ARTICOLO n. 97 / 2022

OPERETTA MORALE

L'anno che verrà

Passeggere
Come quest’anno passato?

Venditore
Più più assai.

Passeggere
Come quello di là?

Venditore
Più più, illustrissimo.

Passeggere
Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore
Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere
Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore
Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere
A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore
Io? non saprei.

Passeggere
Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore
No in verità, illustrissimo.

Passeggere
E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore
Cotesto si sa.

(Operette morali, Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere)

Nell’arco dei 365 giorni che compongono l’anno, due mi sono fatali: il Ferragosto e il Capodanno.

Due feste di inizio e fine, spartiacque di buoni propositi e lente riprese, momenti in cui si fa la somma di ciò che si è fatto e si inizia poi a dividerla e scomporla in frammenti sempre più piccoli.

Se Ferragosto ha il compito di dividere l’estate, segnandone la inesorabile fine, Capodanno coincide con la fine della conta dei mesi dell’anno e per questo si porta appresso un valore simbolico e morale ancor più pesante del suo torrido fratello.

Se infatti a Ferragosto la fine – delle ferie – non è così repentina, a Capodanno l’ansia assale gran parte del genere umano, conferendoci l’impressione di non aver fatto davvero tutto il possibile per essere felici. E di tempo per rimediare, a Capodanno, ne rimane davvero poco: una manciata di ore e la magia sarà finita. 

Il 31 dicembre celebriamo perciò velocemente e scaramanticamente, con le nostre mutande rosse nuove di pacca, sperando di non ripetere errori già commessi, di portare denaro nelle nostre tasche e di allontanare il dolore che abbiamo accumulato durante l’anno.

È il momento di quell’ultimo messaggio da mandare, del bacio da dare per iniziare con slancio, della festa più rumorosa da organizzare, in modo da esorcizzare il futuro sconosciuto.

Il 31 è una corsa, ogni anno, verso il compimento dei nostri privati quanto imprevedibili desideri.

La macchina da presa scivola veloce su un carrello immaginario che ci segue per tutto il giorno, vedendoci fare commissioni, compiere rituali, muoverci con frenesia; sentendoci nervosi all’aumentare dell’adrenalina, zoomando sui nostri palmi sudati, le nostre facce tese, i sorrisi rigidi.

Il piano sequenza prosegue e arriva alla festa, perché il 31 c’è sempre qualche festa a cui andare o da organizzare, e si muove tra gambe nervose, mani sui cellulari, bicchieri che sbattono, occhiate febbrili all’orologio per controllare quanto manca al primo giorno di un nuovo anno di cui non sappiamo niente ma immaginiamo non sarà uguale al precedente –   come lo sappiamo? con la scaramanzia – e verso il quale nutriamo speranze enormi quanto naïf.

Queste speranze sono ataviche e comprensibili, si allacciano a doppio nodo alla solennità di un momento rituale come il Capodanno, ci aprono le porte al nuovo – che, come scrisse Leopardi in quell’Operetta Morale che ho usato come esergo, è l’unica forma in cui la felicità sopravvive e coincide con il futuro – e si incastrano in ogni nostra più profonda paura: se siamo soli, se siamo senza soldi, se non abbiamo la salute, se non siamo del tutto sereni o se, per paradosso, lo siamo troppo, Capodanno ci rende inquieti, perché ci pone delle domande a cui noi, di base, non abbiamo mica poi tanta voglia di rispondere.

Quest’ansia di incompiutezza, che diviene rituale propiziatorio, è uno dei temi pop più conosciuti e visionati, da Harry e Sally che si corrono incontro a New York prima della mezzanotte, a Marissa e Ryan in una serie TVambientata a Los Angeles in cui tutti sono in maniche corte. Da Bridget Jones che corre in pigiama per Londra per fermare l’uomo di cui è innamorata a L’appartamento (Billy Wilder, 1960), in cui Shirley MacLaine corre da Jack Lemmon prima dello scoccare del nuovo anno. Le aspettative – che coincidono con il combattere la solitudine costi quel che costi – si racchiudono in una sola notte all’anno e ci fanno credere che anche per noi ci saranno fughe nella notte in pigiama e baci al conto alla rovescia, soldi facili, vita in discesa.

Ma nel mondo reale siamo molto più simili al Capodanno del primo, indimenticabile Fantozzi o a quello di Risate di gioia (1960) di Monicelli.

Solo che ogni anno, ogni Capodanno, noi ci illudiamo che stavolta non sarà così, che celebreremo un rito propiziatorio perfetto e che dunque l’anno che verrà inizierà e proseguirà con il botto.

Questo rituale tutto pagano infatti ci porta a pensare che ciò che faremo a Capodanno lo faremo per tutto il resto dei 364 giorni che ci attendono, caricando di aspettativa il futuro, scollegandolo dal reale stato in cui versa la – nostra – storia.

Ho iniziato scrivendo che io Capodanno lo soffro molto, proprio per questa sua voglia di alienarci dal reale e spingerci a credere di poter rimediare e concludere immaginari cicli vitali. Da brava atea quale sono, trovo infatti impossibile la redenzione immediata del Capodanno, elevato nel suo valore a giubileo pagano.

Mi chiedo dunque, ogni 31 dicembre, come chiunque al mondo, come sarà l’anno nuovo. E cerco di darmi risposte concrete quanto plausibili, cercando di allontanare da me l’idea che se farò tutto come devo allora avrò in premio il futuro che desidero ardentemente, cercando di contemplare l’impossibilità della previsione dell’avvenire che, secondo Leopardi, proprio nella sua imprevedibilità racchiude la così tanto agognata gioia. Ma ci sono delle cose più grandi di me, del mio orticello, del cuore caldo e rassicurante del mio nido, che posso provare a immaginare e prevedere in questo 2023.

Sono anteprime che mi, e ci è concesso avere perché sono legate a sistemi che esulano dal caso e dalla fortuna, come la politica e la cultura. Perciò, mentre evito di chiedermi che binari prenderà la mia privata esistenza il prossimo anno, mi domando cosa ne sarà del sistema che ci gravita attorno e provo come esercizio a descrivere l’anno che verrà.

Non avremo macchine volanti, non ci saranno abitanti sulla Luna e tantomeno su Marte. 

Avremo ancora una guerra di serie A da gestire e altre, ritenute di serie B, da ignorare. I nostri politici finanzieranno ancora le guardie costiere che minacciano il mediterraneo? Ho il terrore di poter prevedere con esattezza la risposta.

Nell’anno che verrà, ci annoieremo ancor di più di approfondire le notizie che riceviamo incessantemente da ogni device in nostro possesso, e questo farà un favore enorme a chi ci governa e governerà, a prescindere dal colore politico: un popolo disinformato è più facile da sottomettere.

La violenza prenderà ancora una posizione politica: se a commetterla sono persone nere allora verrà resa nota e funzionale alla propaganda; il resto degli omicidi e degli stupri passeranno invece indisturbati tra i fatti di cronaca non rilevanti. No, i femminicidi non diminuiranno. 

Il clima rimarrà fuori dalla politica e diventerà solo argomento da bar o da vicini di ombrellone (“non ci sono più le mezze stagioni” / “già, di sera qualche anno fa qui si usciva con il maglioncino a manica lunga”), perché nessuno vuole mettersi contro chi ha i soldi, tantomeno chi governa i paesi ricchi del mondo.

Il riconoscimento dei diritti fondamentali sta prendendo una brutta piega da qualche anno e dubito che avremo una ventata di progressismo a strettissimo giro: unioni civili, 194, 180 e Ius Soli non avranno lo spazio necessario neanche nel 2023.

L’anno che verrà non sembra quindi una gran festa, da queste premesse. Però noto una nuova scintilla, che si fa più nitida mese dopo mese e credo prenderà più consistenza nel 2023.

La nuova generazione ha fame, determinazione e intelligenza da vendere. E i mezzi per poter alzare la voce.

La mia generazione è pronta dunque a sostenerla, perché sappiamo che fine possono fare i giovani quando vengono picchiati e non ascoltati: noi Millennial siamo stati educati proprio così e guarda come cazzo stiamo.

La cultura non era così bramosa di novità e nuove idee da tantissimo tempo e la controcultura è al suo massimo splendore. Le piazze e i collettivi si stanno ripopolando, così come le associazioni e le sedi sindacali.

C’è, per l’anno che verrà, una previsione di nuova energia, una spinta per il rinnovamento sociale e culturale che mi rassicura e rincuora e credo sia, in definitiva, l’unica forma di futuro sulla quale possiamo concretamente lavorare, nutrendola, tutelandola, dandole spazio e respiro affinché non soffochi o venga, al peggio, soffocata.

Nell’anno che verrà non so cosa sarà di me, di chi amo, di chi odio, di chi mi sono dimenticata o mi dimenticherò. So solo due cose: che se il nostro futuro come singoli è imprevedibile – perciò ci porta gioia al solo pensiero, come raccontano le Operette morali – e ogni rituale propiziatorio è di per sé inutile. Il futuro della collettività non lo è, perché già ben delineato su quella linea curva che determina l’andamento della storia del mondo. E se davvero possiamo prevedere dove stiamo andando, sarebbe da scellerati non fare qualsiasi cosa in nostro potere per migliorare le cose.

L’anno che verrà spero, e credo che sia pieno di partecipazione. Questo Capodanno, al conto alla rovescia, pensiamo all’unico futuro che possiamo prevedere e permetterci, ovvero quello collettivo.Che, metti caso girasse bene, magari ci porterà proprio a quella felicità che Leopardi sapeva annusare ma non agguantare. 

ARTICOLO n. 74 / 2024