ARTICOLO n. 7 / 2024

SVUOTAVO LA CAMERA DI ANDREA

storia di un figlio

Quando Ryan e io decidemmo di fare un figlio, non vedevamo l’ora di incontrarlo. Io gli avrei parlato esclusivamente in italiano, Ryan gli avrebbe insegnato a suonare la chitarra, sarebbe andato con lui allo stadio per vedere i Red Sox. Avremmo mostrato come dei pavoni questa nostra creazione, nata da una combinazione di cellule, di DNA perfetti. Più cresceva la pancia, e più cresceva una fierezza anticipata, la certezza di una vita perfetta.

Siamo talmente abituati a ignorare la divergenza intellettuale che, quando decidiamo di avere un figlio, non immaginiamo minimamente che potrebbe nascere diverso da noi. Si pensa che imparerà a camminare, a parlare, poi a scegliere, decidere, studiare, innamorarsi, fare carriera, fare famiglia, avere figli di suo. Anzi, non si pensa semplicemente: si è convinti.

A novembre, nostro figlio Andrea ha compiuto ventisette anni. Siccome odia festeggiare il suo compleanno, attorno alla tavola c’eravamo io, Ryan, Alex e Vera. Andrea era in camera sua, a gustare il suo piatto preferito: gnocchi fatti da me. In frigo non c’era la torta e neanche lo spumante. Avevo messo due candeline come centrotavola, ma quello lo faccio sempre. Si parlava di come fosse così strano avere un fratellone che odia sia regali che compleanni, e ridevamo del fatto che, come ogni anno, era stata una fatica fargli aprire i pacchettini. E poi che, alla domanda: “Ti sono piaciuti i regali?”, lui rispondeva sempre con un no secco. “Cosa stiamo ancora qui a fargli i regali se li odia così tanto!”, diceva Vera con la bocca piena. 

In realtà, ci sono tante cose che ancora ci aspettiamo che Andrea faccia per apparire più simile a noi, per capirlo meglio. È uno strascico della difficoltà che abbiamo dovuto affrontare dopo aver ricevuto le diagnosi di autismo e sindrome di Down. Perché la prima reazione è sempre la stessa: non lo accetterò mai. È normalissimo in una società in cui, vale la pena ripeterlo, non siamo educati a convivere con persone diverse da noi. Credo che, a parte qualche piccolo dettaglio (siamo ancora tutti curiosi di sapere qual è il suo colore preferito o conoscerlo più a fondo), negli anni noi quattro siamo riusciti ad accettare Andrea per quello che è. Siamo tutti molto fieri di lui e non ci vergogniamo quasi mai, neanche quando si presenta in sala indossando solo una calza sul piede sinistro e un’erezione da fare invidia a John Holmes. 

Andrea ci ha resi persone migliori. La prima cosa che ci ha insegnato è come il termine normalità non significhi nulla.Ogni società ha tradizioni, credenze, regole sociali diverse; quindi, la normalità come la concepiamo noi è diversa da chi abita al di là del confine. Ci sono poi “normalità” ancora più difficili da comprendere: alcuni genitori estremamente religiosi, per esempio, sono disposti a picchiare i figli purché non si comportino come i loro coetanei occidentali. In Cina, sputare è considerato un gesto normale; per alcuni è normale la circoncisione maschile, quella femminile, purtroppo, anche. Per chi è cresciuto in queste culture, siamo noi gli strani, i diversi, quello che i loro figli non possono essere. Ma non solo. La normalità come concetto è anche uno scudo che usiamo per non vedere altre realtà, che spesso critichiamo senza conoscere. La normalità delle persone diverse da noi e simili ad Andrea ne è un ottimo esempio. Un altro è quella delle persone non cis; o di religione ebraica, o musulmana, delle donne e degli uomini. Lo scudo ci ha reclusi in una piccolissima zolla di terra in cui non è concessa alcuna deviazione.

Il mondo in cui Andrea ci ha catapultati è l’opposto del nostro. La parola d’ordine è empatia, e gli obiettivi delle persone che ne fanno parte non hanno nulla a che fare con i soldi, la carriera, la cultura, l’accumulo di oggetti. Non esiste competizione, e l’empatia senza competizione brilla ancora di più. Andrea ha portato questi principi nella nostra famiglia con estrema naturalezza, e ha condizionato molto anche Alex e Vera. Ogni volta che andavo a parlare con i loro insegnanti, parevano sorpresi dalla naturalezza con cui davano una mano a chi rimaneva indietro. Per loro, aiutare una persona che ha più bisogno è un’ovvietà. Come si fa a casa, d’altronde: rinunciare a molte attività senza rimanerci male, apprezzare qualsiasi passo in avanti, anche se impercettibile agli altri e festeggiarlo, a volte con le lacrime agli occhi. Andare a trovare Andrea nella sua scuola, dove gli strani siamo noi, e sapersi comportare con persone diverse. Tutte esperienze vissute da quando sono nate.

Un’altra cosa che Andrea ha portato in famiglia è la ricerca della felicità e della libertà assolute e fini a se stesse. La nostra felicità si basa sul successo, la fama, i soldi, perché sono gli strumenti che, per come abbiamo strutturato la nostra società, ci rendono felici. I genitori sognano per i figli una carriera, il successo che possa concedere loro di avere una casa grande, vacanze esotiche. Andrea ci ha fatto capire che nel suo mondo la felicità non si trova in questo, ma nelle piccole cose trovate sul nostro cammino e amarle: una cover di una canzone orrenda di James Taylor, un pacchetto di biscotti al cioccolato, un bacio o un abbraccio. Lui è felice così, nella gratificazione immediata, senza bisogno di pensare al dopo. La libertà secondo Andrea riguarda invece le regole sociali: semplicemente le ignora: se ha voglia di abbracciare una persona che non conosce, lo fa. Se ha voglia di una patatina, la ruba a chi le sta mangiando al tavolo di fianco al suo. Non capisce perché dovremmo vergognarci di mostrare alcune parti del nostro corpo, di chiudere la porta quando andiamo in bagno, di dover fingere di apprezzare una pietanza che non ci piace. Ora, è ovvio che una società basata su biscotti e musica bruttina e furto di patatine non è concepibile, ma lo è lo spirito, non solo: è una prospettiva allettante quasi più umana di quella che è davanti a noi. C’è del magico nell’osservare chi va contro, ma senza polemiche. La lista di cose che ci hanno resi migliori grazie a lui è lunga: la conquista della pazienza; la libertà di rispondere a domande inappropriate su di lui senza battere ciglio; la necessità di trovare altri strumenti per comunicare oltre che la voce e i gesti. E sono solo alcune.

Qualche giorno dopo il compleanno di Andrea, ho cominciato a svuotare la sua camera. Dopo due anni di ricerca, abbiamo finalmente trovato una stanza per lui in una casa-famiglia in cui vivono già tre altre persone autistiche a basso funzionamento, che vengono seguite da tre o quattro operatori. È in campagna, è molto bella, e dista un’ora da casa nostra. Non sto qui a spiegare il garbuglio di sentimenti che questa nuova fase della nostra vita ci ha provocato. Dico solo che allo stesso tempo è orrendo e stupendo. Orrendo stare senza di lui, stupendo che si senta pronto a fare un passo così grande e importante. 

Svuotavo la camera di Andrea e mi sono ritrovata a piangere, tanto per cambiare. Impacchettare i suoi oggetti è stato come rivivere le sue diverse fasi ossessive: le cassette, poi i CD, poi i DVD; i libri di Doctor Seuss e di Jim Croce; le calze mezze ciucciate. Ognuno di questi beni è testimone di molti momenti felici e qualche momento triste, difficile. Nella valigia ho messo i giochi da bimbi piccoli che ama, quelli che quando si schiaccia il bottone, la mucca fa MUU e il gatto fa MIAO. La scatola di fotografie che aveva rubato e con cui aveva dormito; i poster di Stevie Wonder, Bob Marley, James Taylor e Sting; il suo orsacchiotto Boris, che lo ha accompagnato in ogni sala operatoria; la sua unica cravatta usata per andare al Bar Mitzvah del figlio di amici. 

Svuotavo la camera di Andrea, dove per anni ha incontrato miriadi di terapeute comportamentali il cui compito era di insegnargli ad essere più simile a noi, come se essere come lui fosse sbagliato. Giornate sprecate a fare il bucato, dire grazie e prego, saper aspettare il proprio turno, svuotare la lavastoviglie, apparecchiare, mettere via la spesa, saper pagare. Mille istruzioni utili per vivere al meglio, ma nel nostro mondo. Andrea è perfetto così com’è. Ma dico io: davvero pensiamo che un giorno potrà andare al supermercato, mettere nel carrello quello che vuole, aspettare in fila, pagare, arrivare a casa, mettere via la spesa, fare il bucato? “E dunque perché insistere a insegnargli queste cose?”, chiedevo, basita. “Ma non è forse che siamo noi, che abbiamo anche un cervello che funziona meglio, a provare ad adattarci alla diversità invece che imporlo a uno come lui? 

Svuotavo la camera di Andrea e mi sentivo affogare dai sensi di colpa nei confronti di famiglie italiane con il loro, di Andrea, che non hanno accesso a nessuno di questi servizi, che non posso affidarsi ai servizi sociali, perché avere a disposizione dallo Stato, e cioè senza pagare un euro, una casetta in campagna a un’ora da casa, con quattro camere da letto, una per ogni persona che ci vive, con tre, quattro operatori, sembra fantascienza. Il senso di colpa nel pensare che chi è nato in un posto in cui ci sono risposte serie al dopo di noi ha il privilegio di poter invecchiare relativamente tranquillo, mentre se è nato da un’altra parte diventa un peso non solo per la società, ma anche per la famiglia. Mi sono ricordata, a voce alta, di non lamentarmi mai e poi mai. 

Svuotavo la camera di Andrea ed ero certa che sarebbe stato pronto per questa sua nuova fase, sicuramente più di noi. Andrea è la persona più difficile con cui convivere: non si taglia la carne, non si lava o veste da solo, non sa pulirsi dopo aver fatto la cacca, usa pochissime parole, storpiate, ed è molto complesso comunicare con lui. Come se non bastasse, è sempre addosso a me: il suo gioco preferito non è la mucca che fa MUU. Sono io, i miei capelli, il mio viso da baciare sempre, il mio collo da stringere, il mio sonno da disturbare, il mio silenzio da riempire, la mia libertà da limitare. Non è facile dedicare ventisette anni a una persona come lui. 

Eppure, è stato e continuerà a essere la persona più normalmente straordinaria che io abbia mai conosciuto.

ARTICOLO n. 35 / 2024