ARTICOLO n. 69 / 2021

THE OLD MAN IN THE PIAZZA

traduzione di Gianni Pannofino

Ogni giorno, più o meno alle quattro del pomeriggio, quando il caldo del sole comincia a dar tregua, il vecchio si presenta in piazza. Cammina lento, strascicando i piedi calzati in impolverati mocassini marroni. Il più delle volte indossa una giacca blu scuro abbottonata fino al collo e pantaloni blu navy tenuti su da una cordicella annodata in vita. Ha i capelli bianchi e un basco in testa. Raggiunge l’unico caffè della piazza, il Caffè della Fontana, si accomoda su una sedia di legno a un tavolino di legno e ordina un caffè ristretto e forte. Alle sei ordina una birra e un sandwich. Alle otto si alza in piedi, si pulisce la bocca e si allontana, strascicando i piedi, presumibilmente verso casa. Non è indispensabile sapere dove abita. Tutte le cose anche solo minimamente significative della sua vita sono accadute e accadranno qui, in questa piccola piazza.

Prende posto. Lui è il pubblico, unico spettatore. Lo spettacolo sta per cominciare.

Nella piazza sboccano sette anguste stradine, una per ogni angolo e una dal punto centrale di tre dei quattro lati; il lato su cui sorge la chiesa è l’unico che non sia interrotto da una viuzza di ciottoli. Dovrebbe essere un posto tranquillo, una sonnacchiosa piazza di provincia, ma non è così. Tutt’intorno, per sei giorni alla settimana, si sente il clamore di gente che battibecca. Nella maggior parte dei casi, il numero dei presenti in piazza è superiore a quello degli abitanti del luogo. Sembra quasi che la gente arrivi nella pacifica piazzetta di questo pacifico paesino per litigare. Dalla grande città, distante quindici chilometri, arrivano lì per dar sfogo ai loro malumori. Alzano la voce, picchiano il pugno destro sul palmo della mano sinistra; battono i piedi a terra (indifferentemente, l’uno e l’altro in pari misura). Se sono in sella a una moto, suonano il clacson per l’esasperazione o per soffocare le voci avverse. Se litigano seduti sulle rispettive auto con i finestrini abbassati, suonano il clacson come i motociclisti, ma mandano anche su di giri il motore e, quando l’irritazione supera la soglia della sopportazione, chiudono i finestrini.

Il loro disaccordo non ha mai fine. Litigano sulla probabilità degli uragani e sul caso di corruzione legato all’assegnazione delle Olimpiadi estive a una città situata oltre il Circolo Polare Artico, sull’impossibilità dell’amore, sulla futilità della politica e sugli affetti segreti e illegali di eminenti personalità della chiesa cattolica. Si scornano sulla piattezza della Terra e sull’efficacia dei vaccini per il morbillo, la parotite e la rosolia. Sono in disaccordo su quale sia il gusto migliore per un gelato e hanno opinioni nette e inconciliabili sulla bellezza delle dive del cinema. Se hanno letto romanzi di uno scrittore e di una scrittrice che sono – o sono stati – tra loro sposati, prendono con decisione le parti dell’uno o dell’altra, e non c’è verso che cambino idea. Sembra che nulla accomuni la nostra gente se non la passione per il diverbio, il diverbio inteso come forma d’arte pubblica, come cuore ed essenza della nostra civiltà. Il baccano è terribile, si intensifica quanto più il giorno sprofonda nella sera e va avanti fino a tarda notte. Quando arriva la mezzanotte, la gente ha ormai consumato anche un discreto quantitativo di alcolici e questo rende le discussioni in piazza ancora più accese. E non è così raro che voli qualche pugno.

Il vecchio si siede al Caffè della Fontana e ascolta. Poiché, però, se ne va alle otto di sera, si risparmia le ore successive, quando l’alcol fa il suo effetto e iniziano le risse.

Le domeniche sono tranquille. Di domenica, se ne stanno tutti a casa e mangiano oppure vanno in chiesa, chiedono perdono, tornano a casa e mangiano.

Di domenica il vecchio non frequenta la piazza.

Così vanno le cose nella piazza da quando è finita la cosiddetta era del «sì». Quell’età buia ebbe inizio quarant’anni fa, o giù di lì, e per cinque anni discutere divenne illegale. Si era obbligati a essere d’accordo, sempre. Non esisteva enunciato, per quanto risibile – che il pane e il vino possono transustanziarsi in carne e sangue, che gli immigrati si trasformano di notte in mostruosi e sbavanti violentatori, che l’aumento delle tasse per le classi più povere ha effetti positivi, che le anime possono trasmigrare o che la guerra è necessaria – di cui fosse ammessa la confutazione, anche se gli immigrati gestivano la migliore pasticceria del paese e la nostra enoteca preferita, e i più tra noi erano poveri, e nessuno ricordava di aver vissuto vite precedenti sotto forma di tartarughe o stranieri o anguille, e solo un’infima minoranza di noi era di natura bellicosa. Era obbligatorio assentire, sempre e comunque.

Persino la nostra lingua – la lingua con cui tanta grande poesia è stata creata! – finì per uscirne alterata. Non le era più concesso l’uso del «no». C’era solo il «sì», con tutte le sue varianti: «naturalmente», «certo», «senz’altro», «assolutamente», «eccome», «chiaro», «d’accordo». Quando qualche incauto estremista ricordava la parola «no», l’effetto era più che scioccante, più che peccaminoso: era arcaico. Una parola rotta, di un’epoca antica ormai in rovina, come i resti di un tempio costruito per onorare un dio in cui nessuno crede più da migliaia di anni. Il dio del «no». Che dio ridicolo doveva essere stato! In ogni caso, a noi appariva tale.

La nostra lingua, però, era imbronciata. Andava a sedersi da sola in un angolo della piazza e scrollava spesso la testa con aria desolata. Diventò pedestre. Annunciò di non essere disposta, per il momento, a volare o a elevarsi e neanche a viaggiare in treno, in bicicletta o in corriera. Diceva che si sentiva i piedi pesanti come il piombo e che preferiva starsene seduta in silenzio a contemplare le cose che le lingue sono solite contemplare quando sono da sole e si sentono bistrattate. Se avesse avuto bisogno di muoversi, ci disse, avrebbe arrancato. Aveva un atteggiamento ostile. Indossava abiti stretti, che limitavano i suoi movimenti, e scarpe scomode. Rinunciammo a qualsiasi tentativo di approccio.

La nostra lingua non si univa mai al vecchio seduto al Caffè della Fontana. Se ne stava da sola nel suo angolo. Non parlavano.

All’epoca del «sì» universale, nella piazza regnava la quiete. Si sentiva il canto degli usignoli, delle allodole, non ancora decimati dalle battute di caccia del fine settimana. Al centro della piazza sorge una piccola fontana – la fontana da cui il caffè prende il nome, ovviamente – e a quei tempi il silenzio permetteva di ascoltare l’acqua, che dava sollievo ai cuori in pena. Il vecchio era più giovane, allora, e il suo cuore era spesso in pena, per come certe giovani donne dai capelli di svariati colori respingevano ripetutamente le sue sincere profferte sentimentali.

Anche allora, quando il «no» era proibito, quelle donne trovavano il modo di fargli sapere che i suoi sentimenti non erano ricambiati. «Sei carinissimo» dicevano «ma quella sera devo occuparmi dei miei capelli biondi/castani/rossi/neri.» Magari un’altra sera, allora, osava insistere lui, e quelle rispondevano: «La tua generosità è davvero toccante, ma credo che, per quel che posso prevedere, andrò ogni sera dal parrucchiere; a parte la domenica, quando resterò a casa a mangiare o, in qualche caso, andrò magari prima in chiesa per chiedere perdono e poi tornerò a casa a mangiare.»

Dopo un po’, il vecchio smise di chiedere. Non smise, però, di andare a sedersi, quasi tutti i pomeriggi, sulla sua sedia di legno dallo schienale diritto al Caffè della Fontana, ad ascoltare lo scroscio dell’acqua. Invecchiava precocemente, consumato, come un mobile finto-antico, dalla scoperta che anche l’età del «sì» sottintendeva un «no». I capelli gli diventavano bianchi, e lui se ne stava sulla sua sedia di legno a guardar passare il mondo.

Passarono cinque anni. Alla fine, fu la nostra lingua a ribellarsi contro il «sì». Si alzò dall’angolo della piazza dove aveva meditato in silenzio per un lustro e lanciò uno stridio lungo e penetrante che trafisse le nostre orecchie come uno stiletto. Si propagò dappertutto, alla velocità del fulmine. Non c’erano parole nel grido, ma bastò quello a scatenarle tutte. Le parole semplicemente eruppero dalle persone e non ci fu modo di trattenerle. Tutti sentivano enormi groppi di vocaboli che salivano in gola e pulsavano dietro i denti. I più cauti tenevano le labbra strette per impedire che le parole sgorgassero, ma i torrenti verbali riuscivano ugualmente ad aprirsi un varco e traboccavano come bambini all’uscita da una scuola elementare omogenea alla fine di un lungo e faticoso semestre. Le parole rotolavano alla rinfusa nella piazza come bambine e bambini desiderosi di tornare a mescolarsi. Era uno spettacolo a vedersi.

Erano rudi, le parole di questi primi pronunciamenti – «Stronzate!», ad esempio, o «Va’ al diavolo», fino al troppo enfatico «Va’ a farti fottere!» – e una tale crudezza era forse spiacevole, ma queste parole dure, da scaricatori di porto, erano efficaci, bisogna ammetterlo. Erano come mazzate o esplosioni che, abbattendosi tutt’intorno a noi, condussero rapidamente il predominio del «sì» a un’amara conclusione. Il «sì» e i suoi compagni di viaggio (i summenzionati «naturalmente», «certo», «senz’altro», «assolutamente», «eccome», «chiaro», «d’accordo») furono appesi a ganci da macellaio nella piazza, e quella fu la loro fine.

Fu allora che ebbe inizio l’età della diatriba. «Ma!» «Fesserie!» «Fuffa!» «Assurdo!» «Balle!» «Bugiardo!» «Idiota!» «Come ti permetti!?» «Questa è una cagata da fanatico ignorante!» «Togliti dai piedi! Nessuno ha voglia di starti a sentire!» Chi poteva immaginare che sarebbero state queste parole ostili a occupare il proscenio a quel punto: queste, e non la poesia meravigliosa e giustamente celebrata della nostra lingua, cui facevamo prima riferimento? La poesia lirica e quella epica, le odi e i sonetti, pur cercando di mettersi in posa, gesticolavano impotenti, ignorati da tutti.

La nostra lingua rimase nel suo angolo della piazza a guardare, ma si era tolta il corsetto e i deturpanti zoccoli, e i lunghi capelli e la gonna le ondeggiavano intorno, liberi. La gonna era lunga fino a terra, ragion per cui non si vedevano le scarpe, anche se noi avevamo l’impressione che stesse battendo i piedi a terra al ritmo di una sua musica interiore.

Anche il vecchio sentì dentro di sé la pressione delle parole che cercavano di emergere. Provò a frenarle, perché non sapeva quali potessero essere o che cosa avrebbero fatto o reso possibile o generato o distrutto, ma gli uscirono ugualmente, come vomito: parole che a stento riconosceva come proprie traboccavano da lui rabbiose, sprezzanti, accusatorie. Fortunatamente, tutti stavano sperimentando una personale versione di questo stesso fenomeno, e nessuno gli prestava attenzione, e fu così che lui stesso dimenticò presto quelle prime parole e si risistemò sulla sedia di legno per osservare la vita della piazza qual era diventata.

Terminata l’epoca del «sì», cominciarono le liti che sopraffecero i canti delle allodole e il rasserenante gorgogliare della fontana, la quale, da parte sua, se ne sbatteva dei cambiamenti sociali e si teneva occupata, alla sua maniera noncurante, con il suo fontaneggiare. Il vecchio – l’uomo reso vecchio dalla propria tristezza – aveva smesso con le richieste romantiche alle donne, perché già conosceva le risposte, che oltretutto potevano ormai essere formulate in modo esplicito, senza girarci intorno o inventarsi appuntamenti dal parrucchiere.

All’inizio, per un po’, ebbe nostalgia del silenzio dei cinque anni del «sì». C’era qualcosa di rincuorante nel vivere in quel costante stato affermativo, scartando la negatività, accentuando il positivo. C’era un che di – qual era la parola? – un che di umile nell’astenersi da qualsiasi giudizio, per quanto forte fosse la tentazione. E persino un che di rilassante nel potersi esimere da una vita di obiezioni, critiche o addirittura proteste. Ci era voluta una certa riorganizzazione del cervello, questo è vero. Il vecchio aveva dovuto imbrigliare la sua naturale tendenza al dissenso, alla formulazione di frasi che cominciavano con: «D’altra parte…» o «Non è forse vero, però, che…?» o anche «Come puoi…?». Risparmiate il fiato: questa era stata la linea di condotta dell’epoca. Tenete per voi le vostre parole ripugnanti. Per un certo periodo era riuscito a trovare un certo conforto nell’accettazione del «sì». Nel dire l’impronunciabile «no» al «no».

Tutto questo accadeva molto tempo fa. Oggi, il vecchio – vecchio anche di anni, non solo per la tristezza – va ancora a sedersi al Caffè della Fontana, ma è sereno, gli è passata la paura di quelle parole dimenticate che gli uscivano dalla bocca. Osserva la nostra cittadinanza litigiosa come si potrebbe guardare una soap opera in TV o un circo a tre piste o una partita di calcio professionistico.

La nostra lingua è ancora lì, nel suo angolo della piazza, il più lontano possibile dalla sedia del vecchio. Da qualche tempo, lei ha spesso dei compagni, e questi compagni sono immancabilmente molto più giovani di lei, giovanotti di una bellezza fisica quasi oscena. Queste creature byroniane la venerano apertamente, e lei – pensa il vecchio – forse si concede al loro spasimare, in privato, le volte che si allontana per un po’ dalla piazza. I suoi compagni cambiano continuamente. Non si può escludere che la nostra lingua abbia comportamenti promiscui. Può darsi che la sua morale sia fin troppo lasca. Quando gli viene in mente questo pensiero, il vecchio ha l’impressione che sia stato il diavolo a sussurrarglielo all’orecchio. Nessun altro, però, sembra aver avuto quel pensiero: se il diavolo ha sussurrato anche all’orecchio di altri, questi devono averlo liquidato con una scrollata di spalle. Che si comporti pure come le va! Che faccia come le garba! Questa è la mentalità prevalente, al giorno d’oggi. Il vecchio si rende conto di essere in minoranza e tiene la bocca chiusa.

In così tanti anni, non si sono mai scambiati neanche il più frettoloso dei saluti, il vecchio e la nostra lingua. Eccoli lì seduti, in angoli opposti della piazza, lui con la sua sedia di legno, lei su uno sgabellino imbottito, donatole da uno di quei giovani oscenamente attraenti che lei, poi, dopo non molto, ha smesso di favorire, cancellandolo dalla propria mente. Di lui non rimane più nulla, a parte quello sgabello. Di recente, però, il vecchio ha avuto, un paio di volte, l’impressione che lei, la nostra lingua, gli facesse piccoli cenni. Ma potrebbe essersi trattato di un miraggio.

L’eleganza architettonica della piazza è innegabile. La facciata barocca della vecchia chiesa è splendida, e molti degli altri edifici a uso misto affacciati sulla piazza – con negozietti al livello della strada e appartamenti ai piani superiori – sono strutture degne di nota, fatte di pietra dorata, con persiane bordò alle finestre. Sono perlopiù vecchie, le case dorate, e in qualche caso non esattamente ben tenute, ma si reggono, solide, attraenti, con i coppi rossi sui tetti, e conferiscono alla piazza un’aura di grandeur sbiadita, come di nobile decaduta che abbia sperperato il patrimonio di famiglia. A dire il vero, la piazza sembrerebbe appartenere a un contesto più importante di quella piccola cittadina. Sembra quasi presa e trapiantata in blocco da una delle nostre belle città, forse addirittura dalla capitale, distante appena quindici chilometri.

Dirimpetto alla chiesa, sui due angoli della viuzza di ciottoli che sfocia nella piazza, sorgono due strutture che, se fossimo in Italia, potremmo chiamare «logge» – balconate coperte, con arcate e colonnine dal delicato intaglio – e in queste logge il comune ha collocato statue di marmo, imitazioni di statue famose ubicate altrove, copie più o meno riuscite a seconda dell’abilità degli imitatori. Godiamo di questi facsimili come se fossero gli originali. Se il genio latita, la sua imitazione è un surrogato ammissibile. Per il tramite di quelle copie, rendiamo omaggio ai capolavori che non vedremo mai. Tra noi c’è chi arriva a sostenere che gli originali non esistano e non siano mai esistiti, che proprio queste presunte repliche sarebbero i grandi capolavori, e che si debba loro un rispetto corrispondente alla loro grandezza. Questo è uno dei temi di discussione più frequenti, in piazza. La questione resta irrisolta.

(Qui occorre un chiarimento. Non siamo in Italia. Se fossimo in Italia, la nostra lingua, seduta laggiù, sarebbe quella italiana. Assomiglierebbe magari ad Anna Magnani o a Sophia Loren. Ma non è questo il suo aspetto, perché, ripeto, non è italiana, e non è italiana la lingua che noi parliamo. Questa è la nostra lingua, quella che stiamo parlando ora, e noi siamo qui, non lì. Il vecchio in piazza porta un basco, ma questo non vuol dire che sia francese. È uno di noi.)

Ora che ha smesso di provare nostalgia per la pace e la quiete degli anni del «sì», il vecchio ha cominciato a trarre diletto dalla litigiosità dei suoi concittadini. La vanità delle certezze, che danno a chiunque dibatta motivo di insistere con dito ammonitore su una tesi o sull’altra, pare al vecchio la prima fons et origo della commedia. Il fervore con cui molte delle persone presenti nella piazza sostengono opinioni la cui falsità è dimostrabile: il sole, signora mia, non sorge a occidente, per quanto lei si incaponisca ad affermare il contrario, e la luna, caro signore, non è fatta di gorgonzola, e questo non equivale a essere d’accordo con il suo avversario, che la descrive come un elaborato artificio di cartapesta inchiodato in cielo per darci l’impressione di vivere in un universo tridimensionale, fatto di stelle, pianeti e satelliti, invece che su un disco con sopra un gran coperchio, un coperchio simile a un colapasta capovolto, pieno di buchi da cui di notte filtra quella cosa brillante che ci hanno ingannevolmente indotto a chiamare «luce stellare». La piazza è ricolma di insulsaggini come questa, e il vecchio pensa: ma sì, che parlino pure, non fanno male a nessuno, in fondo.

Anche questo tema è oggetto di molte animate discussioni: i concetti erronei sono dannosi per il cervello, per la comunità, per la salute del corpo politico o sono banali errori che vanno tollerati in quanto prodotto di menti semplici? Dato che tutte le persone coinvolte in questa discussione hanno la testa piena di fesserie di ogni tipo, i dibattiti finiscono per non risultare granché fecondi. Il vecchio ha l’impressione che alla fine della giornata la gente se ne torni a casa, ubriaca di vino e di dubbi, sapendone ancora meno che al mattino. In ogni caso, pensa il vecchio, la favella liberata è una gran bella cosa. La nostra lingua, seduta sul suo sgabello imbottito nell’angolo più lontano della piazza con quegli uomini divini ai suoi piedi, è chiaramente più felice di quanto non fosse ai tempi asserviti e acquiescenti del «sì».

Arriva, però, il giorno in cui si presentano dal vecchio, appostato sulla sua sedia di legno, due persone particolarmente polemiche – marito e moglie, a quanto risulta, felicemente sposati da trent’anni – che gli si rivolgono all’unisono: «Non ne possiamo più! Deciderai tu per noi!». Il loro disaccordo, si scopre, è un’inezia. Dove devono andare a trascorrere le loro vacanze estive? Nella isola di A., baciata dal sole e non tanto distante, o nel lontano paese di B., che sarebbe sicuramente una scelta più avventurosa, ma meno riposante. «Non riusciamo proprio a metterci d’accordo» dicono in coro. «Perciò faremo quello che suggerirai tu.»

«Molto bene» dice il vecchio, e con queste due parole abbandona la neutralità di tutta una vita, e la piccola sedia di legno su cui ha trascorso decenni, accontentandosi di osservare il tumulto circostante, diventa – di colpo! – lo scranno di un giudice. «Molto bene» ripete. «In questi tempi faticosi e stressanti, raccomando tanto riposo. Andate ad abbronzarvi sull’isola di A., baciata dal sole.»

Marito e moglie restano lì immobili. Poi si girano e si guardano in faccia. «Assurdo!» esclamano a una sola voce. «Noi vogliamo una vita avventurosa!» E se ne vanno in quel lontano paese di B. Dopo qualche settimana si ripresentano a ringraziare il vecchio per il suo consiglio. Hanno visto enormi coccodrilli, che attaccano svariati bambini ogni anno e se li portano nelle paludi dove poi li sbranano; giraffe che hanno raggiunto altezze da record; axolotl giganti. Hanno sentito parlare lingue che non conoscevano e assistito agli spettacoli più sconvolgenti, una valanga che ha sepolto un intero villaggio e un colpo di stato militare che ha seminato cadaveri per la strada. Per alcuni giorni, nel corso di un safari, si sono entrambi trasformati in ippopotami, ma poi sono ridiventati umani, e gli è stato spiegato che avrebbero dovuto leggere meglio il dépliant informativo per turisti e farsi vaccinare per proteggersi dalle zanzare locali, famigerati insetti che trasmettono molti ceppi del virus della metamorfosi. Dicono: «Fa niente, è stata un’esperienza forte, perciò ne è valsa la pena! Un’esperienza unica! Quanto a rotolarsi nel fango… ci saremmo probabilmente abituati!». Insomma, avevano fatto la vacanza più bella della loro vita.

«Grazie, grazie» dicono commossi, e la loro gratitudine è sincera. Il vecchio fa notare, con pacatezza, che lui aveva consigliato di andare sull’isola più vicina per riposarsi, e loro ridono deliziosamente: «È così che ci regoliamo!» esclamano. «Sempre! Siamo dei bastian contrari! Domandiamo alle persone quello che pensano, e poi facciamo l’opposto. Pensa pure che siamo contorti! Per noi, però, ha funzionato, e siamo felicemente sposati da trent’anni.»

In piazza si sparge la voce: il vecchio seduto sulla sedia di legno al Caffè della Fontana è un giudice che ha la saggezza di un Salomone. Una folla accorre da tutta la piazza per chiedergli altri verdetti. Il vecchio non è mai stato tanto richiesto, in nessuna circostanza della sua lunga e anonima vita. È, lo ammette, un fatto che lo lusinga. Cede.

Chiede ai postulanti di mettersi ordinatamente in fila, dopo di che, ogni pomeriggio tra le quattro e le sei, quando le ore più calde della giornata sono passate, dispensa giudizi, proclamando con un tono di crescente autorità che no, la terra non è piatta, e no, gli immigrati, per la stragrande maggioranza, non sono mostruosi violentatori, non più di voi o di me, e sì, al cento per cento, Dio esiste, così come l’inferno e il paradiso.

La voce si diffonde a macchia d’olio. Nella città vicina si sparge la notizia che nella piazzetta di quella cittadina c’è un sapiente dotato di una profondità che gli permette di risolvere all’istante ogni diatriba. La folla in piazza diventa sempre più numerosa. Ci vuole la polizia per mantenere l’ordine. Ci sono le troupe della televisione. Il vecchio prolunga l’orario delle sue udienze fino alle sette di sera, per poter dirimere più contenziosi ogni giorno (domenica esclusa). Dopo le sette, la seduta è tolta, e lui si rifiuta di rispondere ad altre domande, perché gli piace godersi un’oretta in solitudine, con la sua birra e il suo sandwich. E alle otto, puntuale, lascia il Caffè della Fontana e, strascicando i piedi, se ne va chissà dove.

Si vocifera che i principali esponenti del governo e dell’opposizione starebbero discutendo se presentarsi in visita dal vecchio, per vedere se riesce a risolvere anche le loro divergenze. Per questa gente, però, a sinistra e a destra, è difficile accettare il rischio che il saggio li dichiari in torto. La visita dei politici resta nel novero delle mere ipotesi.

Il vecchio in piazza sta facendo esperienza di una cosa per lui totalmente nuova: la notorietà. Nel gruppo sempre più vasto di bambini e adulti seduti ai suoi piedi, intorno alla sua sedia di legno, nota alcune facce conosciute e capisce che si tratta di alcuni dei giovani bellissimi che fino a poco prima erano tra i più ardenti discepoli della nostra lingua. Quest’ultima, che all’improvviso è quasi sola nel suo angolo della piazza, abbandonata dai sui ex seguaci, che attendono in fila al Caffè della Fontana, non è contenta di questi sviluppi. Annuncia ai suoi due soli discepoli ancora fedeli che quella storia finirà male. Loro la ascoltano con rispetto, ma il suo ammonimento appare dettato dall’invidia. I tempi sono cambiati. La gente, più che della nostra lingua bella e complessa, si interessa delle grandi e raccapriccianti questioni di cosa sia corretto o scorretto. Non siamo più gli amanti della poesia che eravamo in passato, affezionati all’ambiguità e devoti del dubbio, per diventare, invece, moralisti da bar. Il pollice punta verso l’alto? O è voltato verso il basso? Il vecchio in piazza è il nostro arbitro, e i suoi pollici sono diventati questione di interesse nazionale. Ora siamo tutti gladiatori nel Colosseo del Pollice.

La nostra lingua non è interessata al verdetto dei pollici del vecchio (opponibili, ma – almeno per il momento – senza opposizione). Si cura soltanto delle parole dalla bellezza stratificata, delle espressioni raffinate, della sottigliezza di ciò che viene detto e della risonanza di ciò che conviene tacere, dei significati tra le parole e della delucidazione di quei significati, che solo i suoi massimi discepoli sanno offrire. Trova vergognose le dozzinali sentenze del vecchio e ancor più vergognoso il crescente piacere che lui prova nell’essere accolto come giudice di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di cosa è così e di cosa è cosà. Un tempo rideva della vanità delle certezze, dell’ostinazione degli sciocchi e delle enfatiche affermazioni degli svitati. Ora è lui il dispensatore di certezze prive di sfumature, e diventa ogni giorno più vanitoso.

Il tema delle frontiere è da molto tempo assai controverso da queste parti. Nella storia recente, l’introduzione di confini sul nostro territorio a opera di ignoranti forestieri è stata causa di tanto dolore e gravi lutti. Nella nostra mente, le parole «confine» e «ignorante» sono inestricabilmente connesse. Nelle rare occasioni in cui abbiamo provato a superare uno dei pochi checkpoint che ora esistono lungo la nostra frontiera intrisa di sangue, o siamo stati respinti o, se lasciati passare, siamo finiti, dall’altra parte, tra le grinfie degli spacciatori di valuta contraffatta, che ci sapevano incapaci di distinguere la valuta falsa da quella autentica. Nella nostra mente, i termini «confine» e «valuta falsa» sono inestricabilmente connessi.

Ci sono, naturalmente, molte frontiere oltre a quelle che ci separano dai nostri vicini, trasformandoli in nostri nemici. C’è una frontiera invisibile tra ciò che noi, come individui o come gruppi, consideriamo accettabile e ciò che si colloca al di là di quella linea, nel dominio dell’inaccettabile. Quella frontiera è disseminata di pericolose mine antiuomo, e la maggior parte di noi non osa neanche avvicinarsi. C’è poi anche la frontiera invisibile fra azione e contemplazione. Ci sono quelli che fanno e quelli che li guardano. Il pubblico è qui seduto; il palcoscenico è laggiù. La quarta parete è una forza poderosa.

Il vecchio della piazza ha un bel ricordo delle proprie esperienze a teatro, ma non gli è mai venuto in mente di arrampicarsi sul palco e, in quei momenti d’avanguardia in cui gli attori sono scesi in platea, è sempre rimasto deliziosamente scioccato, in una maniera un po’ rétro. Tempo fa, da giovane, andò a vedere uno spettacolo in cui un attore, fingendosi spettatore, se ne stava seduto in prima fila per tutto il primo atto. Nell’intervallo tra il primo e il secondo atto, un telefono cominciava a squillare sul palco senza che nessuno rispondesse, e a un certo punto il finto spettatore saliva sul palco per rispondere. (Era sua moglie.) Mentre questo attore era sul palco, al telefono, cominciava il secondo atto, e lui si ritrovava intrappolato nella commedia. Al vecchio questa trovata parve deliziosa: assolutamente implausibile, ma stupenda a vedersi. Non aveva mai pensato di poter diventare, un giorno, colui che rispondeva al telefono tra un atto e l’altro. Non si era mai sognato di poter diventare lo spettatore intrappolato nella commedia.

Ora che ha varcato quel confine, si è calato con gioia nel suo nuovo ruolo. Non ha nulla contro le frontiere in quanto tali. Anzi, ha cominciato a considerare doveroso da parte sua definire nuove zone di ammissibilità, separando gli atteggiamenti inaccettabili e raccogliendoli nella categoria delle Cose Proibite, mentre gli atteggiamenti ammissibili restano qui, tra noi, nella libertà del nostro paese indubitabilmente libero. Non vuole più limitarsi a rispondere semplicemente a domande binarie, sì o no, bensì cerca di determinare quale delle parti in conflitto sia la più virtuosa, per dare la palma del suo favore a chi ha condotto una vita più lodevole. Nasce addirittura il sospetto che in molte occasioni egli deliberi a vantaggio di un querelante, che è chiaramente in torto, soltanto perché il suo avversario risulta aver avuto un’esistenza meno retta. Insomma, il vecchio diventa giudice non solo in tema di diritto, ma anche di rettitudine. Alcuni di noi sono preoccupati da questo sviluppo, ma nessuno è disposto a manifestare i propri timori, per via della grande popolarità del vecchio.

La nostra lingua langue nel suo angolo, turbata. Prova a far presente che il vecchio ci sta forse conducendo verso una nuova età del «sì», in cui sempre più parole potrebbero essere vietate. Questa è giustizia di frontiera, avverte. Ricordatevi delle mine antiuomo. State alla larga.

E rivela di essere preoccupata anche per sé. Da quando la conosciamo, è sempre stata esuberante, piena di energia, vivace, la migliore delle lingue, ma ammette di aver cominciato, ultimamente, a non sentirsi troppo bene. Certi giorni è febbricitante; altre volte ha disturbi e dolori. Spera che non sia nulla di grave. Potrebbe essere soltanto un effetto dell’età che avanza, perché pur presentandosi giovanile e bella – ci ringrazia per questi complimenti sul suo aspetto! Si mostra riconoscente per il nostro apprezzamento! – è senz’altro una lingua molto vecchia, una delle più vecchie e ricche, anche se lei preferisce non ostentare la sua ricchezza, non ambisce a un trono su cui sedersi e si accontenta del suo semplice sgabello imbottito. Ma è comunque la nostra lingua e, quindi, ritiene sia suo dovere informarci sulle sue condizioni di salute. Teme di essere in declino. È addirittura possibile – anche se per lei è difficile ammetterlo, persino con se stessa – che sia destinata a morire.

Nessuno la ascolta.

A nessuno interessa.

E allora, a un certo punto, si alza in piedi, come solo un’altra volta è accaduto, e lancia uno strillo. Uno strillo ancora più acuto del precedente. Che si innalza sempre di più oltrepassando le capacità uditive umane. In quel momento, tutte le finestre delle case affacciate sulla piazza vanno in frantumi, e cade una pioggia di schegge che feriscono tanta gente, nella piazza affollata, e queste ferite suscitano altrettanti strilli. Si tratta di strilli di un ordine inferiore, rispetto allo strillo d’angoscia lanciato dalla nostra lingua, e non rompono niente.

Vediamo la nostra lingua eretta, con la bocca aperta, ma non riusciamo a sentire il suo strillo, giunto a un tale livello di intensità da crepare i coppi sui tetti e persino la pietra di cui sono fatti i palazzi. Una delle statue delle logge, un’elaborata copia di un originale che si trova in Vaticano e che raffigura il sacerdote troiano Laocoonte con il capo cinto di feroci serpenti, esplode in centomila frammenti.

Ma crollano, quei palazzi a uso misto? E le logge finiscono tutte in macerie? La piazza ne è demolita?

No, questo non si verifica. Malgrado tutti i nostri difetti, non siamo creature melodrammatiche. Preferiamo il dramma, puro e semplice.

La piazza, quindi, resta in piedi. Ma le crepe ci sono. Le vediamo tutti. I palazzi sono fissurati dal tetto alla strada. Le tegole cadute, le persiane bordò che penzolano storte. Questa è la verità. La piazza è rovinata, e noi, forse, anche.

Intanto, lei è ancora lì in piedi, la nostra lingua, a gridare il suo grido silenzioso. E al Caffè della Fontana il vecchio sente che alle sue parole sta succedendo qualcosa. Gli si stanno prosciugando. Si ritirano sempre di più in fondo alla bocca, per rituffarglisi giù per la gola e finire dissolte dai vari succhi gastrici che si trovano laggiù. C’è una folla che attende di sentire quel che lui ha da dire, ma lui non ha più parole.

Le persone che affollano la piazza sono contrariate. Vogliono quello per cui sono lì – essere giudicate – e aprono la bocca per protestare contro il vecchio che non sa più pronunciare i suoi verdetti. Ma le parole con cui protestare non ci sono più. Tutti si volgono verso l’angolo occupato per tanto tempo dalla nostra lingua, la lingua che negli ultimi tempi hanno completamente ignorato, e vedono che ha raccolto le sue vesti e lascia la piazza, abbandonando per sempre l’angolo che era suo da tempo immemorabile. Tiene la testa alta, la nostra lingua, e se ne va. Dopo la sua dipartita, nessuno in piazza è più in grado di parlare. Le bocche emettono suoni, ma sono suoni informi, privi di significato. Il vecchio si alza impotente dalla sua sedia di legno, con la birra in una mano e il sandwich nell’altra. Protende le braccia verso la folla, come se volesse offrire il sandwich e la birra, Tutti gli volgono le spalle e si allontanano. È ridiventato quello che era un tempo: un vecchio insignificante.

Ora, non è chiaro quel che si debba fare. Che ne sarà di noi? Non abbiamo idea di come procederanno le cose.

Le nostre parole non ci aiutano.

© Salman Rushdie 
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ARTICOLO n. 31 / 2024