare a porci queste domande. 

G.P. Le parole non sono immobili, lo ripeto. Le parole non sono un insieme di lettere, ma un insieme di immagini storiche, comportamenti e queste cose cambiano a seconda del posto del mondo in cui vivi e del tempo in cui respiri. Quando ho iniziato a studiare e decodificare i corpi, per me è stato subito chiaro che le pratiche discorsive sono alla base della conformazione visiva del mondo in cui viviamo. Io mi sono sempre occupata di antropologia applicata al sistema culturale occidentale, mi sono sempre rifiutata di andare in altri luoghi e trattare ambienti e persone come cavie da osservazione, non fa parte di me. Ma, cazzo, il sistema occidentale ha bisogno di essere guardato dall’antropologia per essere visto e smantellato. Così arrivi al punto in cui capisci che le parole, il modo in cui vestono i corpi, la facilità con cui comunicando conformiamo uno sguardo, sono Il Punto. 

Identità e Nazioni 

D.K. Parliamo di corpi e di identity politics, perché noi prendiamo dal contesto americano tante categorie e teorie pari-pari senza che in contesto italiano sia possibile applicarli. Quando io ho letto il Manifesto della Razza del 1938 ho capito che quella era La Lettura, quel libello spiega perché in questo paese le persone non bianche faticano a trovare uno spazio. Noi siamo corpi astorici, tutto quello che facciamo non è previsto e, anche quando accade, inizia e finisce là, perché viene giudicato un caso. Quindi tutto ciò che non è bianco non è considerato qualcosa che ha valore abbastanza da dover essere indagato. In questo paese c’è stata la strage di immigrati più crudele della Repubblica – a Castel Volturno la camorra ha ucciso sette persone non bianche – causata da motivazioni razziali. In quel momento c’erano molti immigrati e la Camorra ha deciso di andare a sparare a quei sacchi di carbone, li chiamavano così. Sette persone uccise, ma tu senti mai di questa strage? 

G.P. Mai. 

D.K. All’inizio i giornali avevano raccontato questa strage come regolamento di conti tra Mafia Nigeriana e camorra. Invece erano innocenti, persone giovani. E ancora ci chiediamo se l’Italia è razzista. Certo che l’Italia è razzista, perché l’Italia è diventata bianca nel tempo. 

G.P. La storia d’Italia è una storia che va in questo senso, le stesse persone meridionali non venivano considerate bianche quando ci sono stati i primi tentativi di unione. Nel manifesto della razza si parla di omogeneità della pelle, quindi è il corpo che ti rende italiana. E questo ritorna sul discorso dei corpi e delle parole, perché tutti i corpi non conformi indossano degli stereotipi e per questo sono astorici. In Italia abbiamo una complessità ulteriore, perché l’Italia mutua dalle altre nazioni il concetto di identità nazionale, senza averlo costruito davvero. La storia d’Italia si racconta di una frammentazione perenne in ducati e signorie, frammentazione che rivomitiamo fuori costantemente. 

D.K. Rivomitiamo costantemente nel razzismo, perché le autonomie regionali sono feudi che si arroccano perché non vogliono condividere nulla con le altre persone. Noi non solo siamo razzisti, vittime di costanti guerre interne tra territori e territori, ma addirittura a un certo punto ci siamo guardati e abbiamo detto “come costruiamo un’identità nazionale? Andando a invadere altri territori”, così possiamo dire di essere un popolo unito perché siamo andate a massacrare persone che per noi sono inferiori. 

G.P. Quello che sottovalutiamo nell’analisi dell’Italia come nazione è il gap che abbiamo con la storia identitaria delle nazioni che hanno avuto Monarchie assolute e che, nel loro avere un potere centralizzato dall’alto, hanno costruito un tessuto sociale su scala macro, con categorie sociali macro che attraversano il territorio. In Francia con la potenza dell’aristocrazia e delle corti, ma anche con l’opposizione delle classi più povere che a un certo punto hanno agito. In Gran Bretagna con una storia fatta anch’essa di territori divisi ma che vanta un’unificazione ben più longeva e politicamente omogenea della nostra. In Prussia, quando con la Casata degli Hohenzollern si fissa il potere e poi si declina unificando i grandi Elettori sotto un unico presidio, ma anche in questo caso parliamo dell’inizio del 1400. L’Italia non è fatta di queste cose. L’Italia è fatta di una storia che parte già da un Impero Romano che per funzionare ha decentralizzato il potere nelle preture e queste preture erano Stati a se stanti. Certo, esisteva la grande narrazione divina dell’Impero, ma in realtà al suo interno deriva la frammentazione che già fu delle poleis greche. 

D.K. Certo, anche la storia tra Impero Romano e popolo ebraico va in questa direzione. L’Impero Romano impone un dominio, ma lascia alle singole parti la gestione. Questa è la storia dell’Italia, la storia di un paese che ha fatto tantissimi sforzi per concepirsi come unico, ma ha sempre fallito. Solo col sangue dell’unificazione si è arrivati ad avere un solo paese. 

G.P. Un solo paese geograficamente parlando, ma resta totalmente intatta la divisione fino alla storia dell’autonomia recente. Perché noi, nella divisione in piccole province, stiamo comodi. Tanto che la stessa lingua dell’Impero, il latino, muore per lasciare lo spazio alle lingue volgari. Certo, si somigliano tra loro per una questione fisiologica, ma la chiave per interpretare questa cosa è la particolarità territoriale della lingua, data dalla sopravvivenza dei dialetti e dalla loro trasformazione in modi di dire che valgono spesso per un paese e non per quello accanto. Per questo, per questo motivo, quando avere un’identità è stato necessario, abbiamo deciso di essere bianchi e di essere contro tutte le persone non bianche. Il Fascismo ha risposto con slogan e pratiche criminali a questa necessità di aggregazione identitaria. Lo fa anche oggi, è il motivo per cui Meloni vince. 

D.K. Noi siamo italiani perché siamo bianchi, perchè siamo cristiani, perché non vogliamo far abortire le donne, perché non vogliamo immigrati e vogliamo proteggerci. 

I Corpi 

D.K. Teorizzare e parlare di corpi significa rendere consapevoli le persone che ci sono cose che senza esperienza non possono leggere e vedere. Il razzismo non è un problema solo per le persone nere, è un problema anche per le persone bianche, perché non hai la possibilità di vedere quello che ti capita intorno con una consapevolezza trasversale e condivisa. Io non ti parlo di razzismo perché voglio essere riconosciuta, te ne parlo perché la tua è un’identità fasulla e, anche se non riconosci quella violenza perché dici di non essere violenta, io voglio dimostrarti che non è così. Io voglio strappare il velo di Maya che hai davanti agli occhi. 

G.P. Quando vivi in un sistema artificiale e non ti rendi conto di come sia la realtà, è un problema. Questa cosa è molto simile anche al rapporto che abbiamo con i corpi grassi. Quando parlo con persone che subiscono altri tipi di marginalizzazione mi rendo conto che ci sono delle continuità cognitive. Parlare di stigma del peso e di grassofobia a persone con corpi magri o corpi – diciamo – normali è un gran lavoro. È mettermi nella condizione di poter assorbire molta parte della violenza che hanno dentro. Le persone non si rendono conto di essere vittime di un sistema che le porta a performare continuamente col loro corpo e nel loro corpo. Questa cosa di cui non si rendono conto è violentissima, perché li porta a infliggersi pratiche non perché siano giuste, ma perché sono persone terrorizzate di cadere dentro il gruppo di persone ai margini. 

D.K. Ma certo, chi ti ama quando sei grassa? Chi ti ascolta, chi ti vuole, chi ti considera? Nessuno. E te lo dico io, non ho nessun problema a dire che io sono grassofobica con me stessa. Ho avuto per tanti anni disturbi alimentari. Sai che di quel periodo non mi ricordo nulla di me? Ricordo solo che ero grassa, anche se non lo ero per niente. Io ho vissuto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in modo violentissimo. Da piccola bambina magrissima mi sono trasformata in una donna col seno e sessualizzata. Non mi dimenticherò mai tutte le persone che mi hanno costantemente fatto notare quanto seno o sedere avessi. 

G.P. Ma certo, perché fin da quando sei piccola ti insegnano che non puoi meritare nulla se non hai un corpo magro. E questo significa che le persone che hanno a che fare con te sono giudicate come perverse e tu, che non hai ricevuto educazione emotiva neanche per sbaglio, accetti molte cose che mai dovrebbero essere fatte a una persona. Nel DMS c’è ancora l’adipofilia nell’elenco delle parafilie. Significa che in un processo per violenza sessuale se il mio abuser ha un avvocato furbo, nessuno verrà incriminato. 

D.K. Perché è considerata una malattia. Questa è una cosa terribile. Terribile.