bell hooks

ARTICOLO n. 80 / 2023

UNA COMUNITÀ DI CURA

Pubblichiamo un’anticipazione da Sentirsi a casa. Una cultura dei luoghi (Meltemi editore, traduzione di feminoska). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Quando scrivo del mio passato in Kentucky, parlo raramente di mia madre Rosa Bell e di mio padre Veodis, ma è anche la loro presenza che mi ha spinta a tornare a casa. Stanno invecchiando, avvicinandosi alla morte, e il mio desiderio di passare del tempo con loro in questo momento di deterioramento si è fatto imperioso. Mio padre paragona il periodo della vita in cui si comincia a essere vecchi al momento in cui non si cammina più in montagna. “Gloria”, mi dice, “non salirò mai più sulle montagne. Sto scendendo, sto tornando a casa”. La sua metafora mi stupisce perché sia Rosa sia Veodis volevano allontanarsi dalle montagne e dalle colline, dalla vita contadina in cui erano nati, alla ricerca del nuovo e del moderno. Niente agricoltura per loro, niente lavoro sfiancante nei campi. Entrambi volevano vivere in città. E, in quanto creatura della campagna, mi sono sentita in disaccordo con loro fin dalla mia nascita. La mamma, a volte scherzando e a volte con rabbia, si scagliava contro le nostre differenze esclamando: “Non so da dove sei saltata fuori, ma vorrei tanto poterti riportare indietro!”. E oh, quanto desideravo tornare indietro, andare a vivere dai miei nonni con i quali sentivo una maggiore consonanza di spirito. Mamma e papà non me lo avrebbero permesso. 

Volevano che diventassi una ragazza di città e desideravano lo stesso per i miei fratelli; volevano che non fossi la “campagnola”. Eppure, per molti versi, sono davvero campagnola, più simile ai miei nonni che a loro.

Parlo la lingua dei miei nonni, il patois nero del Kentucky, ma so utilizzare anche la lingua della città, una lingua neutra che non lascia trasparire la propria provenienza. Sentirmi parlare la lingua della città è stato confortante per i miei genitori. Questo fino a quando non ho acquisito la mia voce dissidente, una voce che ha scioccato e scosso la loro sensibilità, una voce che li ha spaventati. Per loro qualsiasi espressione che vada contro l’autorità, quella che un giorno avrei chiamato la cultura dominante, è un rischio potenziale. E quindi era meglio tacere. I miei discorsi li spaventavano, e in un certo senso furono contenti quando me ne andai di casa e mi misi a viaggiare da una città all’altra, perché così non sarebbero stati costretti ad ascoltarli. Non avevano mai capito che per molti versi ero solo una ragazza di campagna, e che lo sarei rimasta indipendentemente dai libri letti, dal livello di istruzione o di fama raggiunta. In Citizenship Papers, Wendell Berry afferma con audacia: “Credo che questa competizione tra industrializzazione e mondo contadino definisca la differenza umana più fondamentale, perché divide non solo due concetti quasi opposti di agricoltura e sfruttamento della terra, ma anche due modi quasi opposti di comprendere noi stessi, i nostri simili e il mondo”. Per me, questa citazione evoca lo scisma esistente tra me e i miei genitori. Loro rappresentavano la città, la cultura del nuovo, “fare più soldi, comprare più cose, buttare via cose, avere sempre di più”. I miei nonni, sia materni che paterni, rappresentavano la campagna, la cultura della tradizione, dove nulla era scarto, tutto era utilizzato, utile, riciclato. Ora Rosa Bell e Veodis sono diventati parte della cultura del passato. Papà a ottantotto anni è uno degli ultimi sopravvissuti viventi della fanteria tutta nera di cui faceva parte durante la Seconda guerra mondiale. La mamma ha dieci anni in meno, ma la perdita di memoria l’ha condotta verso l’eternità. Lei, più di papà, sente di non avere un vero posto tra i vivi, di non appartenere a nulla e nessuno.

A differenza di papà, lei vorrebbe morire. Perdere la memoria, a causa della demenza o dell’Alzheimer, è un modo di morire. Ci porta in un luogo in cui non esistono più connessioni e non si comunica più con la mente. Le parole non hanno più molto peso, e il linguaggio non significa nulla. La distinzione tra città e campagna non esiste più. Il tempo non può essere compreso in alcun modo lineare o coerente, e converge su sé stesso; il passato si trasforma facilmente nel presente, e gli anni si confondono gli uni con gli altri. Anche i volti cadono nell’oblio e le relazioni diventano ombre indistinte. Mamma si sveglia e mi chiede, del marito con cui è stata in coppia per quasi sessant’anni, “Chi è?”. Quando glielo dico, risponde soltanto: “Oh!”. Più tardi, lo chiamerà per nome e gli parlerà con la consueta intimità. Ma questa vivida consapevolezza non durerà a lungo. 

Mamma sa ancora chi sono. Sente la mia voce e sa che Gloria Jean la sta chiamando. Sente la mia voce e capisce il mio stato d’animo. Un giorno l’ho chiamata e mi ha detto: “Stavo proprio guardando uno dei tuoi libri”. L’ultima volta che sono stata a casa, aveva in mano uno dei miei libri e continuava a leggere il retro di copertina, dove c’è la descrizione dell’autrice. Leggendolo ad alta voce più e più volte, alla fine sembrava soddisfatta di aver afferrato almeno in parte chi sono, la sua figlia scrittrice. Eppure la mia scrittura è stata una fonte di dolore per la mamma, poiché ha rivelato pubblicamente molte cose che lei avrebbe preferito rimanessero private, segrete. È orgogliosa della mia scrittura, anche se una volta mi ha detto che il mio lavoro le causa così tanto dolore che a volte vorrebbe solo cadere in ginocchio e pregare. Entrambi i miei genitori hanno resistito alla turbolenza del mio lavoro, e per quanto la nostra famiglia possa essere disfunzionale, hanno continuato a prendersi cura di tutti i loro figli, della famiglia. Giunta alla mezza età, ho imparato ad apprezzare profondamente la disciplina necessaria a mantenere un impegno reciproco per più di cinquant’anni. Ho vissuto da sola lo stesso numero di anni passati in una relazione, ho visto matrimoni e legami, etero e gay, fiorire e spezzarsi, cadere a pezzi a causa di differenze considerate inconciliabili, per questo apprezzo la determinazione necessaria a tenere vivo così a lungo l’impegno reciproco, e comprendo la visione del matrimonio come sacramento. 

P. Travis Kroeker esprime con delicatezza questa idea, quando sostiene da un punto di vista cristiano che “donare noi stessi nel matrimonio è un’occasione di gioia, lo celebriamo perché come esseri umani siamo fatti per l’intima comunione con Dio e con la vita tutta”. Continua: “Il sacramento del matrimonio è quindi tutt’altro che un atto privato ed esclusivo, è sempre legato alla comunità più ampia di cui fa parte. Uno dei maggiori pericoli dell’amore romantico è la privatizzazione dell’amore, che lo priva dei nutrienti essenziali. Un matrimonio florido ha bisogno del sostegno della comunità e, a sua volta, sarà il fondamento della comunità e della vita del mondo”. 

Ho visto questo principio messo in pratica nel corso del lungo matrimonio dei miei genitori e negli oltre settant’anni insieme dei miei nonni materni. Purtroppo, entrambi questi matrimoni non sono stati particolarmente amorevoli o gioiosi. Ciononostante, le condizioni dell’amore erano presenti: cura, impegno, conoscenza, responsabilità, rispetto e fiducia; le parti coinvolte hanno semplicemente scelto di non onorarli nella loro interezza, ma si sono concentrate sulla cura e sull’impegno. In quanto testimone della loro vita, posso testimoniare che sono stati ottimi esempi di questi due aspetti dell’amore. E a prescindere dall’incapacità di mantenere un benessere duraturo, la loro volontà di impegnarsi ancora oggi mi intimorisce e mi impressiona. Anche io desidero un impegno simile nel contesto di una relazione d’amore. 

Questi due matrimoni sono durati così a lungo proprio perché si sono svolti nel contesto della comunità. Erano sostenuti dalla costante interazione esistente all’interno della famiglia allargata, della chiesa, del lavoro e del mondo civico: una vita di comunità. Quando ho iniziato ad andare oltre alle aspre critiche che non ho mai risparmiato al matrimonio disfunzionale dei miei genitori, ho notato alcuni aspetti positivi nel loro legame, e sono persino arrivata a invidiarli. Ciò che ho ammirato e ammiro di più della loro vita è la loro capacità di impegnarsi, in modo disciplinato, nel creare e sostenere una vita di comunità. E anche se non sono stati in grado di creare per sé stessi un legame d’amore, hanno preparato il terreno per l’amore piantando due semi importanti, la cura e l’impegno, che considero essenziali per ogni sforzo amorevole. Di conseguenza, sono loro grata per aver fornito a me e ai miei fratelli e sorelle, attraverso l’esempio, la comprensione del significato dell’impegno e della cura. 

Sono felice di aver vissuto abbastanza a lungo e di avere genitori viventi ai quali esprimere gratitudine per i doni di cura e impegno che mi hanno elargito. Nel saggio An Economy of Gratitude, Norman Wirzba sostiene che: “Impegnandosi nella pratica e con costanza verso un luogo e una comunità, i segni della gratitudine […] si fanno più nitidi”. Definisce quei segni come “affetto, attenzione, gioia, gentilezza, lode, convivialità e pentimento”. Tutti questi tratti caratteristici sono presenti quando vivo in comunione con i miei genitori nel nostro luogo natale, la loro casa in Kentucky. Lo spirito di conflitto e contestazione che per anni ha caratterizzato le nostre interazioni è sparito: nel farci comprendere che non esiste conflitto abbastanza potente da spezzare i legami di cura e di impegno, i nostri genitori, e specialmente nostra madre, hanno mantenuto costantemente in vita un luogo di riconciliazione e di incontro, un modo per tornare a casa. 

Kroeker sottolinea l’importanza di creare una “comunità di cura” tale che le nostre relazioni reciproche possano essere “governate dalla convivialità piuttosto che dal sospetto, dalla lode piuttosto che dalla colpa”. Inoltre, “In una comunità di cura le persone si rivolgono le une alle altre; hanno rinunciato alla menzogna illusoria che la felicità sia sempre da qualche altra parte, con altre persone”. Significa anche accogliere i nostri genitori, accettarli per quello che sono e non perché sono diventati ciò che volevamo che fossero. Kroeker spiega: “Impegnandoci insieme ad altre persone e sforzandoci di conoscerle, impariamo ad apprezzarle nella loro profondità e integrità e comprendiamo meglio il loro potenziale e i loro bisogni. Le vediamo finalmente per le creature uniche che sono, e cominciamo a cogliere la complessità, la bellezza e il mistero di ogni cosa e di ogni persona a questo mondo. La loro bellezza finalmente si manifesta, suscitando in noi una reazione fatta di amore e celebrazione”. La mia esperienza nel rapporto con i miei genitori, con la comunità in cui sono cresciuta e ora con la cittadina del Kentucky che chiamo casa mia è stata esattamente questa. 

Le comunità di cura sono sostenute da rituali di attenzione, e nel nostro caso mangiare insieme era un aspetto fondamentale delle riunioni di famiglia. A tavola ci si racconta quanto è successo nella giornata, si scherza e si condivide il piacere derivante dal cibo casalingo cucinato con amore. Nostra madre era un’ottima cuoca. Come Kroeker credo che: “Intorno al tavolo creiamo le condizioni per la convivialità e la lode. Condividendo il pasto esprimiamo concretamente la nostra gratitudine, assaggiando una fetta di paradiso”. Era certamente così nella cucina di nostra madre. 

Purtroppo, nel suo nuovo stato di smemoratezza, la mamma non cucina più, né ricava piacere nel mangiare cibo delizioso. Deve essere persuasa a sedersi a tavola, cosa comune dei malati di demenza o Alzheimer. Diventa quindi importante creare nuovi rituali di cura. Prima di perdere la memoria, mamma era sempre in piedi a lavorare, cucinare, pulire, soddisfare i bisogni di qualcun altro. Nell’ambito di un matrimonio di stampo patriarcale, ha badato assiduamente a nostro padre, ma ora è lei ad aver bisogno delle nostre attenzioni e della nostra cura. Nel farlo mettiamo in atto un rituale di rispetto. La devozione che suscita nei suoi cari è il risultato naturale della cura e dell’impegno che un tempo ha dedicato a tutti noi. E anche se per papà è stato difficile cambiare, accettare la fine di certe forme di privilegio patriarcale che riteneva fossero un suo diritto per il semplice fatto di essere nato maschio, sta imparando a farle da badante. 

Al giorno d’oggi, mamma trascorre gran parte del suo tempo seduta. Ci sono aspetti belli, persino meravigliosi, nelle sue attuali forme di autoespressione e identità. È una gioia sedersi accanto a lei, poterla stringere, accarezzarle le mani, tutti gesti che in passato sarebbero stati impossibili. Avrebbe ritenuto sciocco starsene seduta a parlare d’amore quando c’era del lavoro da fare. Com’è meraviglioso vedere queste nuove esperienze convergere con le vecchie, vederla così tenera, vulnerabile, priva ormai della vergogna e delle inibizioni convenzionali. Ora vedo in lei la natura selvaggia dello spirito che una volta lei vedeva in me, quello spirito che voleva schiacciare per paura che fosse pericoloso. La gratitudine che provo nel poter essere presente, testimone della sua vita in questo momento, mentre lotta per dare un senso a punti che non si collegano e viaggia verso la morte, non conosce limiti. Ed è bello vedere papà che scende con grazia dalla montagna, e dargli di tanto in tanto una mano.Kroeker è convinto che “dedicandoci gli uni agli altri sperimentiamo quotidianamente e direttamente la vasta gamma di doni che contribuiscono alla qualità della nostra vita: la gratitudine troverà dunque il posto che le spetta, in quanto aspetto fondamentale capace di guidare le nostre vite”. La gratitudine è la via che conduce a mille benedizioni e prepara il terreno del nostro essere per l’amore: ed è bello vedere che, alla fine, l’amore vince sempre.

ARTICOLO n. 74 / 2023

LA RICERCA FEMMINILE DELL’AMORE

Pubblichiamo un estratto da Comunione di bell books (Il Saggiatore, traduzione di Maria Nadotti) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Le donne parlano d’amore. Già da bambine capiamo che le conversazioni sull’amore sono una narrazione di genere, un soggetto femminile. Le nostre ossessioni in materia d’amore non cominciano con la prima cotta o la prima caduta.Cominciano con quella prima ammissione che le femmine contano meno dei maschi, che, per quanto brave possiamo essere, agli occhi dell’universo patriarcale non lo saremo mai abbastanza. Nella cultura patriarcale la femminilità ci contrassegna fin dall’inizio come immeritevoli o non altrettanto meritevoli, e non dovrebbe sorprendere che impariamo a preoccuparci maggiormente come ragazze, come donne, del fatto di essere meritevoli d’amore.

Cresciute con madri competitive e colpevolizzanti e padri che non riusciamo mai a soddisfare veramente, oppure in un mondo dove siamo la «perfetta» cocca di papà ma temiamo di perdere la sua approvazione al punto di smettere di mangiare, smettere di crescere perché ci accorgiamo che papà perde interesse, perché percepiamo che non ama le donne, siamo incerte sull’amore. Per conservare il suo amore dobbiamo aggrapparci a ogni costo all’infanzia. Fin da piccolissime le bambine continuano a sentirsi dire, se non dai genitori dalla cultura in cui sono immerse, che devono guadagnarsi il diritto di essere amate – che la «femminilità» non è sufficiente. È questa la prima lezione che viene impartita a una femmina alla scuola del pensiero e dei valori patriarcali. Deve guadagnarsi l’amore. Non le spetta di diritto. Per essere amata deve essere brava. E quel brava è sempre definito da qualcun altro, qualcuno dall’esterno. Scrivendo del rapporto con il proprio papà nel saggio Dancing on My Fathers Shoes (Danzando sulle scarpe di mio padre), Patricia Ruff offre un resoconto accorato di come ha perso la sensazione di essere degna d’amore, di essere apprezzata, confessando: 

«Mia madre mi disse che lui voleva prima di tutto una figlia e non avrebbe potuto essere più felice quando venni al mondo. Perciò ero impreparata quando il mio status di principessa, senza alcun preavviso, fu fatto bruscamente a pezzi, come un foglio di carta strappato da un quaderno. Successe qualcosa che nessuno mi spiegò. […] Non riuscivo a dare voce ai miei sentimenti ed ero senza parole per la rabbia e il dolore causati da quel suo essere d’un tratto fuori portata». 

Preoccupata che la sorella più piccola potesse essere esposta a sua volta alla pena di vedersi rifiutata a livello emotivo, Ruff propone di affrontare insieme il padre: 

«Facemmo irruzione nella loro camera da letto, ci gettammo sul nostro attonito padre, che rimase immobile e senza parole mentre noi lo inondavamo di lacrime, agguantandolo, stringendolo, decise a non mollare. “Papà, per favore abbracciaci, dicci che ci vuoi bene, noi ti vogliamo bene, abbiamo bisogno che tu ci voglia bene” implorammo». 

Il rifiuto e l’abbandono da parte dei padri e delle madri sono lo spazio della mancanza che di solito pone le basi per l’ansia femminile di trovare e conoscere l’amore. Spesso, da piccole, le bambine si sentono amate e al centro dell’attenzione. Più tardi, però, quando sviluppiamo forza di volontà e autonomia di pensiero, scopriamo che il mondo smette di confermarci, che siamo considerate non amabili. È l’intuizione che Madonna Kolbenschlag condivide in Lost in the Land of Oz (Smarrita nel paese di Oz) riguardo alla natura del destino femminile: «In qualche modo, siamo state tutte private dell’amore, delle cure materne – se non dell’amore, allora della sensazione di essere state amate. Sapere che siamo state amate non è abbastanza; dobbiamo sentirlo». Come fa una bambina a credere di essere amata, davvero amata, quando da qualsiasi parte si giri vede che la femminilità è disprezzata? Incapace di modificare la realtà della femminilità, si sforza di migliorarsi, di diventare qualcuno degno d’amore. 

Educate a credere che troviamo noi stesse nel rapporto con gli altri, le femmine imparano presto a cercare l’amore in un mondo al di là del loro cuore. Impariamo fin da piccole che le radici dell’amore sono al di fuori delle nostre possibilità, che per conoscere l’amore dobbiamo essere amate dagli altri. In quanto femmine in una cultura patriarcale, non possiamo determinare il nostro valore personale. Le nostre qualità, il nostro valore, e se possiamo essere amate o no sono sempre cose stabilite da qualcun altro. Prive dei mezzi per dare vita all’amore per noi stesse, ci rivolgiamo agli altri perché ci rendano amabili; desideriamo l’amore e siamo in cerca d’amore. 

Se il movimento femminista contemporaneo ha criticato la svalutazione del femminile che ha inizio nell’infanzia, non è tuttavia riuscito a modificarla. Oggi le bambine crescono in un mondo dove da più parti apprendono che le donne sono uguali agli uomini, ma nella loro infanzia non esiste ancora uno spazio reale per il pensiero e la pratica femminista. 

Oggi le bambine lottano contro il sessismo dei ruoli di genere così come facevano le bambine prima del movimento femminista contemporaneo. Se qua e là alcune correnti di femminismo sostengono quella lotta, il più delle volte le bambine si sentono assediate dai messaggi contraddittori determinati dal fatto di essere nate in un mondo in cui alla liberazione delle donne è stato riconosciuto un piccolo spazio, benché le bambine siano rimaste intrappolate tra le braccia del patriarcato. La riprova di tale intrappolamento è il timore, ampiamente diffuso tra tutte le ragazzine, a prescindere da razza o classe, di non essere amate. 

Nella cultura patriarcale, alla bambina che non si sente amata nella famiglia d’origine, è data un’altra possibilità di dimostrare il proprio valore quando la si incoraggia a cercare l’amore dei maschi. Le cotte e le manie ossessive della scolaretta, il suo desiderio compulsivo dell’attenzione e dell’approvazione maschili, indicano che sta perseguendo correttamente il proprio destino di genere, che è sulla buona strada per diventare la femmina che non può essere nulla senza un uomo. Che sia eterosessuale o omosessuale, la misura in cui anela all’approvazione patriarcale determinerà se è degna di essere amata. Questa è l’insicurezza emotiva che infesta la vita di tutte le femmine nella cultura patriarcale.

Fin dall’inizio, quindi, le femmine sono confuse circa la natura dell’amore. Addestrate in base al falso presupposto che troveremo l’amore nel luogo stesso in cui la femminilità è ritenuta indegna e sistematicamente svalutata, impariamo presto a fingere che l’amore conti più di qualsiasi altra cosa, quando, in effetti, sappiamo che ciò che più conta, anche all’indomani del movimento femminista, è l’approvazione patriarcale. 

Dalla nascita quasi tutte le femmine vivono nel timore di essere abbandonate, che se facciamo un passo fuori dal cerchio approvato non saremo amate.

Data la nostra precoce ossessione di sedurre e compiacere gli altri per affermare il nostro valore, ci perdiamo nel tentativo di essere accettate, incluse, desiderate. Il nostro parlare d’amore è stato perciò prima di tutto un parlare di desiderio. In generale, il movimento femminista non ha modificato l’ossessione femminile per l’amore, né ci ha offerto modi nuovi di pensare a esso. Ci ha detto che saremmo state meglio se avessimo smesso di pensare all’amore, se fossimo riuscite a vivere la nostra vita come se l’amore non avesse alcuna importanza, altrimenti avremmo corso il rischio di diventare parte di una categoria femminile veramente disprezzata: «La donna che ama troppo». Il bello, naturalmente, è che molte di noi non amavano troppo; non amavamo affatto. In realtà eravamo emotivamente bisognose, alla disperata ricerca del riconoscimento (da parte di partner maschili o femminili) che ci avrebbe dimostrato il nostro valore, i nostri meriti, il nostro diritto di essere vive sul pianeta, ed eravamo disposte a tutto pur di ottenerlo. Femmine in una cultura patriarcale, non eravamo schiave dell’amore; la maggior parte di noi era ed è schiava del desiderio – desiderose di un padrone che ci libererà e sosterrà, poiché da sole non riusciamo a sostenerci.

La promessa del femminismo è che si sarebbe creata una cultura in cui avremmo potuto essere libere e conoscere l’amore. Quella promessa, tuttavia, non è stata mantenuta. Molte donne sono ancora confuse e si domandano quale sia il posto dell’amore nella propria vita. Molte di noi non hanno avuto il coraggio di ammettere che «l’amore conta», per paura di essere disprezzate e svergognate dalle donne che sono arrivate al potere in seno al patriarcato tagliando fuori le emozioni, diventando simili agli uomini patriarcali che un tempo criticavamo per la loro freddezza e la loro insensibilità. Il femminismo di potere è solo un altro inganno, in cui le donne possono giocare al patriarca e far finta che il potere che cerchiamo e otteniamo ci liberi. Poiché non abbiamo creato un corpus sostanzioso di opere capaci di insegnare alle bambine e alle donne modi nuovi e visionari di pensare all’amore, assistiamo all’ascesa di una generazione di donne sulla trentina che considerano una debolezza qualsiasi desiderio d’amore, il cui sguardo è concentrato esclusivamente sulla conquista del potere. 

Il patriarcato ha sempre visto l’amore come una faccenda da donne, un lavoro degradato e svalutato. E non si è preoccupato del fatto che le donne non imparassero ad amare, dal momento che gli uomini patriarcali tendono a sostituire l’amore con la cura, il rispetto con la sottomissione. Non avevamo bisogno di un movimento femminista per renderci conto che le femmine sono più propense dei maschi a occuparsi di relazioni, legami e comunità. Il patriarcato ci addestra a questo ruolo. Abbiamo bisogno di un movimento femminista che ci ricordi di continuo che l’amore non può esistere in una situazione di sopraffazione, che l’amore che cerchiamo non possiamo trovarlo finché siamo vincolate e non libere. 

Nel mio primo libro sull’argomento, Tutto sull’amore. Nuove visioni, ho avuto cura di dire più e più volte che le donne non sono intrinsecamente più amorevoli degli uomini, ma che siamo sollecitate a imparare ad amare. Tale incitamento ha fatto da catalizzatore alla nostra ricerca d’amore, spingendoci a esaminare attentamente e a lungo la pratica dell’amore. E ad affrontare la nostra paura di non essere amorevoli, di non essere amate a sufficienza. Nella nostra cultura le donne che più hanno da insegnare a tutti sulla natura dell’amore sono le donne della generazione che ha imparato attraverso la lotta femminista e le terapie fondate sul femminismo che l’amore di sé è la chiave per trovare e conoscere l’amore. 

Noi, donne che amano, siamo parte di una generazione di donne che sono andate oltre i paradigmi patriarcali per trovare se stesse. Il cammino per trovare il nostro vero sé ha richiesto che ci inventassimo un nuovo universo, un universo in cui abbiamo avuto l’ardire di far rinascere la bambina in noi e di accoglierla nella vita, in un mondo in cui nasceva benvenuta, amata e per sempre degna. Amare la bambina in noi ha guarito la ferita che spesso ci portava a cercare l’amore in tutti i posti sbagliati. Per molte di noi la mezza età è stata il momento favoloso in cui abbiamo cominciato a riflettere sull’autentico significato dell’amore nelle nostre vite. Abbiamo cominciato a vedere con chiarezza quanto esso contasse, non le vecchie versioni patriarcali dell’«amore», bensì una comprensione più profonda dell’amore come forza di trasformazione che richiede a ogni individuo affidabilità e responsabilità per nutrire la nostra crescita spirituale. 

Rendiamo testimonianza del fatto che nessuna donna può trovare la libertà se prima non ha trovato il proprio modo di amare. La nostra ricerca dell’amore ci ha portate a capire pienamente il senso della comunione. In The Eros of Everyday Life (L’eros della vita quotidiana) Susan Griffin scrive: 

«Il desiderio di comunione esiste nel corpo. Non è solo per ragioni strategiche che riunirsi ha costituito il fulcro di ogni movimento per il cambiamento sociale. […] Questi incontri erano di per sé la realizzazione di un desiderio che è al cuore delle fantasie umane, il desiderio di collocarsi in una comunità, di rendere la nostra sopravvivenza uno sforzo condiviso, di sentire un rispetto palpabile nei confronti dei legami che ci uniscono e della terra che ci dà sostentamento».

La comunione nell’amore che le nostre anime bramano è la ricerca più eroica e divina che un essere umano possa intraprendere. 

Il fatto che nasciamo in un mondo patriarcale, che prima ci invita a metterci in viaggio verso l’amore e poi pone delle barriere sulla nostra strada, è una delle tragedie della vita. Per le donne anziane è giunto il momento di salvare le bambine e le giovani, di offrire loro una visione dell’amore che le sostenga nel loro cammino. La ricerca dell’amore come ricerca dell’autentico sé affranca. Tutte le donne che hanno l’audacia di seguire il proprio cuore per trovare quell’amore partecipano a una rivoluzione culturale che ritempra le nostre anime e ci permette di vedere con chiarezza il valore e il senso che l’amore ha nella nostra vita. Se l’amore romantico è un tratto cruciale di questo percorso, non lo consideriamo più la sola cosa che conta; esso è, piuttosto, un aspetto del nostro lavoro complessivo per creare legami amorevoli, cerchi d’amore che nutrono e puntellano il benessere collettivo femminile. 

Comunione. La ricerca femminile dell’amore racconta la nostra lotta per conoscere il vero amore e i nostri trionfi. Aggregando la saggezza desunta dalle donne giunte a conoscere l’amore nella mezza età, donne che spesso avevano vagato smarrite in un deserto del cuore per buona parte dell’adolescenza fino alle soglie dei trent’anni, Comunione ci dà modo di cogliere l’esperienza di donne dai trent’anni in su che, da cercatrici sul sentiero dell’amore, strada facendo hanno scoperto nuove visioni, intuizioni risanatrici e memorie di rapimento. 

Questo libro è soprattutto una testimonianza, una celebrazione della gioia che le donne scoprono quando riportiamo la ricerca dell’amore al suo giusto, eroico posto al centro della nostra esistenza. Vorremmo essere amate e vorremmo essere libere. Comunione ci dice in che modo realizzare quel desiderio. 

Raccontando il dolore, la lotta, il lavoro che le donne fanno per superare la paura dell’abbandono e della perdita, in che modo ci spingiamo oltre la passione ferita per aprire i nostri cuori, Comunione ci invita a tornare ogni volta là dove possiamo conoscere la gioia, a tornare e celebrare, per entrare nel cerchio dell’amore.

ARTICOLO n. 83 / 2022

LA SCRITTRICE CHE SONO STATA: AMORE, BUDDISMO E IL BEAT

intervista di George Yancy

Apriamo, con un’intervista al New York Times di George Yancy del dicembre 2015, il nostro speciale dedicato a bell hooks. Di settimana in settimana lo arricchiremo con approfondimenti, letture e inediti. 

George Yancy: Negli anni hai usato l’espressione «patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco» per descrivere la struttura di potere che sta alla base del nostro ordine sociale. Perché unire tutti questi termini, anziché prenderli in considerazione uno alla volta?

bell hooks: Non si può pensare di capire la natura della dominazione se non si comprende come questi sistemi sono connessi l’uno all’altro. In particolare, questa espressione mi ha sempre colpito perché non dà più valore a un sistema rispetto a un altro. Per tanti anni, nel movimento femminista, le donne hanno dichiarato che il genere è l’unico tratto identitario che importa davvero e che la dominazione, nel mondo, si è affermata tramite lo stupro. Poi sono arrivati i sostenitori della razza, che invece dicevano: «È la razza la cosa davvero importante. Non serve a niente parlare di classe o di genere». Per me, quindi, quell’espressione è un rimando a un contesto globale, al contesto del classismo, dell’imperialismo, del capitalismo, del razzismo e del patriarcato. Sono tutti elementi collegati tra loro in un sistema interconnesso. 

G.Y. Ti ho sentito parlare diverse volte e mi sono reso conto che hai uno spiccato senso dell’umorismo. Che ruolo ha lo humour nel tuo lavoro?

b.h. Non può esserci una vera rivoluzione senza umorismo. Ogni volta che la sinistra o qualunque altra parte politica cerca di fare dei passi avanti verso politiche più radicali e non ci mette dell’ironia, fallisce. L’umorismo è fondamentale per raggiungere quell’equilibrio di integrazione necessario a gestire la diversità e le differenze che emergono quando si crea una comunità. Per esempio, adoro le conversazioni con Cornel West: tra grandi alti e bassi, con lui allegria e umorismo non mancano mai. Nel nostro ultimo intervento pubblico, molte persone sono rimaste contrariate perché abbiamo fatto gli scemi. Personalmente, considero una santa vocazione il poter essere spiritosi assieme. Quando mai capita di vedere due afroamericani, uomo e donna, che conversano, criticandosi a vicenda ma con grande ironia e piacere? È un miracolo.

G.Y. Che ne pensi del movimento femminista oggi, e com’è cambiato, nel tempo, il rapporto che vi lega?

b.h. Il mio impegno militante verso il femminismo è ancora molto forte, soprattutto perché il femminismo è stato il principale movimento sociale contemporaneo a promuovere la capacità di mettersi in discussione. Quando noi donne di colore abbiamo cominciato a dire alle donne bianche che quello delle donne non era un gruppo omogeneo, ma che bisognava affrontare la realtà delle differenze razziali, molte di loro si sono date subito da fare. Oggi sono una femminista solidale con le donne bianche proprio per questa ragione, perché ho visto come non hanno esitato ad aprire la propria mente e a cambiare radicalmente la direzione del pensiero, degli scritti e dell’azione femminista. Per me questo è ancora uno degli aspetti più straordinari e degni di nota del movimento femminista contemporaneo. La sinistra non ha fatto niente di tutto questo, i neri radicali neppure, nessuno è arrivato a dire: «Guardate, le vostre idee, la vostra ideologia, è impostata nel modo sbagliato. Dovete cambiare prospettiva». Il femminismo è riuscito a fare questo cambio di paradigma, seppur non senza ostilità, non senza che qualche donna avesse la sensazione che quella della razza fosse una forzatura. È un cambiamento che ancora mi sconvolge.

G.Y. Che cosa possiamo fare nelle nostre vite quotidiane per combattere il potere e l’influenza di quello che tu chiami patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco? Cosa si può fare nella pratica?

b.h. Io abito in una cittadina a maggioranza bianca della Bible Belt. Invece di pensare: «Che cosa farebbe Gesù?», mi chiedo sempre: «Cosa si aspetterebbe da me Martin Luther King, oggi?». Poi mi dico che Martin Luther King vorrebbe che mi aprissi al mondo e che, in qualunque modo possibile, grande o piccolo, contribuissi a costruire una comunità degna d’amore. Come cristiana buddista, poi, penso al detto del monaco buddista Thich Nhat Hanh: «Un sasso lanciato nell’acqua non arriva lontano, ma le onde che forma sì». Ogni giorno quindi mi ripeto: «Che cosa stai facendo, bell, per creare la tua beneamata comunità?». Perché sotto sotto, localmente, persiste l’idea che devo essere parte fondamentale del mondo in cui vivo. Stamattina sono stata al mercato agricolo e al mercatino di beneficienza della chiesa. Mi sforzo sempre di entrare in contatto con le persone, sì, anche persone con cui posso non essere del tutto a mio agio. Ci sono parecchi bifolchi bianchi del Kentucky che mi guardano con disprezzo. Ma non mi faranno cambiare idea. Sto facendo la stessa cosa che facevano gli attivisti per i diritti civili, quei bianchi e quei neri che hanno organizzato manifestazioni e si sono seduti insieme nelle tavole calde.

È questione di umanizzazione. Non riesco a pensare a un altro modo per uscire dalla crisi dell’odio razziale, se non tramite la volontà di umanizzare. Per quanto mi riguarda, traggo grande forza dalle immagini dei movimenti sociali che vedono la partecipazione congiunta di persone di colore e bianche. Selma non mi è sembrato granché come film, ma mi ha dato forza pensare a tutte quelle persone, quei bianchi che lo vedono e pensano: «Buon Dio, che ingiustizia! Andiamo a fare la nostra parte». Sentirsi chiamati a una causa è meraviglioso. Spesso, in questa vita che mi ritrovo, mi capita di chiedermi: «Per cosa saresti disposta a dare la vita, bell? In quali circostanze scenderesti in strada sapendo di esporti a un rischio concreto?». Pensare a cosa sono state in grado di fare quelle anziane donne nere a Selma, in Alabama, serve a ricordarci quanto questa storia di lotte sia stata fondamentale per consentirci di vivere nella condizione di privilegio in cui ci troviamo oggi.

G.Y. Quest’ultima considerazione mi riguarda da vicino, soprattutto se penso alla mia identità intellettuale e al fatto che spesso mi dimentico di riflettere sul privilegio che la accompagna.

b.h. Ah, io sono una vera intellettuale. Alla gente dico che il lavoro intellettuale è il laboratorio in cui vado ogni giorno. Senza tutte le persone che si sono impegnate nella lotta per i diritti civili, però, non sarei qui. Insomma, quante donne nere hanno avuto la fortuna di scrivere più di 30 libri? Quando mi sveglio, alle 4 o alle 5 del mattino, mi dedico alla preghiera e alla meditazione, poi ho quelle che definisco le mie “ore di studio”. Cerco di leggere un libro al giorno, sempre di saggistica, poi posso dedicarmi a qualunque tipo di spazzatura per il resto della giornata. Il mio è un lusso, un privilegio di ordine supremo: il privilegio del pensiero critico, di poter agire su ciò che si sa.

G.Y. Chiaro. Hai detto che la teoria può diventare un luogo di guarigione. Puoi elaborare meglio il concetto?

b.h. Parto sempre dai bambini. La maggior parte dei bambini sviluppa una capacità di pensiero critico eccezionale, prima che noi li silenziamo. Nella sostanza, penso che la teoria non sia altro che un modo per dare senso al mondo: da bambina talentuosa cresciuta in una famiglia disfunzionale, dove il talento non era apprezzato, sono riuscita a tirare avanti chiedendomi: «Perché mamma e papà sono fatti così?». Domande che costituiscono l’essenza stessa del pensiero critico. Per questo sono convinta che quella forma di pensiero, insieme alla teoria, possa essere fonte di guarigione. Ci aiuta ad andare avanti. Ovviamente, poi, non so come funzioni per altri scrittori o pensatori, ma ho la fortuna di avere persone che mi contattano ogni giorno, per posta o fermandomi per strada, per dirmi che il mio lavoro gli ha cambiato la vita, le ha aiutate ad andare avanti. Cosa ci può essere di più bello per una pensatrice e teoreta?

G.Y. Come fai a non lasciarti sedurre da tutto questo? Penso che gli intellettuali, gli studiosi più noti, siano molto tentati a ricadere nel narcisismo. Tu come fai a resistere?

b.h. Innanzitutto, vivo in una città di 12.000 abitanti, molti dei quali non hanno neanche idea di chi sia bell hooks, tanto che c’è chi chiede: «Ma bell hooks è una persona?». La mia è una vita abbastanza modesta, perché uno dei vantaggi di avere un altro nome, Gloria Jean, un nome da vera bifolca degli Appalachi, è che non me ne vado in giro tutti i giorni come bell hooks. Vivo la mia vita quotidiana da banalissima Gloria Jean. Anche se ultimamente le cose hanno iniziato a cambiare, perché sto cominciando a farmi conoscere come artista, scrittrice e pensatrice anche nel mondo della piccola cittadina in cui vivo.

Penso che questa mia popolarità sia dovuta al fatto che nel mio lavoro scrivo di spiritualità, uno degli aspetti fondamentali che mi hanno tenuto con i piedi per terra nella vita. Da piccola, quando mia mamma mi ripeteva: «Sarai anche tanto intelligente, ma non sei meglio degli altri», mi chiedevo: «Perché mi dice queste cose?». Oggi, ovviamente, l’ho capito. Era per farmi rimanere con i piedi per terra, per fare in modo che continuassi a rispettare le tante vie del sapere, le conoscenze altrui, senza pensare: «Oh, io sono più intelligente», come credo possa capitare a tanti intellettuali famosi.

Mi viene sempre da ridere nel sentirmi definire un’intellettuale sociale. Rido perché un tempo la gente mi chiedeva: «Come hai fatto a scrivere così tanto?» e la risposta era: «Non ho avuto una vita». Non c’è proprio niente di sociale nell’energia, nella disciplina e nella solitudine che servono a scrivere così tanto. Per me gli intellettuali sociali sono qualcosa di molto diverso, perché usano le loro opere per interagire con un pubblico. Nei tanti anni in cui mi sono dedicata a scrivere, io non ho mai avuto questa intenzione. Volevo solo produrre delle teorie che la gente potesse utilizzare. C’è un’espressione che uso: “lavorare sull’opera”. Se qualcuno viene da me con un libro di bell hooks tutto stropicciato, con sottolineature su ogni singola pagina, so che ha “lavorato sull’opera”. Ed è esattamente quello che voglio.

G.Y. C’è qualche correlazione tra l’insegnamento come spazio di guarigione e la tua concezione dell’amore?

b.h. Beh, sono fermamente convinta che l’unico modo per liberarsi della dominazione sia l’amore e che l’unico modo per poter entrare davvero in contatto con gli altri, e per sapere come fare, sia partecipare a ogni aspetto della propria vita come a un sacramento d’amore. Incluso l’insegnamento. Ormai non insegno più molto. Sono praticamente in pensione. Come ogni atto d’amore, anche l’insegnamento assorbe parecchie energie.

Ho appena parlato con uno dei miei vicini di che effetto faccia lavorare per un’università come Berea, in cui le rette sono coperte da borse di studio e molti studenti vengono dai colli Appalachi. A volte tendiamo a farci scoraggiare dall’idea che un’istituzione del genere non riesca a essere all’altezza della sua storia di integrazione e inclusione razziale, ma poi vediamo che alcuni dei nostri studenti fanno cose davvero straordinarie, dalla Virginia come dal Tennessee. Insomma, sono esattamente dove dovrei essere, a fare ciò che devo fare, e a dare e ricevere l’amore che emerge ogni volta che riusciamo a fare bene il nostro lavoro.

G.Y. Nella tua concezione, l’amore è l’opposto dell’alienazione. Cosa puoi dirci in proposito?

b.h. Se si pensa all’amore, all’amare come azione, non si può agire senza creare una connessione. Mi capita spesso di pensare alla frase “solo connettere”.[1] In termini di suprematismo bianco, per esempio, qualche settimana fa un poliziotto mi ha fermato, qui a Berea, perché avevo commesso un’infrazione. La mia prima reazione è stata di paura, e mi è venuto da pensare che negli oltre 60 anni che ho vissuto qui [negli Stati Uniti] non ho mai avuto paura dei poliziotti, invece adesso sì. Quello che mi ha fermato è stato gentilissimo. Eppure, a me è venuto da pensare a quanto deve essere cambiata in peggio la nostra società per arrivare a un simile livello di alienazione, mai visto prima.

So che uomini e donne di colore hanno sempre vissuto esperienze essenzialmente diverse, ma da quando ero bambina a oggi non ho mai pensato che i poliziotti potessero essere miei nemici. Tuttavia, a quale donna nera, dopo gli sconcertanti abusi inflitti a Sandra Bland, non tremerebbero le ginocchia nel vedersi fermare dalla polizia? Mentre guardavo quel video, mi aspettavo quasi che i poliziotti le sparassero lì sul posto. I suprematisti bianchi sono fuori di testa.

Una volta parlavo del patriarcato come di una malattia mentale legata alla disfunzionalità del desiderio, ma il suprematismo bianco è una malattia mentale altrettanto seria e profonda, che porta a fare cose completamente folli. Penso che uno dei problemi della nostra società sia che tende a normalizzare le malattie mentali, quindi anche il suprematismo bianco, e che il suo emergere e la sua diffusione siano parte integrante di tale malattia mentale.Ricordiamo che la nostra è una cultura in crisi. Parlo di una crisi spirituale, oltre che politica: per questo Martin Luther King Jr. è stato così preveggente nel sostenere quanto il potere dell’amore fosse importante per avere un effetto davvero rivoluzionario.

G.Y. Eppure, questo non significa che nel tuo lavoro non ci sia posto anche per la rabbia, come nel libro Killing Rage, no?

b.h. Sì, certo. La prima volta che ho incontrato Thich Nhat Hanh, non vedevo l’ora di conoscerlo. Continuavo a ripetermi che finalmente sarei riuscita a incontrare quell’uomo tanto devoto. Il giorno in cui sono andata da lui, a ogni passo mi sembrava di incappare in un qualche episodio di razzismo o sessismo. Quando sono arrivata lì, la prima cosa che mi è uscita di bocca è stata: «Sono così arrabbiata!». Lui, l’emblema della calma e della tranquillità, mi ha risposto: «Allora tieniti stretta la tua rabbia e usala per concimare il tuo giardino». E io mi sono detta: «Sì, ha ragione, ce la posso fare!». Racconto questo aneddoto ogni volta che posso. Gli ho spiegato delle difficoltà che avevo con il mio compagno di allora e lui ha risposto: «Si può dire a qualcuno che lo si vorrebbe ammazzare, ma poi è importante fare un passo indietro e ricordare cosa ci ha fatto gravitare verso quella persona in prima battuta». Trovo che pensare alla rabbia come a un concime aiuti a concepirla come un’energia che può essere riutilizzata per fare del bene, capace di darci forza. Se non la si concepisce così, si rischia che diventi una forza debilitante e distruttiva.

G.Y. Dato che hai citato Sara Bland e che ci sarebbero tanti altri casi da menzionare, come possiamo sfruttare il trauma che stanno vivendo le persone di colore, o trasformare quel trauma in concime? Come possono riuscirci i neri? Come ci si può riuscire a livello terapeutico o collettivo?

b.h. Bisogna voler essere sinceri. E per essere sinceri bisogna dire che il problema che si trovano ad affrontare le persone di colore, il trauma del suprematismo bianco nelle nostre vite, non si limita alla brutalità della polizia. Quello è semplicemente uno dei tanti aspetti. Ripeto sempre che il problema, per i giovani ragazzi neri, è la strada. Se non hai nient’altro che quello, attorno a te c’è solo violenza: la violenza dei neri contro i neri, la violenza delle dipendenze, la violenza della polizia. Perciò la domanda è, in questo momento della storia, con tanti neri facoltosi e tanti neri di talento, come facciamo a dare ai maschi neri un posto che non sia la strada? Parlo dei maschi perché la strada, in un patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, è degli uomini, soprattutto quando fa buio. La sensazione di spaesamento va ben oltre il trauma del razzismo. È il trauma del patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, perché la povertà è diventata infinitamente più violenta di quando ero bambina. Allora si viveva accanto a persone di colore molto povere, che però avevano vite felici. Oggi la povertà non è più così.

G.Y. Che cosa è cambiato?

b.h. Ammettiamolo: insieme all’integrazione, i bianchi ci hanno aperto le porte della tormentosa realtà del desiderio e dell’idea di un consumo costante. Parte della differenza tra la povertà di ieri e di oggi è legata a fantasie irrealizzabili, all’idea che prima o poi si vincerà alla lotteria, che i soldi arriveranno. Penso spesso alla madre di Lorraine Hansberry che, in A Raisin in the Sun, dice: «Da quando i soldi sono diventati la nostra vita?». Credo che, nella povertà della mia infanzia, in cui sono cresciuta e che mi circondava, la sensazione fosse sempre che il denaro non era tutto nella vita. Oggi, invece, le cose sono molto diverse, perché la maggior parte della gente, nella nostra cultura, crede che i soldi siano tutto. Il principale legame tra neri, bianchi, ispanici, nativi e asiatici è l’avidità, il materialismo su cui tutti investiamo e che condividiamo.

G.Y. Nel sentirti dire così, già mi vedo i lettori dire che bell patologizza gli spazi dei neri.

b.h. Come ho già detto, questa società ha normalizzato la malattia mentale. Perciò non sto patologizzando gli spazi dei neri, sto dicendo che la maggior parte degli spazi culturali nella nostra società è pervasa da questa patologia. È per questo che è così difficile uscirne, perché è parte della cultura che ci viene propinata ogni giorno. Nessuno di noi può sfuggirle, se non vivendo e amando con coscienza, cosa sempre più difficile per tutti. Non mi faccio certo problemi a dire che i traumi provocano delle ferite e che la maggior parte delle nostre ferite, come afroamericani, non è stata ancora sanata. In questo senso non siamo poi così diversi da tutte le altre persone che sono state ferite. Ma diciamocelo: i bianchi, se feriti, spesso riescono a nasconderlo meglio perché hanno maggiore accesso al potere materiale.

Trovo affascinante che ogni giorno uno possa andare al supermercato, guardare le persone, guardare noi e poi vedere i mass media che non fanno altro che sbandierare i dolori e i problemi mentali dei bianchi ricchi nella nostra società. È come se tutti accettassero di passarci sopra. Nessuno si chiede mai: «Perché non patologizziamo i ricchi?». Siamo davvero convinti che siano affetti da malattie mentali e come tali meritino di essere curati. Il problema di noi neri è che pochissime persone credono che meritiamo di essere curati, per cui i sistemi capaci di promuovere questo tipo di cure nelle nostre vite scarseggiano. Il sistema che più promuove l’idea di guarigione tra le persone di colore è la Chiesa, ma sappiamo tutti cosa succede in gran parte delle chiese, oggi. Sono diventate un’estensione dell’avidità materiale di cui parlavo prima.

G.Y. Mentre raccontavi di quando sei stata fermata dalla polizia, mi è venuto in mente il tuo libro Black Looks: Race and Representation, in cui parli della bianchitudine come fonte di terrore. È ancora così?

b.h. Penso che sia ancora così per la maggior parte delle persone di colore. Un saggio, in particolare, Representation of Whiteness in the Black Imagination, parla della bianchitudine, dell’immaginario dei neri e di come molti di noi vivano nel terrore dei bianchi. Ho voluto sottolineare la storia del poliziotto perché in molti di noi questo terrore si è solo intensificato. Penso che la maggior parte dei bianchi non pensi neppure che le persone nere possano volere degli spazi riservati ai neri perché altrimenti non si sentono sicure.

Nel mio ultimo libro, Writing Beyond Race: Living Theory and Practice, ho davvero voluto sollevare la questione, problematizzandola: Dove ci sentiamo sicure, noi persone nere? A me viene sempre da tornare alla casa come luogo di possibilità spirituale, alla casa come luogo sacro.

Ho comprato la casa in cui vivo da un uomo bianco, conservatore e capitalista che abita dall’altra parte della strada e non potrei esserne più felice. Spesso dico che, quando apro le porte della mia casetta, è come se ne uscissero delle braccia che mi stringono in un abbraccio. Credo che tutto questo sia parte della nostra resistenza radicale alla cultura della dominazione. So che quell’uomo di certo non si immaginava una come me in quella casa. Si immaginava una bella famiglia bianca con due bambini e credo che per certi versi per lui sia stato davvero difficile vendere casa sua a una donna di colore radicale, una nera radicale e femminista. Penso che tutti noi, se amiamo la nostra casa, ci facciamo un’idea di chi ci piacerebbe vederci vivere dentro. Ma credo che i neri, di qualsiasi classe, in generale, debbano riappropriarsi di quel senso di resistenza a partire dalla casa.

Se si pensa alla storia di coloro che hanno lottato contro il razzismo, tra i neri, gran parte dell’attività organizzativa avveniva nelle case. Mi viene sempre in mente Mary McLeod Bethune: «Iniziate l’università dalle vostre stanze». L’autodeterminazione parte dalle nostre case. È sempre più evidente che una delle ragioni del fallimento di tanti movimenti neri di lotta al razzismo è che non hanno mai considerato la casa un focolaio di resistenza. Ci siamo ritrovati con persone profondamente ferite che cercavano di organizzare dei movimenti in un mondo esterno a quello della casa, ma che in sostanza non erano nelle condizioni psicologiche adatte a essere dei capi.

G.Y. Ecco, a questo proposito passerei a una domanda sulla tua idea di “cura dell’anima” negli uomini di colore. Cosa comporta curare l’anima degli uomini di colore? E che ruolo pensi che svolgano le donne di colore nell’aiutarli?

b.h. Di tanto in tanto, George, mi capita di scrivere un libro che passa quasi inosservato. Tra questi ce n’è uno che parla proprio della mascolinità nera: We Real Cool: Black Men and Masculinity. Uno dei capitoli più toccanti di quel libro è quello in cui uso la metafora di Iside e Osiride. Osiride viene attaccato e smembrato, i pezzi sparsi ovunque. Iside, madre, sorella e amante severa, va a recuperarne le membra e le rimette insieme. Quella metafora di attrito e armonia che può essere la cura dell’anima per le persone di colore è estremamente reale per me. A volte mi rattristo perché credo che la nostra cultura abbia la tendenza a tenere uomini e donne di colore ancora più lontani gli uni dagli altri, anziché farci incontrare in un luogo di storia condivisa, di passato condiviso.

Sono molto grata per gli amici maschi neri che ho nella mia vita. Come tante donne in carriera nere, non ho un compagno. Mi piacerebbe averne uno, ma sono grata di avere amici e sodali di colore affettuosi e consapevoli, che mi trattengono dall’integrare la mascolinità nera, circondandomi di una neritudine piena d’amore.

Rapporti come questi sono molto preziosi. Sono i momenti più costruttivi della nostra epoca, ma non vengono trasmessi in televisione. Quando Malcom X ha detto che dobbiamo guardarci l’un l’altro con occhi nuovi, penso sia lì che inizia l’autodeterminazione e la capacità di rapportarci gli uni agli altri. Diciamocelo, troppi uomini e donne di colore hanno sofferto di un totale abbandono dal punto di vista mentale e, più che la brutalità della polizia, per molti di noi è quella la fonte principale del trauma. Il tradimento ha sempre a che fare con l’abbandono. E molti di noi sono stati abbandonati emotivamente. Queste sono le ferite che è importante curare a dovere per consentire davvero ai bambini neri e birazziali di potersi prendere cura di sé nella maniera migliore per tutti.

G.Y. Le tue pratiche buddiste e le tue pratiche femministe si consolidano a vicenda? Se sì, come?

b.h. Ah, posso dire che la mia pratica da cristiana buddista per me è una sfida continua, al pari del femminismo. Ma il buddismo è una fonte di ispirazione continua perché c’è molta enfasi sulla pratica. Che cosa fai? Retta sussistenza, retta azione.[2] Siamo tornati a quel mettersi in discussione che è fondamentale. È buffo che tu abbia tracciato un collegamento tra buddismo e femminismo, perché credo che una delle questioni su cui più mi trovo a riflettere in questa fase della mia vita sia in quale misura i valori etico-spirituali essenziali abbiano costituito le fondamenta della mia esistenza. Fondamenta che mi derivano sia dal buddismo sia dal cristianesimo, mentre il femminismo è stato ciò che, da giovane donna, mi ha aiutato ad arrivarci e ad apprezzarli. La spiritualità per me è arrivata tramite l’amore per la poesia Beat. Sono giunta al buddismo tramite la generazione Beat, tramite Gary Snyder e Jack Kerouac, che mi hanno concesso uno spazio dove mettere radici.

Oggi parlo di spiritualità più di quanto non abbia mai fatto prima perché vedo i miei studenti soffrire più di quanto non sia mai accaduto prima, specialmente le studentesse, che hanno la sensazione di dover soddisfare delle aspettative esagerate. Da un lato devono essere uguali agli uomini ma dall’altro, se eteronormative, devono dimostrarsi sottomesse, devono trovare un partner. Ci si aspetta così tanto da loro che in molti casi si lasciano andare alla depressione, alla tossicodipendenza o al suicidio. La spiritualità, invece, è in grado di dare loro delle basi solide.

Il femminismo non è tra i miei fondamenti. La base della mia vita è la disciplina derivata dalla pratica spirituale. Se vogliamo parlare di che scrittrice disciplinata sono stata e vorrei continuare a essere, quella disciplina mi deriva dalla pratica spirituale. Una pratica da ripetere ogni singolo giorno, ancora e ancora.


[1] Riferimento alla frase cardine del volume Casa Howard, di Edward M. Forster, qui riportata nella traduzione di Lucia Chiarelli (Feltrinelli, Milano 1997). [N.d.T.]

[2] Precetti V e IV del “nobile ottuplice sentiero” del buddismo. [N.d.T.]

Traduzione di Camilla Pieretti.