Giuseppe Modica

ARTICOLO n. 71 / 2021

METAFISICA MEDITERRANEA

Intervista di Marco Marino

Marco Marino. Giuseppe, la prima domanda che le vorrei fare è cosa significa per lei dipingere. 

Giuseppe Modica. È una bella domanda, essenzialmente per me è legato a qualcosa di ontologico, esistenziale, qualcosa di vitale; è questo la pittura: qualcosa di profondamente intimo, legato proprio alle ragioni primarie dell’essere umano nel caso mio. Qualcosa di originario, non eludibile, di fondamentale, insomma è come il respiro.

M. M. Lei va in studio, nel suo atelier, ogni giorno: come si coniugano l’esigenza ontologica e l’abitudinarietà quotidiana. Dialogano a vicenda? A volte l’abitudine fiacca la passione della pittura?  

G. M. L’abitudine detta una forma di ritualità necessaria: vado in studio e guardo attorno, vedo cosa ho fatto, rifletto su quello che vedo. A volte non è detto che debba immediatamente mettermi a dipingere. Posso stare anche ore davanti a un quadro solo a guardarlo e a pensare come può essere risolto, quali possono essere i passi successivi che devo fare: possono essere dei motivi di riflessione, non è detto che devono sempre essere dei motivi di lavoro operativo vero e proprio che mi spingono ad andare in studio. Il momento giusto per cominciare ad operare ad un certo punto scatta e quindi è lì che diventa necessario fare le imprimiture, segnare lo spazio, tracciare un disegno, stendere i colori, costruire una trama pittorica: dipingere nel vero senso del termine, mentre nei giorni precedenti ho fatto maturare un’idea che aveva bisogno di tempo e meditazione. 

M. M. Dopo la meditazione, un quadro come nasce? 

G. M. Un quadro è il risultato di un percorso nel tempo fatto di collegamenti, richiami e sedimentazioni che fanno sì che un bel momento tu senti l’esigenza di formalizzare sulla superficie della tela quei pensieri, quelle sensazioni, quelle emozioni che diventano concretamente dati formali e costruttivi. 

M. M. Che equilibrio c’è tra il pensiero e l’emozione nella creazione del quadro? 

G. M. È un impasto tra le due, tra aspetti della memoria e aspetti del rigore razionale, è difficile riuscire a capire dove finisce la ragione e dove entra l’emozione, dove ci sono le ragioni del cuore e dove quelle del pensiero. È un intreccio, ed è bello così. 

M. M. Prima, parlando dell’atelier, ho pensato che è stata molto fortunata la sua mostra che ha avuto come protagonista il suo atelier, «Atelier. Giuseppe Modica 1990-2021». Cos’è l’atelier per lei? 

G. M. L’atelier può essere un luogo in cui mi trovo per meditare e riflettere, dove convergono tutti i miei pensieri, le mie memorie e le annotazioni che faccio nel tempo, ma può essere anche momento magico di metamorfosi e trasformazione in cui la massa dei pensieri prende forma per diventare nuova opera, pensiero visivo. 

M. M. Tra il momento di metamorfosi e il divenire opera si sente condizionato da estrema solitudine o ha bisogno di un occhio esterno che la osservi? 

G. M. No, lavoro in solitudine. Il momento di confronto arriva immediatamente dopo quello della creazione. L’osservazione dell’occhio altrui è importantissimo così come il dialogo; una solitudine separata dal mondo non significa nulla, non porta a niente. La mia solitudine deve trovare un riscontro: un dialogo con una collettività, con un mondo ampio, è linfa vitale. 

M. M. Mi piacerebbe entrare nei suoi quadri: partirei subito da un aspetto che mi ha colpito molto attraversando la mostra: lo studio degli azzurri. È una mostra molto luminosa, molto azzurra. Vorrei chiederle dell’azzurro, che rapporto ha con l’azzurro?

G. M. Ma sai, i colori… i colori un pittore li sceglie così, istintivamente perché ti sono strettamente legati, è un fatto diciamo del sentire intimo, emozionale. E l’azzurro è un colore straordinario perché è il colore dell’aria; l’azzurro accende la luce degli ocra, dei rossi, dà concretezza alle pietre, e alla terra; dà spazialità all’infinito, alle lontananze: l’azzurro è l’atmosfera trasparente ed invisibile. L’azzurro è un colore che misteriosamente crea una sospensione magica, una tensione magnetica; pensa a Giotto, a Piero della Francesca, a Giovanni Bellini e ai loro cieli azzurri sospesi. L’azzurro è un colore che ho sempre amato sin da bambino, lo accostavo alla gioia di vivere. 

M. M. E come dialoga l’azzurro con le, come posso dire…le sfasature del tempo che lei innesta nei suoi quadri? Perché i suoi quadri sono caratterizzati sempre da questo, no? Da un profondo azzurro, una profonda spazialità e poi anche una sfasatura temporale tra le zone dei suoi quadri. 

G. M. Beh l’azzurro è, diciamo, una materia che mette in connessione la struttura misurata dello spazio con qualcosa che è imponderabile, con qualcosa che ha una temporalità altra, indefinibile, imprendibile. È l’azzurro che connette questa energia ritmica e dinamica che sta nell’opera e che transita. Prendiamo ad esempio un quadro fatto di più pannelli, un trittico: da un pannello all’altro questa energia dinamica passa, pur se il quadro è teso, bloccato: attraverso i brandelli di azzurro, le abrasioni e le macchie di ossidazione sulla superficie pittorica transita la tensione magnetica e si crea un ritmo musicale. 

M. M. Io mi concentrerei proprio su questa dimensione del tempo dentro i suoi quadri, perché insiste sulla molteplicità del tempo dentro il quadro? Cioè a volte c’è uno specchio che riflette un certo momento del giorno e una finestra nello stesso spazio che ne riflette un altro. Una finestra riflette il tramonto, l’altra invece l’alba o il mezzogiorno…

G. M. Si, questo si vede bene nell’opera Il pittore nell’atelier-autoritratto (1996-97) dove in uno specchio si riflette una luce pomeridiana e nella parte oltre lo specchio c’è una luce del mattino. C’è questa articolazione del tempo nella sua vastità, nella sua circolarità. È perché sostanzialmente l’essenza della pittura sta nella temporalità: questa articolazione ed estensione del tempo è tipica e caratteristica della pittura e della scultura. La pittura è, diciamo, tempo processuale del fare, addizione di tempi, ed è anche appropriazione di un tempo lontano, che è poi il tempo della memoria e dei ricordi personali, della memoria antropologica e culturale.

M. M. La caratteristica dei suoi lavori è la molteplicità spaziale, è l’uso degli specchi ma anche delle macchine fotografiche che quasi ampliano gli spazi; perché sente l’esigenza di ampliare lo spazio? Una tela non basta? 

G. M. È una mia esigenza interiore avere una molteplicità dello spazio, molto probabilmente perché nella mia realtà poetica non ho una visione assoluta che mi ha dato una certezza definitiva. C’è sempre dentro il mio lavoro un dubbio, una relatività delle cose che sono portato a vedere nella loro trasformazione, nella loro apparizione altra, nella loro dimensione dialettica fra realtà e finzione: è la nostra contemporaneità che è fatta di complessità dialettica. 

M. M. Stavamo riflettendo sulla spazialità e d’altronde, questa diciamo è un’altra parte della conversazione che mi interessa molto approfondire. D’altronde lei si pone in dialogo con due suoi indiscussi maestri, diciamo modelli: da una parte il Velàzquez di Las Meninas e dall’altra de Chirico. Intanto mi piacerebbe approfondire il suo rapporto con Velàzquez…

G. M. Velàzquez, e soprattutto il quadro Las Meninas, ha fatto sì che mi interrogassi molto sul senso della pittura. È un quadro straordinario della storia dell’arte che ha fatto riflettere tantissimi studiosi, artisti e filosofi. È un quadro che ancora oggi crea delle inquietudini, degli interrogativi. È un quadro che ha incredibili e sofisticate implicazioni investigative sul linguaggio della pittura e della rappresentazione. 

M. M. Cosa è che l’ha colpito tanto? Lei ricorda quando la straordinarietà del quadro l’ha catturato? 

G. M. Alla fine degli anni Ottanta ho fatto un viaggio a Madrid e ho visto il quadro al Prado, dal vero. C’è una tensione che aleggia intorno a lui, ti risucchia, ha la capacità di portarti dentro nonostante la distanza. È una trappola per lo sguardo, come diceva Lacan: la circolarità dello spazio è interna all’opera ma anche all’esterno e come fruitore tu vieni trasportato nell’opera. Quindi essa ha la capacità di prolungarsi sia nell’infinito davanti a te che in uno spazio che sta oltre le tue spalle. È un quadro sulla pittura, è stato definito da Luca Giordano la teologia della pittura. Per uno come me che è sempre stato legato alla pittura intesa come fenomenologia del linguaggio, è impossibile sfuggire al fascino di questa imprendibile e misteriosa magia. Li, in quel quadro esplode un universo da indagare.  

M. M. Mi interessava molto questa sua definizione della pittura «fenomenologia del linguaggio», che cosa significa? 

G. M. A volte, nella nostra contemporaneità e con un generico conformismo, si può pensare che aspetti di un linguaggio antico come la pittura siano esauriti e che esistano solo come retaggio archeologico. Si pensa, luogo comune diffuso ahimè anche nelle Accademie, che la pittura o la poesia siano inadeguate ad indagare la contemporaneità. Insomma ci sono degli schematismi ideologici animati da una visione critica all’ingrosso che si organizza attorno ad una sorta di progressismo linguistico: superata una fase se ne crea un’altra; nell’era delle nuove tecnologie è come se un linguaggio si esaurisse, venisse rottamato e se ne cercasse un altro più congruo. Invece non è così perché i linguaggi non sono tecnologie che sono e rimangono supporti e protesi.

La pittura, la scultura, come la poesia, la musica sono linguaggi antropologici di sempre, fondanti e primigeni, che all’occorrenza cambiano e si trasformano nel tempo utilizzando di volta in volta le tecnologie più funzionali all’espressività. Questi linguaggi hanno in sé una specie di mistero imponderabile perché resistono alla temporalità effimera delle mode e sono sempre diversi in ogni epoca, in ogni momento storico. Quindi non esiste un meglio o un peggio nel tempo, esiste solo una trasformazione e la pittura come la poesia ha la capacità di trasformarsi e reinventarsi nella temporalità. 

M. M. Enigma, mistero e soprattutto la reinvenzione, diciamo sono parole che si legano molto ad una definizione che spesso viene data della sua opera ossia di metafisica, di nuova metafisica.

G. M. La metafisica è indubbiamente legata a questo nume tutelare che è Giorgio de Chirico, grandissimo artista. Un grande critico come Maurizio Fagiolo dell’Arco era convinto che il fantasma della metafisica fosse ancora presente nella cultura del ‘900. Anzi, sosteneva che non tanto il linguaggio in sé di de Chirico, ma il pensiero della Metafisica fosse sostanza fondante della cultura artistica del ‘900. Ecco, lui ha curato, nel 1999 a Milano, la mostra De Metaphisica coinvolgendo alcuni artisti che avevano un pensiero di tipo metafisico nel loro linguaggio artistico: Carlo Guarienti, Giulio Paolini, Gianfranco Ferroni, Carlo Maria Mariani, artisti di una generazione più matura e poi più giovani c’erano Claudio Bonichi, Bernardino Luino e il Sottoscritto. Eravamo tutti artisti legati ad un’idea di imponderabile mistero, qualcosa di indefinibile e inafferrabile che si concretizza poi in forma colore luce

M. M. E a lei quanto le si confà e quanto le sta stretto il termine metafisica? 

G. M. Mah! Metafisica… diciamo bisogna intanto vedere…c’è una metafisicheria di genere quella legata agli epigoni di una cultura post-surreale e post-metafisica, e quella non mi appartiene. La metafisica è pensiero poetico che indaga le cose nel loro mistero, nella loro inafferrabilità: questo mi appartiene. Anche gli scritti di de Chirico sono straordinari da questo punto di vista. 

M. M. Certo, perché poi il problema è sempre la ricerca: ma come si fa? Nel suo lavoro sono presenti diversi studi come quelli legati ai piano-terra, agli androni condominiali, a questi luoghi un po’ disabitati, un’altra che invece riflette sulla dimensione della terrazza e la spazialità che c’è oltre, un’altra indaga le finestre. Una delle ultime indaga gli spazi che si creano all’intero di un tessuto urbano. Come si fa a costruire una nuova serie?

G. M. Le opere spesso non nascono da una programmazione voluta ma nascono da una casualità: tu osservi l’ambiente che ti circonda e che piano piano, comincia ad interessarti, e lo osservi e questa osservazione lenta e attenta pian piano entra nel tuo lavoro e così inizia l’indagine.

M. M. Come si gestisce l’ossessione?

G. M. Lei usa il termine ossessione, dietro a delle opere c’è davvero una ossessione, ci sono delle idee e dei pensieri che ritornano e li devi aspettare, far sedimentare, vedere se ritornano ancora. Insomma è un incontro, un dialogo con queste presenze che tornano e che devi indagare. 

M. M. Sono tutte presenze che nel suo atelier sono i veri padroni di casa.

G. M. Penso di si, penso di si. 

M. M. Volevo farle un giro di domande un po’ più assurde però per me molto importanti. Ma prima di questo c’era un’altra cosa che mi interessava indagare insieme a lei che è la dimensione del mediterraneo. Perché abbiamo parlato dell’azzurro, abbiamo parlato della prospettiva e abbiamo parlato di metafisica. A volte al termine metafisica è stato accostato anche l’aggettivo mediterraneo per parlare dei suoi lavori. Ma in che modo il suo lavoro, la sua pittura dialoga con l’aggettivo mediterraneo?

G. M. Mediterraneo per me è relativo ad un fatto di nascita, ai luoghi della memoria, alla luce che ho visto e alle memorie che sono legate al paesaggio, all’archeologia, alla vita vissuta. Queste luci e queste memorie indubbiamente condizionano la visione lo sguardo che è legato alle luci che si sono viste sin dall’infanzia, no? E quindi questo ha strutturato un po’ il sentire, l’immaginario e quindi la mediterraneità è il suolo. Come diceva Jean Clair, un tempo il nome dei pittori era spesso legato al loro luogo di provenienza: Antonio da Crevalcore, Leonardo da Vinci, Pietro da Cortona. Il luogo dove tu eri nato caratterizzava la strutturazione del tuo linguaggio e credo che questo sia ancora vero. Ogni autore ha una sua identità legata al luogo in cui è nato, che si trasforma e si evolve, con le varie acquisizioni ed esperienze.

M. M. Certo, certo, e lei in che modo oggi dipinge il mediterraneo? 

G. M. Il mediterraneo è evocato, lo vedo da mille chilometri di distanza, vero che io vado in Sicilia a raccoglierne la luce e l’emozione, mi piace osservarla anche dal vero. Quell’emozione la integro, la porto con me e la rivedo poi nel ripensarla, quindi è un po’ una rielaborazione del dato visivo, accade tutto dentro l’atelier come si diceva prima.  

M. M. Adesso invece le volevo fare quelle domande più assurde che però ci permettono di fare una riflessione collaterale. Una di queste prime domande è: se i colori non esistessero più, assoluto paradosso, lei come vivrebbe? 

G. M. Se non ci fosse il colore come materia in sé per poter dipingere, questo intende? O il colore…

M. M. Intendo proprio il colore per dipingere, se non esistessero più i colori, in un mondo in bianco e nero. 

G. M. Questa è una bella domanda, forse…se non esistessero più te li dovresti inventare attraverso il bianco e nero. Quando un incisore disegna, in fondo traduce in bianco e nero, pensa sempre al colore, no? quello che poi diventa profondità. Il bianco e nero in fondo è la traduzione del colore, la forza evocativa del colore che poi si traduce in questa profondità della luce e dei mezzi toni. Fino all’ombra profonda, fino agli scuri più profondi. Chissà, forse farei solo delle incisioni; lavorerei con i disegni in bianco e nero. 

M. M. Ma non smetterebbe di dipingere, diciamo? 

G. M. No, assolutamente non penso!

M. M. Altra domanda assurda è: può un siciliano non vivere la sicilitudine? Che è un po’ questo sentimento che lei diceva…

G. M. Io penso che ognuno di noi porta con sé un villaggio della memoria, come lo ha definito Ferdinando Scianna, non solo il siciliano, il villaggio è una angolazione dello sguardo che si è formata, proprio dalla prima infanzia, tu te la porti sempre dietro, qualsiasi cosa osservi la ritrovi in ogni cosa anche se vai nei paesi più lontani dall’area mediterranea.

M. M. È un destino? È un destino o una accidentalità?

G. M. Ma io penso che questa angolazione dello sguardo appartenga un po’ a tutti. Non solo ai siciliani, Quindi non è accidentale.