ARTICOLO n. 94 / 2023

LE DONNE HANNO BISOGNO DI MOLTO PIÙ PIACERE

Intervista di Isabella De Silvestro

V è il nome che ha scelto per sé la drammaturga, scrittrice e attivista femminista Eve Ensler. Un nome che le fosse proprio, che la liberasse dal cognome del padre abusante e violento di cui ha scritto in Chiedimi scusa (Il Saggiatore, 2019). Autrice de I monologhi della vagina, definiti dal New York Times il più importante testo di teatro politico del decennio, tradotto in 48 lingue e rappresentato nei teatri di 140 paesi, V unisce scrittura e militanza come fossero un unico gesto: la parola per l’azione e l’azione attraverso la parola. Ha fondato il V-day, un movimento per la lotta contro la violenza sulle donne che ogni anno aiuta a finanziare rifugi e centri antiviolenza in tutto il mondo. 

Il suo ultimo libro si intitola Io sono un’esplosione. Una vita di lotta e di speranza (Il Saggiatore)Si tratta di un memoir frammentato eppure coerente, personale ma fortemente politico: «Forse la mia scrittura in tutti questi anni è stata semplicemente un registrare cadute: i senzatetto, gli imprigionati, i violentati, gli esiliati che cadevano nelle crepe, che cadevano e andavano in mille pezzi, una caduta di aspettative troppo alte, la paura di cadere nell’oblio». L’ho incontrata per parlare di cadute, muri, corpi e lotte. Di amore e di sesso. Del mondo come per lo conosciamo e del mondo per come lo vorremmo.

Isabella De Silvestro: Lei scrive di muri. Muri di prigioni, frontiere, rifugi per senzatetto, case di periferie. Perché si è sentita richiamata dai margini, da ciò che è escluso dal centro?

V: Credo di essere sempre stata interessata agli emarginati, alle persone escluse, probabilmente perché mi sono sempre sentita un’outsider anche io, fin da bambina. Mi sentivo estranea alla mia famiglia, violentata, picchiata, umiliata. E forse durante la mia infanzia avrei desiderato che qualcuno venisse da me, mi raggiungesse in quell’estraneità. Molto presto mi sono promessa che un giorno avrei raggiunto le persone invisibili e oppresse laddove nessuno le andava a trovare.

I.D.S. Dice di non avere uno strato di pelle, qualcosa che la protegga dal dolore degli altri. Eppure, va regolarmente e spontaneamente in territori di guerra facendosi testimone di storie terribili. Come sopravvive? Come fa a non cedere a un dolore sconsolato? 

V: Ieri sera a Firenze una donna mi ha detto una cosa interessante. Mi ha detto che per lei il libro [Io sono un’esplosione, n.d.r.] entra nel dolore, lo attraversa e lo valica. Io penso di aver sempre saputo che se mi permetto di sentire il dolore posso scavalcarlo, arrivare dove c’è speranza. Quando invece lo reprimo, lo scaccio, oppongo resistenza, mi ammalo. La ferita è un portale. 

I.D.S. Condividere le ferite con altre donne l’ha aiutata?

V: Assolutamente sì. Mi ha fatto capire che non ero sola, che potevo creare connessioni profonde che in fin dei conti sono amore e libertà. È una sensazione bellissima. A volte è tutto troppo doloroso, e allora devi solo piangere a letto per due settimane. Quando sono tornata dalla Repubblica Democratica del Congo sono rimasta a letto per un mese. Non riuscivo a funzionare.

I.D.S. Riusciva a scrivere?

V: Sì, a scrivere sì. Non è sempre così. A volte le cose sono troppo difficili da elaborare. Rispetto alla situazione a Gaza, per esempio, per un mese ho provato un dolore muto, privo di parole. Solo ora inizio a trovare qualche parola adatta. 

I.D.S. A proposito di Gaza, sono rimasta colpita da un passo del libro dove lei, rivolgendosi al suo amico Richard Royal, morto di AIDS, scrive: «Non c’è poesia che reciteresti, non dopo Auschwitz, non dopo Hiroshima». Che poesie reciteremo dopo Gaza?

V: È un’ottima domanda. Sarò onesta: mi sento avvolta nel dolore, sento come se il mio corpo fosse un sarcofago di dolore. E non so come si scrivano e recitino poesie dopo quello a cui abbiamo assistito. Il nostro stesso essere testimoni dell’orrore mi appare colpevole. Quindi non ho una risposta in questo momento. Cerco di concentrarmi sull’azione, sull’attivismo. In V-Day abbiamo lavorato intensamente con donne palestinesi e israeliane, cercando di immaginare un futuro dove i rapporti non sono regolati dalla violenza e dalla sopraffazione ma dal riconoscimento reciproco di dignità.

I.D.S. È stata in Israele e in Palestina?

V: Molte volte.

I.D.S. Qual è stata la sua impressione?

V: Quella che immagina. È dal 1948 che i palestinesi, con la prima Nakba, sono stati espulsi dalle loro terre. E per molti, molti anni, hanno vissuto sotto occupazione. Non vivono come cittadini a pieno titolo, non hanno pieni diritti. Hanno vissuto fondamentalmente in apartheid in Cisgiordania, e in una prigione a cielo aperto a Gaza. E seppure pensi che non ci sia giustificazione per la violenza e che quello che è accaduto il 7 ottobre sia orrendo – sono ebrea – penso anche che sia doveroso comprendere l’origine della violenza. Quali sono le radici della violenza? È la domanda a cui ho dedicato tutta la mia vita. Quando occupi le terre di un popolo, quando privi le persone dei propri diritti, quando non le lasci celebrare i funerali, quando le arresti senza processo, quando le sottoponi a centinaia di checkpoint cosicché smettano anche di provare a uscire, ciò che ottieni è rabbia. Io stessa sarei infuriata. 

I.D.S. Prima parlava di speranza. Rabbia e speranza possono coesistere?

V: Speranza è una parola strana. Vede, io sento che sto lottando per la mia vita e che lotterò fino all’ultimo respiro per la libertà, per porre fine alla violenza, al patriarcato, al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, all’imperialismo e per la sopravvivenza della nostra preziosa Madre Terra. Do la mia vita per questo. Alcuni giorni mi sento speranzosa, altri giorni no, ma è irrilevante. Questo è ciò che voglio fare della mia vita e non credo c’entri con la speranza, c’entra il fatto che è ciò che siamo chiamati a fare come esseri umani, Indipendentemente dal fatto che vinciamo o no. Non sta a noi decidere o preoccuparcene. Sta a noi lavorare per cambiare la situazione attuale, per trasformare la coscienza umana. 

I.D.S. E la rabbia? Che ruolo ha la rabbia?

V: Un ruolo fondamentale.

I.D.S. È un carburante? 

V: Lo è, ed è potente. La rabbia è energia ed è passione. Quando ne sei investito puoi imparare a canalizzarla e farne molte cose. Rispetto alle donne, è bene che la sentano e se ne servano, ma penso anche che non si possa essere solo arrabbiati. Penso che amore e rabbia debbano convergere. Nella Città della Gioia, in Congo, ogni sei mesi arrivano 90 donne vittime di violenza. Ovviamente hanno sofferto e sono arrabbiate, portano sul corpo i segni degli abusi. Ma hanno un’impressionante capacità di trasformare il dolore in potenza, di trasformare le peggiori tragedie in una sorta di movimento in avanti che sentono in primo luogo nel corpo. Quindi non vivono la loro vita come vittime, usano la forza ritrovata per sollevare altre donne dal baratro. Sono incredibili. E questo vale per le donne che ho incontrato in tutto il mondo. Ovunque.

I.D.S. A proposito di vittime: mi sembra che negli ultimi vent’anni ci sia stato un cambio di paradigma importante. Se nel ventesimo secolo lo stato di vittima non era desiderabile, oggi si tende a rivendicarlo come un’identità e un dispositivo politico. Che ne pensa?

V: Penso sia importante identificare le violenze subite, attraversare il processo che passa per la rabbia e arriva alla guarigione. Dunque, passare da vittima a sopravvissuta. E una volta che sei una sopravvissuta puoi iniziare a pensare ad altre persone: è tua responsabilità trasformare ciò che ti è accaduto in medicina per le persone che incontri. Crogiolarsi nell’identità di vittima trovo sia autodistruttivo e limitante. Riconoscere gli abusi subiti serve a lottare perché nessun altro li debba subire. 

I.D.S. Immagino lei abbia saputo del femminicidio di Giulia Cecchettin e dell’enorme risonanza che sta avendo la lettura femminista della sorella Elena, con una condanna chiara e lucida al patriarcato come sistema di potere al cui culmine sta l’eliminazione della donna attraverso l’uccisione. Nel suo libro scrive di non amare il concetto di “alleato” rispetto alla lotta contro il razzismo. Vale lo stesso per la lotta femminista? E intendo: cosa chiedere agli uomini?

V: Vede, il concetto di “alleato” implica una gerarchia dei ruoli che non sopporto. Peraltro, trovo ancora assurdo che porre fine alla violenza sulle donne sia diventata una questione delle donne. Non siamo noi a stuprarci o a picchiarci. E un problema degli uomini. Quindi no, non devono essere nostri alleati. Devono smettere di stuprarci, di ucciderci, di opprimerci. Ed essere in prima linea per smantellare il sistema patriarcale che si nutre di violenza e sopraffazione. E che va a braccetto con il sistema capitalistico. 

I.D.S. Quanto sono importanti le parole nell’affrontare le questioni di genere? Il come cambia il cosa?

V: Le parole sono molto importanti. Chi racconta la storia ha il potere sulla storia. Se c’è una cosa che ho imparato con I monologhi della vagina è che dire una parola molte volte ha degli effetti sulla realtà. Chi aveva paura di dire vagina, a forza di sentirla nominare ha iniziato a guardarla, a scoprirla, a scoprirsi e affermarsi.  

I.D.S. Il sesso fa parte dell’arsenale della rivoluzione femminista? 

V: Penso che il sesso sia liberazione, guarigione, potenza, gloria. Il sesso è estatico. Le donne hanno bisogno di molto, molto più piacere nelle loro vite. Le religioni ci hanno insegnato la paura del piacere per esercitare un controllo più efficace sui nostri corpi e le nostre vite. Credo fortemente nella masturbazione. Penso che sia la forma più alta di preghiera. Permette di capire fino a che punto puoi arrivare, quanto lontano possono arrivare i tuoi orgasmi. Questo vuol dire che poi, quando farai sesso con qualcuno, saprai dire: no, questo è solo l’inizio. Continuiamo. Non abbiamo ancora finito. 

I.D.S. È innamorata?

V: Non saprei… Non mi innamoro da molto tempo, forse quindici anni. Sono innamorata dei miei amici, vivo con loro in una piccola comune.  Ma non so se mi innamorerò di nuovo. Ma poi mi chiedo: è importante?

Ho avuto due relazioni a lungo termine. Entrambe sono state meravigliose ma oggi sono altrove. Amo la mia autonomia, la mia casa, la terra sulla quale vivo, amo viaggiare. Questa sono io: non ho mai voluto sposarmi, non sono una persona monogama. E oggi sono molto felice. Profondamente felice. Penso che sia collegato al riappropriarsi dei propri desideri, a capire finalmente che puoi volere e desiderare molte cose. 

I.D.S. Ha scritto di sentirsi orfana pur avendo una madre viva. Ci si può sentire madri senza aver dato alla luce? È madre di qualcuno o qualcosa?

V: Ho adottato mio figlio quando aveva 15 anni e io ne avevo 23. Ero sposata con suo padre e sono andata in tribunale per adottarlo. È mio figlio da 45 anni e l’ho amato come qualsiasi altra madre, un amore profondissimo. Quindi sì, puoi essere madre, puoi fare qualsiasi cosa tu voglia fare. L’amore è ciò che senti, ciò che vivi e ciò che fai. Il sangue invece è come… Non so, non so nemmeno cosa sia, non mi interessa più. 

I.D.S. Si sente fortunata?

V: Mi sento benedetta. Ho avuto un cancro quattordici anni fa e avrei dovuto morire. Non sono morta. Sono molto amata. E ho avuto una vita meravigliosa. Non ho più nulla di cui piangere. 

ARTICOLO n. 88 / 2024