Dimitris Lyacos

ARTICOLO n. 73 / 2022

RIFLESSIONI SULLA TRADUZIONE

Traduzione di Viviana Sebastio

Quando alla fine ho deciso di tradurre questa poesia (avevo il libro già da tempo, ma non c’era stato modo di leggerlo) per me altro non era che un processo destinato a isolare parte della mia mente. Non avrei pensato al resto, questo lavoro sarebbe stato un rito personale, quotidiano, che avrebbe lasciato fuori tutto il resto. Un po’ come prendere da qualche parte pezzi di qualcosa e portarli altrove, in uno spazio tutto mio, in un luogo dove il pensiero si dipana e si unisce a quei pezzi. Un po’ come uno straniero che mi parla e io cerco di intenderne le intenzioni, di dare con la mia mente un senso al suo comportamento. Quelle parole avevano una propria modalità, ignota al principio, come quando arrivi qui dentro per la prima volta e li vedi tutti insieme, parlano, ma non presti attenzione perché non hai ancora capito dove ti trovi. Tutto nuovo, un po’ alla volta impari le connessioni esistenti tra loro, come in questa lingua che mi era del tutto sconosciuta e poco alla volta però ne ho compreso il senso. O piuttosto, ho realizzato una primitiva mappa di significati seguendo un itinerario quotidiano dentro quelle parole, partendo di volta in volta verso tragitti diversi, mettendo accanto segnali di parole mie, tracciando confini, cercando di fissare luoghi all’ago della bussola che mi era stata data.

Mettere ordine. Ordine, tutto ha a che fare con l’ordine, intorno a me lasciavo in ordine, e cercavo l’ordine della poesia, trasferendo ciò che potevo sulla mia mappa. La mappa sconosciuta a sinistra, la mia a destra e nel mezzo il ponte che mi conduceva dall’una all’altra. Il vocabolario, che lasciavo la sera e ritrovavo al mattino, che non mi permettevano di portare via, doveva restare lì, non poteva essere spostato da quella stanza, come restava lì il significato che ti dava per ciascuna parola, sempre lo stesso, certe volte guardavo di nuovo per sicurezza, ma ci ritrovavo sempre quello che ci avevo trovato la volta prima. Parole il cui comportamento si è impresso qui su un corpo. Accanto a ciascuna una spiegazione, una relazione riassuntiva, come per ognuno di noi, un’identificazione, una piccola storia di ognuno. Prendevo allora le parole una per una, ogni volta persone sconosciute, accanto puoi leggere cosa ha commesso ciascuna di loro. Che cosa ha fatto prima di entrare qui. Parole-persone sconosciute che tu colleghi ad altre che conoscevi, che sapevi cosa facevano, che dentro di te avevano preso il significato prodotto dalle loro azioni. Vai dall’una all’altra, di parola in parola, guardi il testo accanto a te e passo passo distingui, chi è accanto a chi, e il significato di tutto questo. Ho iniziato così mettendo le parole in ordine, imparavo cosa facevano, alla fine ho creato una mia scena dove farle recitare tutte insieme in un’opera solo per me. Chi ha scritto questa poesia di certo aveva in mente un teatro simile, un palcoscenico per le parole, una lista tutta sua e io saltavo da una pagina all’altra del vocabolario e trovavo quelle parole. Così ho iniziato a prendere parole mie e a metterle in una mia lista, la sua e la mia dovevano riportarci alla mente, a me e a chi ha scritto, all’incirca lo stesso. È un’ipotesi, come pure ipotizzo che qui tutte le stanze dentro siano più o meno uguali senza che ne abbia mai vista una a parte questa. E se sono tutte uguali, quando uno esce dalla propria stanza può immaginare da dove sia uscito l’altro, perché, è una mia ipotesi, per noi qui hanno creato spazi uguali e anche gli oggetti qui dentro sono uguali, per poterci comprendere l’uno con l’altro. Vogliono che tutto ciò abbia un senso. Vogliono che il pensiero dell’uno si sovrapponga al pensiero dell’altro, e così io volevo che il pensiero della poesia si sovrapponesse al pensiero del mio testo. E da entrambi far arrivare alla stessa conclusione. E così allora ho deciso, ho preso dal vocabolario le parole della mia lingua, sempre che esista una lingua mia – ma questo è un altro discorso. Volevo che ciò che è vero lì fosse vero pure qui – anche se a volte mi chiedo quanto questo vero possa resistere se da un significato togli parole e ne metti altre al loro posto. Non lo so, non posso dirlo. Io comunque, all’inizio, come dicevo, sentivo di avere davanti a me qualcosa del tutto estraneo, mi sembrava poesia, questo l’ho capito sin dal principio, poi ho chiesto il vocabolario e per fortuna me l’hanno dato, e allora visto che ero qui in solitudine, ho detto mi cerco un pensiero che copra i miei, dal momento che non uscirò da qui – e la poesia mi aiutava a cacciar via anche questo pensiero. È chiaro che all’inizio, come dicevo, tutto ciò mi era estraneo, un materiale grezzo senza forma e regole che mostrava scaglie di immagini, come quando si è rotto il televisore, immagini nascoste dietro spuma e rumore, piene di buchi, e io cercavo di riempire i buchi col vocabolario, per quanto possibile, fino a un certo punto però, e quasi sempre le immagini che mi arrivavano cadevano sulla mappa improvvisata di cui parlavo prima, e si distorcevano mutando quello che già sin dall’inizio era una superficie irregolare. Mi avrebbe aiutato sapere qualcosa di più su questo libro e su chi l’ha scritto. Ma niente, soprattutto all’inizio la poesia svaniva nella mia mente non appena credevo di essere in grado di aprire quell’involucro e di tirarne fuori qualcosa. Alla fine procedevo parola per parola e pian piano andava meglio, partivo da un punto che sentivo più sicuro e creavo piccole catene, che se avessero tenuto sarebbero state catene di significati. Ma l’anello non era solido, era come se il significato si spezzasse sotto il peso della mia stessa mente, come un pavimento sul quale non puoi camminare ma solo strisciare. E io mi trascinavo, a un ritmo preciso, se si può dire, così lo chiama quando parla del ritmo dei suoi passi. Alla fine ho sentito il mio essere strisciare sulle parole dell’altro, ciò che udivo erano parole mie, naturalmente, quelle che avevo trovato proprio nel mio vocabolario – se si può dire mio il vocabolario che mi hanno prestato. Ciò ha dato un ritmo, quale che sia questo ritmo, e sempre che sia poesia ciò che ho scritto sopra quella poesia. Quando ho finito, l’ho letta e all’inizio mi è piaciuta davvero, e mi è piaciuto soprattutto aver preso dal vocabolario quelle parole che fanno riflettere di più, la stessa parola alcune volte aveva più significati slegati tra loro, o era come se li tirassi e questi si allungassero. Ho preso quelle parole e le ho unite, e siccome avevo unito parole avevo creato frasi, e siccome avevo creato frasi avevo organizzato un significato – e, nella mente di chi legge, forse anche una sequenza che può somigliare a quella della poesia. Questo però non lo so. Non so come funzionerà tutto questo, e se provocherà qualche emozione. A volte ho dei dubbi perché, come dicevo prima, ho scelto, se posso dirlo, parole che da una base comune uscivano dalla bocca come lingue, come teste con facce sovrapposte, ognuna con una propria espressione, mi sembrava che ogni parola avesse dietro di sé una mente propria. Molte volte ho scelto parole a me sconosciute, alla fine volevo che la poesia dicesse quanto più possibile. Molte volte ho scelto parole che nessuno pronuncia, o che io non ho mai sentito, parole che forse oramai sono rimaste solo nel vocabolario. Sono chiuse lì dentro, come me, non escono dalla bocca, come me che non esco da qui. Così ho pensato di prenderle e di metterle di nuovo in frasi. In frasi mie. Ho fatto per loro un po’ di spazio. Per loro ho fatto più spazio possibile, in base al testo che avevo davanti, e le frasi mi hanno aiutato a loro volta, perché quanto più vetuste sono le parole tanto più lo sono i significati, quanto più vetusto è lo strumento tanto più lo sono i lavori ha fatto. Fino a che si logora, tanto lo strumento quanto tutto ciò che è stato realizzato con esso, e arriva il tempo di gettarlo da una parte. È come se queste parole fossero state gettate via, buttate nel vocabolario, erano inutili, se volevi però potevano esserti d’aiuto, per me lo sono state. E siccome sono rimaste inutilizzate per tanto tempo, le ho messe anche sotto la poesia, e dentro la poesia forse potranno dire ancora ciò che dicevano un tempo – invece cioè di comportarsi a mo’ di piccole urla, come da qualche parte dice anche chi l’ha scritta. E su questo sono d’accordo con lui, per me d’altronde sin dall’inizio la poesia era proprio questo, la registrazione di una sequenza di grida, da una bocca invisibile. Comunque sia, qualcosa ora l’ho ottenuta, e per me questa sequenza ha ormai un senso, c’era un vocabolario fortunatamente, c’era un ponte, c’era un’uscita, per quanto incerta, in un luogo dove si può sostare per un po’. Pertanto riporto qui di seguito uno stralcio dell’elenco di parole che mi hanno condotto lì, che stiano ancora una volta da sole se ci riescono, che siano – come forse direbbe anche l’autore – «un’insurrezione di membra mutilate che insieme vengono a ricomporre una nuova coscienza».

Il testo è una recente integrazione dell’autore, Dimitris Lyacos, all’edizione italiana di Poena Damni (Il Saggiatore).
Lo scritto si colloca in chiusura di La Prima Morte – terza parte della trilogia – e precede il corpus del glossario in appendice, riportante alcune delle polisemie racchiuse nei versi dell’opera stessa.
L’io narrante/traduttore potrebbe essere identificato con il protagonista principale che, in Z213: EXIT, durante il suo viaggio in treno trova e fa suo un libretto spiegazzato: La prima morte.