ARTICOLO n. 5 / 2024

MEDUSA: UNA BAND DI BASSO E BATTERIA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, diamo il via alle Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo primo appuntamento abbiamo intervistato MEDUSA, un collettivo composto da Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che dal 2017 pubblica una newsletter omonima per raccontare e divulgare la crisi climatica. Il loro libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) è stato pubblicato da NERO nel 2021. 

MONTAG: Volevamo partire da una domanda che faremo a tutti quanti i collettivi con cui converseremo. Vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? E, se sì, cosa significa per voi?

MEDUSA: Se un collettivo è uno spazio in cui bisogna negoziare le scelte, le decisioni, i rapporti che si creano, il linguaggio che si adopera per interfacciarsi col mondo, se questa negoziazione è alla base del progetto, allora siamo un collettivo. Da altri punti di vista sappiamo che i collettivi sono organismi più complessi del nostro. Noi siamo più che altro un duo, una band di basso e batteria, che ha anche i propri progetti solisti. Ma quando ci mettiamo insieme uniamo, integriamo e completiamo qualcosa dell’altro. Il progetto comune è diverso dalle cose che facciamo ognuno per conto suo. Sappiamo che certe cose possiamo e vogliamo scriverle solo sotto lo sguardo di MEDUSA. Stiamo lavorando e abbiamo lavorato a pezzi, racconti e idee di romanzo per MEDUSA. Quando siamo in due cambia il modo in cui pensiamo alla scrittura, perché sappiamo di essere su un terreno comune, che abbiamo costruito insieme e che conosciamo ormai molto bene. Il progetto è nato sette anni fa: ormai sappiamo come muoverci, come editare l’altro, cosa voler tradire e cosa voler rispettare: ogni volta sappiamo dove stiamo camminando. E quindi sì, siamo più un duo che sa quale album viene prima e, se si mette a pensare un nuovo album, sa che può spostare l’asticella o il ritmo o la sperimentazione artistica da una parte o dall’altra.

MONTAG: Torna l’immagine musicale dei Wu Ming. Anche loro si definiscono spesso come una band.

MEDUSA: Sì, alla fine è così. È una cosa un po’ inspiegabile, alchemica, oscura. Quando si mettono insieme più teste si crea un’intelligenza collettiva, da alveare. E finché funziona, è bellissimo. Ci si capisce al volo. Noi a volte, in maniera preoccupante, pensiamo le stesse cose a distanza. Non solo quando scriviamo. Ci è capitato di aprire Telegram e mandarci lo stesso link, articolo o video, nello stesso momento. A livello di scrittura, poi, succede si sviluppi una postura quasi mimetica: abbiamo assorbito alcune qualità, alcune caratteristiche dello stile dell’altro, e quando scriviamo su MEDUSA ne facciamo uso senza problemi. Anche per questo, nel libro, abbiamo deciso di usare la prima persona singolare: solamente nell’introduzione dichiariamo di essere in due, siamo un noi, ma da lì in poi spariamo in un io, un autore singolo, e usiamo la prima persona singolare. A volte ci capita di riaprirlo, leggere un paragrafo e non sapere chi l’abbia scritto.

MONTAG: Ragionando sul rapporto tra negoziabilità e complessità nelle diverse forme di collettivo, questa è una cosa che abbiamo ritrovato molto nella relazione tra la forma che adottate per lavorare e creare insieme e le tematiche che affrontate, soprattutto nei termini di una tensione tra l’unità e le sue parti. Ci è piaciuto l’esempio che avete fatto in Storie dalla fine del mondo sulla “unica grande nota” di Zappa: tutto quanto è un’unica nota dal cui interno nascono le varietà, non esistono solisti, ma tutto si tiene in una grande armonia. È un po’ la stessa cosa che si viene a formare nel momento in cui entrambi vi mandate la stessa cosa su Telegram, quando avviene quella consonanza. Vi riconoscete in questa descrizione?

MEDUSA: Diciamo che non riusciamo a immaginarci un collettivo che nasce da persone che non vanno d’accordo, che non hanno una relazione sana e un’amicizia. Se le idee sono degli accordi, ci sono anche degli armonici, ci sono delle ottave, ci sono sempre delle differenze di interpretazione, che possono essere minime e cambiare nel tempo. A volte la sensazione è che abbiamo capito il nostro punto di vista leggendoci, piuttosto che parlando, perché ci sono operazioni e ragionamenti complessi da mettere su carta e di cui nella vita di tutti i giorni non si riesce a parlare, per esempio cosa si pensa della decarbonizzazione, o dell’ironia degli scrittori postmoderni.

Questa unione impossibile tra l’unità e la collettività è una delle cose che ci interessano, che nutrono il nostro sguardo e ciò che abbiamo scritto. In un certo senso è uno scontro tra la vita quotidiana, quindi l’unità, e la vita collettiva, quindi la vita della società. È uno sfogo cui abbiamo dato la forma di saggio narrativo o di racconto. Qualche settimana fa, intervistando Orhan Pamuk, Matteo ha citato Tolstoj, che dopo 700 pagine di Guerra e pace se ne prende qualche decina per raccontare la sua filosofia della storia. Sono pagine teoriche in cui dice che gli esseri umani hanno due vite: una vita individuale che segue dinamiche prevedibili, meccaniche che dipendono dai suoi umori, dalle emozioni, dai bisogni; e poi c’è la “vita-sciame”, la vita delle società, che segue invece relazioni talmente complesse che al singolo risultano impenetrabili, quasi divine. Senza poterla formulare con lo stesso acume di Tolstoj, è però una cosa a cui in effetti pensiamo spesso: il ruolo dell’individuo nella collettività, ma anche il senso di impotenza dell’individuo rispetto a essa, davanti a questioni enormi e incontrollabili, davanti a oggetti come le crisi climatiche e le guerre. Questa è di sicuro una delle cose che ci ha spinto – che ci spinge – a scrivere. Storie dalla fine del mondo parte proprio da lì, da quell’unica grande nota incomprensibile che citava anche Zappa.

MONTAG: Ancora sul tema del rapporto con la società: perché fare collettività oggi? Qual è la potenzialità del lavoro collettivo rispetto al lavoro individuale? Il funzionamento di tutta questa complessità si può cogliere meglio attraverso una dinamica collettiva?

MEDUSA: Vi diamo una risposta fenomenologica. C’è qualcosa nello spirito del tempo: il mondo è dominato da sistemi complessi come internet, e qualsiasi altro aspetto della nostra vita è imbrigliato in qualche rete grande o piccola. E la risposta è sempre più, anche negli artisti, di unione e di condivisione. Anche dal punto di vista politico, ci sembra che ci siano molti più gruppi che si stanno finalmente organizzando e hanno bisogno di mutuo appoggio e mutua assistenza per riuscire sia a decifrare il problema che a capire come superare le difficoltà. Pensiamo a Ultima Generazione o Extinction Rebellion, gruppi locali che sono arrivati a unirsi in reti internazionali (e viceversa). Ma questo discorso si può leggere anche nella musica: negli ultimi anni il rap, la trap sono dominati dal featuring, ormai moltissimi album sono praticamente playlist di duetti e collaborazioni. Non è più strano vedere un album con dodici nomi che poi va nella discografia di uno solo degli artisti. Non è mai stato così.

Poi, pensandoci meglio, è anche vero che molto sta in come i periodi storici si raccontano, nel modo in cui le società si autoanalizzano. Sicuramente c’è questa tensione, dei pattern comuni, oggi. Ma se si va a rivedere la storia del Novecento, i giovani hanno spesso formato dei collettivi di un qualche tipo. Le riviste sono il miglior esempio possibile. A inizio Novecento c’era Lucciola, che era una rivista femminista, l’abbiamo scoperta grazie al nostro amico Ivan Carozzi, una rivista incredibile, scritta per corrispondenza da sole donne, e poi pensiamo ai Vociani, o, passando all’arte, cosa sarebbe il surrealismo senza Zurigo e il Dada? E poi si arriva al Gruppo 63, alla politica degli anni ‘70. E anche gli ‘80: abbiamo avuto bisogno di raccontarli come individualisti solo perché andava “compensato” l’impegno politico degli anni ‘70, per riconoscerli nel contrasto ecco, ma gli anni ‘80 in realtà sono pieni di collettivi importantissimi che hanno inciso, per esempio, sulla storia della comunità LGBTQ+, o avventure culturali come la rivista Frigidaire. E ci sono anche molte realtà degli anni ‘90 che ignoravamo, e che abbiamo scoperto grazie a Grafton 9, progetto bolognese che si occupa di digitalizzare molte riviste del passato, soprattutto della scena sociale degli anni ‘90, ma non solo. Insomma, ovunque si guardi c’è sempre stato un bisogno di collettività, e anche oggi è giusto parlarne in questi termini.

Ma è vero che quell’impressione iniziale rimane: sembra che, persino nelle arti che sono sempre state rivolte all’espressione più individualista, ora ci sia più facilità e più volontà di renderle collettive. Si è sempre fatta, questa cosa di scrivere un libro in due, in tre, in quattro, ma oggi ci sembra una cosa ancora più naturale, non è più una bizzarria, non stupisce più.

MONTAG: Prima dicevate che nel vostro libro avete ricostituito un “Io collettivo”. Nel racconto del contesto storico e culturale in cui ci troviamo, quale è il posto dell’Io? Si può costruire un “Io antropocenico”?

MEDUSA: In realtà questa cosa dell’Io, della prima persona singolare con cui abbiamo scritto insieme il libro, è stata una sorpresa anche per noi, perché non l’avevamo preventivata. Abbiamo iniziato a scrivere il libro mettendo insieme cose che avevamo scritto singolarmente, poi continuando a scrivere cose nuove e completandolo, studiando le lacune e unendo i puntini. Arrivati a questo punto però ci siamo resi conto che andavano amalgamate le cose. E anche magari per pigrizia, all’inizio, se vuoi, abbiamo pensato a questa soluzione. Sarebbe stato più pesante e complesso specificare ogni volta, nel libro, chi parlava: “Io, Nicolò, giro per la Stazione Centrale deserta durante la pandemia” e poi “Io, Matteo, mi ricordo di quando a Venezia ho partecipato a un festival di cortometraggi”. Una volta che l’idea era sul tavolo, ci è sembrata la cosa più naturale e abbiamo immediatamente percepito la sua potenza. 

Da un lato ci ha liberato di alcuni tic che sono tipici del reportage narrativo: tutte queste varianti di new journalism ecco, fino a Carrère e i suoi emuli, presentano a volte quegli eccessi di Io, dove il giornalista-scrittore non si leva di mezzo mai, ti dice che cosa ha mangiato o come si è spostato, in macchina, in taxi, in treno. Tutti ganci narrativi che dovrebbero aiutare il lettore, portarlo a spasso per la storia, ma che spesso finiscono per essere pura maniera. E a maggior ragione, parlando di Antropocene, sarebbe stato strano: uno dei problemi di quest’epoca è proprio l’ego, l’egoismo, l’umanità nella sua forma autoriferita. Paradossalmente, invece, componendo un Io che erano due persone, non potevamo permetterci queste cose, cioè non ci potevamo permettere di essere completamente e fisicamente nel libro, non ci potevano essere le nostre vanitàe i nostri tic personali, perché dovevamo fare spazio all’Io-MEDUSA. E invece sono rimaste intatte le paure comuni, le ossessioni comuni, tutto ciò che ci ha spinto a scrivere il libro. 

Quindi abbiamo creato questa sorta di Io composito che, pur non essendo minimamente fisico, né egoista, né autoriferito, diventava più emotivo, analitico, preoccupato più per il mondo che per se stesso. Abbiamo cercato di sfruttare quell’Io come un’universalità, quella richiesta dall’emergenza climatica, dal problema dell’Antropocene.

MONTAG: Ci è venuta in mente un’analogia con una citazione di Kafka che avete inserito nel libro, quando appunta: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia, nel pomeriggio lezione di nuoto». Ci sono l’ordinario, il nuoto, e l’eccezionale, l’invasione, che si mischiano, e ci sembra che un po’ seguiate questa regola, una sorta di “rasoio di Kafka”, che stiate su questo crine in cui due mondi che costantemente portano l’uno a scomparire nell’altro. E ci sembra che un progetto come il vostro riesca in qualche modo a de-automatizzare questo binomio, anche grazie al vostro rendervi indistinguibili attraverso l’Io di cui parlate. In che maniera a partire da questo Io antropocentrico vi siete accorti che cambiava il vostro modo di scrivere?

MEDUSA: Sicuramente questo nuovo Io ci ha cambiato, è diventato una sorta di “super editing”, nel senso che, pur non facendo mai esperimenti come il vostro di scrittura simultanea o di condivisione totale, e pur avendo ancora bisogno del nostro foglio prima di darlo all’altro e farlo intervenire, è però qualcosa che a livello quasi subconscio interviene in anticipo, un editing prima ancora dell’editing. Per noi, quando uno scrive per MEDUSA, scrive in quanto MEDUSA. E ognuno di noi ha introiettato brandelli di stile o modi di scrivere dell’altro, è come una spinta mimetica che porta ognuno a scrivere precipitando e aspettandosi l’editing dell’altro, nella maniera più comunitaria e medusica possibile. A volte scrivendo si prende piena consapevolezza, come un flash, di avere non solo un lettore di riferimento ma anche un altro scrittore di riferimento. L’editing è la cosa più comunitaria che si possa fare nella scrittura, ed è la più delicata, bisogna trovare una persona di cui fidarsi, di cui accettare qualsiasi critica. Spesso l’editing può essere anche solo lessicale, un lavoro di piccole scelte, un po’ minimalista, però è quel minimalismo da producer che sistema le canzoni. Dall’altro lato spesso è massimalista, nel senso che a volte ci si sbrodola, si divaga, e quindi il confronto con l’altro aiuta a tagliare anche paragrafi interi.

Tornando all’Io, se c’è un messaggio, anche se non ci piace dire così, se c’è un fondo nel nostro libro, è il rifiuto del consumismo. Spesso, nel vecchio new journalism di cui parlavamo prima, e che ancora si propaga, raccontare l’Io significa raccontare i consumi. Ricorrere all’Io in questo contesto non è banale, perché l’autofiction si nutre di edonismo, egoismo, solipsismo, che sono tutte materie prime della letteratura, ma quando l’Io si intreccia con la divulgazione, quando si parla di che cosa è meglio per il pianeta, l’equilibrio diventa precario. È un lavoro che va fatto con attenzione.

MONTAG: Esatto, ci sembrava che andasse anche contro l’Io inteso come forma linguistica capitalista.

MEDUSA: Il tentativo di MEDUSA era ricostruire degli intrecci inspiegabili, invisibili, tra l’acciaio e le decisioni umane, le radiazioni e i traumi collettivi. Quindi visibile e invisibile. E l’unica voce che poteva raccontarlo era una specie di voce onnisciente che non è una divinità, ma una via di mezzo tra l’inconscio di un paese e l’aria che respira. Anche questo forse c’entra con la dissoluzione di un punto di vista soggettivo, che però ovviamente è un processo che si può fare in tutti i modi, con la prima, la seconda, la quarta persona!

MONTAG: Questo discorso che avete fatto ci interessa tantissimo. Anche a noi a volte succede di pensare la stessa cosa, persino di iniziare racconti con la stessa parola. Però a nuove forme mentali possono anche accompagnarsi nuovi generi, quindi: quali sono i generi di MEDUSA? Il vostro libro è un saggio narrativo, che già di per sé è un’espressione ibrida, si avvicina alla theory-fiction. Nella vostra newsletter è interessante vedere quanto spaziate a livello di genere, nella struttura, nella lunghezza e nel tipo di testi che ospitate: saggi, racconti, reportage, interviste. Che cosa vuol dire per voi sperimentare, da un lato scegliere di confrontarvi con così tanti generi, e dall’altro ibridarli? Confrontarvi con più generi vi è venuto naturale scrivendo insieme, oppure è una vostra caratteristica personale?

MEDUSA: Questa è una domanda per cui vi abbracceremmo! È una domanda che non ci hanno mai fatto, ci sembra, e che rispetta profondamente la nostra ricerca. Ci viene in mente il nuovo fumetto di Daniel Clowes, dove narra la vita di una ragazza, di una donna, attraverso tanti racconti e ogni racconto esplora un genere. E questa è una cosa che ci piacerebbe fare. Perché non crediamo nella gerarchia tra generi, anche se spesso ci siamo trovati impastoiati, infangati nel discorso sulla fantascienza. Ma, andando avanti, abbiamo sempre più la sensazione che la fantascienza non sia più un genere, la fantascienza contemporanea è semplicemente diventata il modo per raccontare il presente, il futuro.

Tanto “genere” purtroppo resta iterazione, replica. Ma, allo stesso tempo, quella che dalla nostra società è considerata “letteratura alta” è diventata un polpettone replicato in mille sfumature di trauma. Per noi i generi diventano invece un modo per sperimentare, per allargare le nostre capacità. A un certo punto, quando eravamo nei vari lockdown della pandemia, quasi stava collassando anche il senso di alcuni testi. Mi viene in mente una cosa che avevamo scritto su un minatore australiano che vive sottoterra e scrive poesie. Quella cosa iniziava come un reportage, prendeva l’idea da un numero di Frigidaire che raccontava di Coober Pedy, un paese scavato nella terra, in Australia, dove fa troppo caldo e quindi si vive sottoterra. Raccontavamo delle cose a metà, un po’ strane, fantascientifiche, e qualcuno alla fine ci ha chiesto se la storia fosse vera e di chi fossero le poesie, dove potevano trovare altre poesie dei minatori. Ma le poesie erano nostre! Questo per dire cosa? Che ci piace esplorare tutte le forme. 

MONTAG: È vero che nella newsletter c’è sempre più materiale narrativo, soprattutto dopo l’uscita del libro. E quindi volevamo farvi questa domanda, puramente speculativa: un romanzo MEDUSA avrebbe senso per voi?

MEDUSA: Ci pensiamo dall’inizio. Abbiamo già in mente di lavorare a un romanzo (o dei racconti) MEDUSA, ma in realtà vorremmo prima o poi fare anche un altro libro, un altro saggio ibrido, quindi vediamo cosa succederà. Idealmente, se avessimo tutto il tempo del mondo, entrambi subito!

MONTAG: In esclusiva ai nostri microfoni! 

MEDUSA: Però l’esplorazione dei generi per noi è stata, da sempre, anche una conseguenza editoriale a cui ci siamo costretti. Forse MEDUSA è anche questo, all’inizio abbiamo pensato alla newsletter e parlavamo di cambiamenti climatici, crisi ambientale, di realtà, appunto, di rapporto tra uomo e natura, cosa che si è sempre fatta ma che ci sembrava, in un momento di crisi globale, non si facesse nella maniera in cui ci sarebbe piaciuto leggerla. Quindi c’erano numeri più divulgativi, poi numeri letterari, dove parlavamo di filosofi e libri sull’Antropocene, di quello che ci andava di raccontare o commentare. C’è da dire anche che alla fine le questioni più letterarie forse sono quelle meno lette, non solo su MEDUSA, in generale su internet: i racconti vanno sempre peggio dei pezzi. Mentre noi, controcorrente, dopo sette anni di newsletter siamo arrivati a un punto in cui ci fa molto più piacere scrivere racconti dentro MEDUSA. Però sappiamo che parte del nostro pubblico è affezionato anche ad altri tipi di riflessioni, ad altri tipi di “contenuti”.

Non diciamo che sia del tutto saltata la divisione fra contenuto, racconto, o content, fra le storie, i link, le curiosità, però siamo qualcosa che si avvicina a una fusione di tutto questo. Lo vediamo per esempio su Instagram: ovviamente lì un racconto è invendibile, però ci sono comunque storie brevi che possiamo raccontare e che entrano in un nostro ragionamento, magari bizzarre, strane, e che continuano a succedere davvero nel mondo.

Poi, rispetto a quando è iniziato, il dibattito sull’emergenza climatica si è molto aggiornato in Italia. Quindi sentiamo di avere meno urgenza divulgativa, perché certe cose ormai sono note. Stiamo ovviamente parlando della nicchia in cui ci muoviamo e pure questa non è una questione da poco. La domanda alla fine resta: che cosa possiamo dare al mondo che il mondo non ha? E quindi è su questo che stiamo lavorando, appunto perché dopo sette anni abbiamo allentato i legacci del “tema”. Non siamo mai stati ancillari, non è mai stato un modo di svilire la letteratura, o le nostre ambizioni letterarie “per parlare del Tema”. Piuttosto al contrario, partivamo da un problema usandolo come elemento di interesse, tentativo di comprensione e di esplorazione di un racconto. 

Ora sia un nuovo saggio che un romanzo MEDUSA riusciamo a vederlo bene.

ARTICOLO n. 74 / 2024