Vanni Santoni

ARTICOLO n. 1 / 2022

SENTIERI INTERROTTI

Che fine ha fatto il romanzo metafisico in Italia?

Tre anni fa Bruce Sterling, non senza sorpresa da parte degli interessati, rilanciò su Wired la suggestione del «Novo Sconcertante Italico», una categoria scherzosa inventata in occasione di una conferenza organizzata dall’Indiscreto per parlare di new weird all’italiana, o meglio della sopravvenuta contaminazione del mainstream da parte di quelli che fino a poco tempo fa venivano definiti, quasi sempre con disprezzo manicheo, i «generi». 

 Quell’incontro era solo l’ultima tappa di un discorso che andava avanti da qualche anno, con riflessioni, anche retrospettive, sia rispetto a quanto avveniva in Italia, sia a quanto di «strano» si muoveva nell’Europa contemporanea

Se, in effetti, autori come la polacca Olga Tokarczuk, il romeno Mircea Cărtărescu, l’ungherese László Krasznahorkai o il bulgaro Georgi Gospodinov sono passati da essere nomi di culto per nicchie selezionatissime di lettori a venire unanimemente considerati il fronte d’onda del romanzo contemporaneo, come del resto provato dal Nobel 2018 alla polacca e dalle plurime candidature del romeno e dell’ungherese (col bulgaro subito dietro, forte di un fresco Premio Strega Europeo), vale la pena notare che, al di là del lavoro di singoli, arditi, editori, come Voland da noi, che ha tradotto Gospodinov e Cărtărescu quando erano ancora sconosciuti fuori dai paesi d’origine, spesso è stata una scoperta o riscoperta anglosassone ad accendere l’attenzione su certi nomi: vale per Tokarczuk come per Krasznahorkai, arrivato in Italia solo dopo la vittoria del Man Booker Prize International con Satantango, nel 2015 – e Satantango è un romanzo del 1985. Dall’altro lato, questa fortissima emersione di autori «strani» dall’Europa orientale può essere vista come epifenomeno di un progressivo decadimento della narrativa che finora aveva tenuto banco a livello mondiale, quella nordamericana: finita l’epoca dei giganti, morti Roth, Morrison e Bellow, agli ultimi fuochi i «titani viventi» De Lillo, Pynchon e McCarthy, il panorama, per quanto ricco di ottimi autori, è parimenti carente di autori eccelsi, e i pochi grandi – Franzen su tutti, per quanto Crossroads si collochi sopra il resto della sua produzione recente – paiono bloccati in un approccio realista ormai esausto, ma forse ancora inevitabile nel panorama statunitense. Si pensi ad esempio a un Colson Whitehead, che dopo un inizio all’insegna della più estrema ibridazione tra i generi, ha raccolto i più grandi onori prima con uno steampunk opportunamente mascherato da romanzo storico, La ferrovia sotterranea, e poi con un romanzo storico tout-court, I ragazzi della Nichel, quasi giocandodeliberatamente al ribasso. Non è forse un caso, allora, se quella che potremmo considerare (al netto dei titani) la massima autrice vivente americana, Marilynne Robinson, si muove in un territorio sì realista ma profondamente innervato di spiritualità – anzi, di metafisica. E metafisico è stato l’ultimo grande sprazzo del romanzo statunitense, quel Lincoln nel Bardo in cui George Saunders si è spinto nello spazio interstiziale tra la vita e la morte (un luogo oscuro ed enigmatico in cui si finisce sempre per incontrare László Krasnzahorkai che passeggia perfettamente a suo agio). 

In genere, quando si parla di autori come Krasznahorkai o Tokarczuk negli Stati Uniti, emerge un’espressione: magical realism, realismo magico. È possibile che sia solo il frutto di una carenza di categorie ed esempi: in un panorama di literary fiction improntato al realismo, e in una relativa penuria di traduzioni rispetto all’Europa non anglofona, la cosa a cui finiscono per assomigliare di più romanzi come Nella quiete del tempo di Tokarczuk Satantango di Krasznahorkai è in effetti Cent’anni di solitudine di Márquez (o le sue immediate, quando non pedisseque, derivazioni, come Il dio delle piccole cose di Roy). Ora, se l’assegnazione di tale categoria a Tokarczuk può risultare plausibile (almeno restando su Nella quiete del tempo: tutt’altro discorso sono la reinvenzione del thriller di un Guida il tuo carro sulle ossa dei morti o le suggestioni sebaldiane dei Vagabondi), appare già più bizzarra per l’oscura metafisica millenarista di Krasnzahorkai, ma è opportuno ricordare che anche il Bolaño di 2666, in mancanza di categorie migliori, fu spesso etichettato in USA come magical realism, sebbene non presenti situazioni apertamente fantastiche. A un europeo appare piuttosto chiaro, invece, che le influenze chiave di questi autori sono Kafka da un lato e Borges dall’altro, autori che tanti addetti ai lavori americani cominciano a leggere davvero soltanto adesso, almeno stando a quanto hanno scritto Lethem e Chabon (due che aspettiamo, ancora, al varco con grandi speranze). È possibile che il boom di memoir e autofiction abbia ritardato la resa dei conti del mainstream USA col fantastico, ma è solo questione di tempo: il probabile officiante potrebbe essere Jeff VanderMeer, sempre che sviluppi le qualità stilistiche che ancora gli mancano (quelle strutturali pare averle messe a punto, a giudicare da Dead Astronauts) e che, dalla sua posizione pienamente weird, e quindi più vicina alla fantascienza e al fantasy tout court che a una loro contaminazione della literary fiction, riesca a farsi prendere sul serio da un’accademia e da un campo letterario al momento presi da tutt’altre questioni. Ma se magical realism è un’etichetta senz’altro inadeguata, forse anche new weird non è più una definizione adatta a rappresentare i nuovi e diversi approcci all’oltre-reale che stanno emergendo. Per quanto ironico, viene quasi da rivendicare quel «novo sconcertante italico» che, se non altro, prendeva una prima distanza da un «new weird» che, nel mondo anglosassone, resta legato a precise derivazioni dell’horror e della fantascienza, più che definire una loro tracimazione nel mainstream. Una tracimazione peraltro quasi sempre legata alla necessità di trovare strumenti adatti a prendere nuovamente di mira la metafisica (cosa, questa, che porterebbe a escludere anche slipstream, termine focalizzato sulla sola questione dei generi). 

La definizione giusta potrebbe forse arrivarci dal Regno Unito, dove, oltre a quella che è plausibile incoronare, per originalità, stile e sensibilità, regina del weird contemporaneo – Aliya Whiteley, pubblicata in Italia da Carbonio con L’arrivo delle missive, La bellezza La muta –, si muovono autori come Tom McCarthy e David Mitchell, che attraverso romanzi decisivi quali Déjà-vu L’atlante delle nuvole hanno sviluppato una loro nuova e originalissima metafisica, con la natura della coscienza e le realtà parallele tra i tratti caratterizzanti del primo, e l’akasha e la sincronicità tra quelli del secondo, e ancora altri nomi che, oltre a muoversi senza compromessi nei loro generi, hanno sviluppato una capacità stilistica e strutturale tale da farsi prendere sul serio nel mondo della literary fiction (che pure nel paese di Tolkien e Lewis resta un po’ snob rispetto a ogni uscita dal realismo), come China Miéville o Susanna Clarke, il cui recente Piranesi non ha patito il consueto stigma, portando a casa anche uno Women’s Prize for Fiction e venendo recensito dalla critica che conta come un romanzo metafisico e non un «volgare fantasy». 

Un percorso, quello di Clarke, per certi versi simile, anche se più folgorante (nel suo caso c’era la spinta mai sopita del successo mondiale del suo esordio Jonathan Strange & il signor Norrell), a quello di Antoine Volodine: un inizio ben ancorato nei «generi» – fantasy Clarke, fantascienza Volodine –, e un progressivo affinamento stilistico, per arrivare poi a un indiscutibile riconoscimento mainstream. 

E qualcosa si muove in certe direzioni anche nel paese d’origine del naturalismo, se alla definitiva emersione di Volodine si accompagnano le incursioni nel fantastico del penultimo Gongourt, Hervé Letellier, la cui Anomalia è stata da poco pubblicata in Italia, e quella, forse ancora più inattesa, di Mathias Énard: se con grandi romanzi come Zona Bussola aveva già mostrato di poter essere uno degli innovatori della letteratura europea, il magistero pareva più quello di Sebald, laddove invece l’ultimo Banchetto annuale della confraternita dei becchini ci porta nuovamente nel Bardo Thodol. Ancora in quello spazio liminale tra la vita e la morte, dove stavolta si incontrerà anche Saunders, sebbene mai a suo agio come Krasnzahorkai… Ma Énard potrebbe incontrarci anche il connazionale Volodine: almeno nel suo capolavoro Terminus radioso ci sono diverse parti che paiono svolgersi in quel nebuloso campo metafisico. 

In questo momento, nel loro paese, pare non esserci una sola libreria che non esponga in vetrina Les ouvertures, traduzione degli Esordi di Antonio Moresco, e allora viene da pensare che, tra gli italiani, l’unico abitatore di questo campo liminale tra vita e morte che pare diventato il luogo di elezione di tanti grandi romanzieri contemporanei (a pensarci, anche i già citati Cărtărescu e Tokarczuk ne sono piuttosto assidui frequentatori, basti pensare al primo volume di Abbacinante e a certi passaggi di Nella quiete del tempo), sia proprio Antonio Moresco, che lo ha sfiorato nei Canti del caos e ci si è infilato a capofitto prima con La Lucina e poi con Gli increati.

Il nome di Moresco ci riporta a un’inchiesta curata da Paolo Di Paolo e Giacomo Raccis per la rivista Orlando(del 2015, ma ancora attualissima), in cui si chiedeva a un certo numero di giovani critici, autori e studiosi italiani chi, a loro avviso, sarebbe stato ancora letto a distanza di cinquant’anni: il podio era composto, oltre che da Moresco, da Michele Mari e Walter Siti. Due autori su tre fanno quindi parte del «canone strano»; solo il terzo può essere un «realista» – e incidentalmente, è l’autore di un pamphlet intitolato Il realismo è l’impossibile. 

Stiamo facendo finalmente pace col disprezzo crociano per il fantastico, che tanto fece scuola? Viene in mente l’intervista di Arbasino a Borges, in cui il secondo, di fronte a qualche perplessità del primo sul fantastico, gli ricorda che Dante, Ariosto e Tasso, letteralmente il canone italiano, altro non sono che autori fantastici. Il realismo avrebbe poi vinto in epoca moderna e contemporanea, ma fino a un certo punto: nel «canone strano» compilato da Carlo Mazza Galanti, figurano pur sempre Papini, Savinio, Landolfi, Buzzati, Calvino, Levi, Wilcock, Soldati, De Maria, Morselli, Volponi, Manganelli, Ortese ed Evangelisti, oltre agli stessi Mari e Moresco; un contro-canone che può guardare in faccia il suo dirimpettatio «realista» senza troppi complessi. Andiamo, allora su un canone «puro»: quello stilato da 600 addetti ai lavori nel 2020 per la rivista L’Indiscreto: nelle prime 10 posizioni per voti ricevuti figurano almeno tre titoli «strani» – Sirene di Laura Pugno (che assieme a Branchie di Ammaniti e Uno indiviso di Alcide Pierantozzi rappresenta un plausibile capostipite dello «strano italiano» propriamente detto), Leggenda privata di Mari e Canti del caos di Moresco, col distopico Miden di Veronica Raimo a un passo dalla top-10 –, mentre guardando alla top-100 si contano 16 titoli di questo tipo, quindi un 16% complessivo a fronte di un 33.3% nelle prime dieci posizioni; volendo continuare il gioco delle intelligenze collettive e delle percentuali da esse generate, il canone stilato dalla rivista Crapula Club presentava 4 titoli «strani» su 18 (22.2%); quello indirettamente generato dai giovani critici interpellati dalla Balena Bianca, 9 su 58 (15.5%), il che ci dà una media generale di 17.9%, un po’ più di un titolo su sei. Molto? Poco? Si sa che i numeri, quando si parla di letteratura, sono soltanto gingilli, ma di certo è una percentuale molto superiore a quella dei libri «strani» che vengono pubblicati, in un contesto editoriale che vede ancora l’egemonia del realismo – e questo senza neanche considerare la sostanziale esclusione da qualunque riflessione «canonica» di quasi tutto ciò che risulta interamente ascrivibile ai «generi». 

Viene tuttavia naturale un’osservazione: tre, quattro, cinque anni fa, nei dibattiti sullo «strano» (che in Italia, come a Est, ha più a che fare con il lavoro sulla metafisica e con un certo tipo di ricerca formale, che con il «new weird» nell’accezione anglosassone) si parlava di Mari e Moresco tra i venerati maestri, di nomi come Morstabilini, Funetta, Bernardi, Esposito o Di Fronzo tra le brillanti promesse, e ancora dei «Gotici mediterranei» Gentile, Tetti, Labbate e Di Monopoli, delle distopiche Raimo e Bellocchio, delle «magiche» Lipperini e Matteoni, dei «non-classificabili-ma-comunque-strani» Magini, Meacci, D’Isa e Tedoldi… Quei nomi ci sono ancora, in diversi casi hanno già pubblicato nuovi libri significativi, ma dietro di loro? Il panorama autoriale, rispetto a questo quadro, non sembra cambiato moltissimo. Qualche nome sparso c’è: Mirabelli, il cui Configurazione Tundra è stato il penultimo titolo della collana Romanzi di Tunué, diretta da chi scrive, che assieme al Saggiatore diretto dallo stesso Andrea Gentile, e poi alla collana Altrove di Chiarelettere diretta da Michele Vaccari, aveva ospitato una discreta parte di questa corrente; spingendosi più nella sci-fi (e forse, quindi, del tutto fuori dalla categoria qui intesa) si trova Tevini, il cui Storia di cento occhiè uscito per la stessa Safarà che ha portato in Italia il vero capostipite del «nuovo strano», il sommo Lanark di Alasdair Grey (in questo senso vale la pena ricordare anche la riscoperta da parte di Cliquot del proto-lovecraftiano italiano Carlo H. De’ Medici, col suo Gomoria); si può citare anche Gregorio H. Meier, che con lo stranissimo, anche formalmente, Io e Bafometto, edito da Wojtek, si è posizionato come uno dei migliori esordienti italiani del 2021, se non il migliore (tra gli esordienti spiccano anche il Cassini di Non tutto il male e la Guerrieri di Non muoiono le api, sebbene anche qua, come per Tevini, si sia di fronte ad autori più orgogliosamente «di genere» che «ibridi», e quindi forse da considerare fuori dallo «strano» che si intende in questa sede), e qualche altra proposta interessante da case editrici avvedute ma ancora quasi invisibili dal punto di vista distributivo come Acheron o Zona42; tuttavia, l’impressione generale è che, rispetto alla quantità e qualità di voci emerse tra il 2014 e il 2019, se da un lato continua un interessante ribollire di nuovi nomi e nuove idee, dall’altro sia mancato quel momento di agganciamento e spinta che poteva essere costituito da un interesse reale della grande editoria: l’onda «strana» è stata propulsa quasi esclusivamente da editori medi, medio-piccoli e piccoli, e non essendo poi giunto il volano a cui volte le «major» danno vita se intercettano una tendenza e decidono di puntarci su, l’onda sia rientrata nell’oceano, fatti salvi giusto i big internazionali Krasznahorkai e Tokarczuk, che hanno trovato casa presso Bompiani – sebbene, come abbiamo visto, per tutt’altre ragioni. Se però, oggi, autori come Gospodinov o Cărtărescu sono, almeno a giudicare dai loro voti, tra i più letti e apprezzati dagli addetti ai lavori, è naturale ipotizzare che, finito il momento-autofiction che stiamo vivendo (per certi versi un’ultima ratio del realismo-a-ogni-costo, ma anche questa potrebbe essere una lettura semplicistica: non sono forse Solenoide Fisica della malinconia due ibridi tra autofiction e «strano»?), qualcosa accadrà; ma accadrà fuori dalle «bolle» degli addetti ai lavori e dell’underground letterario soltanto se la grande editoria italiana vorrà intercettarlo, il che non significa solo dargli una chance, ma anche prenderlo sul serio, promuoverlo e valorizzarlo, insomma credere davvero in qualcosa di nuovo (anzi, di «novo»), uscendo da quella postura per lo più difensiva seguita allo scoppio della «bolla degli esordient e mantenuta, anche a causa della pandemia, fino a questo momento. 

ARTICOLO n. 58 / 2021

COS’È UN LETTORE ONNIVORO?

Mi viene chiesto di parlare di lettori onnivori. Accetto subito. Poi mi fermo. Ci penso. Cos’è, poi, un lettore onnivoro? Sono io un lettore onnivoro? Di certo, se venissi colto da una simile domanda all’improvviso – che so, da un tizio che lo chiede in un caffè o alla fine di una presentazione –, risponderei di sì, anzi un deciso «Sì certo»,tale quasi da metterlo involontariamente in imbarazzo per aver posto una domanda dalla risposta così ovvia.

La mia biblioteca racconta però una storia differente: per quanto ancora capace di far produrre l’ospite occasionale nel solito «Ma li hai letti tutti?» (la risposta da dare, com’è noto, è: «No, li ho scritti tutti»), a ben guardare – anzi pure a un’occhiata superficiale – mostra una predominanza esorbitante della narrativa sul resto, e della filosofia su quel poco resto. Il che, forse, già mi esclude dai lettori onnivori; o forse no, dato che l’espressione si potrebbe interpretare in altro modo, ad esempio come indicante il lettore che legge autrici e autori da tutto il mondo, oppure sia classici che contemporanea, o sia alta letteratura sia narrativa commerciale, o ancora quello che alla biblioteca di narrativa ne affianca una di poesia, eccetera.

Ma usciamo dalle case, e dalle biblioteche delle case, giacché fatte in realtà per parlare, in un linguaggio privatissimo, solo a chi ci abita. Per trovare un lettore onnivoro, o anche solo immaginarlo, onde poi fornirgli qualche consiglio (se mai ne ha bisogno), è lecito pensare che si debba andare in biblioteca o in libreria. Riduciamo il campo: il lettore onnivoro può essere trovato in entrambi i luoghi, ma evidentemente si forma in libreria, dato che una biblioteca, per via della catalogazione, avrà parole solo per il lettore già avveduto, onnivoro o meno che sia. Riflessione che ne impone un’altra a corollario: il lettore onnivoro già formato è anche per forza di cose avveduto. Si può immaginare, volendo, un Moloch mostruoso che si nutra d’ogni libro senza badare a cosa ci sia scritto, ma sappiamo che si tratta di una chimera, e non solo perché il numero di libri che si possono leggere in una vita è limitato, ma soprattutto perché essi imporranno la loro legge, che sia essa al rialzo o al ribasso, prima ancora di arrivare al crivello dell’ampiezza, escludendo con essa ciò che si trova sopra o sotto una certa linea di galleggiamento.

Siamo allora d’accordo che il lettore onnivoro avrà il proprio habitat specifico e il proprio spawning ground in una libreria. Condizione, questa, che potrebbe essere peggiorata da quando nelle librerie, specie se di catena, è andato decadendo l’uso di ordinare i libri per editore, in favore dell’ordinamento alfabetico per autore (più, sui tavoli, esse pure tutte mischiate, «le novità»). Favorendo ciò il lettore che entra già sapendo cosa vuole acquistare, si limitano nascita e sviluppo dei lettori onnivori, ma nelle librerie più grandi i banchi delle novità sono talmente vasti (e c’è, magari, spazio per una zona classici o per una «selezione dei librai») da permettere ancora di nutrire l’infanzia di questo specifico animale.

Andiamo però ancora indietro. Perché un tempo, quando non esisteva ancora quella compartimentazione dei generi che è poi un’idea dei venditori di libri, e ancor prima dei loro distributori, tutti i lettori nascevano potenzialmente onnivori: tutto era letteratura, e da questo si partiva. In tale momento, in cui già esisteva l’editoria di massa ma non si era ancora specializzata, due grandi basi del lettore onnivoro, almeno stando alle testimonianze di scrittori e letterati (una predilezione in alcuni casi arrivata fino alla fine del Ventesimo secolo – la pensava così, ad esempio, Bolaño) erano quei sublimi zibaldoni che prendono il nome di Pensieri (di Pascal) e Saggi (di Montaigne). Portatori di visioni del mondo che risultano tanto più antitetiche quanto più li si rilegge, avevano e hanno tuttavia in sé un cuore centrale costituito da un’idea ovvia ma vieppiù perduta: per leggere bene (neanche per scrivere: non si era ancora a questo) è necessario aver letto, poiché la letteratura, e più in generale il pensiero, altro non è che rimaneggiamento, aggiornamento, ripresentazione, corollario e correzione (e a volte plagio e imitazione, certo), e senza una base solida atta a dirimere intuitivamente le letture prima ancora di sceglierle (e per capire, dopo, i riferimenti espliciti o impliciti) non si farà altro che andar per lucciole.

Ecco, forse, la differenza tra il potenziale lettore onnivoro di ieri e il potenziale lettore onnivoro di oggi. Un tempo era pacifico che qualunque vita di letture, al di là delle Scritture, prendesse le mosse dai classici, nel senso di classici greci e romani, andasse poi come andasse. Oggi il potenziale lettore onnivoro che non abbia ricevuto una formazione prettamente letteraria (ma chi, oggi, riceve una simile formazione? Forse solo chi ha la fortuna di nascere in una casa in cui c’era già un lettore onnivoro, e di ereditarne dunque volumi e approccio) rischia, soprattutto, di non saper da che parte cominciare.

È l’esperienza a confermarmi quest’impressione: capita spesso che un amico, lettore forte o almeno volenteroso (ma occupato in tutt’altre questioni che non gli permettono certo di seguire tutto quel coacervo di inserti, riviste e blog che rende possibile essere plausibilmente informati sulla cosiddetta attualità letteraria), mi mandi un messaggio che dice «sono in libreria: cosa compro?». Il lettore potenzialmente onnivoro si ritrova ogni volta ubriacato dall’apparente sovrappiù d’offerta, ammutolito dalla (dis)organizzazione dei volumi col loro assurdo ordine alfabetico, e ulteriormente confuso dalla quasi totale esplosione del rapporto tra collane e qualità attesa dei testi: ormai da tempo e volentieri i marchi più prestigiosi hanno accettato il do ut des con chi può garantire un certo venduto, e la collana di una major, a prescindere dalla sua gloria passata, può contenere di tutto, cosa che finisce per scoraggiare il potenziale lettore onnivoro qualora becchi – e può accadere – la sciocchezza invece del capolavoro. Forse viene da questo, e solo da questo, la reputazione scintillante del marchio Adelphi: è rimasta l’unica casa editrice in cui, anche pescando a caso, si può trovare un libro bello o meno bello, ma mai una sciocchezza.

Questo processo, nemico del lettore onnivoro, si sviluppa su più piani: non ci sono, infatti, soltanto libri pessimi che finiscono in buone collane o in buoni editori solo perché vendono (o perché potrebbero farlo), o quei romanzi rosa con packaging letterario che tanta fortuna hanno in questi anni. C’è anche un secondo livello, più insidioso (almeno per il potenziale lettore onnivoro): quello rappresentato dagli autori di medio rango che vendono e sembrano sufficientemente letteratura da non far vergognare chi li legge o se li porta in giro, e che verranno ineludibilmente presentati come i libri da leggere (e vale lo stesso per certa saggistica di divulgazione). Libri che per la maggior parte si leggono, si leggono eccome, ma in ultimo senza vero entusiasmo. E quando decade l’entusiasmo, il lettore onnivoro rischia di non nascere.

È forse allora necessario alzare presidî proprio in quel punto. Lì che dovrebbero agire le recensioni su giornali e riviste (spesso lo fanno, ma altrettanto spesso agiscono in favore delle dinamiche editoriali di cui sopra) e la critica accademica (che lo fa anche più spesso, ma muovendosi con tempi che non possono incidere su quelli ossessivi e assetati di turnover della distribuzione), o ancora le Classifiche di Qualità, per citare un dispositivo a me caro che cerca di dar mano a disincantare le fate morgane del midcult. Si sa però che il lettore (onnivoro o meno che sia) è sensibile prima di tutto al passaparola, e quindi, prima ancora che recensire, analizzare e classificare, è necessario parlare, parlare, parlare di quali sono i libri davvero belli, di dove si muova, oggi, il fronte d’onda della letteratura.

Chi non ha mai sentito questo o quello dire che «non si fanno più libri belli»? La stessa persona reagirà con stupore se le si fanno i nomi, che so, di Mathias Énard (appena uscito per E/O il suo, splendido, nuovo romanzo, Il pranzo annuale della confraternita dei becchini), Olga Tokarczuk (nonostante il Nobel!), Georgi Gospodinov, László Krasznahorkai o Mircea Cărtărescu, solo per citare cinque che questo fronte d’onda lo cavalcano in modo incontestabile (eppure, a parte il francese, fare i loro nomi, visto anche il suono esotico, verrà preso dai più come uno sketch sullo stile di quello di Aldo, Giovanni & Giacomo sul mattone polacco, minimalista, di scrittore morto suicida giovanissimo).

Insomma, se in questa sede si può affermare senza troppo tema di smentita che il libro più importante uscito quest’anno è Solenoide del succitato Cărtărescu (traduzione di Bruno Mazzoni), non sarà così facile far capire al potenziale lettore onnivoro che deve davvero andare in quella direzione. Che dire del più importante recupero dell’anno, Dizionario dei Chazari di Mirolad Pavić (nella nuova traduzione di Alice Parmeggiani)? Forse sto uscendo dai binari, sovrapponendo questo potenziale lettore onnivoro a tutt’altro: a uno specificamente avveduto lettore di narrativa; o forse a una sorta di mio lettore ideale.

Torniamo allora ai libri di pensiero capaci di traversare le discipline: che sia lì la risposta? Di certo alcuni autori ci stanno tornando: allora al lettore onnivoro si potrebbe consigliare, al posto di Pascal o Montaigne, Economia dell’imperduto di Anne Carson, portato in Italia da Utopia l’anno scorso (nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli), in cui gli strumenti della poesia e della critica letteraria vengono usati per parlarci del rapporto tra beni e merci, o L’impensato – Teoria della cognizione naturale di N. Katherine Hayles, appena uscito da effequ (traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini), dove la scienza della mente si incrocia con la critica culturale per raccontarci le nuove modalità cognitive che definiranno il «mondo a esperire». Oppure, ancora da Utopia (che formare lettori onnivori sia utopico?), l’imminente Le cose che abbiamo visto di Luís Fernandez Mallo, che lettore onnivoro lo è di certo, vista l’ampiezza dei suoi riferimenti e delle sue citazioni, che lo portano, nei suoi vertiginosi giochi di rimandi e citazioni, a creare una letteratura onnivora. Il suo primo approdo in Italia, con una traduzione Neri Pozza del primo volume della sua «trilogia della Nocilla», non fu fortunato; speriamo che stavolta trovi i lettori che merita, e vedremo, poi, se saranno onnivori o d’altro genere.

ARTICOLO n. 37 / 2021

TRAGICOMMEDIA

ESTATE A FIRENZE

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate 2021, a Firenze è andata in scena una bislacca tragicommedia attorno alla basilica brunelleschiana di Santo Spirito, e specificamente attorno al suo sagrato. Da anni sagrato e scalinata, tradizionali punti di ritrovo della socialità popolare cittadina, sono al centro di polemiche alzate ora dal priore della basilica, ora da certi «comitati di cittadini» molto ristretti rispetto alle migliaia di cittadini che quotidianamente vivono la piazza, per via degli schiamazzi e di occasionali pisciate, che si potrebbero eliminare d’un colpo installando dei bagni pubblici ma che evidentemente torna più utile strumentalizzare, andate avanti finché il comune non ha deciso di limitare l’accesso al sagrato.

 Lo ha fatto con dei grossi blocchi parallelepipedoidali di cemento, sui quali sono stati installati dei pilastrini – è stata anche l’occasione per la cittadinanza di scoprire che si chiamano «chiodi fiorentini» –, dall’uno all’altro dei quali sono state tese delle gomene; infine il quadro è stato completato con delle fioriere – refugium peccatorum dell’urbanista, per dirla con lo scrittore Filippo Tuena, intervenuto per commentare lo scempio. Il fatto che ciascuno di questi elementi sia stato aggiunto a distanza di un giorno ha conferito alla vicenda, di per sé soltanto triste, visto che si andava a togliere ai fiorentini uno spazio da loro vissuto da cinquecento anni riuscendo al contempo a deturparlo, tratti d’involontaria comicità. Non sono mancate le contestazioni, sia organizzate sia spontanee, ma il Comune ha fatto capire che non intende cambiar direzione e quarantatré ragazzini, colpevoli di aver ribaltato simbolicamente i pilastri, sono stati denunciati con accuse piuttosto pesanti, come se il loro fosse stato un atto di vandalismo e non una legittima protesta.

La prima occasione per alzare la tensione rispetto alla piazza erano stati gli assembramenti della notte del 25 aprile 2021, in seguito alle celebrazioni per la Liberazione che tradizionalmente si svolgono proprio in Santo Spirito. Occasione ghiotta, come tutte quelle in cui si può usare la pandemia come un martello selettivo, ma anche paradossale, visto che il giorno dopo, riaperti i dehor di bar e trattorie, in ognuno di essi vi erano assembramenti di gente priva di mascherina. A prima vista sembrerebbe quindi solo un’altra ordinaria storia di decoro, anche perché Firenze non è nuova a simili operazioni: si pensi agli scalini del Duomo, «cordonati» già dal 2003, o al surreale caso dell’acqua gettata su quelli di Santa Croce nel 2017 –, solo che in genere avvenivano col pretesto dei «bivacchi» dei turisti, presenza mai particolarmente gradita ai fiorentini. Nel caso di Santo Spirito, e del 2021, la questione è tuttavia differente. Lo è perché Santo Spirito è una delle poche piazze ancora frequentate dai residenti, e alla luce di quanto si è visto in un anno di lockdown ci si aspetterebbe che la prima preoccupazione dell’amministrazione fosse quella di riportare i fiorentini in centro, piuttosto che di continuare ad allontanarli.

Con la pandemia, Firenze si è infatti scoperta vuota. Muta, desolata, battuta dal vento: disabitata. L’attesa riapertura dopo il lockdown ha rivelato un centro città deserto. Che i turisti fossero una parte consistente della popolazione, lo sapevamo: solo, non immaginavamo così consistente. Oppure, come in un sogno confortante, a noi sparuti, residui abitanti del centro piaceva immaginare che almeno una parte di quella massa umana che ogni giorno dava alla Firenze che attraversavamo l’apparenza di una vera città, le appartenesse veramente. Non era così, e il risveglio è stato brusco: non solo per le strade e le piazze vuote, ma perché la città si è scoperta pure in bancarotta. Solo qualche mese senza tassa di soggiorno e introiti turistici, e il sindaco ha paventato il default. Musei civici e biblioteche chiuse, eventi annullati (a farne le spese sono stati per primi quelli sorti dal basso, come il festival letterario Firenze RiVista, che costava al Comune circa un quarantesimo del prezzo dei pilastri – pardon, «chiodi fiorentini» – di Santo Spirito) e appelli a ipotetici benefattori che per non si sa per quale motivo, se non un tornaconto a livello d’immagine, avrebbero dovuto prendersi a cuore il destino di una città la cui rete di legami internazionali non si era mai scoperta così superficiale.

Al di là dell’indignazione social per certi tentativi di pezza peggiori del buco, come l’appello a popolare i locali del centro, che suonava un po’ come «studenti, cittadini, venite a sostenere chi vi ha cacciato», ciò che si è rivelato già alla prima uscita dalla quarantena è stato il fallimento di un modello di città orientato solo al turismo (o al massimo, più recentemente, a cercare di favorire il turista ricco rispetto a quello povero). Che il centro perdesse un migliaio di abitanti l’anno, era noto. Che i proprietari di immobili preferissero, per ragioni di comodità e profitto, le locazioni turistiche temporanee agli affitti di lungo termine, pure. Che pezzi di città, come recentemente in Costa San Giorgio, venissero svenduti a chi intendeva farne ulteriori resort turistici, anche. Era però necessario questo svuotamento per capire l’esizialità della situazione. Perché normalmente, a Firenze, in quel centro la cui prima apparenza è un brulicare di vita, c’è solo una teoria infinita di schiacciaterie, bancarelle di souvenir, mercatini di souvenir, trattorie finto-tipiche, a perdita d’occhio e in ogni direzione. Se il turismo di massa è – secondo la definizione di «Lisboa does not love», associazione nata per contrastare l’overtourism nella capitale portoghese – inquinamento umano, la città turistica ineludibilmente diventa junkspace, spazio-spazzatura, secondo la definizione di Koolhaas. Quando il junkspace si svuota dalla sua fauna naturale – i turisti mordi-e-fuggi – ecco svelarsi un deadspace: una necropoli.

L’impatto della rivelazione tanatologica è stato così forte che anche il subconscio dell’amministrazione lo ha registrato. Sui tanti spazi per le affissioni istituzionali, normalmente destinati a mostre ed eventi, e vuoti in assenza di mostre ed eventi, sono apparsi, durante il primo lockdown, dei manifesti arancioni con piccole vedute a matita di una Firenze dall’aria speranzosa (e per lo più immaginaria, vista l’assenza, nei quadretti, di turisti e siti a loro destinati) e la scritta RINASCE FIRENZE. Il sottotitolo era «ripensiamo la città», e poco più in basso c’era un link che rimandava a un pdf che, dopo un inizio un filo sgrammaticato – «Firenze sembra risvegliata dal sonno della pandemia come un bellissimo animale che ha visto il mondo cambiare intorno alla città e ai suoi abitanti» – e un avvilente rimando alla resilienza, proponeva una serie di interventi su vari punti piuttosto generici, come policentrismo, rinnovamento del centro storico, mobilità green, sviluppo economico, cultura diffusa, che nella loro incontestabile condivisibilità parevano soprattutto tradire il percolaggio, anche nel centrosinistra, di una retorica messa a punto in questi anni dalle destre: atteggiarsi come se al governo, in questo caso della città, ci fosse qualcun altro. Le proposte appaiono per lo più plausibili: le si attuino… Detto ciò, un’analisi semantica suggerisce qualcos’altro. Rinasce solo ciò che è morto; si reinventa solo ciò che è si è scoperto sbagliato. In un modo o nell’altro anche a Palazzo Vecchio ci si è accorti che la situazione è questa. Dato che a margine della pagina web non mancava il form in cui il cittadino poteva inviare le sue proposte, così da vivere il brivido illusorio della partecipazione, proviamoci, anche alla luce di quanto accaduto nel frattempo.

Il primo punto è rendersi pienamente conto che una simile situazione non è casuale, ma frutto di scelte che da almeno vent’anni vanno in una sola direzione. Il caso emblematico è quello dello spostamento di tante facoltà in periferia o fuori città, in «poli didattici» il cui nomignolo in alcuni casi dice tutto: quello di Novoli, che ospita oggi le facoltà di Scienze Politiche, Giurisprudenza ed Economia, è noto agli studenti come «Mordor», tutto questo mentre le università americane si affrettavano a prender possesso dei migliori palazzi – poiché sanno bene che vivere il patrimonio artistico di Firenze è parte integrante dell’esperienza di studiarci. Fu forse hybris: lapresunzione di pensare che il centro di Firenze potesse dirsi vivo e vitale anche senza i suoi studenti (e i servizi da essi tenuti in vita). Non era così.

Il secondo è capire che una situazione d’emergenza – letteralmente la morte di una città – richiede misure, ma soprattutto attenzioni, d’emergenza. Quello che a Firenze è mancato in questi anni, e che il piccolo form pare sottolineare in un gesto d’involontaria autoironia, è stata proprio la capacità di ascolto: non tanto di progettare, quanto di capire, almeno, dov’è che la città mostra ancora segni di vita che andrebbero intercettati e valorizzati. Oltre alla già citata kermesse Firenze RiVista, c’è un piccolo caso che ha assunto valenza paradigmatica: quello della Polveriera e del complesso di Sant’Apollonia. Negli stabili di proprietà della Regione Toscana, in cui ha storicamente sede la mensa universitaria, un gruppo di studenti e cittadini ha riqualificato alcune stanze abbandonate, trasformandole in uno spazio che in otto anni ha organizzato un paio di centinaia di eventi culturali, tra cui il partecipato Festival della Letteratura Sociale, ed è diventato sede di una trentina di progetti artistici permanenti. Quando il Consiglio d’Amministrazione dell’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio ha approvato, con il voto contrario delle rappresentanze studentesche, lo sgombero, è seguita una mobilitazione che ha rapidamente superato i confini cittadini, facendosi nazionale, e la Regione ha lanciato un progetto di «percorso partecipato» che ha dato indicazioni di tutt’altro segno, e i cui risultati restano per ora disattesi (più di una volta il chiostro, usato dai cittadini per molte attività, è stato nuovamente chiuso senza motivo). Ciò che più colpisce nella vicenda di Sant’Apollonia è il silenzio dell’amministrazione cittadina. Nonostante ci fosse in ballo il più attivo laboratorio culturale del centro di Firenze, oltre che una decisiva area verde, i suoi rappresentanti non si sono visti agli incontri del «percorso partecipato» né hanno rilasciato dichiarazioni in merito. Facile immaginare che dietro a un atteggiamento del genere ci sia una questione di sovranità: «è della Regione, se la veda la Regione». In una situazione normale sarebbe politicamente comprensibile. La situazione, però, non è normale. Proprio come in un ambiente al collasso vanno preservati gli ecosistemi residui, in una città che vive un’emergenza di queste proporzioni, la tutela, e magari la valorizzazione, degli ambiti in cui i cittadini spontaneamente si ritrovano, vivono, producono cultura, arte e partecipazione, deve diventare prioritaria.

Il terzo punto è la necessità di un cambio di mentalità: un altro fatto – se vogliamo speculare alla vicenda di Sant’Apollonia –, la recente assegnazione di uno stabile in comodato d’uso gratuito a un’organizzazione pro-decoro, una delle cui più recenti imprese è stata la cancellazione di opere d’arte da una facciata privata (e se invece dessimo spazi a chi l’arte la fa?), dimostra che la città è ancora legata a logiche «anti-degrado» funzionali alla gentrificazione – e quindi alla turistificazione e allo svuotamento dei quartieri.

All’apparenza casi individuali, quelli elencati sono in realtà segnali di uno scollegamento: quello tra chi il centro città lo vive, e chi lo amministra. Nonostante quanto è accaduto nell’ultimo anno, non c’è ancora piena coscienza dell’urgenza di un cambio di paradigma. Tant’è che un tal cambio non pare imminente: se nel 2016 l’Unesco inviava un richiamo alla città per il rischio di vendita di parti rilevanti del patrimonio artistico cittadino, oggi la soluzione che rischia di profilarsi all’orizzonte è la svendita di molti immobili di proprietà del Comune. E se invece si riconoscesse il peccato di hybris, e in quegli immobili si provassero a riportare associazioni, aziende e università (e chi le popola, giacché l’unica fauna reale che la città ha saputo attirare negli ultimi decenni, piaccia o meno, resta quella studentesca), ovvero le sole ricchezze di una Firenze che, senza di loro, ha scoperto di essere, più che un «animale bellissimo», solo il guscio vuoto di quell’animale? Alcune operazioni, come il progetto di rilancio del complesso di Santa Maria Novella, con una biblioteca e delle residenze artistiche, vanno in questa direzione, ma gli habitat hanno anche bisogno di una fauna, e tale fauna verrà attirata solo con una totale inversione di rotta, che cominci a valutare come positiva, auspicabile e da sostenere qualunque manifestazione di vita e aggregazione in questo centro svuotato e deserto.