ARTICOLO n. 67 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANIOL RAFEL

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Aniol Rafel è un editore catalano. Ha fondato Edicions del periscopi nel 2012.

Andrea Gentile: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

Aniol Rafel: Entrambi mi sembrano corretti, a modo loro. Quando penso al lavoro dell’editore, spesso mi viene in mente l’immagine di una levatrice che aiuta a far nascere un neonato, verificando che la madre sia sana e che il bambino ne esca al meglio. In editoria facciamo la stessa cosa, trasformando i manoscritti nella versione migliore di sé. Il nostro lavoro, però, è affine anche a quello dei cercatori d’oro: tra i ruoli più importanti che svolgiamo nel creare un catalogo, infatti, c’è quello di filtrarne i contenuti. Tale filtraggio avviene attraverso la lettura, ovviamente, ma anche tramite recensioni, consigli, premi e suggerimenti da parte di persone fidate. Con tutti questi indizi alla mano, ci mettiamo in cerca del nostro tesoro, i libri che andranno a costituire il nostro catalogo. Quando troviamo i primi pezzi, però, la ricerca cambia, perché dobbiamo costruire un catalogo fatto di libri capaci di essere complementari, di raggiungere un mutuo equilibrio, di instaurare un dialogo con gli altri libri e con i lettori. Per me, quindi, l’editore non è tanto un artista quanto un architetto o un carpentiere, intento a costruire una casa in grado di accogliere il miracolo che è il rapporto tra i libri e chi li legge.

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A.R. Sono convinto che uno dei principali impulsi che fa di noi degli editori è la volontà di condividere la meraviglia che proviamo dopo aver terminato la lettura di qualcosa che ci ha commosso, che ci ha reso diversi da ciò che eravamo prima. È un momento di estasi talmente potente da volerlo condividere prima con i propri cari, poi, ben presto, con quante più persone possibile. Per me è stato così dopo aver letto sia La via della fame di Ben Okri sia Le cose crollano di Chinua Achebe, due libri che riescono a espandere i confini della realtà in un modo di cui vado sempre alla ricerca quando leggo qualcosa. Probabilmente è anche per questo che il nostro catalogo è così incentrato sulla letteratura africana e che ha incluso anche autori come Mia Couto o José Eduardo Agualusa. Un’altra epifania del genere l’ho avuta intorno ai vent’anni, rileggendo Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere, di James M. Barrie, testo che mi ha affascinato per la sua ferocia, per il suo approccio al lato più selvaggio dell’animo umano e alla crudeltà mista a bellezza e ironia. Da allora, l’idea del male in tutte le sue rappresentazioni, come pure dei diversi approcci al passaggio alla maggiore età, è stato uno dei miei principali interessi, sia nelle mie letture sia nella costruzione del nostro catalogo.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A.R. Ogni volta che pubblichiamo un libro instauriamo un dialogo con la comunità dei lettori che ci circonda, per cui la realtà attorno a noi è influenzata dalla presenza costante di tutti questi contenuti. Per comprendere la nostra società e la comunità in cui viviamo, quindi, dobbiamo capire come tutti questi elementi si combinano a dare nuova forma ai nostri comportamenti, al nostro modo di comunicare gli uni con gli altri e al modo in cui decidiamo di trascorrere il nostro tempo. Tutti questi cambiamenti, poi, si applicano sia alle nostre vite quotidiane, sia ai filoni narrativi che cercano di spiegare il mondo tramite la letteratura e il fantastico, oltre che al modo in cui leggiamo e interpretiamo sia la letteratura sia la realtà che ci circonda. Tutti questi cambiamenti danno adito a nuovi modi di comunicare, cosa che è importante tenere presente se vogliamo avvicinarci ai nostri lettori e alla nostra comunità. È importante capire che questi mezzi di comunicazione alternativi hanno un ruolo fondamentale anche nel determinare il ruolo sociale della lettura, dei libri e della letteratura, perciò dobbiamo avere un’ottima comprensione di ciò che può servirci e di ciò che ci troviamo di fronte.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A.R. In certi segmenti della nostra società sì, ma è vero che gran parte della nostra comunità non mette i libri al centro della propria vita e non li ritiene strumenti importanti per il proprio sviluppo personale. C’è una parte della società che considera i libri e tutto ciò che li circonda qualcosa di sacro, qualcosa che conferisce un determinato status sociale e culturale. Sempre più persone, però, tendono a considerare i libri una semplice fonte di intrattenimento (peraltro decadente) e di nozioni, se non un semplice oggetto costoso che si riceve in regalo. È possibile che questo secondo gruppo diventi sempre più numeroso, ma ci sarà sempre una resistenza, costituita da quelle poche anime felici che hanno un rapporto speciale con i libri e con la lettura.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A.R. Il defunto editore Jaume Villacorba diceva: «Non pubblico i libri che la gente vuole, pubblico libri che la gente ancora non sa di volere». Noi non seguiamo proprio lo stesso approccio, ma di tanto in tanto è bene ricordarsene, sapere che non dobbiamo necessariamente essere prigionieri dei desideri altrui. Inoltre, ci mettiamo nei panni dei potenziali lettori dei nostri volumi, per cui cerchiamo di pubblicare sì i libri che si rivelano una bella scoperta, ma anche quelli che sanno risvegliare la nostra curiosità, che ci fanno scoprire territori inesplorati e viaggiare in luoghi sconosciuti.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A.R. In un’Europa davvero unita avrebbe sicuramente senso, ma abbiamo ancora molta strada da fare per arrivare fin là. Per di più, ogni paese legge cose molto diverse, non solo per la lingua di pubblicazione, ma anche per un’ampia rete di differenze sociali e culturali. Una comunicazione più fluida e un aumento degli scambi culturali possono aiutare, ma riferimenti e interessi sono troppo diversi. Uno dei punti chiave del lavoro di editore, che fa sempre parte del suo impegno a far arrivare i libri al pubblico, è riuscire a stabilire una solida rete di complicità con i lettori e con i relativi prescrittori (librai, giornalisti, influencer…). Al giorno d’oggi, però, questa rete varia ancora troppo da un paese all’altro.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di coesistere, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A.R. Il mercato è ricco di esempi di entrambi gli approcci: quello che si concentra sul singolo titolo o autore, per cui i libri sono talmente diversi l’uno dall’altro che l’identità dell’editore risulta quasi impercettibile, e quello che invece si concentra proprio sull’editore, anche a costo di rendere più difficile individuare e separare i titoli di un dato catalogo. Qui [in Spagna] gli editori con tendenze più commerciali tendono a seguire il primo approccio, mentre quelli con aspirazioni più letterarie in genere seguono il secondo. Noi propendiamo per il secondo, ma fin dall’inizio abbiamo incorporato degli elementi del primo approccio, per cercare di sfruttarne alcuni vantaggi. L’idea è di evitare che i lettori possano confondere titoli diversi di uno stesso catalogo e di dare a ogni libro una sua identità, anche in un contesto in cui è l’identità dell’editore a essere preponderante.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A.R. È molto difficile da prevedere. Certo, l’oggetto libro in sé è molto difficile da migliorare, ma è pur vero che stiamo vivendo una situazione di crisi sistemica, dove le materie prime saranno sempre più scarse e dove la carta si farà sempre più rara e costosa, per cui non possiamo sapere che cosa succederà. D’altro canto, se i libri sono oggetti meravigliosi, probabilmente destinati a durare ancora molti decenni, in definitiva ciò che viene venduto non è tanto l’oggetto in sé quanto quello che contiene, perciò, anche se il formato dovesse cambiare (cosa possibile), gli editori serviranno comunque. Se devo provare a immaginare un possibile futuro, credo che si produrranno e venderanno meno libri, che però esisteranno ancora e saranno ancora importanti per un buon numero di persone. Magari costeranno di più e saranno più correlati a contenuti d’altro genere. Probabilmente succederà in maniera del tutto inaspettata.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A.R. Considerato che pubblichiamo 10-12 libri l’anno, ognuno dei nostri titoli è speciale e viene selezionato con grande attenzione. Nei prossimi sei mesi pubblicheremo volumi provenienti da parti del mondo molto diverse, che siamo sicuri faranno felici i nostri lettori tanto quanto noi. Per fare un esempio, siamo molto orgogliosi di essere il principale editore catalano dell’autore mozambicano Mia Couto, di cui stiamo per pubblicare l’ultimo romanzo. Inoltre, di recente ci siamo avvicinati al genere della saggistica in stile narrativo, come per Hidden Valley Road di Robert Kolker, di cui ben presto pubblicheremo la traduzione in catalano. In un’intervista con The Italian Review, poi, non possiamo non menzionare la traduzione catalana del Libro delle case di Andrea Bajani.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

A.R. So che dovrei dirne uno solo, ma me ne vengono in mente almeno tre: L’OdisseaLa Divina Commedia, e Le mille e una notte.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 74 / 2024