Aldo Nove

ARTICOLO n. 57 / 2023

tuttoamore

Pubblichiamo come anticipazione del volume di Nisargadatta Maharaj, Essere è amore (Il Saggiatore) – in libreria da venerdì 7 luglio -, la prefazione di Aldo Nove.

Dopo la fine della Storia. Nell’inciampo quotidiano della sua distorsione, sono sempre di più a percepire che in questo mondo, in questa vita, «c’è qualcosa che non va». A livello di massa, il testo popolare che meglio lo ha espresso è in realtà un film, Matrix. Il protagonista, Neo (nome scelto non certo a caso), percepisce che tutto ciò che lo circonda ha qualcosa che non lo convince. Non lo convince affatto. Non lo convince la sua stimata posizione sociale. Non lo convincono le sue stesse percezioni. Si tratta, per Neo, di scendere nella tana del Bianconiglio, crossover con l’esoterico classico di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie

Qualcosa che ci contiene prosegue.
Una tragedia irrisoria.
Irrisoria e ostinatamente mortale: «La tragedia è ciò che continua a finire» scrive un Hegel illuminato nella sua Fenomenologia dello Spirito. 

Questi tempi, mysterium iniquitatis, ci spingono forse a un salto di consapevolezza. Alcuni lo ipotizzano, altri ci credono fermamente, in special modo in plurimi contesti new age. 

Fatto sta che stiamo male. 

La narrazione, qualunque piega prenda, non funziona più.

E come per ogni malattia, è opportuna una medicina. Sri Nisargadatta ci offre la medicina suprema, che è anche il titolo di un suo libro, reiterazione tendente all’infinito del suo mantra: «Io sono», da ripetere fino all’esautoramento di ogni significato possibile di quell’io.

Fino alle radici dell’Essere (curiosa la questione delle maiuscole e delle minuscole, quando ci si avvicina all’inesprimibile, che sta sempre oltre il linguaggio). 

In un altro contesto, quello della filosofia occidentale coeva al percorso dell’insegnamento di Nisargadatta, veniva emergendo, specialmente nell’incontro tra psicanalisi e strutturalismo, un’analoga «demolizione dell’ego». «L’inconscio è strutturato come un linguaggio», il celeberrimo concetto di Jacques Lacan introdotto nel suo Discorso di Roma del 1953, unito all’altra «rivelazione-mantra», «C’è chi parla», spinge gli spiriti più acuti e tormentati (felicemente tormentati) a nuove vette di coscienza. Vette in Italia divulgate, probabilmente, da chi, «recitando sé stesso», le ha messe in pratica condividendole sotto forma di un teatro spostato verso l’oltre, sempre verso l’oltre: Carmelo Bene. 

Il suo «Io non esisto» pareva a molti una boutade.
Lo pare ancora.
Ma intanto macina.
Sono quei «semi di fuoco» (così li chiamava Nisargadatta) che senti e poi, consciamente, magari dimentichi. Ma intanto maturano dentro. 

Ti scaraventano altrove. 

2.

Difficile descrivere la ridda di emozioni che ha suscitato in chi scrive (saranno passati trent’anni da allora) la prima lettura di Nisargadatta. Quel libro, Io sono quello, caposaldo ormai del pensiero mistico indiano contemporaneo (ma esiste una contemporaneità, in una tradizione millenaria che cambia i maestri ma non l’essenza senza tempo del suo insegnamento?), prima e più celebre raccolta di discorsi del Maestro, la prende un po’ alla larga. Nisargadatta accetta le divagazioni, risponde pur con sarcasmo alle curiosità di chi è accorso da tutto il mondo per sentirne le parole. Con il passare degli anni, e della sua malattia, il discorso si fa più rarefatto e al contempo stringente. In prossimità dell’abbandono di questa forma temporale, Nisargadatta non può sprecare parole. Essere è amore va dritto subito al bersaglio e lì si inchioda, e ci inchioda. Ma, sempre, a una prima lettura (come alla quindicesima) le sue parole bruciano. Ustioni nell’anima a rigenerarne il percorso di autoconoscenza, spingendo sempre oltre l’asticella che separa il conosciuto dallo sconosciuto, l’ego dall’infinito. Quello che credo chiunque percepisca alla sua lettura è che non c’è luogo o condizione in cui acquietarsi. Almeno fino a che si è soggetti di qualcosa. 

Sul palco della grande illusione di questo mondo, della sua esistenza, tutto deve sparire. E poi deve sparire il palco. 

E il teatro.
E tutto ciò che li circonda.
Fino a che il vuoto o l’essere, anch’essi svuotati di un’essenza che non hanno in realtà mai avuto, si possano abbandonare al tuttoamore che per sempre e da sempre vibra imperturbabile. 

Il tuttoamore è pura presenza. Il tuttoamore non contempla altro che sé stesso, che non c’è. 

Io siamo quello. Noi siamo quello.

E se nessuno è nato e nessuno è morto, tutto ciò che ci vincola a questa esistenza è ciò che ci preclude la via ultima, da quando qualcosa inizia a percepirsi come un essere, quella cosa determinata e a sé fedele tra infinite altre cose, nel precipitato illusorio di onde universali che si infrangono, alla fine, contro la propria stessa impalcatura di menzogne, complice la mente, ingannatrice suprema e subdola, nostro parziale, parzialissimo amore che muore, ogni giorno, di più. 

Fino a completa guarigione. 

Mauro Bergonzi[1] è uno dei pochissimi italiani ad avere avuto la fortuna di incontrare Sri Nisargadatta Maharaj nel 1981: ossia durante i satsang[2] le cui trascrizioni sono qui raccolte. Ne ricorda i piccoli e nerissimi occhi, lo sguardo di fuoco. E ricorda come Nisargadatta si fosse rivolto direttamente a lui dicendogli, ex abrupto: «Non ti perdere nei mille rami delle mille domande, ma vai dritto alla radice. All’unica domanda che conta… Io ti ci metto. Anzi, ti ci seppellisco. E rimani lì. Fino a che non scompare colui che cerca. Allora ti troverai al di là. Nell’ignoto». 

Perinde ac cadaver, diceva della sua conversione sant’Ignazio di Loyola: «allo stesso modo di un cadavere». Si tratta, per Nisargadatta, proprio di «morire» definitivamente. 

Ma cosa, chi muore? Ciò che non è tutto. Ciò che non è Essere. Ciò che non è Amore. L’ego.

Allora resta (termine rischioso, questo «resta») l’Essere. Che è amore assoluto e incondizionato, senza scissioni, senza differenze («qualcosa di completamente impersonale», dice altrove Nisargadatta). Quel «qualcosa» (in riferimento alla nostra esperienza, quando si realizza consumandosi del tutto) si allarga fino a essere tutto l’universo e tutti gli universi ed è inesprimibile. Lo chiamo tuttoamore per giocare con le parole come intuitivamente sento essere, e ovviamente arbitrariamente, in italiano, abilitato da uno scarto linguistico improbabile e per questo, forse, efficace. 

Quando mi è stato chiesto di scrivere la prefazione al vertiginoso libro che tenete tra le mani, ho provato il senso di un grande onore ma anche quello di lanciarmi in una mission impossible. In realtà, di questo libro non si può parlare, perché va oltre ogni possibilità dell’umano dire («Trasumanar significar per verba / non si poria» diceva del resto uno molto famoso e con una certa dimestichezza con questi temi). Nisargadatta prende a calci in culo ogni pretesa intellettuale, e lo fa con amore. 

Diceva Kundera che ogni libro serve ad andare oltre ogni libro, e questo, anche senza saperlo, cerca di farlo. 

Ma, continua Kundera, quel libro, forse, non verrà scritto mai. 

E infatti Nisargadatta, come Buddha e Cristo, non ha mai scritto un libro.

In qualche modo li ha distrutti tutti. Come Buddha.
Come Cristo.

tuttoamore. Altro alla meta non è dato. Qua il paradosso estremo della mistica e del sublime mentore che ne fu Sri Nisargadatta Maharaj. Alla meta non c’è più nessuno. 

Oppure, c’è proprio lui, Nessuno.
Che c’entriamo, noi, con Nessuno?
C’entriamo.
Ma, come scriveva Rainer Maria Rilke, «è difficile essere morti».

3.

Maruti Kampli nasce a Bombay[3] il 17 aprile 1897, dove morirà, con il nome ormai conosciuto in tutto il mondo di Sri Nisargadatta Maharaj, l’8 settembre 1981. E già queste note biografiche iniziali sono paradossali per chi ha sempre proclamato di non essere mai nato e di non essere mai morto. Altrettanto paradossale, o meglio, nell’ottica della Tradizione che Nisargadatta ha rinvigorito, inconsistente è il luogo, che, ha più volte dichiarato Nisargadatta, in sé non esiste. Non esiste «Bombay» se non come illusione mentale. Partendo dall’esperienza, l’unica cosa che davvero conta nel coacervo di elementi che chiamiamo individuo è solo lì, nessuno ha mai fatto esperienza di «Bombay». Si tratta di una convenzione linguistica e dunque delle conseguenze figurative dell’evocazione di un fantasma sottoposto a restrizioni quanto mai elastiche della cianfrusaglia mentale che abita la mente che ci abita. 

E poi la vexata quaestio dell’essere nati.
E pure, dopo, l’essere morti.
A chi gli chiedeva (e succedeva sempre) «Cosa c’è dopo la morte», Nisargadatta ribaltava la domanda chiedendo all’interlocutore cosa ci fosse stato, per lui, prima della sua nascita, e su quello insisteva di meditare. Ovviamente, la risposta era sempre uno smarrito arrampicarsi sui vetri, incalzata da un «Ricordi tu, forse, che prima di nascere stavi male?». Con la risposta, a cui è impossibile sottrarsi: «No». E con un successivo, martellante: «E la nascita, la tua nascita, la ricordi?». La replica è altrettanto ovvia quanto micidiale. Quindi a nascere o, meglio, a manifestarsi, è la mente. La mente che dice di essere un individuo. Si localizza, legandosi a un corpo, e il rapporto di quello con ciò che quello non è (pur essendo già il corpo un insieme di elementi tenuto assieme momentaneamente) è «la realtà» individuale. 

L’aprirsi di una ferita. 

Che si rimargina alla completa guarigione. Attraverso la meditazione.

«Meditazione» o «yoga», o «pratica» che era, è, sempre, indagine del presente. Perché nulla esiste se non il presente. C’è o, meglio, appare, per Nisargadatta come per tutta la tradizione advaita, solo quello che viene proiettato sullo schermo dell’assoluto incontaminato adesso.

Per scorrere via e lasciar posto ad altre manifestazioni del gioco della vita (lila, in sanscrito). Identificarsi con il flusso di queste apparizioni, con l’alternanza mondana di gioie e dolori, nell’alternanza di sogni e paure, è il grande inganno di Maya, il velo che tutto (s)copre per infinita autocompiacenza dell’Essere. Ne consegue che il primo passaggio del ricercatore è quello di osservare con distacco quello che succede (nel nostro caso, quello umano, si tratta di osservare il nostro corpo, attraverso il quale è possibile «fare esperienza del mondo»). Nisargadatta ci pone ben oltre questa posizione (che è quella poi dell’«osservatore» nella pratica, ad esempio, vipassana o anche, a Occidente, della meditazione trascendentale)[4] e ci spinge sulle soglie dell’Ignoto e oltre. Lo fa con rude affettuosità. Ci scaraventa nell’abisso con amore. 

Perché non è l’abisso a farci paura, ma la paura dell’Ignoto.

Torniamo alle, per quanto stringate, note biografiche. Quello che poi diventerà uno dei più grandi maestri spirituali induisti cresce in una famiglia povera. Se seguissimo il sistema delle caste indiane, potremmo dire che si trovava al livello più basso. Suo padre era prima «assistente domestico» (cameriere generico, factotum) e poi agricoltore. Quando il padre morì, Nisargadatta (aveva allora 18 anni) trovò lavoro come tabaccaio o, meglio, come produttore e venditore di bidi[5]. Lavorò con la sua famiglia (si sposò poco dopo, generando quattro figli, tre femmine e un maschio). Quello resterà, fino alla sua morte, per lui e per la sua famiglia, il mezzo di sostentamento materiale. L’illuminazione avvenne quando ottenne il moksha[6] durante l’unico viaggio della sua vita, sull’Himalaya al seguito del guru Sri Siddharameshwar, penultimo anello di una catena di maestri a cui si aggiungerà, appunto, Sri Nisargadatta Maharaj. 

Dopo il moksha, tutta la sua vita si svolgerà nel mezzanino di casa sua, dove sempre più gente e da tutto il mondo si radunerà a seguire i suoi satsang. Le parole di un tabaccaio analfabeta si sono così infiltrate nella coscienza dell’Oriente e dell’Occidente, spostando davvero al limite i paletti dei nostri limiti, che sono tutti mentali.                                                                                              

Semi di fuoco. 

4.

satsang di Sri Nisargadatta Maharaj erano vere condivisioni di elevazione spirituale, davvero molto lontani da quello che noi possiamo immaginare in relazione a un maestro che si rivolge ai suoi discepoli. Nisargadatta rimase fino all’ultimo curiosissimo di tutto e di tutti. Spesso era lui a rivolgere domande a chi si avventurava ad ascoltarlo nel suo periferico quartiere di Bombay. Spesso parlava molto, a volte non diceva che pochissime parole. Ma l’essenza delle sue «prediche» (o «conferenze»: così ho trovato in diverse traduzioni) era il dialogo, in una modalità in qualche modo maieutica (come lui stesso ha dichiarato) per far sì che a parlare fosse, alla fine, non la persona Nisargadatta, ma quello spirito incondizionato che da lui fluiva irradiandosi oltre l’illusione del molteplice, accogliendo così ogni religione o via di ricerca spirituale, certo oltre l’«intelligenza» o la «sapienza» di un maestro che è più il direttore di un’orchestra tesa al raggiungimento della consapevolezza di essere non coro ma unità. 

Sciogliendosi nell’unità.

La via della liberazione prevede che ogni percorso non possa che essere individuale prima di trionfare nel tuttoamore che è squisitamente impersonale. 

Essere-coscienza-beatitudine[7]. L’Universo si ama.
L’Essere si ama. 

LEssere è Amore.


[1] Docente di Religioni e filosofie dell’India presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, Mauro Bergonzi ha scritto diversi libri sulla filosofia advaita. Ci piace segnalare il suo intenso Il sorriso segreto dellessere, Mondadori, Milano 2011. L’esperienza riportata è reperibile su YouTube, raccontata dallo stesso Bergonzi, all’indirizzo: https:// www.youtube.com/watch?v=C4_Ls8PdALY.

[2] Difficile tradurre un termine come satsang. Così come è difficile trasporre nella nostra cultura tutta la terminologia dell’induismo advaita, specialmente laddove si propone di andare oltre il nostro essere «persone» (ma qua ci aiuta l’etimo, in latino «persona» è «maschera»). Satsang è composto da sat («essere» e/o «verità») e sang («riunione», «comunità»). Tutti i libri di Nisargadatta sono trascrizioni dei suoi satsang.

[3] Oggi Mumbai, è la prima città, per densità di popolazione, al mondo.

[4] Nell’antica lingua indiana pali, più o meno «osservare le cose profondamente, per quello che sono». Pratica insegnata direttamente da Gotama il Buddha per superare la sofferenza del vivere. Degna di rilievo credo sia la possibilità di accostare la figura di «chi compie l’osservazione vipassana» agli esiti ultimi della fisica quantistica e, in particolare, a quelli di David Bohm, che ebbe un lungo e proficuo confronto con Jiddu Krishnamurti (uno dei tre maestri di cui Nisargadatta esponeva, nel mezzanino in cui svolgeva i suoi satsang, l’immagine). Ma già nel famoso esperimento del gatto di Schrödinger «l’osservatore» scopre che è lui a determinare le qualità delle manifestazioni della materia. La Meditazione trascendentale, sempre da origini vediche e introdotta in Occidente nel 1958, è appunto la più diffusa, fuori dall’India, «forma di meditazione senza oggetto determinato».

[5] Piccole sigarette costituite da un’unica foglia di tabacco arrotolata. Sri Nisargadatta Maharaj ne fumerà una dietro l’altra per tutta la vita, anche durante i suoi satsang. A chi gli chiedeva come mai un maestro spirituale si lasciasse andare a un tale vizio, rispondeva impassibile che il vizio lo aveva il suo corpo, non lui.

[6] «Liberazione», «salvezza», «affrancamento dal ciclo delle reincarnazioni» in tutte le tradizioni induiste, e prossima al da noi più conosciuto nirvana del buddismo. Noi l’abbiamo qui introdotto con «illuminazione» in quanto più prossimo alla nostra cultura e per quanto il termine sia soggetto a molteplici sfumature.

[7] Sat-cit-ananda: l’Essere supremo, Dio, l’Assoluto. «Chi mi percepisce dappertutto e vede ogni cosa in Me non mi perde mai di vista, né io perdo mai di vista lui» dice Krishna ad Arjuna in Bhagavad Gita VI:30.