ARTICOLO n. 19 / 2024

WALTER CHIARI, HAI PRESENTE?

I cento anni di Walter Chiari

Stava là, nel residence. Niguarda. Residence Hotel Siloe. Milano, al limite della periferia nord, la strada, via Cesari, anonima, senza un negozio, il rumore da consumo quotidiano. Silenzio. Un appartamento minimo, due stanze, gli arredi un po’ così, non scelti, adottati in una noncuranza da solitudine. Lui, tuta blu scuro, i capelli spettinati, le mani grandi come pale di un mulino a vento mentre raccontava qualcosa di una vita sincopata. Parole come note da jazz. Caldo nonostante il posto, il divano blu pure quello, un tavolino senza arte o parte. “Ma, scusi, che ci fa qui? No, dico, questa è la sua città, non c’è una casa, un luogo diverso da questo?”. Sorrise con una virgola di amarezza nelle labbra, disse ma no, l’ho data a mio nipote. Disse: le cose appartengono a chi le desidera di più. Una frase celebre, un gioiello cesellato da Dashiell Hammett poco prima di volare via. Era primavera, stava per andarsene pure lui, morto pochi mesi dopo, 20 dicembre 1991, stessa stanza, stesso residence. Aveva 67 anni, aveva quella faccia là, bellissima, da ragazzo che non sa invecchiare, aveva addosso una malinconia da giorni perduti, adrenalina consumata, amori travolgenti, qualche oscuro rimpianto.

Walter Chiari, hai presente? Mica tanto, ma no, per niente. La traccia si è fatta debole, è invisibile per chi non ha l’età. Un peccato, perché Walter Chiari ha regalato un viaggio indimenticabile a ciascuno di noi, fatto di improvvisazioni strepitose, aneddoti esilaranti, sketch indimenticabili, film non sempre memorabili, spettacoli trionfali, flirt da paparazzi e pettegolezzi, uno scandalo alla cocaina che gli costò 98 giorni a Regina Coeli e una ferita a cielo aperto mai rimarginata del tutto. Popolare, amatissimo, quel modo di fare un po’ guascone, morbido, una simpatia da naturalezza, per far innamorare gli italiani al fianco di Mina e Paolo Panelli in una edizione perfetta di Canzonissima, anno 1968; al fianco di Carlo Campanini – la sua spalla ideale – in viaggio sul treno con il sarchiapone. Era di casa, in ogni casa, affabile, come un fratello, un fidanzato, un amico prediletto. Compreso al punto da farsi perdonare ogni trasgressione, ogni svarione, quasi tutto; bonariamente invidiato per quel fare là da conquista a prima vista, l’ironia come tocco magico, adatto, niente a che vedere con la spocchia del playboy, niente camicie sbottonate, catene dorate, roba da Saint Tropez, da gesti e luoghi comuni così distanti dalla sua originalità. Alle donne, a corteggiarle, sembrava non pensasse più di tanto e proprio per questo diventava irresistibile. Relazioni al galoppo e fidanzamenti, uno soprattutto, chiacchieratissimo, con Ava Gardner, data come diva irraggiungibile, alla quale raccontava delle abilità strategiche di Napoleone: “Avevo anche dei soldatini per spiegare i movimenti geniali delle truppe”. Ava? Figuriamoci. Eppure in quella storia d’amore senza futuro, Chiari si era trasformato in un rappresentante dell’orgoglio italico maschile e maschilista. Una specie di eroe delegato, di certo molto invidiato.

Donne. Del resto, un vero esperto. Rivista, teatri, dopoguerra all’alba. Una festa del sogno, del desiderio. Il palcoscenico come pista di atterraggio e di decollo. Prima scrittura nel 1946, Se ti bacia Lola il titolo dello spettacolo. Non il primo debutto visto che Walter Annichiarico, nato a Verona nel giorno dedicato alle donne – 8 marzo 1924 – origini pugliesi, padre brigadiere, madre maestra elementare, trasferito a Milano nel’33, era stato magazziniere, pugile pesi piuma, discreto tennista, fenomenale nel gioco delle bocce, nuotatore agonistico, radiotecnico, bancario licenziato in tronco causa imitazione di Hitler in piedi su una scrivania, giornalista, vignettista, milite della X MAS, conduttore radiofonico, arruolato nella Wehrmacht, ferito, prigioniero degli americani a Coltano insieme a Dario Fo, Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Enrico Ameri. Una precoce odissea. A chiamarlo in teatro fu Marisa Maresca, leggendaria primadonna del varietà, una compagna di lavoro fondamentale, al pari di Delia Scala, molti anni dopo. 

Walter, in pista, sul palco, capace di divertire improvvisando, generando continui straniamenti, noto per i ritardi cronici, le dimenticanze: “Avevo una prima a Trieste, me ne ero completamente scordato. All’ora dell’apertura sipario stavo a Livorno. Per altri versi rimediavo. Una sera Delia era malata, un febbrone. Il teatro stracolmo. Dissi agli spettatori: mi spiace, vi rimborsano il biglietto. Oppure, se proprio volete, potrei recitare la parte sua e la parte mia, una cosa un po’ scombinata. Restarono. Ridevano. Ridevano da matti”.

Passava da una argomento all’altro con una rapidità fulminea, una cultura vasta, sorprendente. Parentesi tonde, quadre, graffe riuscendo a riprendere ogni filo, magari evitando di soffermarsi sul matrimonio con Alida Chelli, su Simone, suo figlio, preso forse dal peso di qualche mancanza, di una vaga inadeguatezza. Raccontava piuttosto degli anni che gli fornirono una patente, lo slancio per diventare Walter Chiari. Il tempo dell’euforia, di un incontro collettivo con la bellezza femminile: ”Un uomo che usciva la sera, magari per vedere anche il teatro, soprattutto, voleva guardare la donna. In un film vedevi solamente la star mentre lì, in teatro, anche l’uomo comune, questo impiegato che stingeva gli occhi invano al cinematografo, che una bella donna mai, non l’avrebbe nemmeno sfiorata, poteva fantasticare anche sull’ultima ballerina di fila, vicinissima, viva, con il suo sorriso. Le prime ballerine si sposavano con gli industriali. Appena entravano in scena erano prenotate. Si fidanzavano, si sposavano e sparivano. Era una specie di riserva di caccia privilegiata alla quale avevano accesso i signori. O magari gli impresari. Uno di loro aveva sposato la donna più statuaria del mondo. Si chiamava Irene. Era talmente bella, talmente perfetta, gli occhi, il naso… sembrava appartenesse a una tetralogia wagneriana rivisitata da una specie di Arcadia latina. Vestita da uomo, con cilindro e bastone. E il ballerino era vestito da donna. Improvvisamente mentre lui si appoggiava, lei gli girava intorno, gli piegava la testa indietro e lo alzava con due mani. Vedevi queste braccia truccate, bianche, esangui, da cui venivano fuori muscoli che sembravano incisi a penna su una litografia. C’era anche chi, della donna in quanto donna, non fregava niente, osservavano il particolare, il disegno del corpo, la grafica. Magari erano quelli che oggi chiamano stilisti. Per noi lo stilista era uno che faceva i cento metri a nuoto. Stile libero. Dopo lo spettacolo arrivava qualcosa per tutte. Da un’autista con la fuoriserie a un mazzetto di fiori. Quelle donne lasciavano qualcosa anche nel teatro vuoto. Un profumo, un’emozione”.

Lo sport, altra passione: “Qualcuno dice: non mi occupo di sport. Non sa che per sua fortuna pratica lo sport da sempre, da quando si è innamorato la prima volta nella vita. Lei, di Venezia, lui di Modena. Si conoscono magari al mare, poi via, per direzioni separate. Amano e scoprono il verso dell’amore, la separazione. Ma ormai sono in campo, senza sapere bene con chi hanno a che fare, una dolcezza, un cinismo dell’altro. Non sai. È che l’arbitro ha già fischiato, la partita è già iniziata. È un debutto in gara, è sport. Quando tocca tirar fuori il tuo meglio, nell’amore, nell’amicizia, sul lavoro, fai sport. Scopri, misuri, riveli, patisci e godi. Sport”.

Un fuoriclasse, un pezzo unico. Non appena ci incontrammo, in quel residence a Niguarda, disse: “Guardi, tra mezz’ora devo andar via”. Cinque ore dopo, con un dispiacere fondo, dissi: “Guardi, devo andar via”. Era sera ormai e sono qui da anni a domandarmi quale impegno, quale urgenza mi portò via. Avrei voluto, avrei dovuto rimanere. A cena, dopocena, a tirar tardi, chissenefrega. Porca malora, Walter, aspetti, faccio in un attimo, torno lì.

ARTICOLO n. 35 / 2024