Louise Glück

ARTICOLO n. 1 / 2021

Discorso per il Premio Nobel

traduzione di Valeria Gorla

Quando ero una bambina, di cinque o sei anni, credo, inscenai nella mia mente una competizione, una gara per decidere quale fosse la più grande poesia del mondo. C’erano due finalisti: Il bimbo nero di Blake e Swanee River di Stephen Foster. Camminavo avanti e indietro nella seconda camera da letto della casa di mia nonna a Cedarhurst, un paesino sulla costa meridionale di Long Island, recitando come preferivo, nella mia testa e non con la bocca, l’indimenticabile poesia di Blake, e cantando, sempre nella mia testa, la triste canzone di Foster. Come fossi arrivata a leggere Blake è un mistero. Credo che ci fossero alcune antologie di poesia nella casa dei miei genitori, oltre ai normali libri di politica e storia e i numerosi romanzi. Ma associo Blake alla casa di mia nonna. Mia nonna non era un’amante dei libri. Ma c’era Blake, I canti dell’innocenza e dell’esperienza, e anche un libretto di canzoni tratte dalle opere di Shakespeare, molte delle quali imparai a memoria. In particolare amavo la canzone tratta dal Cimbelino, probabilmente senza comprenderne nemmeno una parola ma percependone il tono, le cadenze, gli imperativi risonanti, elettrizzanti per una bambina molto timida e paurosa. «Abbi tomba famosa senza confine». Lo speravo.

Le competizioni di questo tipo, per l’onore, un’alta ricompensa, mi sembravano naturali; i miti che costituivano le mie prime letture ne erano pieni. La più grande poesia del mondo mi sembrava, perfino da giovanissima, la più alta fra tutte le alte onorificenze. Questo era anche il modo in cui mia sorella e io fummo allevate, per salvare la Francia (Giovanna d’Arco), per scoprire il radio (Marie Curie). In seguito cominciai a comprendere i pericoli e i limiti del pensiero gerarchico, ma durante l’infanzia mi sembrava importante conferire un premio. In cima alla montagna c’era un’unica persona, visibile da lontano, la sola cosa degna d’interesse sulla montagna. La persona un po’ più sotto era invisibile.

O, in questo caso, la poesia. Ero sicura che soprattutto Blake fosse in qualche modo consapevole di questo evento, che fosse attento al risultato. Capivo che era morto, ma avevo la sensazione che fosse ancora vivo, dato che sentivo la sua voce che mi parlava; camuffata, ma era la sua voce. Parlava, così mi sembrava, solo a me o soprattutto a me. Mi sentivo eletta, privilegiata; sentivo anche che era a Blake che aspiravo a parlare, a lui, insieme a Shakespeare, stavo già parlando.

Blake fu il vincitore della competizione. Ma in seguito mi resi conto di quanto fossero simili questi due testi; ero attratta, allora come ora, dalla voce umana solitaria, alzata in lamento o desiderio. E i poeti a cui tornavo a mano a mano che crescevo erano i poeti nelle cui opere svolgevo, quale ascoltatrice eletta, un ruolo cruciale. Intimi, seducenti, spesso furtivi o clandestini. Non poeti da stadio. Non poeti che parlavano a se stessi.

Mi piaceva questo patto, mi piaceva il senso secondo cui ciò che la poesia diceva era essenziale e anche privato, il messaggio ricevuto dal prete o dall’analista.

La cerimonia di premiazione nella seconda camera da letto di mia nonna sembrava, in virtù della sua segretezza, un’estensione dell’intensa relazione che la poesia aveva creato: un’estensione, non una violazione.

Blake mi parlava attraverso il bimbo nero; era l’origine nascosta di quella voce. Non lo si poteva vedere, proprio come il bimbo nero non veniva visto, o veniva visto in modo impreciso, dal bimbo bianco ottuso e sprezzante. Ma io sapevo che ciò che diceva era vero, che il suo provvisorio corpo mortale conteneva un’anima di luminosa purezza; lo sapevo perché ciò che dice il bimbo nero, la sua descrizione dei propri sentimenti e della propria esperienza, non contengono biasimo, nessun desiderio di vendicarsi, solo la convinzione che, nel mondo perfetto che gli è stato promesso dopo la morte, sarà riconosciuto per quello che è, e in un eccesso di gioia proteggerà il più fragile bambino bianco dall’improvviso eccesso di luce. Il fatto che questa non sia una speranza realistica, che ignori il reale, rende la poesia struggente e anche profondamente politica. Il dolore e la giusta rabbia che il bimbo nero non può permettersi di provare, da cui sua madre cerca di difenderlo, sono provati dal lettore o dall’ascoltatore. Anche quando quel lettore è un bambino.

Ma l’onore pubblico è un’altra faccenda.

Le poesie da cui sono stata attratta con più ardore, nel corso di tutta la mia vita, sono poesie del tipo che ho descritto, poesie di selezione o collusione intima, poesie a cui l’ascoltatore o il lettore dà un contributo essenziale, in quanto destinatario di una confidenza o di un grido di protesta, a volte in quanto cospiratore. «Io sono Nessuno» dice Dickinson. «Sei Nessuno anche tu? / Allora siamo in due! / Non dirlo…» O Eliot: «Allora andiamo, tu ed io, / Quando la sera si stende contro il cielo / Come un paziente eterizzato disteso su una tavola…». Eliot non sta radunando una truppa di boy scout. Sta chiedendo qualcosa al lettore. Al contrario, per esempio, di «Devo paragonarti a una giornata estiva?» di Shakespeare: Shakespeare non mi sta paragonando a una giornata estiva. Mi è concesso di cogliere un virtuosismo abbagliante, ma la poesia non richiede la mia presenza.

Nel tipo di arte da cui sono attratta, la voce o il giudizio della collettività sono pericolosi. La precarietà del discorso intimo rafforza il suo potere e il potere del lettore, che con la sua azione incoraggia la voce nella sua urgente richiesta o confidenza.

Che cosa succede a un poeta di questo tipo quando la collettività, invece di esiliarlo o ignorarlo, lo applaude o eleva? Mi viene da dire che un tale poeta si sentirebbe minacciato, superato in astuzia.

È di questo che parla Dickinson. Non sempre, ma spesso.

Ho letto Emily Dickinson con grandissima passione quando ero adolescente. Di solito a tarda notte, passata l’ora di andare a letto, sul divano del soggiorno.

Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?

E, nella versione che leggevo allora e che ancora preferisco:

Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero esiliarci, lo sai…

Dickinson mi aveva scelta, o riconosciuta, mentre sedevo lì sul divano. Eravamo un’élite, compagne d’invisibilità, un fatto noto solo a noi, che ciascuna corroborava all’altra. Nel mondo, non eravamo nessuno.

Ma cosa potrebbe costituire esilio per gente che esiste come facevamo noi, al sicuro sotto il tronco? L’esilio è quando il tronco viene spostato.

Non parlo qui della perniciosa influenza di Emily Dickinson sulle ragazze adolescenti. Parlo di un temperamento che diffida della vita pubblica o la considera il regno in cui la generalizzazione cancella la precisione, e la verità parziale sostituisce il candore e la rivelazione pregna. A mo’ di esempio: supponete che la voce della cospiratrice, la voce di Dickinson, sia sostituita dalla voce del tribunale. «Noi siamo Nessuno, tu chi sei?» Il messaggio diventa all’improvviso sinistro.

Per me è stata una sorpresa, la mattina dell’8 ottobre, provare il genere di panico che ho descritto. La luce era troppo intensa. Le dimensioni troppo ampie.

Chi fra noi scrive libri desidera presumibilmente raggiungere molte persone. Ma alcuni poeti non vedono l’obiettivo di raggiungere molte persone in termini spaziali, nel senso di un auditorium pieno. Vedono il raggiungere molte persone in senso temporale, in maniera sequenziale, molte nel tempo, nel futuro; ma in qualche modo profondo questi lettori arrivano sempre singolarmente, uno a uno.

Credo che nell’assegnarmi questo premio, l’Accademia svedese stia scegliendo di onorare la voce intima, privata, che il discorso pubblico può a volte accrescere o estendere, ma mai sostituire.