Carlotta Vagnoli

ARTICOLO n. 13 / 2024

LA STANZA DELLO STUPRO

Raccontare una storia non è semplice: ci sono regole da seguire, percorsi da attraversare e far attraversare, linguaggi precisi e, come ogni narrazione che si rispetti, questa dovrebbe concorrere ad arricchire chi ne fruisce, fornendo chiavi di lettura inedite e che possano veicolare dei messaggi.

Quando si scrive un racconto, per prima cosa si deve tenere presente del destinatario dello stesso: a chi ci rivolgiamo quando decidiamo di condividere il nostro lavoro?

Successivamente, per comprendere il modo migliore per diffondere la nostra narrazione, dovremo trovare un punto di partenza e uno di arrivo: questo significa dare struttura, ovvero iniziare a incastonare gli eventi in una forma che possa portare da un punto A a un punto B, in modo logico e accessibile al nostro target. 

La struttura della narrazione, detta anche architettura, può aiutare infatti chi ascolta o legge a sentirsi partecipe della vicenda e a vivere al meglio le emozioni che accompagnano la crescita connessa alla fruizione del nostro racconto.

Contrariamente a quello che si pensa, quasi tutto ciò che ci circonda e che vediamo si sviluppa in racconti: libri, film, teatro, rappresentazioni, performance, letture, eventi, incontri, articoli di giornale e anche mostre d’arte.

Nella sua primaria e immediata accezione, una mostra d’arte è un’esposizione di opere di uno o più artisti –  in questo caso si chiama “collettiva” – e viene organizzata da enti privati, organizzazioni, fondazioni o enti statali per avvicinare il pubblico alla visione delle opere.

Ma le mostre d’arte non sono una mera esposizione di quadri o statue o installazioni all’interno di uno spazio: anch’esse infatti hanno bisogno di una struttura, una cornice in cui organizzazione e curatori e curatrici possano, tramite le opere, raccontare una storia, collocandola nel tempo e mettendola in dialogo con il presente, con il luogo in cui viene esposta e con il pubblico.

È un vero e proprio lavoro creativo, in cui lavoratori e lavoratrici dell’arte rendono interdisciplinare la materia e l’opera stessa, cercando collegamenti con la storia, la filosofia, la cultura del paese di provenienza di artiste e artisti, la loro vita personale.

Quando però queste regole non vengono rispettate, si va incontro a un cortocircuito in cui ci rimette per primo il pubblico che vorrebbe fruire di una mostra.

In questo senso, un caso emblematico è avvenuto nella costruzione del percorso espositivo e narrativo della mostra “Artemisia Gentileschi: coraggio e passione”, inaugurata in 16 novembre scorso e ancora presente a Palazzo Ducale a Genova.

La mostra, promossa e organizzata da Arthemisia (azienda di produzione, installazione e allestimento di mostre d’arte), Palazzo Ducale fondazione per la cultura, Comune di Genova e Regione Liguria, si prende il difficile compito di trattare la storia di Artemisia Gentileschi e della sua incredibile produzione artistica. Dal sito, si comprende che la mostra si snodi «Tra vicende familiari appassionanti, soluzioni artistiche rivoluzionarie, immagini drammatiche e trionfi femminili».

«La mostra a cura di Costantino D’Orazio», prosegue il sito, «offre un ritratto fedele della complessa personalità di una delle più celebri artiste di tutti i tempi, attraverso oltre 50 dipinti provenienti da tutta Europa».

Dalle parole della cartella stampa sembra dunque che questo percorso espositivo e narrativo vada a elogiare l’opera della pittrice seicentesca, inserendola in un quadro ampio e – cito –  rivoluzionario, in grado di appassionare il pubblico e avvicinarlo alla figura di Gentileschi, di cui la mostra si prefigge di dare un ritratto fedele. 

Attirate non solo dal suggerimento di una docente di corso e dallo studio dell’arte, ma forse anche da queste premesse promozionali, alcune studentesse di Storia dell’arte e valorizzazione del patrimonio artistico dell’Università di Genova sono andate dunque a vedere la mostra a pochissimi giorni dalla sua inaugurazione, e dire che siano rimaste di stucco è forse riduttivo.

Le studentesse si sono infatti trovate davanti un percorso museale e narrativo completamente distorto rispetto alle premesse descritte dal sito.

La mostra è tutta sviluppata intorno alla figura di Gentileschi in relazione agli uomini della sua vita: il padre Orazio, Caravaggio e perfino Agostino Tassi, collega del padre e carnefice della pittrice stessa, della quale abusò nel 1611 e andò per questo a processo nel 1612. 

Le opere in alcune sale dialogano con quelle dei colleghi uomini – per sottolineare che l’artista fosse brava quanto i suoi colleghi maschi – e, in una sala, sono addirittura messe in contrapposizione con quelle del Tassi. 

Ma non finisce qui: la narrazione di Gentileschi che viene fatta durante il percorso è tutta in funzione dello stupro subito e inflitto da Tassi.

Ogni sala permette infatti al pubblico di focalizzarsi solo su quell’evento della vita della pittrice: sono presenti video, filmati, perfino una mappa della Roma del 1600 con i punti di interesse riguardanti l’assalto commesso dal Tassi a Gentileschi. Come in un climax, tra citazioni e documenti originali del tribunale di Roma del processo per stupro del 1612, il pubblico arriva poi in quella che viene rinominata “la sala dello stupro”.

In una stanza buia, videoproiezioni delle opere della pittrice ricoperte però di sangue vengono trasmesse su pannelli verticali. Una voce femminile con tono sommesso legge la testimonianza in tribunale di Gentileschi mentre, al centro della sala, vi è posizionato un letto su cui vengono proiettate le parole che descrivono la violenza sessuale subita dall’artista e, di nuovo, altro sangue. 

Una vera e propria rappresentazione dell’atto, talmente tanto violenta che alcune persone si sono sentite male e hanno dovuto abbandonare la mostra. 

Le studentesse si sono poi trovate davanti altre sale, in cui Gentileschi veniva unicamente descritta come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, impedendole perfino da morta e a distanza di più di 400 anni di potersi separare dal proprio trauma. 

Tassi, che dai pannelli di testo che integrano la visita viene descritto come talentuosissimo «ma inquieto», è una presenza costante durante tutto il percorso e non solo: all’interno del bookshop a fine itinerario espositivo si possono trovare in vendita delle magliette con le sue citazioni durante il processo che lo vedeva prima imputato e poi condannato. 

Insomma, un vero e proprio tour dell’orrore.

Le studentesse hanno quindi contattato Noemi Tarantini, che non solo è content creator e advisor sull’arte, ma lavora nel settore, in cui è laureata e di cui è esperta, per portare alla sua attenzione la infelice narrazione di questa mostra. Oltre a Tarantini (che su Instagram prende il nickname di @etantebellecose), le studentesse hanno contattato anche altre content creator legate al mondo dell’arte, senza però ricevere alcuna risposta.

Tarantini si mobilita immediatamente e va a vedere la mostra, creando dei contenuti (video e post) che in poco tempo diventano virali.

Ne risulta un video pubblicato su Instagram e TikTok, in cui Tarantini fa notare quanto la mostra sia tutta sbilanciata dal punto di vista narrativo: dal titolo (“coraggio e passione”), al colophon tutto maschile, passando per gli elementi già citati in questo testo.

In seguito alla visita, Tarantini contatta Non Una Di Meno Genova e Valentina Crifò, content creator come lei (al secolo digitale è @immagini.narranti) ma soprattutto storica dell’arte ed educatrice museale. 

La richiesta che fanno ad Arthemisia e al curatore Costantino D’Orazio è quella di aprire un dialogo sulle scelte narrative dietro a questa strada espositiva e curatoriale, oltre alla rimozione della sala dello stupro dal percorso espositivo e al ritiro dei gadget a tema Tassi dal bookshop (tra cui il libro di Buttafuoco dal titolo La notte tu mi fai impazzire: gesta erotiche di Agostino Tassi).

D’Orazio ha dunque contattato Non Una Di Meno Genova – che aveva prontamente ricondiviso i contenuti di Tarantini e Crifò – proponendo loro una visita guidata alla mostra, per raccontare e motivare le scelte dietro la disposizione delle sale.

Alla visita guidata con NUDM Genova hanno partecipato anche Tarantini e Crifò, che ho personalmente contattato per sapere come questa visita si sia svolta.

Crifò mi ha raccontato che, in prima battuta, per comprendere lo scopo della visita proposta da D’Orazio si debba pensare al concetto – tutto maschile, aggiungo io – di competenza.

«Se curo una mostra», mi scrive Crifò, «in teoria dovrei saperla raccontare non soltanto in ogni singolo elemento ma, dall’alto della mia professionalità e coinvolgimento nel progetto, saper calibrare la mia narrazione a seconda del pubblico che ho davanti. Su questo aspetto ho una certa esperienza: da anni lavoro nel mondo mostre e musei e ho assistito a fantastiche formazioni da parte di curatorɜ che hanno saputo rispondere a qualsiasi quesito, tecnico, allestitivo, curatoriale eccetera. Sarebbe assurdo doverlo dire, quasi come ci parrebbe assurdo un padrone di cucciolo che non si ricordi il suo nome».

«L’impressione, condivisa», prosegue Crifò, «è stata che Costantino D’Orazio ci avesse accoltɜ pensando di condurre una visita guidata per un gruppo di svagatɜ visitatorɜ e non un gruppo di persone che, in via preliminare, si era documentata e aveva quesiti di tipo specifico. Pertanto, nessunǝ si sarebbe accontentatǝ di sentirlo elogiare la bellezza delle pennellate di Gentileschi. A unǝ curatorǝ più competente sarebbe stato ovvio che lo scopo dell’incontro avrebbe dovuto solo ed esclusivamente approfondire le scelte curatoriali che i veri professionisti attuano con consapevolezza. Queste “scelte”, però, D’Orazio ha cercato di liquidarle come pedissequa adesione alle fonti documentali. Come se l’operazione fosse semplicemente un compito scolastico. Be’, se allora dobbiamo dare un voto a questo compito, possiamo dire che l’allievo non deve aver letto e compreso i documenti processuali. Dice di aver letto tutti i testi ma, per esempio, nessun focus in mostra ricorda le lettere che Gentileschi invia al suo amante Francesco Maria Maringhi. E, soprattutto, una volta interrogato non riesce ad ammettere che in materia di narrazione della violenza ci sono tantissimi errori. Primo su tutti, non aver avuto l’umiltà di demandare il tema a chi dimostra una sacrosanta e comprovata competenza».

Insomma, da questa visita emerge una volontà di difendere le scelte espositive nonostante le palesi declinazioni sessiste in cui la vicenda di Gentileschi e la sua opera vengono raccontate. 

Da questo incontro piuttosto inutile e poco aperto, NUDM Genova, le associazioni About Gender e Mi riconosci, Crifò, Tarantini e le studentesse d’Arte dell’Università di Genova decidono di aprire uno spazio di riflessione collettivo aperto alla cittadinanza. Lo fanno in un’assemblea pubblica partecipatissima al Teatro della Tosse, in cui si ritrovano esperte ed esperti d’arte e soprattutto comuni cittadini e cittadine che hanno visitato la mostra di Palazzo Ducale. Da questo incontro nasce l’idea di una lettera aperta ad Arthemisia e Palazzo Ducale con la richiesta della chiusura della “sala dello stupro”, che nel frattempo continua a far sentire male parecchie persone che vanno in visita al museo, e il ritiro dei gadget e libri problematici dal bookshop. 

La lettera raggiunge le 4.000 firme in pochissimo tempo, e questo porta necessariamente a una presa di posizione da parte di Arthemisia e Palazzo Ducale. Ma non nel verso che ci aspetteremmo a questo punto della storia. 

La presidente di Arthemisia Iole Siena è rimasta irremovibile sulle scelte espositive: ribattendo che l’azienda a cui è a capo sarebbe composta al 90% da donne (come se fosse un elemento utile ai fini della discussione sulla spettacolarizzazione dello stupro), ha vietato l’affissione di un trigger warning all’esterno della sala incriminata e si è fermamente opposta alla chiusura della sala (da parte di Palazzo Ducale, che ha provato invece ad apporre dei teli neri tutto intorno per deviare il passaggio alle persone che non volessero assistere a quella macabra, disturbante, violenta rappresentazione. La chiusura della sala è però stata temporanea: dopo qualche giorno i tendaggi sono infatti stati rimossi e il letto insanguinato è di nuovo aperto a tutto il pubblico del museo.

Nel bookshop sono – anche qui: solo per qualche giorno – sparite le magliette con le frasi di Agostino Tassi, ma sono rimaste delle – perdonatemi il francesismo – cagate a tema pinkwashing che sfruttano l’immagine di Gentileschi e la storia della sua violenza sessuale e il libro sulle “gesta erotiche” (così l’autore decide di chiamare le violenze sessuali) del Tassi.

A questo riguardo, ho chiesto a Tarantini una dichiarazione. E Tarantini usa parole che condivido in pieno e vi allego qui.

«Il caos che regna all’interno della mostra in questi giorni (tra togli e rimetti di gadget, cartelli e tendaggi) dimostra una cosa: il settore storico-artistico pensava che i cambiamenti che stanno investendo la società globalizzata non l’avrebbero mai riguardato. Si sbagliava di grosso. Mostre, musei, mercato dell’arte ed enti di formazione si dovranno sempre più mettere in discussione, pena il fallimento o l’oblio. Il pubblico è vivo e non si accontenta più di avere centralità nei manuali di marketing culturale, la vuole nella realtà. Palazzo Ducale – per sensibilità o per opportunità – pare averlo capito e, stando alle recenti dichiarazioni del Presidente Beppe Costa, la vicenda ha reso necessaria la revisione dei contratti futuri con i produttori di mostre nell’ottica di garantire maggior peso decisionale alla Fondazione. È un grandissimo traguardo e la pratica partecipata con cui l’abbiamo raggiunto è una novità assoluta nel panorama italiano. Vale la pena ricordare ai vari soggetti coinvolti che il patrimonio culturale, la cui fruizione e valorizzazione – almeno sulla carta – rappresentano le finalità del partenariato pubblico-privato che hanno stipulato, è un bene comune. Sembrerebbe dunque il minimo prestare ascolto a chi il senso comune lo produce ogni giorno, ovvero l3 cittadin3. Senza questo non c’è cultura. E senza sviluppo della cultura non c’è democrazia».

Insomma, si è andato a creare uno stallo alla messicana, che vede da un lato le rimostranze della popolazione genovese, delle e degli addetti ai lavori dell’arte e le associazioni femministe, dall’altro Arthemisia e la dirigenza di Palazzo Ducale. In questo impasse permangono solo alcune certezze.

La prima è la pericolosità di un percorso espositivo così brutale privo di trigger warning e avvertimenti per il pubblico, che si ritrova senza preavviso in una stanza capace di riattivare dei traumi non indifferenti in modo a dir poco becero e spettacolarizzante.

La seconda è l’ennesimo voler sacrificare l’opera di Gentileschi a una lettura unilaterale, concentrandola in un “prima e dopo” lo stupro, disegnando la figura dell’artista come dipendente dalle vite degli uomini che l’hanno circondata, rendendoci incapaci di apprezzare appieno la mastodontica tecnica della pittrice che diventa qui solo il suo stesso trauma.

La terza certezza, che forse mi rende ancora più affranta, è l’impossibilità da parte dell’organizzazione della mostra di leggere la contemporaneità, come accennavo nel mio lungo incipit.

Leggere la contemporaneità vuol certo dire comprendere il nuovo modo che il mondo, grazie al transfemminismo e agli studi di genere – che ricordo sempre non essere scienza delle merendine, ma una corrente socioculturale trasversale e fondamentale – ha di parlare di violenza maschile contro le donne e di trattare le voci delle artiste della nostra storia che troppe volte sono state silenziate o piegate a narrazioni becere o maschiocentriche. Ma vuol dire anche permettere a chi visita una mostra come questa di comprendere la condizione della donna nel 1600 in Italia. Gentileschi a Palazzo Ducale viene descritta come una fenice, una donna che si ribella a una condizione di ingiustizia e ne esce vincitrice. Non c’è niente di vero però in questa visione.

Gentileschi fu in grado di andare a processo per un’intercessione del Papa Paolo V, che accettò di aprire un procedimento contro Tassi anche per la violenza sessuale ai danni di Artemisia. Ma il moto principale dell’astio di Orazio Gentileschi verso Tassi fu un debito economico di questo nei suoi confronti. In più, non vi è nulla di glorioso nella vita di Artemisia Gentileschi dopo il processo: fu infatti costretta a scappare da Roma e cambiare il suo nome (firma il suo Giale e Sisara con lo pseudonimo che poi avrebbe definitivamente fatto suo: Artemisia Lomi), dopo pesanti accuse di incesto con il padre e malelingue che ne minarono la credibilità fino al giorno della morte. 

Non siamo davanti a una storia di riscatto, bensì a una storia di soprusi e cancellazione. 

Cancellazione che si ripete in un percorso museale come quello scelto da Arthemisia, D’Orazio e Palazzo Ducale, dove la pittrice viene fagocitata dal suo stesso evento traumatico, a cui si riduce tutta la sua produzione artistica. E questa cancellazione avviene con metodi spettacolarizzanti e poco conformi al vero, metodi che inducono attacchi di panico nelle persone che visitano quella sala e che ci ricordano che qualsiasi cosa tu faccia nella vita, se sei donna e di talento, non sarai mai nessuno senza gli uomini amati o odiati nel tuo percorso.

E in questo non c’è niente di culturale, ma tanto, troppo, forse tutto di patriarcale.

All’inizio di questo mio pezzo mi chiedevo: a chi destiniamo le storie che decidiamo di raccontare?

Ecco, questa storia, con questa architettura, non è destinata a un pubblico sensibile o alle persone che hanno subito quel tipo di violenza, peraltro drammaticamente comune, basterebbe guardare le statistiche ISTAT.

Raccontare una storia significa avere sensibilità e responsabilità, altrimenti è solo mero sensazionalismo. E il sensazionalismo ha poco a che fare con la cultura e molto con la promozione selvaggia.

Attendiamo dunque altre, migliori, pratiche risposte dall’organizzazione di questa mostra, perché nel 2024 ricordare Gentileschi unicamente per il suo stupro è anacronistico e assolutamente non culturale, in ogni senso possibile che questo termine possa assumere.

ARTICOLO n. 3 / 2024

OGNUNA SI SALVI DA SOLA

Il femminicidio di Giulia Cecchettin nel novembre 2023 ha scatenato una reazione universale di preoccupazione e rabbia.

Abbiamo assistito e partecipato tutte a un moto quasi rivoluzionario del modo in cui solitamente si tratta la violenza di genere: per la prima volta dopo anni la parola patriarcato entrava nelle case degli italiani e prendeva vita nei talk show e nei telegiornali, nelle pagine di giornale, nei discorsi tra persone comuni.

La peculiarità del femminicidio di Cecchettin e della sua viralità potrebbe essere individuata in una serie di fattori concomitanti: il 2023 è stato un anno piuttosto violento dal punto di vista dei femminicidi (Scialdone, Tramontano, Malaj, Vefa hanno trovato molto spazio nella narrazione mediatica per la particolare brutalità con cui i loro femminicidi sono stati compiuti) e la preoccupazione è andata man mano crescendo, in modo direttamente proporzionale al numero di donne uccise per mano maschile. Oltre a questo climax mortale, possiamo reputare quello di Cecchettin un femminicidio “per antonomasia”, quasi da manuale: lei una giovane donna con davanti un brillante futuro, la sua famiglia attiva e consapevole, la retorica del bravo ragazzo perpetrata dai genitori dell’assassino, l’avvocato misogino a cui questa si era inizialmente rivolta, la fuga di Turetta, le parole misurate e intelligenti di Gino ed Elena Cecchettin, la disperata consapevolezza dell’epilogo. Era una tragedia annunciata che abbiamo seguito continuando a fare refresh sulle pagine dei giornali online nel tentativo di leggere buone notizie, anche se, per una ormai collaudata prassi, immaginavamo già tutte la fine di quella terribile storia.

Per questo, quando le notizie che speravamo di non leggere mai ci sono apparse sui telefonini, abbiamo pianto e abbiamo stretto i pugni. Era troppo, era tutto troppo: troppo silenzio istituzionale, troppo menefreghismo maschile, troppo poco ascoltate le parole di chi lavora per combattere la violenza maschile contro le donne, ma soprattutto era troppo tardi. Eravamo troppo in ritardo per avviare pratiche salvavita e troppo arrabbiate sapendo che una cura a questo sistema esiste e va messa in pratica. 

Novembre è stato dunque il mese dell’urgenza, un’urgenza che chi si occupa di violenza sulle donne ribadisce da così tanto tempo da essere ormai quasi non quantificabile e che finalmente diventava una materia di interesse comune.

In seguito alle rimostranze e proteste di attiviste, intellettuali, centri antiviolenza, divulgatrici, volontarie, avvocate, politiche e sopravvissute sulla totale assenza di politiche di prevenzione e formazione sul tema, governo e opposizioni hanno cercato di tamponare la crisi mediatica con una serie di raffazzonati provvedimenti.

Provvedimenti all’acqua di rose, che non tengono conto di innumerevoli fattori di rischio e innumerevoli vuoti educativi nelle proposte governative.

Nella fretta di mettere una toppa che accontentasse tutti, soprattutto associazioni cattoliche e antiabortiste, linfa vitale di questo Governo insieme ai partiti-satellite di stampo fascista, il disegno previsto da Valditara sull’educazione scolastica sul tema sembra infatti più una presa per il culo che una misura di contrasto.

Mentre infatti associazioni e fondazioni ribadivano l’urgenza di finanziamenti mirati e costanti, educazione al consenso fin dalle scuole primarie e un’educazione sessuale esaustiva e duratura negli anni delle secondarie, formazione a tappeto di magistratura e forze dell’ordine, collaborazione territoriale con le scuole e il personale sanitario, il Ministro dell’istruzione e del merito congiuntamente a Roccella e Sangiuliano stabiliva un pacchetto di provvedimenti a dir poco bizzarri.

Le iniziative rivolte dai tre al mondo della scuola per contrastare la violenza sulle donne sono infatti riassumibili come una bellissima supercazzola di trenta ore facoltative ed extracurricolari solo per studenti e studentesse delle scuole superiori secondarie. In queste trenta ore, se svolte e se partecipate, il tema della violenza e del consenso verrebbe moderato – non introdotto: moderato. Gli incontri infatti non sono lezioni bensì confronti, in cui è dunque possibile dibattere e opinare la materia, come se fosse una pagina di costume e non un tema socioculturale – da docenti assolutamente non formati sull’argomento.

Ma attenzione, per ovviare alla mancata preparazione del corpo docente sul tema, sono previsti corsi di formazione per renderli adeguati a poter trattare l’argomento con alunni e alunne: in pratica, una partita di domino in cui tutti insegnano qualcosa a qualcuno.

Considerando la precarietà di chi lavora nella pubblica istruzione, la poca sicurezza sul lavoro, le graduatorie, i dislocamenti e la mole di responsabilità che già i docenti si trovano ad avere, dare loro un altro fardello mi sembra incauto quanto naïf: pensate infatti a cosa potrebbe succedere a un insegnante che tocca temi ritenuti scomodi e sporchi dalla stragrande maggioranza delle famiglie italiane. Non mi pare così assurdo poter pensare a ritorsioni e minacce da parte dei genitori (se non vere e proprie violenze fisiche, come già avvenuto fin troppe volte), allontanamenti, provvedimenti delle dirigenze. Insomma, in una situazione già precaria e pericolosa, forse prevedere una figura super partes ed esterna al corpo docenti poteva essere la soluzione migliore su tutti i fronti. Ma lo sappiamo: i soldi sono soldi, e se possiamo risparmiare sulla qualità dei servizi offerti allora perché no. 

Non solo: a inizio progetto, Valditara aveva designato tre garanti per poterlo sviluppare sul territorio ovvero Concia, Zerman e suor Monia Alfieri. Tralasciando la parte transescludente e sicuramente la poca oggettività nel parlare di sesso da parte del clero, la democristianità della proposta è stata troppa un po’ per chiunque e le nomine sono decadute in meno di due giorni.

Valditara, dopo questo ennesimo scivolone, per riacchiappare un po’ di consenso con i suoi si è affrettato a dichiarare che l’educazione prevista dal suo disegno non sarebbe stata sessuale, neanche di genere. Il programma sarebbe infatti deputato solo all’educazione nei comportamenti verso le donne (quali? aprirci la portiera? ribadire che le donne non si toccano neanche con un fiore? chissà).

Così facendo ha rassicurato sì una parte dei suoi sostenitori, ma ci ha anche fatto capire che di violenza sulle donne e contrasto alle sue manifestazioni Valditara non ha proprio capito una benamatissima mazza.

O, nel caso invece avesse compreso la natura del fenomeno, ha deciso di sacrificare la sua risoluzione alle dinamiche di fidelizzazione ideologica degli elettori, delle associazioni ultraconservative e del partito. E questo, a mio modesto avviso, se dovesse essere il vero motivo alla base di questa infelice scelta, sarebbe ancor più mortificante.

Infatti l’educazione sessuale e di genere, l’educazione al consenso, l’educazione al superamento degli stereotipi connessi al binarismo e alla lotta all’omolesbobitransfobia non sono scindibili e sono un pacchetto che non può essere scorporato per accontentare i fanatismi cattolici di una parte di fedelissimi di Lega e FdI. 

La formazione deve necessariamente passare per un sano dialogo sul sesso, che invece sembra far davvero paura a questa coalizione di Governo, che arrossisce ogniqualvolta qualcuno proponga qualche strumento utile per aiutare i giovani ad autodeterminare i propri corpi.

Eppure niente da fare: di ciulare, questo Governo non ne vuol sentire proprio parlare.

Perciò il programma operativo complementare (POC) previsto dalla triade Valditara-Roccella-Sangiuliano non può considerarsi un programma di prevenzione ed educazione.

Il governo però non si è fermato nel cavalcare l’onda rosa che avrebbe potuto portar altri consensi: il ministro Nordio, preoccupato e angosciato dai numeri della violenza di genere, ha infatti pensato di partecipare alla campagna di prevenzione con la creazione di un volantino.

Non un pamphlet, non una pubblicità progresso, non un intervento strutturale: un volantino, ovvero l’oggetto meno consultato e più cestinato del mondo.

Il vademecum – come lo chiamano al Ministero – dovrebbe riassumere i fattori di rischio e vulnerabilità per permettere alle donne di comprendere la tossicità delle relazioni. Gli uomini in questo non sono pervenuti, ma tant’è, dopotutto su un volantino mica c’è così tanto spazio.

Le linee-guida inserite nel dépliant fornirebbero dunque elementi importanti per capire la gravità di un rapporto violento e avere una diagnosi ufficiale: «Come la tosse e la cefalea: spesso non significano nulla ma talvolta possono derivare da una malattia grave, ma curabile» precisa il Ministro al Sole 24Ore. 

Diametralmente a questi due progetti, il governo però ha pensato di inasprire le leggi del Codice Rosso, ovvero tutto quel pacchetto di tutele del nostro codice che servono a garantire pene per chi ha già commesso violenza senza tuttavia essere in grado di prevenirla: difatti, se non è la cultura a cambiare, la legge da sola non potrà fare miracoli nel contrastare questi episodi di bronchite o emicrania, sempre per proseguire con il bizzarro parallelismo di Nordio.

L’opposizione, in questo caos di proposte sconclusionate e formulate in tempi ristrettissimi per cercare di cavalcare l’onda ma dimenticandosi la qualità, e soprattutto la complessità, del tema da sanare, è entrata nel merito della lotta alla violenza sulle donne con una proposta, poi entrata in legge di bilancio, per allocare 40 milioni alla causa, a fronte degli usuali 30 disposti dalle precedenti manovre.

Ma come sottolinea Antonella Veltri, presidente di DiRe, e anche le voci dei CAV indipendenti dalla rete, la somministrazione di questi fondi non solo è momentanea e non sufficiente: è anche frammentaria, vista la poca ottemperanza delle Regioni nella redistribuzione e nelle tempistiche infinitamente variabili. In più, prosegue Veltri, queste risorse non strumentali costringeranno di nuovo i centri antiviolenza a programmare le proprie azioni alla giornata e continuare a far affidamento a donazioni private e non governative.

Insomma, la situazione sul tema della violenza maschile contro le donne a oggi (14 gennaio, giorno in cui scrivo questo mio pezzo) non è assolutamente cambiata e non accenna a migliorare.

Anzi, se possibile da un lato sta perfino peggiorando.

Mentre le donne continuano a morire (da inizio anno le vittime di femminicidio sono già cinque: Elisa Scavone, Ester Palmieri, Delia Zarniscu, Maria Rus, Rosa D’Ascenzo), si rafforza la retorica per cui la prevenzione sia sopravvalutata e si ribadisce una noncuranza delle voci di chi, nel contrasto alla violenza sistemica contro le donne, ci lavora con serietà, preparazione e dedizione.

Credere che chiunque possa scrivere o parlare di violenza di genere è paradossale, ma questa prospettiva è ben radicata: dai talk d’opinione in cui chiunque può dire la propria senza aver studiato il fenomeno a politici che rinnegano il patriarcato senza dunque poter garantire alcuna protezione alle donne.

La violenza di genere è un tema complesso e radicato, difficile da individuare e non arginabile con un volantino, trenta ore facoltative, emissione di fondi una tantum e leggi che intervengono solo quando è spesso troppo tardi.

La violenza maschile contro le donne deve tenere soprattutto conto della questione di genere, della questione di classe, del razzismo, dell’educazione sessuale, di quella al consenso e di quella sentimentale.

Non possiamo dare contentini cavalcando l’indignazione del momento, perché questo non salverà la vita a nessuna donna. 

Queste goffe mobilitazioni servono solo a cercare consenso. E non appena l’onda emotiva si sarà placata, le donne continueranno a morire in silenzio.

E chi ha invece pensato di essere risolutivo con un progetto che fa acqua da tutte le parti continuerà a dormire sogni tranquilli, acclamato dai partiti-satellite e dai fedelissimi di coalizione.

Nessuno scacco matto in questa storia, solo un ennesimo stanco tassello che ci ricorda quanto in Italia la vita delle donne valga un volantino, delle ore facoltative e 40 milioni.

E questo, in soldoni, vuol dire di nuovo una cosa soltanto:
Ognuna si salvi come può.
Ognuna si salvi da sola.

ARTICOLO n. 103 / 2023

L’ANNO DEL NOSTRO SCONTENTO

L’anno del nostro scontento sembra essere durato solo tre mesi. Una corsa furiosa, in cui ho come l’impressione non ci siano stati grandi momenti di respiro o pura, semplice felicità collettiva: ogni evento, anche piacevole o festoso, si portava dietro un retrogusto amaro che non lasciava spazio alla serenità. Un anno di lutto e rabbia, di conti e preoccupazioni, di silenzi e rumore, di distrazioni di massa e ansie soffocanti.

Gennaio si apre con l’arresto di Matteo Messina Denaro, boss superlatitante di Cosa Nostra sparito per trent’anni e ritrovato in coda in una clinica per sostenere delle analisi. Se da un lato la gioia per aver catturato un assassino a capo di una delle più grandi associazioni di stampo mafioso del mondo è ovviamente irrefrenabile, il vedere così chiaramente che la mafia sia viva, vegeta e funzionante e che la sua omertà sappia ancora nascondere killer come Messina Denaro ha fatto subito pensare che, forse, tutto questo entusiasmo il 2023 non ce lo avrebbe regalato.

Nelle sezioni di cronaca nera, i primi sette femminicidi dell’anno hanno iniziato ad allarmare una grande fetta di società, tra addette ai lavori della prevenzione e risoluzione della violenza di genere e comuni cittadine – il femminile non è casuale. Le donne che hanno perso la vita per mano maschile a gennaio si chiamavano Giulia Donato, Martina Scialdone, Oriana Brunelli, Teresa di Tondo, Yana Malayko, Alina Cozac, Giuseppina Faiella.

A febbraio, mentre la Turchia e la Siria vengono devastate dal terremoto peggiore del secolo, il mondo compiva un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina.

In Italia nel frattempo facciamo i conti con la manifestazione nazionalpopolare più importante della penisola: Sanremo. Pensando di assistere a uno spettacolo di musichette mentre fuori c’è la morte (citando Willie Peyote e Boris a sua volta, sempre su quello stesso palco ma tre anni prima), non sappiamo ancora quanta retorica e cattiva politica verrà fatta nei mesi a seguire su un bacio tra due uomini. 

Mentre ascoltiamo i deliri di Pillon e Adinolfi su Rosa Chemical, il 18 febbraio un commando fascista appartenente a Cassaggì pesta, davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, degli studenti. La preside Savino, dirigente scolastica di un altro istituto fiorentino, diventerà involontariamente antagonista politica di Salvini per aver difeso i valori antifascisti della nostra Costituzione.

Il 26 febbraio a Cutro un barcone con 180 migranti naufraga a pochi metri dalla costa. I morti saranno ufficialmente 94, i dispersi 11. La proposta di un DDL violento e discriminante emesso in seguito alla strage – evitabilissima – avvenuta sulle coste calabresi ci ricorda quanto per il governo alcune vite siano di serie B.

Le donne uccise in femminicidio nel mese di febbraio si chiamavano Margherita Margani, Antonia Vacchelli, Michelle Baldassarre, Melina Marino, Santa Castorina, Stefania Rota, Cesina Damiani, Chiara Carta, Maria Luisa Sassoli, Rosina Rossi, Sigrid Gröber, Giuseppina Traini.

A marzo, e dopo un lungo sciopero della fame, Alfredo Cospito ha ricordato, in una lettera aperta, di quanto il carcere e il 41bis siano diversi in base a chi se li becca.

Continuano le morti nel Mediterraneo, ma in Italia siamo impegnati a multare chi non usa prodotti Made in Italy nei ristoranti all’estero.

L’otto del mese lo sciopero organizzato da Non Una di Meno contro la violenza di genere scende in trentasette piazze italiane. Intanto, Pro Vita e Famiglia, associazione antiabortista protetta da FdI, affigge manifesti contro l’autodeterminazione dei corpi con utero in diverse città del Centro-Nord. 

Le proteste degli attivisti per il clima di Ultima Generazione fanno impazzire mezza Italia ma non per il motivo giusto: nessuno li ascolta, hanno tutti paura della vernice e nessuno ha paura di un pianeta al collasso. Le pene contro di loro aumenteranno nel corso dell’anno, a dismisura. Per chi balla ai rave e per chi vuole un mondo migliore il rischio è fino a sei anni di carcere.

Le donne uccise per femminicidio nel mese di marzo sono quattordici. I loro nomi erano: Rosalba Dell’Albani, Iolanda Pierazzo, Iulia Astafieya, Rossella Maggi, Petronilla De Santis, Rubina Kousar, Maria Febronia Buttò, Pinuccia Contin, Maria Bella, Francesca Giornelli, Agnese Oliva, Zenepe Uruci, Carla Pasqua, Alessandra Vicentini.

Aprile si apre con le preoccupazioni politiche sulla figura dell’armocromista nello staff di Elly Schlein, mentre in Italia si registra il calo più pesante degli stipendi da dipendente degli ultimi quattordici anni. 

Viene presentata la Venere influencer, nuova musa di Santanché e del Ministero del Turismo: costata nove milioni, ha il pregio di esser stata l’operazione di pubblicità al nostro paese più brutta mai realizzata.

Lega e FdI strumentalizzano una violenza sessuale avvenuta il 25 aprile ai danni di una minorenne, in quella che sembra essere una campagna elettorale mai terminata.

Il Dalai Lama bacia un bambino, scoppia lo scandalo ma nessuno ne parla più dopo qualche giorno.

Spopola il “Caso Enea” su giornali, social e TV: il bambino dato in affidamento alla Culla per la vita dell’ospedale Mangiagalli attira le attenzioni morbose di stampa e politica; è caccia alla madre, è tutto un mangiare sui diritti delle donne.

Ma non è l’unica caccia di quel periodo: dopo la morte di Andrea Papi, per Ministri, Presidenti di regione e politici random è fondamentale trovare e uccidere l’orsa JJ4. Il TAR di Trento ne sospenderà l’abbattimento a maggio.

Lollobrigida parla pubblicamente di sostituzione etnica.

La Russa dichiara che l’antifascismo non sia previsto dalla nostra Costituzione.

Da gennaio sono 358 i morti sul lavoro.

Le donne uccise per mano maschile nel mese sono: Emanuela Candela, Sara Ruschi, Brunetta Ridolfi, Rosa Gigante, Anila Ruci, Stefania Rota, Barbara Capovani, Wilma Vezzaro.

Maggio inizia con una copertina di Panorama sulla sostituzione etnica annunciata da Lollobrigida il mese precedente. Intanto, il Presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, assume l’ex-terrorista nero Marcello De Angelis alla comunicazione della Regione. 

Saviano vince in tribunale contro Sangiuliano ma iniziano i lavori di un altro processo che lo vedrà come imputato. Chi lo denuncia per diffamazione è la Presidente del Consiglio.

Iniziano gli attacchi alle vecchie direzioni Rai: Andrea Vianello viene preso di mira per una foto che non avrebbe commentato con prontezza durante un giornale radio. A fine mese, il nuovo CDA lo spedirà in esilio a San Marino, dove il giornalista sta continuando a fare ciò che da sempre fa: ottima informazione.

Le emittenti televisive e le radio pubbliche iniziano a cambiare drasticamente forma, annullando quasi tutte le voci ritenute scomode: Saviano si vedrà cancellato un programma sulla camorra già registrato; Annunziata, Fazio, Bortone, Augias e Gramellini lasciano la Rai. Radio1 non vedrà riconfermati i palinsesti de Il mondo nuovo e Forrest: nessuno tra autori e conduttori ne ha mai avuta notizia diretta dalla nuova Presidenza.

Nelle scuole iniziano a manifestarsi saluti romani in modo spontaneo. 

Barbareschi annuncia su Repubblica che le donne che denunciano abusi nel mondo dello spettacolo sono in cerca di notorietà. 

Lega e FdI si astengono dal voto di adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul.

L’Emilia-Romagna vive una delle alluvioni peggiori del secolo; la ricostruzione del territorio colpito è ancora in corso.

Viene dato il primo Sì alla Camera per il progetto del ponte sullo Stretto.

Roccella contestata al Salone del Libro parla di censura nei suoi confronti, mentre la Digos trascina via e scheda manifestanti pacifici.

Bruna, una donna trans di 41 anni, viene brutalmente pestata dalla polizia locale di Milano. 

Le donne uccise in femminicidio nel mese di maggio sono: Antonella Lopardo, Rosanna Trento, Danjela Neza, Jessica Malaj, Stefania Monte, Anica Panfile, Yirel Natividad Peña Santana.

Giugno comincia con il femminicidio di Giulia Tramontano, giovane donna incinta uccisa dal compagno. La destra cercherà – e cerca ancora – di strumentalizzare questa morte per far passare una legge in cui è previsto il riconoscimento giuridico del feto; legge devastante per l’autodeterminazione e accessibilità alla 194, che in questo 2023 viene messa costantemente a dura prova. La reazione al femminicidio di Tramontano è molto forte: qualcosa si rompe nella collettività e trasversalmente la violenza di genere diventa un tema urgente. 

Oltre a Giulia Tramontano, nel mese di giugno troveranno la morte per mano maschile anche Ottavina Maestripieri, Pierpaola Romano, Giuseppina De Francesco, Marianna Formica, Maria Brigida Pesacane, Floriana Floris, Cettina De Bormida, Rosa Moscatiello, Svetlana Ghenciu, Margherita Ceschin, Laura Pin, Patrizia Netti, Maria Michelle Causo.

A Pavia un ragazzo gay viene minacciato e insultato davanti a una folla inerme.

A Verona vengono arrestati cinque poliziotti per torture e pestaggi avvenuti in caserma.

La Regione Lazio revoca il patrocinio al Pride di Roma. Regione Lombardia a quello di Milano. 

Lavoratori e lavoratrici di Mondo Convenienza avviano uno sciopero per l’applicazione completa e immediata del contratto nazionale di categoria del settore logistica che durerà 160 giorni, condito di sgomberi e molti manganelli. 

Noi parliamo solo, sempre, ovunque della diatriba Fedez/Luis Sal e del limone in discoteca del cantante dei Måneskin. 

Muore Silvio Berlusconi: viene annunciato lutto nazionale. 

Trump viene messo in stato di fermo.

In Italia esplode lo scandalo delle agenzie di comunicazione: abusi, molestie e chat dell’orrore nel mondo dei creativi. Nessuno dei responsabili viene allontanato.

A Padova vengono impugnati dalla Procura 33 atti di nascita di figli con due madri: è l’inizio della definitiva cancellazione delle già poco tutelate famiglie omogenitoriali.

Luglio si presenta con l’uccisione in Francia di un diciassettenne di origini algerine da parte di un poliziotto in quello che, ripreso dalle fotocamere dei telefonini, è un chiaro abuso di potere. Si avvia una raccolta fondi per il poliziotto che, in poche ore, raggiunge il milione e mezzo. In questa ondata europea di razzismo e islamofobia (in Svezia vengono bruciate copie del Corano), gli sbarchi in Italia raggiungono i dati più elevati dal 2017. Le morti in mare, da inizio anno, ammontano a più di 2.000. Nei CPR della penisola la condizione delle persone migranti è ormai disumana e le violenze salgono quotidianamente.

A Limbiate viene annullato un evento – privato – per donne musulmane in una piscina – privata – dopo pressioni da parte della Lega. 

Diventa pubblica la notizia della denuncia per stupro contro il figlio del Presidente del Senato, Leonardo La Russa. Tra le dichiarazioni di Ignazio La Russa, immunità di rimando e SIM intestate al padre, il malcontento legato a un comune senso di ingiustizia si diffonde rapidamente. La ragazza che denuncia la violenza sessuale verrà ricoperta di insulti e vittimizzazione secondaria, soprattutto in fase processuale.

Iniziano ad avere copertura mediatica tutta una serie di sentenze-horror su reati di violenza contro le donne: palpeggiamenti cronometrati, grassofobia, donne ridicolizzate.

Il Governo si dimentica di chiedere la quarta rata del PNNR. Verrà sbloccata in novembre grazie alla Commissione UE.

Il caldo record raggiunto nel mese di luglio viene sottovalutato da giornali di destra ed esponenti del Governo. 

Muore Andrea Purgatori a causa di una malattia fulminante. I No Vax incolpano i vaccini per il Covid.

Viene liberato, dopo quasi tre anni di carcere, Patrick Zaki. Rifiuta il volo di Stato per il rimpatrio: verrà attaccato per questa sua scelta dalla politica e dall’opinione pubblica.

Esce il film Barbie: comitive di donne di tutte le età invadono i cinema, rendendolo il blockbuster-simbolo dell’estate. La critica maschile lo stronca e infantilizza il fenomeno.

Le donne uccise in femminicidio sono Giuseppina Caliandro, Ilenia Bonanno, Benita Gasparini, Mariella Marino, Norma Ricini, Vera Maria Icardi, Marina Luzi, Angela Gioiello, Mara Fait, Sofia Castelli.

Ad agosto il dibattito pubblico si concentra ancora su Barbie

La Sicilia e il Sud Italia vivono momenti di terrore con incendi dolosi su gran parte del territorio: bruciano quasi 60.000 ettari; le influencer fanno foto dalle loro barche sorridendo. Al Nord la grandine devasta interi territori. Meloni chiama il fenomeno “imprevedibile”, non “crisi climatica”.

Salvini promuove un protocollo per l’uso dei taxi gratis fuori dalle discoteche: è un flop.

Portanova, condannato in primo grado a sei anni per stupro, viene riammesso in campo dalla Reggiana.

Il 10 agosto muore Michela Murgia, lasciando un vuoto incolmabile. Il funerale a Roma vede centinaia di persone in piazza del Popolo per l’ultimo saluto all’intellettuale femminista più preziosa degli ultimi anni.

Viene abolito il reddito di cittadinanza. Secondo i dati ISTAT un quarto della popolazione italiana è a rischio di povertà ed esclusione sociale.

La Venere influencer del Ministero del Turismo riappare sui social ricordandoci che quei nove milioni per il progetto non sono stati buttati: ogni tanto qualcuno spippola sul profilo Instagram della campagna Open to meraviglia.

Due violenze sessuali particolarmente feroci segnano il mese di agosto: lo stupro di gruppo di Palermo e quello di Caivano. In seguito a questi eventi ci saranno passerelle politiche, strumentalizzazioni televisive in Rai della sopravvissuta palermitana, dichiarazioni sessiste di Giambruno e Meloni, ondate di maschilismo nell’opinione pubblica.

Il libro autopubblicato del generale Vannacci, un bignamino di orrore anti LGBTQ+, sessista e razzista, chiamato Il mondo al contrario, spopola nelle vendite.

Il mugshot di Trump sotto arresto diventa virale.

Le donne morte di femminicidio sono Iris Setti, Maria Costantini, Celine Frei Matzohl, Anna Scala, Vera Schiopu.

Settembre 2023 è stato il mese più caldo di sempre secondo il bollettino di Copernicus.

Nel testo, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, del decreto Cutro emerge la possibilità per alcuni migranti di versare 5.000 euro per evitare le attese nei CPR. A Catania il tribunale reputa questo decreto illegittimo. Inizierà una massiccia opera di diffamazione da parte di Salvini e della Lega contro la giudice Apostolico, che non ha confermato il fermo di quattro migranti nella struttura di Pozzallo.

Caos in seguito allo spot Esselunga sulla famosa pesca. Ne parlano tutti, pure la Premier.

Muore Matteo Messina Denaro, sui social esplode il cordoglio per il boss camorrista.

Al rifugio Cuori Liberi, i maiali ospitati e isolati causa malattia vengono uccisi dalla polizia. I manifestanti, presenti per evitare la soppressione, vengono caricati e portati in questura. 

Crippa, vicesegretario del Carroccio, attacca Christian Greco, direttore del museo egizio di Torino, perché lo ritiene “razzista contro gli italiani”.

La Corte Costituzionale sblocca il processo Regeni.

Sempre a Torino, la polizia carica violentemente una manifestazione di studenti e studentesse scesi in strada per contestare la visita in città di Meloni. «Basta, hanno rotto il cazzo», dice il dirigente di polizia prima di dare l’ordine di manganellare.

Le donne uccise in femminicidio sono tredici e si chiamavano Rossella Nappini, Marisa Leo, Nerina Fontana, Cosima D’Amato, Maria Rosa Troisi, Rosaria Di Marino, Liliana Cojita, Manuela Bittante, Anna Elisa Fontana, Monica Berta, Carla Schiffo, Klodiana Vefa, Egidia Barberio.

Ottobre si apre con il violento attacco terroristico di Hamas al rave party israeliano, in cui vengono uccisi 260 partecipanti. Quel 7 ottobre le vittime israeliane – secondo le ultime stime – saranno 1.200.

L’assalto darà avvio a un rapido e brutale inasprimento del conflitto che, in due mesi e mezzo, porterà il genocidio del popolo palestinese a una terrificante impennata: in due mesi Israele sgancerà più di 12.000 bombe sulla Striscia di Gaza, uccidendo più di 20.000 civili e commettendo crimini di guerra reiterati nel silenzio più totale del nostro paese, che si astiene in due votazioni ONU sul cessate il fuoco. 

I morti sul lavoro salgono a 657 da inizio anno, ma noi sui social litighiamo per le influencer, che nel frattempo diventano sempre più ricche.

Un TikToker bolognese di 23 anni si toglie la vita in diretta social. Molti utenti riprendono la scena e la vendono a siti del dark web per ricavarci denaro.

Nella legge di bilancio compare il bonus secondo figlio, fortemente voluto da Meloni: le donne con due o più figli non pagano contributi a carico del lavoratore perché avrebbero già ampiamente “contribuito alla società”. Come? Figliando. Le altre? Fanculo.

Meta inizia a censurare la parola Palestina e oscurare contenuti provenienti da Gaza. 

Giorgia Meloni pubblica un post social per annunciare la rottura con Giambruno in seguito alle intercettazioni mandate in onda da Striscia che ritraggono il giornalista in atteggiamenti riconducibili a molestie sul posto di lavoro. 

La Lega si oppone alle proposte di corsi di educazione sessuale e affettiva nelle scuole.

Le donne morte di femminicidio sono Anna Malmusi, Piera Paganelli, Eleonora Moruzzi, Silvana Aru, Concetta Marruocco, Marta Di Nardo, Antonella Iaccarino, Giuseppina Lamarina, Pinuccia Anselmino, Annalisa D’Auria, Etleva Kanolija. 

Novembre è stato un mese di rabbia manifesta.

In Avanti Popolo, trasmissione condotta da Nunzia de Girolamo, viene intervistata la sopravvissuta allo stupro di gruppo di Palermo. La puntata è un ricettacolo di vittimizzazione secondaria e luoghi comuni pericolosi. In una lettera aperta alla Rai, sottoscritta da centinaia di associazioni, scrittrici, attiviste, avvocate e volontarie di CAV, viene chiesta adesione alle direttive di viale Mazzini in merito alla narrazione della violenza contro le donne e allineamento alla Convenzione di Istanbul.

In Toscana un’alluvione colpisce Campi Bisenzio, Prato e parte della Piana. I soccorsi faranno affidamento in gran parte alle brigate volontarie, molte coordinate dal collettivo fabbrica GKN. Nel frattempo, mentre con l’alluvione in Emilia le voci social si erano esposte e avevano contribuito ad aiutare le popolazioni colpite nell’eliminazione dei detriti dalle case, su Instagram si parla del botox delle influencer. In particolare, crea molta indignazione l’uso della tossina botulinica per ridurre l’ipertrofia del massetere.

Il 12 novembre scompare a Vigonovo Giulia Cecchettin. Con lei sparisce anche Filippo Turetta, ex-fidanzato. Gino Cecchettin, padre di Giulia, chiede che nella denuncia per la scomparsa della figlia non venga segnalato l’allontanamento volontario, in quanto testimoni avrebbero assistito a una lite violenta in un parcheggio di Vigonovo tra Turetta e Cecchettin. La denuncia viene ascritta dalla polizia di Vigonovo come allontanamento volontario. Questo impedirà le perquisizioni in casa Turetta per altri sei giorni. Tutta Italia sapeva già l’epilogo tragico, confermato il 18 novembre con il ritrovamento del corpo della giovane. Turetta verrà arrestato in Germania il giorno successivo. La rabbia per questo femminicidio esplode nel paese, con manifestazioni in tutte le città e una partecipazione massiccia al raduno nazionale organizzato da Non Una di Meno a Roma il 25 del mese. Politica e opinione pubblica prendono di mira Gino ed Elena Cecchettin che, per la prima volta dopo tanti anni, parlano in TV di patriarcato e cultura del possesso. L’onda di violenza che travolge la famiglia non si ferma neanche davanti al lutto.

Il Governo inizia a pensare a delle soluzioni del fenomeno endemico della violenza maschile contro le donne. Vengono proposte 30 ore annuali di educazione affettiva facoltative previo consenso dei genitori e solo per le superiori, un opuscolo, e nuove proposte di legge che di prevenzione non dicono niente. Il dibattito sul tema si fa caldo, molti politici e intellettuali di sesso maschile urlano dalle televisioni che il patriarcato non esiste. Libero titola un suo numero Caccia al maschio.

Lollobrigida ferma un treno Frecciarossa per scendere a Ciampino.

Un po’ chiunque se la prende con la musica trap.

Salvini precetta la qualunque – semicit. de Il Manifesto.

Le donne uccise per mano maschile nel mese di novembre, oltre a Giulia Cecchettin, sono: Michele Faiers Dawn, Virginia Petricciuolo, Patrizia Vella Lombardi, Francesca Romeo, Rita Talamelli, Meena Kumari, Vincenza Angrisano.

Dicembre è il mese dei resoconti e dei pandori. 

L’Antitrust multa Chiara Ferragni per la truffa Balocco, relativa alla vendita di pandori brandizzati dalla influencer. La comunicazione faceva capire che il ricavato sarebbe andato in beneficenza per i bambini malati di tumore, in realtà era un’adv per la quale Ferragni ha percepito un milione di euro. 

Ad Atreju Meloni attacca Saviano, accusandolo di essersi arricchito grazie alla Camorra, e procede a individuare nuovi nemici immaginari: raver, immigrati, intellettuali, influencer.

Salvini difende Roggero, condannato per l’esecuzione – con un revolver detenuto senza permesso – di due ladri fuori dalla sua gioielleria. Anche il generale Vannacci gli dimostrerà solidarietà.

Al funerale di Giulia Cecchettin il padre Gino fa un discorso meraviglioso sulla responsabilità collettiva verso la violenza di genere. Verrà strumentalizzato e attaccato da più lati.

Durante il processo per lo stupro di gruppo contestato a tre imputati tra cui Ciro Grillo, l’avvocata Cuccureddu interroga la denunciante ponendole domande ricolme di vittimizzazione secondaria. Si giustificherà dicendo che non è possibile costringere una donna a praticare un rapporto orale non consensuale. 

Mentre ci occupiamo ormai solo di pandori, prosegue lo sciopero nazionale di medici e veterinari che si oppongono a una manovra di Governo killer verso il Sistema Sanitario Nazionale e chiedono nuove assunzioni e rispetto per la professione. 

Nel frattempo, prosegue la protesta degli studenti universitari per il carovita, iniziata a maggio: tutti gli emendamenti fatti pervenire su borse di studio, fondo affitti e alloggi universitari sono stati bocciati in manovra.

Quaranta sono i milioni previsti dalla legge di bilancio destinati ai centri antiviolenza: non sono, nuovamente, fondi strutturali, e rischiano di essere persi nelle distribuzioni regionali e figurare come un intervento una tantum.

Le donne morte di femminicidio fino al 22 dicembre, ovvero il giorno in cui sto scrivendo questo lungo pezzo, sono: Rossella Cominotti, Fiorenza Rancilio, Vanessa Ballan, Iride Casciani.

La selezione delle notizie che ho scelto e inserito – e sottilmente commentato – in questo mio articolo è a mio avviso emblematica nel raffigurare l’anno appena trascorso, o meglio: l’emotività che ci accompagna verso l’ingresso nel 2024.

Tra eventi internazionali devastanti come il genocidio palestinese, politiche interne divisive e polarizzanti, cronaca sempre più morbosa e distrazioni di massa, mi pare evidente che il clima che ci avvolge non sia dei migliori.

Sottovalutare il rischio di queste continue tensioni è un danno che temo si manifesterà ampiamente nel corso del prossimo anno.

La politica del divide et impera non funziona, abbiamo dei precedenti storici che lo dimostrano chiaramente. E la continua necessità del Governo di trovare nemici per dimostrare onore (molti nemici, molto onore, diceva qualcuno nel ventennio fascista) è un altro metodo fallimentare: non ci sono nemici tra quelli scelti in questi mesi dagli esponenti di partito o dai DDL emessi; ci sono cittadini e cittadine i cui diritti dovrebbero essere tutelati e ampliati, altrimenti il nostro scontento diventerà violenza. 

E con la violenza nessuno è al sicuro, soprattutto la nostra democrazia.

Mi pare chiaro che ci attenderanno anni difficili, per chi lavora e non viene pagato decorosamente, per chi sciopera e viene manganellato, per chi vuole avere libertà di dissentire o semplicemente vuole vedersi riconosciuti diritti sui propri corpi e le proprie famiglie.

L’anno del nostro scontento non ha colore partitico: siamo tutte e tutti in questo limbo di tensione, come nell’attimo di quiete che precede la tempesta.

Il mio augurio è che chi ci governa intercetti in tempo questa escalation di tensione e faccia i doverosi ragionamenti sulla comunicazione politica scelta.

Perché odio chiama odio, specialmente in un paese stanco, affamato e arrabbiato come il nostro.

Ma se la decisione, come ahimè mi sembra, è quella di portare avanti proprio politiche d’odio, allora tenetevi in forma: il 2024 sarà un anno movimentato.

ARTICOLO n. 83 / 2023

ELLIS, L’ULTIMO SCRITTORE POST-PUNK IN UN MONDO DI DEMOCRISTIANI

Il 17 gennaio scorso mi sono svegliata e, come prima cosa, ancora distesa nel mio letto, ho afferrato il telefono e ho ordinato il libro che aspettavo da tredici anni: The Shards, di Bret Easton Ellis.

Ho atteso questo romanzo per più di una decade, con l’ansia di chi ha una vera e propria ossessione per qualcosa o qualcuno, e mi sono subito lanciata nella lettura dell’opera in lingua originale.

Ho dovuto mordermi la lingua per mesi perché molte persone intorno a me attendevano la sua traduzione in italiano e non volevano spoiler sulla trama e sulla riuscita o meno di questo attesissimo romanzo. L’attesa è finalmente giunta al termine e io posso quindi svuotare il sacco.

Uscito la settimana scorsa in Italia per Einaudi (che ha acquisito i diritti su tutta la sua produzione precedente) con il titolo Le schegge e nella traduzione di Giuseppe Culicchia (che ha magistralmente tradotto tutto Ellis a partire da American Psycho: i due libri precedenti ovvero Meno di zero e Le regole dell’attrazione sono stati tradotti, in ordine, da Marisa Caramella e Francesco Durante), il libro è stato annunciato dalla casa editrice con un mini-tour italiano che toccherà Firenze e Torino. 

Come è ormai prassi, Einaudi ha affidato la promozione sui giornali e nelle presentazioni con l’autore a un parterre di scrittori tuttiuominisullasessantina: prassi di una rassicurante democristianità, forse troppa, decisamente troppa per accompagnare quello che è forse l’autore più elegantemente post-minimalista, irriverente e scorretto della nostra contemporaneità.

Ma le cose qui da noi vanno così: giochiamo sul sicuro anche con chi, sul sicuro, non ha mai amato sostare. Ed Ellis questo ce lo ha sempre dimostrato, in tutta la sua produzione letteraria.

Dopo un’attesa lunghissima intervallata dal saggio Bianco, che sembrava quasi opera di uno dei suoi personaggi più caricaturali, Ellis è tornato alla narrativa con un lungo libro sull’adolescenza senza però essere a tutti gli effetti un romanzo di formazione in senso stretto. Anzi, forse ne è tutto il contrario.

Le schegge è il racconto fittizio del giovane Bret (Easton Ellis) nella Los Angeles del 1981 durante l’ultimo anno del liceo privato Buckley.

È una sorta di mockumentary: una – in parte – falsa documentazione della sua vita, così come lo era stato Lunar Park nel 2005, e una storia in salsa horror tenute insieme da un elemento di tensione narrativa che qui ha un nome e un cognome ben precisi, ovvero il misterioso personaggio di Robert Mallory.

Intorno alle vite dei giovanissimi protagonisti, narrati da Bret in prima persona e al tempo passato – Ellis nel prologo e nella conclusione ci racconta in una cornice come abbia impiegato più di vent’anni a trovare il coraggio e la serenità giusta per scrivere questa storia – si svolge una carneficina a opera di un serial killer più brutale e sadico perfino di Patrick Bateman: The Trawler, in italiano riportato come “il pescatore a strascico”.

Dopo questa scia di omicidi e questo ultimo anno di liceo, le vite dei personaggi, e quella di Bret in primis, non saranno più le stesse.

Sarebbe stupido quanto democristiano – e qui vi posso assicurare che non lo siamo – pensare a questo come a un romanzo di formazione o un romanzo della maturità emotiva dell’autore.

Ellis infatti qui non ci vuole infatti insegnare niente. Però ci regala una cosa preziosissima: un prequel.

In filmografia, il prequel indica una pellicola che, nonostante sia fatta uscire per ultima in ordine cronologico rispetto alle precedenti, affronta gli antefatti di quella che sarà poi tutta la produzione successiva del suo ciclo.

Le schegge fa proprio questo: mette in ordine la storia della storia letteraria di Bret Easton Ellis.

Lo si capisce subito dallo sguardo dell’autore che, per la prima volta, è affezionato ai personaggi, prova affetto e pena per loro, ha uno sguardo di parte, fraterno, umano. E ne racconta le emozioni, ancora pure, ancora vive, ancora piene di speranza seppur già permeate dalla patina di quella che è la vera protagonista della produzione di Ellis: la noia, ovvero la sensazione più violenta che possa esistere.

Ellis ne Le schegge ci descrive un mondo precedente alla perdita delle illusioni, un mondo ancora non del tutto corrotto dalle promesse non mantenute, la noia della ripetitività, della assenza di regole, della droga.

Non siamo davanti al freddo distacco di Clay, Blair, Julian e i ragazzi di Meno di zero; non siamo davanti alla morbosa ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa possa darci una scossa, come i protagonisti de Le regole dell’attrazione; non davanti al delirio organizzato di American Psycho, ma neanche a quello disorganizzato di Glamorama; non siamo spettatori della disperata disillusione di Lunar Park e neanche del passivo rancore di Imperial Bedrooms.

Qui siamo davanti al paziente zero.

Siamo davanti a Bret che diventa Ellis e ci spiega come tutto abbia avuto inizio, come la sua penna, la sua storia, il suo essere scrittore e personaggio insieme, autore e distruttore, vizio e virtù, bugia e verità, aspettativa e distruzione abbiano preso vita, si siano mischiate insieme e, fino all’uscita di questo libro, non si siano mai più dipanate.

Le schegge ci mostra come lo stile tagliente, lucido anche quando descrive le cose più brutali e deliranti del mondo (vedasi il capitolo “uccido un bambino allo zoo” di American Psycho, non a caso escluso da quello che poi fu il suo adattamento cinematografico), disilluso, spavaldo, tossico, abbia preso forma. 

E lo fa mettendo in piedi una struttura narrativa complessissima, in cui il giovane Bret del romanzo sta giusto iniziando a scrivere quella che poi sarà la prima bozza di Meno di zero.

Lo fa rendendoci partecipi di uno spaccato che fino a oggi era inedito: i veri sentimenti dei suoi personaggi. Bret sa provare amore, paura, rabbia, insoddisfazione, gelosia, tristezza. La noia, che divorerà ogni cellula di ogni personaggio del resto di tutta la produzione di Ellis, non è ancora entrata in scena.

Robert Mallory, che insieme al Pescatore simboleggia la fine dei sogni d’infanzia, cancellerà per sempre quello che Bret avrebbe potuto essere, quello che avremmo potuto leggere.

Ellis ci presenta il bivio della sua vita e lo fa nel modo che meglio conosce: con una storia di sangue e disillusione, con una storia che mette fine a un cerchio iniziato con Meno di zero nel 1985.

Lo fa inserendosi tra le pagine in modo soffuso, mai intrusivo, lasciando intendere quanto i suoi libri abbiano scritto la sua vita e viceversa: lo fa dandoci piccole confessioni in alcuni passaggi di quello che sembra quasi un memoir, in cui si lascia andare senza senso di colpa o vergogna a racconti sulla sua dipendenza da sostanze, il panico, la fama, la noia, la disperazione, la ricostruzione e la difficoltà del tornare in pista dopo che tutti ti pensano ancora una mina vagante.

Ellis ha raccontato come nessun altro la caduta di due generazioni e l’infrangersi dei sogni davanti al muro, violentissimo, della noia e della realtà.

Con questo libro davvero prezioso mette un punto su quella che a mio avviso è stata la storia letteraria più incredibile degli ultimi 35 anni.

E lo fa tornando alle origini, a quando tutto era più puro, a quando ha trovato l’attacco per quel Meno di zero che gli avrebbe cambiato la vita e lo avrebbe fatto sparire lì.

Le schegge è l’opera di cuore di Ellis che arriva alla fine di un ciclo durato tre decenni; è l’opera intima seppur fittizia dell’autore che davanti a noi ha provato a mutare forma ma non glielo abbiamo mai permesso del tutto. E allora muta da solo, di nuovo, grazie alla sua brillante letteratura. Il libro si apre con una dedica “per nessuno”, non a caso.

Dopo la lettura appassionata de Le schegge io rimango con un dubbio e una certezza.

Il primo è che questo libro possa essere la grande opera finale del miglior interprete post-punk nella letteratura contemporanea o che possa essere il nuovo, frizzante inizio di un filone ancora sconosciuto.

La certezza che invece ho è che Ellis democristiano non ci morirà mai.

Per nostra grande, immensa fortuna.

ARTICOLO n. 60 / 2023

MALENVIRNE

La temperatura dell’estate

Il prisma ottagonale visto dall’alto sembra un lascito alieno, fantascientifico. Sembrerebbe quasi un lontano parente del monolite di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick se non fosse per la sua quasi totale trasparenza.

Lo spazio in cui è inserito è antitetico rispetto alla sua futuristica figura eppure nessun elemento sembra fuori luogo.

Le otto facce specchiate della struttura, alta circa tre metri, frammentano il riflesso delle pareti del cortile Maqueda di Palazzo dei Normanni rendendo la solenne dimora di Federico II meno austera, più docile, quasi tenera agli occhi del pubblico.

150-93 VIII è l’ultima opera di Edoardo Dionea Cicconi, artista romano che dialoga con il passato e il futuro, con la scienza e la fotografia, nel tentativo di trovare nuove espressioni comunicative che rendano il lascito della tradizione meno polveroso e pesante e soprattutto meno rigido di quanto a oggi non sia.

Il prisma ottagonale – il cui nome in codice altro non è che la distanza tra Terra e Sole –, i cui raggi vengono assorbiti dalle pareti della struttura durante il giorno, di notte diventa trasparente e cangiante, senza però mai smettere di dialogare con e riflettere la staticità dell’ambiente che lo circonda. Il prisma è un elemento che balza innegabilmente all’occhio dei passanti: il cortile in cui è inserito, il Maqueda, è un piccolo gioiello interamente porticato e circondato da due ordini di logge rinascimentali che sembra essere fermo al ‘600.

La dicotomia che prende vita nello spazio ristretto del cortile è un bizzarro quanto affascinante fenomeno, perfetta metafora dello stato dell’arte.

Ho spesso pensato, osservando l’opera dell’artista – in senso lato: il dialogo tra passato e presente, tra tempo e spazio è una costante del lavoro d’ingegno di Cicconi -, a quanto la luminosità riflettente delle superfici da lui spesso utilizzate nelle installazioni sia un perfetto specchio – pardonne-moi, non era voluta – dello stato della cultura italiana.

Nello specifico, il prisma ottagonale dell’opera di Cicconi in esposizione a Palermo fino a fine agosto mi ha dato da pensare allo stato di salute dell’editoria italiana, ancora tanto, troppo incapace di far dialogare passato e presente e tantomeno presente e futuro.

E dal prisma al centro del cortile Maqueda del Palazzo dei Normanni di Palermo voglio proprio partire per provare a spiegare quanto l’editoria non sia in grado di fare da ponte tra generazioni, spazi e soprattutto tempi. Cosa che invece l’arte contemporanea, grazie al lavoro di artisti e fondazioni, musei e collettivi, curatori e collezionisti sta invece riuscendo a smuovere.

L’arte sembra stare bene.

Lo stato di salute non è invece dei migliori, qui tra gli scaffali dei libri.

Se penso alla temperatura dell’editoria italiana di oggi non penso di sicuro a un organismo in salute: febbricola, segni di raffreddamento, congestione e nasi arrossati sono i sintomi che mi trovo spesso a osservare dal mio angolo di scrittrice.

Un grosso cortile tiepido, quello dell’editoria, in cui il peso del passato si fa sempre maggiore più il tempo progredisce, in modo tragicomico e inversamente proporzionale. 

Passato e presente mal dialogano nel cortile dell’editoria, perché nessuno lascia mai volentieri le proprie poltrone e le giovani voci che vorrebbero avvicinarsi alla narrativa vedono poche porte aperte, anticipi da fame e contratti davvero miserabili.

Ma questo braccio di ferro sta rendendo l’industria statica e anacronistica, perché da un lato le case editrici continuano a proporre a cadenza regolare i soliti nomi, dall’altro il pubblico chiede evidentemente e a gran voce linguaggi nuovi. 

E qui si crea un bizzarro cortocircuito, tutto all’italiana perché, ehi, oltralpe se la passano un po’ meglio.

Se all’estero nascono infatti progetti interessanti e innovativi, collettivi come 4 Brown Girls Who Write – fondato a Londra da Roshni Goyate, Sharan Hunjan, Sheena Patel e Sunnah Khan – e associazioni di scrittori e scrittrici under 40 in grado di rivoluzionare le regole del gioco editoriale solleticando la curiosità delle case editrici più prestigiose e dando vita a veri e propri fenomeni under 30, qui in Italia le cose non vanno ancora in modo così spedito. Anzi.

I grossi nomi su cui vengono ancora oggi fatti più investimenti sono i mostri sacri contemporanei, quelli che hanno venduto tantissimo – generalmente tutti maschi bianchi etero over 45 che vanno fortissimo sotto Natale e nei dibattiti televisivi in cui viene chiesto loro quanto siano malati questi tempi – ma che secondo GfK – che osservo avidamente da un paio d’anni – non vendono affatto come dovrebbero, o peggio: come le case editrici si aspetterebbero, visti gli anticipi da capogiro che circolano intorno ai soliti nomi a discapito dei nuovi arrivati, che per 200 pagine di libro prendono tre zeri in meno per poi, in alcuni casi, vendere pure di più.

Il calo delle vendite dei soliti colossi non è però stato improvviso: è un procedimento in atto da qualche tempo, era prevedibile, intuibile e quindi forse arrestabile. Ma ciò che mi interessa di questo flop dei soliti noti (per alcuni è stato davvero un flop, non me ne vogliate, le aspettative erano troppo alte per non essere disattese in pieno ricambio generazionale e rinnovata crisi economica e del settore) è lo spostamento di vendite verso altri lidi, altri temi, altri linguaggi, altre età.

Partiamo da un fatto incontrovertibile: i libri più venduti in Italia sono i fumetti. Zerocalcare e gli anime giapponesi dominano le classifiche dieci mesi all’anno, con vendite da capogiro – nessuno, vi giuro, nessuno, vende così tanto -, e incassi da record. Questo è indicativo di due fattori: il pubblico divora linguaggi trasversali (soprattutto se trasmessi da colossi di talento capaci come pochissimi altri di analizzare con lucidità e universalità il mondo che ci circonda, vedi Zerocalcare) e il pubblico che ne fruisce è giovane.

La fascia che sta più influenzando il mercato è infatti quella “giovane” (e per giovane intendo pure noi millennial anche se dovremmo non esser più considerati di primo pelo ma si sa, qui da noi nel bel paese si è bambocci o “giovani artisti” fino alla decima pubblicazione o al terzo rinnovo della patente) e lo si vede benissimo da alcuni indicatori, di cui vi riporto un paio di esempi:

Il successo di Spatriati, vincitore dello scorso Strega e che parla proprio di millennial; il grosso riscontro di pubblico avuto da quel piccolo capolavoro candidato e ahimè non scelto per la cinquina dello Strega che è Le Perfezioni di Vincenzo Latronico, sempre incentrato sui millennial; la voce nuova, brillante, vibrante di Beatrice Salvioni capace, con il suo esordio e già bestseller La Malnata, di ribaltare le regole del gioco editoriale e infilarsi come presenza stabile nei GfK degli ultimi mesi senza mai abbandonare i primi venti posti della classifica nella narrativa italiana, tenendo testa ad Ammaniti; il bellissimo percorso de I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni, che dopo il Campiello ha continuato un percorso fruttuosissimo e a mio avviso forse poco spinto da chi avrebbe dovuto continuare a spingerlo, così come si fa e confà ai capolavori. Il caso Erin Doom, che non devo neanche spiegarvi; lo spazio tra i classici che ha indubbiamente conquistato Febbre di Jonathan Bazzi; le Ragazze perbene di Olga Campofreda così come L’anima della festa di Tea Hacic-Vlahovic. Anche dall’estero bramiamo novità: la già citata Patel, la svedese Johanne Lykke Holm, il colosso che è ormai Sally Rooney, Pajtim Statovci, Melissa Febos e perfino Joel Dicker sono libri divorati da GenZ e millennial, che riempiono bookclub e pagine social, classifiche e booktok da migliaia di visualizzazioni.

Quelli citati non sono solo libri o nomi di scrittori. Sono indicatori di qualcosa che si sta smuovendo e richiede autori e autrici più giovani, nomi nuovi, stili nuovi, racconti nuovi di generazioni giovani, con scenari differenti da quelli a cui la narrativa italiana ci ha abituati negli ultimi anni.

Precari, inquieti, giovani, complessi, sboccati, reali, scorretti, disillusi, stanchi, animaleschi, Malenvirne: questo vuole il pubblico ma soprattutto questo vuole raccontare una nuova editoria, che cerca di farsi spazio riflettendo sulle sue pareti specchiate un cortile composto da una società desueta, la cui austerità ha ormai stancato chi crea e perfino chi fruisce. 

Ma il dialogo generazionale che dovrebbe avvenire in questo immaginario cortile non c’è ancora e questo è un peccato, perché spesso i giovani che vengono inseriti nei circuiti editoriali sono costretti a esprimersi come gli uomini di mezza età che per gli ultimi anni hanno dominato incontrastati le classifiche, in una brutta operazione di snaturamento che ha come effetto quello di creare orde di radical chic da salotto a unico servizio delle vecchie leve e che di innovativo ormai non hanno niente. 

Questo avviene perché i mentori non sanno più lasciar andare gli allievi e replicano schemi che sono stati di successo sì, ma qualche anno fa. In un altro tempo. E nell’era del digitale il tempo si accorcia sempre di più, allargando però gli orizzonti e le fasce di pubblico, che sono sempre più variegate e che sentono sempre più bisogno di nuove rappresentazioni.

Comprendo che i nuovi ritmi così come le nuove voci possano spaventare la vecchia leva, ma qui ci torna utile riprendere in mano l’analisi dell’opera di Cicconi.

Il presente, il nostro prisma, deve necessariamente dialogare con il futuro. E per farlo non può prescindere dall’ambiente in cui è inserito, il meraviglioso cortile Rinascimentale di cui sopra.

L’opera contemporanea si specchia nel passato e questo è indubbio (Zannoni, Salvioni, Bazzi hanno evidentemente masticato Orwell, Ferrante e Tondelli), ma per diventare altro, non una replica. Non un figlio minore.

E questo non sarebbe neanche stato possibile, perché anche nello spazio editoriale, così come in qualsiasi altro spazio umano, fermare il tempo è contro natura. 

E con gli anni e le generazioni che passano arrivano nuovi linguaggi, nuovi libertini, nuovi modi di discutere e raccontare le storie che acchiappano un pubblico curioso, annoiato da decenni di staticità in cui non si riconosce più (o in cui non si è mai riconosciuto) che alla fine della fiera ha arricchito pochi, uniformato molti, soddisfatto alcuni.

Il dialogo è un esercizio costante di ascolto e presa di parola.

In questo senso, l’editoria potrebbe davvero apprendere dall’arte contemporanea, aprendosi a temi attuali, voci nuove, linguaggi freschi e offrendo delle garanzie economiche maggiori, ridistribuite, eque e gratificanti per nuovi autori e autrici, che saranno invogliati a rimanere nel sistema editoriale senza sentirsene esclusi o senza essere costretti a settecento part-time e a tour di presentazione inesistenti. 

La temperatura dell’editoria è tiepida e questo può dire due cose: o che qualcosa si sta tristemente raffreddando o che, finalmente, ci stiamo avvicinando all’ebollizione.

Spero nella seconda, altrimenti la crisi forse ce la meritiamo davvero tutta.

ARTICOLO n. 36 / 2023

C’È CHI DICE NO

Leggo la rassegna ancora distesa a letto, appena sveglia.

Seleziono i giornali principali escludendo sapientemente quelli che so che mi darebbero mal di stomaco fin dalle prime ore del giorno.

Controllo prima la politica, poi la cronaca, poi gli esteri e infine la sezione cultura.

Spulcio tra una testata e l’altra e cerco di vedere come le stesse notizie vengano affrontate in modi differenti.

Mi soffermo sempre sulle interviste. Mi piacciono le interviste.

È a tutti gli effetti una deformazione professionale: da quando ho iniziato a farle, a porre domande ai miei ospiti in radio, nelle presentazioni e a Basement Café mi sono ritrovata spesso a curiosare tra le domande degli altri, cercando di leggere tra le righe i non detti degli intervistati, cercando anche – perché no – alcuni spunti per i prossimi lavori.

Negli ultimi tempi – mesi? anni? orientativamente dall’immediato post-lockdown, ma potrebbe essere iniziata prima, questa tediosa tendenza – noto sempre più interviste simili tra di loro.

Sono quelle rivolte a piccoli, medi e grandi imprenditori che dovrebbero servire per analizzare lo stato di salute del mondo del lavoro italiano.

Queste interviste – tutte molto brevi, tutte molto compatte tra di loro – sono corredate da titoli che suonano come accorati appelli alla popolazione: “Offro tot soldi ma nessuno vuole lavorare”.

Sottotitolo, opzione uno: “Il reddito di cittadinanza ha ucciso l’entusiasmo”.

Sottotitolo, opzione due: “I giovani preferiscono divertirsi o stare sul divano”. A volte i due possono essere fusi in una sola frase del tipo: “Il reddito di cittadinanza ha reso i giovani pigri”, crasi tra le preferite dai maggiori quotidiani nazionali.

Nel corpo dell’intervista, gli imprenditori disperati raccontano di quanto prima (unità di tempo non chiarissima, potrebbe riferirsi al tempo del boom economico come al pre-Covid) non fosse così, come prima le persone non si tirassero dietro davanti alla possibilità di lavorare anche a costo di spaccarsi la schiena.

Subito dopo questo o tempora, o mores, gli imprenditori del caso (si va dal proprietario di un pastificio a gestori di locali, ristoranti, bar, stabilimenti balneari) raccontano sempre quanto sarebbero disposti a pagare i lavoratori.

Ho letto che un cuoco avrebbe rifiutato 63mila euro lordi, di bagnini che avrebbero detto no a tremila euro al mese, di camerieri e cameriere impossibili da trovare a 1600 euro contrattualizzati.

Nei commenti a questi articoli si scatena dunque sempre un incontrollabile panico generazionale.

Chi è nato durante il boom economico non comprende la svogliatezza dei giovani, chi ha lavorato negli anni ’90 non capisce perché questi ragazzi siano tutti così viziati, noi Millennials, invece, sorridiamo sornioni.

Già, perché mentre i nostri genitori godevano del boom economico e di un ascensore sociale in pienissima attività, noi abbiamo capito subito che le cose erano due: lacrime nostre o lacrime nostre – scusa, Elodie.

Dopo due crisi economiche vissute sulla nostra pelle, dopo aver studiato molto più di qualsiasi altra generazione precedente alla nostra, ci siamo ritrovati con un pugno di mosche in mano, ascensore sociale murato, lavori sottopagati e la falsa promessa di un roseo futuro per chiunque avesse aperto una partita iva – spoiler: non fatelo.

Abbiamo quindi imparato ben presto a riconoscere le bugie sul mondo del lavoro, quando queste ci vengono raccontate.

Siamo la generazione con più lavoretti saltuari mai esistita, siamo stati ovunque: dai social alle cucine, dagli uffici alle vigne, dai bar agli studi in cui ci facevano fare stage non retribuiti in vista di future assunzioni che non sarebbero mai arrivate, dalle università allo spaccio di droga per riuscire a pagare un affitto. 

Per questo le parole degli affranti, inconsolabili imprenditori ci suonano come le scuse di Pinocchio dopo esser scappato con Lucignolo verso il paese dei balocchi.

Sappiamo infatti che il famoso contratto che prometterebbe 1600 euro per una settimana lavorativa di 48 ore nell’HORECA con un giorno di riposo nasconde delle zone grigie non trascurabili.

Innanzitutto, la questione straordinari: nei pub, nei cocktail bar e nei ristoranti è difficilissimo calcolare le ore extra effettuate, e solo rarissimamente queste vengono pagate. Subito dopo gli orari: l’imprenditore dell’intervista – che gestisce un pub – dovrebbe sapere che chi fa il lavoratore notturno non ha una socialità (lavorando ogni sera tranne una – il lunedì, che in Italia è la chiusura dei cocktail bar e di quasi tutti i ristoranti – non esistono aperitivi con gli amici, le cene fuori, le serate sul divano, il cinema, il teatro, la birra in piazza, gli appuntamenti romantici), non ha facilità nell’accedere ai servizi più basilari (banca, posta, palestra, spesa, medico, nido, parrucchiere, dentista, centri di analisi ASL, determinati negozi aperti solo al mattino) e non ha garanzia di non essere esente da ore extra durante il giorno (gestione di fornitori, lavanderia, frutta, carico e scarico merce, aperture straordinarie e varie ed eventuali vengono tutte svolte in diurna). 

Perciò, in un momento storico di inflazione alle stelle, crisi economica, affitti raddoppiati rispetto ai primi anni 2000, con 1600 euro che in busta paga diventano poco meno di 1300 per un totale di 8,33 euro l’ora, non se ne voglia a male, questo buon samaritano, ma a noi ci scappa proprio da ridere. 

Se vent’anni fa con uno stipendio di questo tipo potevi affittare una bella stanza o un monolocale, oggi, nella stragrande maggioranza delle città italiane, puoi permetterti un posto bici nel cortile condominiale e le spese per le bollette di luce e gas. 

Simile ma a tratti più inquietante è il discorso per il povero bistrattato cuoco che avrebbe rifiutato i 63mila euro del contratto sopracitato.

Leggendo l’intervista a Gabriele Cartasegna – direttore del Capac di Confcommercio – viene fuori che questa offerta sarebbe stata fatta a uno chef appena formato.

Oltre alla puzza di bufala – non il formaggio, scusate il gioco di parole non voluto: stipendi come quello millantato dal direttore del Capac li vedono gli executive chef di alto rango, non cuochi appena formati – evidentemente a Cartasegna sfugge quanto sia snaturante e alienante la vita di una brigata di cucina, con orari impossibili, caldo micidiale, turni serratissimi, sforzi fisici costanti e una media di 12 ore lavorate al giorno, nonostante il tetto massimo settimanale sia di 48.

Non mi stupisco dunque se negli ultimi due anni il 30% della forza lavoro impiegata in bar e ristoranti si sia data alla fuga insieme agli altri grandi sfruttati del terziario, ovvero gli stagionali: in condizioni di lavoro prive di tutela, prive di rispetto e spesso prive di legalità (il famoso mezzo stipendio in busta paga e l’altro mezzo in nero in busta di carta) perché fare dei lavori che per quanto magnifici ci facciano rimanere poveri e per giunta privi di una qualsivoglia vita sociale?

La risposta è logica e davvero banale, ovvero: per nessun motivo. 

Soprattutto in un’epoca in cui per vivere servono ben più di 1200 euro in busta paga: 800 vanno in affitto, gli altri in bollette, non ci vuole Pitagora per capire che in questo momento storico uno stipendio del genere sia davvero anacronistico.

Eppure ai giornali piace strizzare l’occhio a Confcommercio e Confindustria, leccando un po’ di culi ai piani alti, pubblicando l’imprenditore che piagnucola perché i giovani non hanno più voglia di sporcarsi le mani.

Ma i giovani hanno ben più consapevolezza della situazione in cui versano i lavoratori e il mercato.

Sicuramente ben più di chi ha ereditato aziende o soldi dalle generazioni precedenti.

La morte del settore terziario, ricchissimo di lavori meravigliosi come quello del bartender, di chi serve in sala, di chi lavora nelle brigate di una cucina, sta morendo non per colpa dei lavoratori, ma per chi lo ha svenduto rendendolo un luogo inospitale.

Ma il vecchio adagio dei tempi che, signora mia, non sono più quelli di una volta, i giovani sono tutti scansafatiche, sarà la droga, guardi che capelloni, è un format funzionale e brevettato per non ascoltare i giovani, che del lavoro dovrebbero essere i protagonisti. 

Silenziando i giovani, screditando la loro professionalità e, di conseguenza, i loro sogni e bisogni, i nostri eroi di Confindustria e Confcommercio non dovranno muovere un dito. 

Già, perché in tempo di post-pandemia e con un tasso di povertà alle stelle, per ogni rifiuto a contratti di merda ci saranno almeno due persone che non possono permettersi di rifiutare quelle condizioni.

E questo perché il mercato del lavoro si nutre da sempre della manodopera dei più poveri con questi trucchetti da banditi e ladroni che permettono ai salari di rimanere invariati: tanto basta scavare nelle classi sociali sempre più povere e sempre più sole.

Per questo mi viene da dire – non ai cravattoni con la lacrima facile, ma ai giovani che sognano un futuro migliore – che, fin quando sarà possibile, per quanto vi possa essere possibile, rifiutate le proposte di chi gioca sui vostri diritti, tempo, energia.

La mia generazione è collassata sotto queste false promesse, mangiata e divorata da sciacalli che diventavano sempre più ricchi mentre noi non riuscivamo a mettere da parte neanche due euro.

La mia generazione, quella del lavoro in nero e dei voucher INPS, ha guardato passivamente a tutto questo, rimanendo inerme mentre ci levavano ogni cosa promettendoci però il mondo, per farci rimanere buoni, dei bravi schiavi.

Sono orgogliosa ogni mattina quando vedo le reazioni dei social media ai piagnistei dell’imprenditore di turno, perché vuol dire che il futuro è sempre meno fesso di noi, dei nostri fratelli più grandi e pure di quelli che abbiamo sempre chiamato geni, ovvero i baby boomer.

In questa giornata dal valore così prezioso che stiamo svendendo (guardate come si è ridotto il concertone del Primo Maggio a Roma: sembra Sanremo, ha perfino gli stessi sponsor) mi viene da dire bravi voi, che non vi fate infinocchiare dal sistema.

E ai miei coetanei vorrei ricordare che cosa eravamo e siamo ancora oggi: se abbiamo imparato una cosa dalle generazioni precedenti è il non fare come loro hanno fatto con noi. Perciò ascoltiamo la generazione Z, affianchiamola nelle giuste battaglie che riguardano il lavoro e il clima – che vanno di pari passo – e vi prego. Ve ne prego. Non diventiamo i prossimi che frignano dalle pagine di un giornale.

Il lavoro è un diritto, ma la dignità lo è ancor di più.

Tolta la nostra che ormai è andata in malora, garantiamola a chi verrà dopo di noi interrompendo questa catena di odio generazionale che ha creato solo nuovi schiavi di nuovi padroni.

Capisco solo oggi che quelle lacrime di coccodrillo che leggo ogni mattina dalle pagine dei giornali hanno un nome ben preciso: quel nome è ricatto.

E sono davvero fiera che nessuno, dopo noi Millennial, ci stia più cascando.

ARTICOLO n. 28 / 2023

IL GIOCO DEL SILENZIO

Esistono cose che non si raccontano. E questo lo sappiamo un po’ da sempre: di certi argomenti è meglio non parlare.

Un vecchio detto italiano recita “alla donna nessun vestito sta meglio del silenzio” e direi che non è stato poi così difficile, viste le nostre premesse culturali, aderirvi in modo pressoché letterale.

I modelli femminili per antonomasia sono infatti incredibilmente silenziosi.

Mi vengono in mente le muse dei grandi stilnovisti: erano donne miti, angeliche, meravigliose, giovanissime, sempre zitte e preferibilmente morte.

Ma anche le educande, allenate al silenzio; le donne della nobiltà di ogni secolo, anche il più moderno, che rimanevano quel famoso passo indietro per permettere agli uomini di mostrare la loro ruota di pavoni; le madri devote; le grandi attrici del passato come Marilyn Monroe, la cui duplice esistenza – sempre in bilico tra una gioia fotogenica di facciata e una pura, solitaria disperazione privata – è quasi emblematica di quel silenzio femminile di cui sto scrivendo.

La dimensione privata femminile è difatti sempre stata sotterranea, impercettibile, inenarrabile: di maternità, violenza, odio, lutto, desiderio, corpo era per le donne indecoroso parlarne; come se questi fossero argomenti tabù, permeati di un malsano orrore e capaci di rendere mostruose le donne che volessero esprimerne pareri – o legittime emozioni – a riguardo.

Le poche voci che riuscivano a levarsi e affrontare certi discorsi venivano prontamente silenziate o brutalmente esposte, come monito per le generazioni a venire: Artemisia Gentileschi è in questo senso un perfetto esempio di emarginazione indotta dalla sua ricerca di giustizia. Ma, senza andare troppo indietro nei secoli, possiamo pensare ad Amber Heard e al processo contro Johnny Depp. 

Le donne che parlano – parlavano? a volte mi piacerebbe poter usare solo il tempo passato – di argomenti intimi e potenzialmente disturbanti vengono da sempre allontanate dal dibattito o rese mostruose.

O meglio, citando Jude Ellison Sady Doyle, il loro femminile viene reso mostruoso.

Si pensa infatti che queste donne non siano adatte a essere mogli, madri, muse, femmine. Ma siano nate sbagliate, corrotte.

Questo perché “i panni sporchi si lavano in casa”, per usare un altro Leitmotiv nostrano, e la casa è ovviamente femmina.

Quello che succede dentro alle mura domestiche non deve uscire, deve rimanere privato e lì deve morire.

Il sistema di isolamento femminile – e isolamento delle voci femminili – è figlio utilissimo di un paese per uomini: se le donne non parlano allora non potranno comunicare tra di loro e, al contempo, il loro dolore e la loro rabbia non verranno accolti, lasciando gli equilibri di potere intatti.

Nei secoli – specialmente nel Novecento – questo atteggiamento si è andato a smorzare, facilitato anche dall’ingresso di sempre più donne nel mondo dell’arte che, per antonomasia, si fa portatrice di significati e messaggi nuovi, rivoluzionari, immediati – nel senso di privi di mediazione tra l’artista e il suo pubblico.

Specialmente dagli Anni Venti del secolo scorso le donne hanno preso sempre più spazio nell’industria dell’arte e della cultura. 

Questo ha portato a un rinnovamento dei temi e delle rappresentazioni stesse dei generi.

Pensiamo al surrealismo, corrente artistica del ventennio passato, profondamente maschile e spesso piuttosto acerba nella rappresentazione del femminile – nel senso che gli artisti usavano i corpi femminili come oggetti per veicolare la soavità, il desiderio, l’eleganza e la passione senza mai far vedere i volti delle modelle che vi erano ritratte, sessualizzandole ogniqualvolta fosse stato possibile – che si vide travolta dalla produzione di opere di artiste come Leonor Fini e Leonora Carrington. Le donne di questa corrente portarono per la prima volta una nuova immagine del corpo della donna, rendendolo feroce, brutale, pericoloso, respingente, dolente, egoista; e, in un panorama culturale ancora così maschiocentrico, questa era una vera e propria rivoluzione.

La possibilità di autorappresentarsi dava modo alle artiste di riprendere temi classici e finalmente caricarli di voci del tutto nuove, interpretazioni carnali, rumorose, terrene, reali, soggettive, prive di romanticizzazione.

La performance art degli Anni Settanta riprese in pieno questo desiderio di stravolgimento del silenzio – anche e soprattutto grazie alla spinta del movimento femminista – e diede voce ai sentimenti da sempre taciuti fino ad allora. 

Marina Abramović, con la sua performance Rythm 0 del 1974 a Napoli, in cui invitava gli spettatori a prendere in mano degli oggetti situati su un tavolo posto vicino al suo corpo immobile e a usarli su di lei, è stata in grado di dimostrare quanto il gioco del silenzio sia stato emblematico nell’isolamento del genere femminile: gli spettatori all’inizio della performance si limitavano a scriverle qualcosa addosso, spostarle capelli, attaccarle dei cartoncini. Ma con il passare delle ore il corpo muto di Abramović andava incontro a vere e proprie violenze: l’artista fu ferita, denudata, brutalizzata; venne perfino impugnata una pistola – carica – contro di lei.

Lo scopo di Abramović non era rendere il suo corpo il centro dell’opera, anzi: lo scopo di Abramović era rendere lo spettatore carnefice davanti al corpo immobile di una donna: dove può portarci il silenzio? La risposta che hanno dato gli spettatori in quelle sei ore di performance è piuttosto significativa.

Dagli Anni Settanta in avanti la voce delle donne dell’arte – in ogni sua declinazione – si è sempre più fatta sentire. Da Vanessa Beecroft – le cui performance costringono chi guarda a passare tra corpi femminili assolutamente erotici ma al contempo respingenti e spaventosi – ad Alda Merini, il silenzio intorno al tema del femminile si è man mano squarciato.

Ci siamo riappropriate della narrazione su argomenti come la perdita – L’anno del pensiero magico di Joan Didion è in questo emblematico – la maternità, la malattia mentale, l’aborto, il sesso, la violenza – dove Lidia Yuknavitch è stata maestra indiscussa con La cronologia dell’acqua –  e perfino l’amore, ripulendolo da quella patina melensa che era da sempre stata abbinata al sentimento di devozione, ritenuto femmineo – e qui mi torna alla mente la mia amata Sheena Patel – dando loro nuovi significati (e se non nuovi, almeno completandoli), aggiungendo voci laddove mancavano e riempiendo i silenzi intorno a sentimenti ritenuti ancora inenarrabili. 

Le scrittrici contemporanee sanno bene quanto sia prezioso questo momento storico e culturale per poter finalmente togliere un po’ di magia all’idea statica di femminile che ci portiamo dietro da secoli e che ci vuole martiri perfette o vittime inattaccabili.

Ecco, è in questa mia lunga, spicciola premessa che si inserisce Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, edito da Einaudi e uscito lo scorso 14 marzo.

Nella sua ultima opera, Lattanzi abbatte il silenzio sulla genitorialità e racconta di due anni della sua vita – e di quella del suo compagno – passati a cercare una gravidanza, a trovarla e poi perderla.

Nel racconto – velocissimo: il ritmo è travolgente, l’impaginazione non lascia fiato anche quando sembra volertelo concedere, il tempo presente ti incalza frase dopo frase – della sua corsa verso il desiderio, poi la paura e poi il dolore, il silenzio non esiste.

Non ci sono assolutamente tabù, non si lascia niente di non-narrato, e al lettore non viene dato spazio per altre interpretazioni se non quella dell’autrice, che ricostruisce due anni della sua vita in modo precisissimo.

In duecento pagine Lattanzi sa prendere il dolore e renderlo tridimensionale, affrontandolo da ogni sfaccettatura: dalla bolla familiare alla paura per il suo lavoro, l’autrice analizza ogni dettaglio su cui si è posata la disperazione, quasi fosse materiale vischioso che non vuole staccarsi da ogni cosa che tocchi.

Un viaggio intimo, profondamente personale, che tocca nodi delicati che si ha poca voglia di vedere da vicino – l’odio verso chi riesce a portare a termine una gravidanza, la determinazione di chi vuole un figlio, la solitudine di chi affronta certi percorsi che ancora non sono annoverati tra le cose che si raccontano – e che conferisce una voce nuova a un altro pezzetto di femminile rimasto per secoli silenzioso.

Lattanzi fa questo con la consapevolezza che il contrario di silenzio sia rumore, eppure non lo fa mai alzando la voce, guidandoci  bensì verso il centro di questo dolore, Caronte consapevole del ruolo della sua letteratura, così intima ma, al tempo stesso, di valore collettivo.

Da quando ho letto Cose che non si raccontano non posso fare a meno di pensare che questo libro si possa inserire tra quelle opere che ti aiutano ad avere un quadro più completo sul complessissimo mondo dell’emotività e della vita femminile, che per secoli ha subito una  costante e micidiale punizione del silenzio.

E questo silenzio ha avuto come conseguenza un isolamento di un intero genere, che è stato incapace di poter esprimere un complesso mondo emozionale legato al proprio corpo e ai desideri e alle paure più ancestrali che ci siano.

Negli ultimi anni si parla di maternità in modo differente, privandola di romanticizzazione, stigma, beatificazione. E non posso fare altro che pensare a come sarebbe stato meno solo il mondo per migliaia e migliaia di donne se voci come quella delle artiste fossero state accolte ben prima, e con diversa attenzione e sensibilità.

Realizzo dunque quanto sarà utile a tantissime persone questo romanzo di Lattanzi, in grado di abbattere il silenzio e spostare l’asticella del taciuto ancora un po’ più un là.

Rendendo le cose che non si raccontano cose che finalmente si possono dire senza paura.

ARTICOLO n. 20 / 2023

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

E se per una notte, solo una, la parità fosse davvero realizzata?

Inizia così un mio ormai vecchissimo post, ispirato al lavoro del collettivo transfemminista sudafricano chiamato @girlsagainstoppression.

Decido infatti di tradurre un loro sondaggio, previo consenso da parte delle amministratrici della pagina, rivolgendomi a quella immaginaria audience che è il mio Instagram.

Domando dunque alle donne che mi leggono – per donne intendo sempre tutte le donne, da chi si identifica nel genere femminile a chi è una donna trans e a chi è donna cisgender, poiché alcune – molte, troppe – delle discriminazioni che viviamo ci accomunano tutte – e chiedo loro: se per una notte non esistessero la violenza e le discriminazioni, cosa fareste?

Lo chiedo consapevole dell’ondata di vittimismo maschile piccato che riceverò in risposta, ma so esattamente dove voglio andare a parare, posso perfino immaginare e condividere quelle risposte che mi arriveranno a breve.

Premo invio, il post è online. Dopo pochi secondi iniziano ad arrivarmi le notifiche, una dopo l’altra, come un fiume in piena.

Non faccio in tempo a cliccare su una che ne arrivano altre, a decine. 

È come un diario segreto, la storia di una notte immaginaria che tutte, tutte quante, più di una volta abbiamo sognato con gli occhi aperti.

Le risposte sono devastanti.

Vorrei uscire a correre da sola, di notte. Vorrei vestirmi come meglio credo. Farei un viaggio da sola. Andrei in Interrail da sola. Farei finalmente il figlio che non posso permettermi di avere. Chiederei un aumento. Cambierei lavoro. Avrei una cura per la mia malattia. Guadagnerei di più. Non verrei molestata. Da donna nera, non verrei sessualizzata costantemente. Non mi chiederebbero se faccio sesso a pagamento mentre sto facendo la spesa. Non verrei discriminata in quanto donna trans. Non avrei paura a fare la strada da sola. Non metterei il reggiseno. Non avrei paura a denunciare il mio abuser. Andrei in campeggio da sola. Metterei vestiti corti, non sai da quanto vorrei metterli per uscire ma poi non lo faccio mai perché ho paura. Potrei ubriacarmi senza paura. Potrei camminare con gli auricolari mentre passeggio per strada da sola la sera. Non dovrei girare con lo spray al peperoncino in borsa. Prenderei lo stipendio che merito e che mi spetta. Troverei lavoro. Farei coming out senza paura. Mi sentirei felice di essere rimasta incinta. Farei sesso con chi voglio senza rischiare di passare per puttana. Non userei le chiavi come tirapugni. Metterei i tacchi la sera, tanto non dovrei scappare da nessuno. Firmerei un contratto per approfittare del momento e ricevere la stessa paga di un uomo. Passeggerei di notte. Avrei già abortito, ma non trovo medici non obiettori. Cambierei la legge sul congedo parentale. 

Camminerei per strada la notte: chissà come è bella la città piena di lampioni quando non hai paura. 

Come un fiume in piena mi trovo tramortita dalla quantità di messaggi che ricevo: tutti simili, tutti così puri, tutti incredibilmente agrodolci. 

Se li leggesse un alieno che nulla conosce della nostra società penserebbe che siamo un branco di imbecilli o strafatti di LSD. 

Rimango ferma per un po’, fissando lo schermo che continua a riempirsi di notifiche: voci di donne che raccontano stralci brevissimi delle loro vite, ferite sottili come quelle fatte con la carta, millimetriche ma dolorosissime. 

Sento, riesco a percepire la dolcezza di ogni pensiero che si accompagna a doppio nodo con l’amarezza del sapere di non poter fare nessuna di queste cose, vuoi per una logica e giustificabile mancanza di coraggio, vuoi per una impossibilità strutturale, vuoi per una impossibilità politica. 

Annuso un profumo che conosco benissimo: è familiare questo sentimento di sconforto sognante, ha un cuore di rabbia e una nota di fondo di tristezza quotidiana. 

Sono passati più di due anni da quel post e il sentimento che provo ogni volta che mi pongo la domanda con cui ho iniziato questo mio scritto è sempre il medesimo.

Mi sento sognante, ma ho ancora moltissimo amaro in bocca. 

In questi giorni che precedono l’8 marzo – data in cui uscirà il pezzo che sto scrivendo in questo esatto momento – la discussione sui diritti femminili si fa sempre un po’ più calda. E, con il governo Meloni, si è fatta sicuramente più aspra.

Negli anni abbiamo iniziato a lasciarci dietro il concetto di otto marzo come festa in cui le donne entrano gratis nei club, hanno sconti sugli shot – ma da bere rigorosamente senza mani – e possono infilare banconote negli slip degli spogliarellisti. Eppure, quando si parla di otto Marzo si continuano a non comprendere alcune questioni centrali di quella che storicamente è una giornata di lotta, non di gif animate coi glitter da mandare a tutte le donne che si conoscono (che è una variante degli “auguri a tutte le befane”, immancabile tragedia di ogni 6 gennaio).

Eppure, nonostante ci sia stato un significativo miglioramento nel recepire l’importanza di questa data, il tono della discussione è ancora acerbo, e a tratti piuttosto stupido.

Tra le centinaia di commenti sull’inutilità di una festa come questa “visto che la parità è ormai cosa già raggiunta” (ultimo a dirlo, il tassista che mi ha portata a casa lo scorso sabato sera: mi duole ribadire anche a voi che se così fosse non avrei mai usufruito di un servizio così caro per fare due chilometri di notte), vedo anche proclami politici poco incoraggianti in termini di autodeterminazione della donna.

In questo senso è emblematica la copertina dell’ultimo numero di Grazia, uscito qualche giorno fa, che ritrae il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – non è misgendering, è che mi andava di rispettare le circolari: sanno essere divertenti, di tanto in tanto – affiancata dal titolo “Ragazze, liberiamo il nostro potere”.

Sorvolando sulla non parzialità dell’informazione offerta da Grazia (la direttrice Silvia Grilli è da mesi che endorsaMeloni dalle pagine di un magazine “femminile” che si vanta spesso di essere super partes), quello che possiamo leggere nell’intervista al presidente del Consiglio è un fotogramma incredibile della percezione della disparità di genere, a oggi. 

Da un lato, Meloni attacca la mono e omogenitorialità facendo leva sul suo personale trascorso di vita: terribile e doloroso, ma da qui a farne un modello per lo Stato mi pare vagamente egomaniaco. Segue subito un trafiletto sull’interruzione volontaria di gravidanza, dipinta come esperienza triste, solitaria e dolente: è una narrazione incredibilmente funzionale, per chi sta cercando di svuotare la legge 194 dall’interno. Poco più avanti, possiamo leggere una lunga riposta sulla prevenzione della violenza di genere in cui Meloni elogia la formazione sul tema a polizia e carabinieri e anche gli interventi legislativi per punire chi commette i crimini previsti dalla legge in materia (per precisare, nessuna di queste cose è prevenzione, bensì risoluzione del danno: prevenzione equivale a fare cultura e offrire lavoro e spazi sicuri, ma nessuna delle due voci è presente nel testo). Sul lavoro femminile, tutto tace. Gender pay gap pure. 

Il punto però più interessante è quello in cui Meloni si aggrappa al femminismo per proteggere le donne.

Le parole che usa il presidente del Consiglio sono le seguenti: «Oggi per essere donna si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe».

È un abbraccio alla linea TERF (femminismo transecludente) che fa intuire che la femminilità (qualsiasi cosa questa parola voglia ancora dire, nel 2023) sarebbe in pericolo.

Di cosa, non ci è dato sapere.

Ma a livello propagandistico funziona bene: sarebbero a rischio le facoltà per cui una donna è ritenuta importante, ovvero quelle riproduttive (che poi sono proprio quelle che spesso ci tengono lontane dal mondo del lavoro), carissime alla destra.

Eppure, non esiste niente di più falso.

E le voci che due anni fa mi hanno scritto quei messaggi sulla notte di libertà – perché quando parliamo di parità parliamo sempre, sempre, ostinatamente di libertà – lo sanno bene.

Sanno bene che le parole di Meloni su Grazia sono propaganda fatta per mantenere intatto il sistema di accesso a numero limitato per i diritti civili e sociali. Sanno anche che pubblicare questa intervista è un ottimo tentativo di pesca a strascico tra le file delle donne, magari lontane dagli ambienti di lotta, che vedendo la parola femminismo possono pensare che finalmente la prima donna al governo farà qualcosa per loro.

Ma in uno Stato in cui l’accessibilità all’interruzione di gravidanza sicura e non giudicante è ormai complicatissimo, in cui il lavoro di cura non retribuito ricade ancora sulle donne (per il 74% del totale), in cui il gender pay gap fa guadagnare ancora il 15% in meno degli uomini a parità di impiego e l’accessibilità dei lavori full time è ancora riservata principalmente agli uomini, capiamo bene quanto non ci servano nuovi nemici da incolpare: abbiamo già i nostri e mi sembrano anche piuttosto determinati.

Viviamo in una condizione che è estremamente precaria su ogni fronte, su ogni diritto di autodeterminazione. Il dibattito è molto attivo e le voci di attiviste, intellettuali e scrittrici sono sempre di più.

In questi anni di dibattito sui temi civili e sociali interconnessi al femminismo si è però venuta a creare una netta spaccatura, soprattutto nella destra e in alcuni ambienti del movimento stesso. 

Da un lato è innegabile che si sia fatta luce su alcuni temi che non possono più essere ignorati, ma dall’altro si cerca di tamponare nuove, legittime, importanti richieste di tutela e inclusione semplicemente facendole passare come pericolose. E, nel primo otto marzo di questa nuova destra al governo, appare subito lampante di quanto ancora abbiamo bisogno di una data di lotta come questa. Ma che sia una data di lotta per tutte.

Se infatti rileggiamo bene l’intervista al presidente del Consiglio, vedremo subito quanto sia subdola la promessa di potere che il titolo di copertina vuol far credere. 

Quel potere non viene infatti mai dato alle donne che vogliono abortire, ad esempio: nel testo Meloni promette aiuti a chi vorrà tenere il bambino, non a chi vuole ricorrere con facilità e sicurezza alla propria autodeterminazione. Nel testo non si cita mai la responsabilità politica del mantenimento del soffitto di cristallo, si invitano invece le ragazze (generico ma, vedendo le sue posizioni TERF, molto cisgender) a impegnarsi per distruggerlo, ignorando ovviamente la questione di classe. Glissando sulla monogenitorialità ignora il dolore di tante di noi donne single, che vorremmo procreare o adottare ma non possiamo. E ignora ancora di più le coppie omogenitoriali, contrapponendole alla famiglia naturale. 

La lotta tra “vere donne” e tutte le altre non esiste, perché ogni rivendicazione è profondamente interconnessa e la matrice – sic – è sempre la stessa cultura patriarcale che si nutre di un capitalismo insaziabile che mette in ginocchio le categorie marginalizzate.

Le donne cisgender non hanno nessuna lotta contro le donne trans. Non siamo in pericolo. O meglio, il pericolo non sono le nostre sorelle trans.

Il pericolo è questa sciapa, scialba, stupida propaganda fatta sulle paure ataviche di una classe dirigente vecchia, stantia, bigotta e borghese, che del perbenismo ha fatto il suo marchio di fabbrica.

Senza che ce ne rendessimo neanche troppo conto ci siamo ritrovate a doverci accontentare di carezze e pacche sulle spalle, in un continuo, paternalista e petulante coro di “ragazza, se vuoi puoi”.

Se vuoi, puoi.

Ditelo alle donne trans quando si vedono usare come spauracchio da una fazione politica. O che non vengono assunte. 

O alle persone che vorrebbero abortire in regioni piene di medici obiettori.

Alle madri che non possono far altro che abbandonare il lavoro o alle donne che vorrebbero un figlio ma la loro famiglia è arcobaleno. 

Ditelo a chi vorrebbe uscire di sera senza paura, a chi vorrebbe fare un viaggio serenamente, a chi vorrebbe avere il coraggio di denunciare le violenze subite ma non lo fa perché la cultura è inesistente in questo paese. 

Se non facciamo figli è anche perché non possiamo permettercelo. Se non rompiamo il soffitto di cristallo è perché il mondo del lavoro ci schiaccia e quello familiare ci soffoca, perché il carico non viene diviso (anche per colpa dei congedi di paternità inesistenti). Se le donne muoiono non è soltanto perché mancano leggi, ma perché manca cultura. Se non possiamo permetterci di fare coming out è perché viviamo nella paura. Se non possiamo avere tutele speciali contro i reati d’odio è perché alcune categorie sono ritenute ancora invisibili. E non vederlo è impossibile: i corpi delle donne – tutte le donne, mi piace ripeterlo – sono ottimo terreno di propaganda da secoli. Da sempre.

Sulla nostra vita – e sulla nostra fica: sono tutti ossessionati da ciò che abbiamo o meno nelle mutande – si fanno politica e soldi, come se fossimo merce di scambio.

E sottobanco, con il favore delle tenebre – sic bis – hanno provato a farci credere che volere fosse potere e che le donne fossero di nuovo nemiche delle altre donne, come il vecchio adagio ci insegnava.

Il problema è che adesso noi vediamo benissimo anche nel buio, come gli animali notturni.

Abbiamo abitato con paura nel buio per secoli. 

A forza di stare nel buio, abbiamo adattato la vista alla mancanza di luce.

Per questo, nella merda di questo quadro politico attuale di sotterfugi, mascherati più o meno bene, noi ci vediamo benissimo. 

E sappiamo dunque che dell’otto marzo c’è ancora moltissimo bisogno.

La nostra sempre ostinata ricerca della libertà non ci ha mai fermate.

Il mondo è cambiato, e con lui anche i nomi che diamo ai fenomeni e alle cose (nomina sunt consequentia rerum, lo scriveva Dante nella Vita Nova, che ai tempi era ritenuto un pessimo scrittore proprio per le sue forme lessicali innovative: non ditelo ai puristi della lingua italica, verrebbe loro un coccolone).

E con i nomi e i fenomeni di questo nuovo mondo abbiamo bisogno di nuovo spazio.

E in questo spazio i diritti e i nostri corpi non possono essere usati come mezzo di propaganda di una fazione politica o di un frammento ormai morto di movimento.

I diritti ci rendono libere, non averli ci rende ostinate. 

Occhio a quel soffitto di cristallo, che ve lo buchiamo.

ARTICOLO n. 14 / 2023

DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI

L’uomo che mi piace mi infastidisce.
Per questo ho disattivato i suoi post e le sue storie.
Ma stanotte ho deciso di andare a vedere cosa fa.

Mentre scrollo sul suo profilo e ne spulcio veloce le storie lo trovo insopportabile, mediocre nella comunicazione, lento, vecchio.
Eppure dal vivo non è così.

Mi infastidisco mentre scrollo tra un’immagine e l’altra. Mi infastidisce la sua comodità, il fatto che lo amino tutti senza neanche un commento di critica, la pace che regna sovrana sul suo profilo, l’assenza di commenti sessualizzanti verso la sua persona, il suo potersi permettere di postare solamente foto banali, l’assenza di una qualsiasi causa sociale o civile nel suo feed, l’egoreferenzialità, il fatto che nessuno gli chieda come mai stia lì.

Provo invidia, eccitazione, fastidio, curiosità. Forse lo odio. 

Ma niente di quel che provo è reale perché, mi dico, quello che vedo sui social media non può essere COSÌ reale.

Eppure non ne sono sicura, me ne rendo conto, al buio della mia camera da letto, mentre fisso lo schermo del mio telefono. Ho difficoltà nel percepire cosa in una persona sia vero e cosa no, in questo mondo parallelo fatto di tondini rossi e foto quadrate. 

Spulcio i primi like sotto al suo nuovo post, per capire dove va forte, quale sia il suo pubblico: sono tutte donne cis, come me, stessa età, a occhio stessa provenienza sociale e tutte bianche. Ha un tipo di fascino assolutamente targettizzabile, per questo monotono. 

Muovo il pollice con un gesto automatico e torno in home page: l’immagine che mi appare subito dopo è il post di una mia amica sotto il quale noto immediatamente un suo mi piace.

In passato ho provato fastidio, competizione, inadeguatezza ogni volta che vedevo cuoricini rossi di un uomo che mi piaceva sotto alle foto di altre donne bellissime, come fosse una scelta implicita di un canone che non combaciava con il mio. Un silenzioso assenso verso forme di femminilità diversa dalla mia, meno rumorosa, spigolosa, respingente, dolente. 

Sono cresciuta con i social network che, anno dopo anno, prendevano sempre più spazio nella nostra vita e ho decodificato le nuove regole del gioco amoroso piano piano: oggi sono diventata così brava con questi linguaggi digitali che so distinguere corteggiamenti tra due persone semplicemente osservando i loro post che appaiono nel mio feed di Instagram. 

Lo specchio che riflette le nostre interazioni e pulsioni è così banale da annoiarmi.

Per questo ho disattivato l’uomo che mi piace: per non vederlo, perché rispetto alla noia che mi provoca la banalità della sua forma digitale preferisco la delusione tangibile ma progressiva. 

E perché il controllo ossessivo mi stava rendendo un mostro.

Ho cercato di capire, carpire, annusare, decodificare, smembrare e acquisire messaggi subliminali dai profili degli uomini che mi piacevano per tanto tempo, come se fosse una conseguenza diretta della dimensione digitale, un prezzo da pagare per la ricerca di una verità universale sull’amore e sui suoi demoni.

Ho iniziato a provare disagio, odio, fastidio, inadeguatezza, competizione senza inizialmente capire il perché. Ho semplicemente staccato i miei occhi dal mezzo social disattivando i profili di ogni uomo che negli ultimi anni mi è piaciuto, come se fossero veleno, acido corrosivo, dal quale dovevo mettermi in salvo.

C’era qualcosa di morboso nel mio atteggiamento, che so essere atteggiamento di molte altre persone, ma non comprendevo da dove emergesse tutto quel fastidio.

Certo, una parte era fisiologica quanto banale sindrome da competizione: nella società performativa e patriarcale le donne sono nemiche e una sola è la prescelta, questo vale anche nelle relazioni sentimentali applicate al digitale. Lo posso vedere chiaramente quando leggo i commenti alle foto di coppie famose, ricche, bianche, abili: sono un tripudio di “beati voi”, “come vi invidio” e “siete un sogno”. La favola della prescelta è dietro l’angolo e non si nasconde neppure troppo per dissimularsi.

Ma mi mancava un pezzo per comprendere in pieno tutto questo senso di angoscia che mi produceva e spesso produce ancora il mezzo digitale elevato a prolungamento della vita amorosa. 

Volevo capire perché mi spaventassero così tanto alcune proiezioni social degli uomini che mi sono piaciuti.

Volevo capire se l’amore aveva un modo per sopravvivere ai social.
Se le mie esigenze potevano trovare spazio in un amore digitale. 
E, per trovare delle risposte, mi è venuta in aiuto Sheena Patel.

Conosco Sheena Patel a Roma, alla Nuvola, durante l’ultimo Più libri più liberi: dobbiamo dividere il palco per un panel sul digitale e le relazioni interpersonali e di fianco a lei mi sento microscopica. 

Sheena Patel ha infatti scritto un libro che ho letto da poco, si chiama I’m a fan, in italiano Ti seguo, edito da Edizioni di Atlantide e tradotto magistralmente da Clara Nubile.

Ti seguo è uno dei libri più devastanti, deliranti ma al tempo stesso lucidissimi che abbia letto negli ultimi anni, e la penna di Patel è talmente affilata, dolorosamente ironica e graffiante da farmi dire subito dopo l’incipit che quella che sto leggendo è davvero una coltellata con i fiocchi.

Patel nel suo libro racconta, con un ritmo incredibile e la prima persona singolare, l’amore ossessivo e ripetitivo dei tempi del digitale. La sua protagonista, una giovane donna di origini indiane che vive a Londra e lavora nella cultura, ha una relazione con un uomo ricco e famoso, che è sempre lontano, appare a intermittenza, e che lei monitora quotidianamente tramite i social. 

Ed è proprio dai social che la protagonista apprende dell’esistenza di una seconda – saranno poi molte di più- donna: una ricca ereditiera che vive negli Stati Uniti, viaggia molto, è bianca, abile, magra, molto attenta alle cause sociali e civili da copertina, al bricolage, all’arte contemporanea ricca di appropriazione culturale; è il ritratto perfetto dell’ipocrisia finto buonista della classe dominante, da cui ancora siamo attratti come lo sono le falene dalla luce.

Il libro è una visione perfettamente bilanciata del mondo dei social – e dell’amore al tempo dei social – come riflesso di una cultura eurocentrica, bianca, sessista e basata sul privilegio di classe. 

E questo viene meravigliosamente fuori dai due personaggi secondari della sua storia. 

I due personaggi che catalizzano l’attenzione della protagonista – di cui non sappiamo mai il nome – sono nominati come “l’uomo con cui voglio stare” e “la donna da cui sono ossessionata” e incarnano perfettamente il concetto stesso di privilegio: sono due persone mediocri, di base neanche troppo brillanti, ma la loro immagine riflessa dai device elettronici li rende incredibilmente affascinanti, creando una dipendenza da contenuti che la protagonista subisce con tigna stoica.

Se lei infatti, da un lato, percepisce quanto ipocrita sia il loro atteggiamento digitale (white saviorism, feticizzazione dei corpi neri, ricerca di approvazione, un perenne nozionismo usato come scudo contro la profonda ignoranza, la costante ricerca di essere al passo con i tempi senza tuttavia comprenderli mai), dall’altro non riesce proprio a separarsene.

E non può farlo per un motivo banale quanto inquietante: perché sono lì, sullo schermo, a portata di mano, pur sapendo che sono tutto ciò che odia.

La figura della donna da cui è ossessionata simboleggia perfettamente la competizione femminile di cui scrivevo sopra e che però è persa in partenza se non si è ricche, bianche, tendenzialmente fancazziste perché libere da un lavoro totalizzante. 

Ma i social sono spazi monodimensionali in cui le distanze sembrano minuscole e ci danno l’illusione di poter partecipare alla gara e raggiungere la capolista. 

Per questo si innesta la competitività, perché ci dimentichiamo della tangibilità del mondo e della sua non compassionevole classificazione sociale. 

E niente di più vero è mai stato descritto: quante volte siamo state gelose, invidiose, rancorose verso i profili delle supermodelle a cui i nostri amati – corrisposti o meno – mettevano fior fior di cuoricini? Lo siamo state e spesso lo siamo ancora perché abbiamo creduto, fino a quel momento, fino a quel like, di essere tutte sulla stessa linea di partenza, agli stessi blocchi. Questo è l’effetto social, quello che ti fa pensare “perché lei sì e io no?”

L’uomo di cui la protagonista vorrebbe essere la compagna è invece un poveraccio con traumi irrisolti, una moglie trofeo, un ego smisurato in compensazione delle mancanze emotive, un sacco di soldi e la spocchia di chi sa di essere in cima alla catena alimentare. Se parla di cause umanitarie lo fa solo per accrescere la sua immagine, non perché deve, non perché le senta, perché di base lui è esente da qualsiasi privazione. 

Se si connette con una donna, lo fa solo per cannibalizzarne le attenzioni. Il modo in cui usa le donne è meccanico, rapido, in una parola: sessista. Insomma, lo standard del maschio bianco cis etero dell’industria culturale, da cui di base e in teoria sappiamo tutte di dover fuggire ma nella pratica non riusciamo, perché subiamo il famoso fascino della narrazione.

E quella narrazione ce la fanno rimbombare dentro proprio i social.

Questi personaggi possono sulla prima sembrare agli occhi inesperti – o privilegiati – delle macchiette. Eppure nel digitale non esistono caratteri più comuni di quelli descritti da Patel. 

E nell’era in cui l’amore lo troviamo e manteniamo proprio grazie ai social media, questi personaggi dovrebbero insegnarci qualcosa, ovvero a proteggere quel fastidio di cui accennavo sopra, perché sintomatico di contatto con il reale.

E nell’amore al tempo dei social le distanze si annullano facendoci credere di appartenere tutti quanti a una stessa comunità, in cui le differenze non esistono e in cui tutti possiamo essere famosi per cinque minuti. In questa dinamica, riconoscere chi non è altro che problematico – o chi gongola nel proprio privilegio – diventa sempre più difficile, proprio perché sviluppiamo dipendenza in brevissimo tempo. 

Pensiamoci un attimo.

Soprassediamo sui profili di uomini adulti che seguono solo donne giovanissime e ragazze neanche maggiorenni riempiendole di emoticon di goccine, occhi a cuore, pesche, perché ci piace pensare che al fondo non siano così, che ci sia dietro qualcosa di misterioso. Ci giriamo dall’altra parte quando chi ci piace non sposa neanche una causa che ci sta a cuore, perché non vogliamo vedere la grande verità, ovvero che non la condivide perché non ne ha bisogno, perché non rivolta a lui. Romanticizziamo relazioni tra personaggi famosi che puzzano di abuso da diecimila chilometri di distanza (ultima tra tutte: Megan Fox e Machine Gun Kelly). Selezioniamo piaceri e infatuazioni replicando il sistema più antico del mondo ovvero quello che ci porta ad amare chi è in vetta alla classifica sociale, e l’odio nell’essere ignorati e ignorate è sovente figlio di un viscerale e problematico “non è possibile che non mi veda, eppure guarda come sono attraente con il mio profilo perfetto”. Ci allineiamo a modelli digitali preconfezionati nella speranza di essere contraccambiati, scritturati per la parte, scelti in una marea di banalità che vuole solo essere come gli altri, quando questi “altri” non sono mai come noi – principalmente perché sono ricchi e più famosi di noi. Cerchiamo di impersonare modelli che non ci rispecchiano solo per sembrare migliori agli occhi di chi ci guarda, ma sono solo dei grandi castelli di carta che ci rendono grotteschi, ben più grotteschi dei due personaggi di Sheena Patel, perché noi siamo reali e non di fantasia.  

E scritta così sembra una condanna, sembriamo succubi della performance anche nella ricerca del partner. Ma il fastidio, questo fastidio che mi tiene incollata alla pagina dell’uomo che mi piace, è la soluzione a questo dilemma. 

Nell’era digitale basta infatti pochissimo per trasformare un sentimento in un altro, totalmente opposto e ugualmente intenso: odi et amo, mai è stato più vero.

E con quel fastidio, con la ricerca spasmodica di una falla nella corazza digitale dell’altra persona, stiamo cercando di interrompere un flusso, quello che ci porta a guardare acriticamente le pagine che ci si presentano davanti, le vetrine di privilegio declinato in differenti modi ma che rimane pur sempre privilegio.

Alla fine della nostra chiacchierata a Più libri più liberi, Sheena Patel mi ha chiesto se vedessi nei social una via di fuga, se pensavo che la collettività – e dunque a seguito ogni singolo – potesse evolvere nel digitale. Sono rimasta in silenzio. Lei mi ha guardata e mi ha detto «Sai che non è possibile, vero, in un luogo dove per essere ascoltati gli esseri umani devono usare la lingua del padrone?».

Ho ripensato a questa frase, cercando di estenderla alla sfera sentimentale che si sviluppa nel digitale e non posso che confermare ciò che detto da Patel: stiamo replicando un mondo in cui il privilegio e la prepotenza degli stereotipi sono immutati. Solo che è più difficile capirlo, in un non-luogo in cui le distanze non sembrano esistere. 

E allora dove sta la verità? Chi siamo, di chi ci siamo innamorati?
Cosa abbiamo guardato finora?

La risposta arriva di nuovo da Sheena Patel: ci siamo innamorati delle aspettative figlie di una società che ci fa rincorrere la stabilità delle persone scintillanti. Queste vanno necessariamente ridimensionate, o ci renderanno ancor più tossico l’amore. Ci faranno piacere persone che nel mondo reale non considereremmo neanche sotto tortura. Ci renderanno sopportabili cose che non dobbiamo mai sopportare, come l’inedia, silenzio, la mediocrità, come il white saviorism, come il sessismo subdolo che serpeggia incessante tra le pagine dei profili. 

E noi, in questo limbo, non possiamo fare altro che continuare a controllare e ricontrollare i profili dei potenziali partner, nella speranza che sia cambiato qualcosa a distanza di qualche secondo, nella speranza che quel bagliore che vediamo sia un diamante quando in realtà è quasi sempre il riflesso del sole su una lattina accartocciata sul ciglio della strada. 

Questo controllo compulsivo ci corrode perché da un lato speriamo davvero che stavolta sia la volta buona, che nessuna lattina ci attenda seminascosta tra i cespugli.

Dall’altro però ci vuole ricordare che ricercare l’errore in mezzo alla vetrina lucida dei social è ancora un procedimento di cui abbiamo un disperato bisogno, perché non ne abbiamo ancora compreso del tutto la portata e la distorsione del reale che li accompagna.

Alla luce di queste elucubrazioni, mi chiedo all’improvviso: quante infatuazioni inutili ho avuto nell’ultimo anno e mezzo?

E mentre sono profondamente esausta da questa riflessione in automatico faccio un gesto con il pollice, tornando a guardare il profilo dell’uomo che mi piace.

Vedo che nel frattempo non ha messo storie, vedo che non ha aggiornato il feed. 

Comprendo che il mio fastidio nei suoi confronti sta proprio nella sua omologazione, nel suo privilegio di genere rivendicato in modo sottile. Nel suo silenzio su quel che ritengo importante. Nel suo bisogno di non usare la sua voce per difendere qualcosa a cui tiene. Nel suo piacere a tutti, grandi e piccini, sempre attento a non essere scomodo. Nel collezionare solo donne nei suoi follow, come fossero in vetrina, interscambiabili, tutte uguali, nella sua testa sono tutte a sua disposizione. 

Mi infastidisco di nuovo.

Mi rendo conto che questo fastidio significa che sono guarita, che non ci sono più cascata nel gioco delle lattine scintillanti: adesso lo capisco subito che proiezione sto guardando e posso agire di conseguenza. 

Posso anche percepire il perché sia più affascinante quando ci vediamo: perché c’è più distanza tra noi, nel mondo reale. E da lontano, in senso ovviamente metaforico, tutto sembra migliore.

Decido quindi di silenziare di nuovo i suoi post e le sue storie, consapevole di quanto sarà più rassicurante non vedere i suoi tondini. 

Controllo il profilo di altre persone, scorro acriticamente prima di accendere la luce e iniziare la mia giornata.

Ho ricevuto una notifica di un messaggio privato. 
Apro la sezione inbox, scorro un po’ col dito e clicco.

È un uomo, mi scrive una battuta intelligente su un articolo di giornale che ho da poco condiviso.

Guardo il suo profilo e mi sembra interessante. Fa lo scrittore. Sorride sempre in foto. 

Gli rispondo con un cuoricino nero.
Chissà se anche lui è una lattina. 

ARTICOLO n. 9 / 2023

SUORE CHE SI COMPORTANO MALE

Sono una grande appassionata di titoli dei libri.
Lo sono da sempre, ma in modo particolare da quando i libri li scrivo anche io.

Durante la stesura in cui sono ancora impegnata, mi sono trovata a invidiare moltissimi titoli del passato, pensando a quanto avrei voluto trovarne io di tanto belli (non perdonerò mai Mario Calabresi per essere stato in grado di battezzare un suo magnifico libro e memoir Spingendo la notte più in là, a mio avviso uno dei titoli più belli mai stati scritti e che con invidia ricordo spesso nelle conversazioni con editor e colleghi: «Perché ci affanniamo? Tanto il titolo più bello della storia se lo è aggiudicato lui»).

Grazie a questa mia passione sovrumana per ciò che cattura l’occhio del lettore frettoloso tra gli scaffali, non è raro che mi imbatta spesso in libri dal nome magnetico; nome che mi porta poi all’acquisto a scatola pressoché chiusa di volumi da me mai presi prima in considerazione.

Qualche settimana fa, questa mia mania ha colpito ancora.

Stavo girando per la mia libreria di fiducia, Todo Modo, qui a Firenze, e all’improvviso ho sperimentato di nuovo questo familiare colpo di fulmine letterario.

Tra gli scaffali, con una copertina rossa e bianca che ricorda la prima pagina dei vecchi tabloid d’oltremanica, un titolo mi stava mandando segnali paragonabili a quelli che le sirene di Ulisse lanciavano ai marinai inermi: 

Suore che si comportano male.
Sottotitolo: “Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali”.
Ho quasi iniziato a sbavare.

L’ho agguantato con velocità in quanto ultima copia in esposizione, mi sono seduta e ho ordinato un bianco mosso per accompagnarmi nella sua prima analisi, quella superficiale, da svolgere comodamente a uno dei tavoli della libreria-bistrot del mio cuore.

La prima cosa che ho notato è che il saggio, scritto da Craig A. Monson e tradotto magistralmente da Luisa Agnese Dalla Fontana, è edito da una mia cara conoscenza, ovvero Il Saggiatore. 

Ho chiamato dunque con prontezza l’editor e curatore editoriale che mi accompagna in questa avventura su The Italian Review, e gli ho comunicato perentoria che, oltre a essere una brutta persona per non avermi mai anticipato nulla su un testo come questo, era mia irremovibile intenzione scriverne un pezzo per la rivista che state or ora leggendo.

Perché le suore?, direte voi.

No, non ho sviluppato un istinto di conversione spirituale, tantomeno desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica (questo per due motivi: sono un’atea anticlericale e sono donna; le donne non vanno fortissimo nella Chiesa Cattolica). Ho avuto bisogno di sfogliare solo per una mezz’ora le pagine per intuire quel che poi avrei confermato con la lettura integrale del saggio: Monson non parla di suore cattive in quanto tali, Monson parla di donne che si ritrovano loro malgrado a essere suore e hanno comportamenti assolutamente normali, ritenuti sbagliati solo dall’imposta clausura.

E questo per me, che sono la Jessica Fletcher degli stereotipi di genere (soprannome coniatomi da Chiara Valerio nel 2021) e che nel mio ultimo memoir (Memoria delle mie puttane allegre, Marsilio, 2022) ho analizzato alcuni legami tra fede, esorcismi e pregiudizi culturali attribuiti al genere femminile, era un piatto troppo ricco per non tuffarmici con entrambe le mani.

Monson, saggista e professore emerito alla Washington University e in precedenza docente con cattedre a Yale e all’Amherst College, ha voluto raccontare una storia tutta italiana del regime di clausura nel periodo compreso tra il 1500 e il 1700. 

Nel 1986, tornando in Italia per un viaggio tra gli archivi fiorentini e soprattutto tra quelli vaticani, Monson ha rintracciato storie di donne e monasteri, di comunità e di vescovi, di famiglie nobiliari e ingenti donazioni. 

Tutta questa mappatura si trasforma in un saggio, a tratti romanzo storico, che racconta alcuni episodi-chiave avvenuti nelle diocesi italiane nel corso dei due secoli presi in analisi, e che ci porta a fare la conoscenza con delle donne ritenute allora cattive, oggi invece da me reputate incredibilmente argute e gelose della loro umanissima natura.

Per comprendere il senso di questa mia ultima affermazione dobbiamo fare il passo indietro che ci permetta di dare una collocazione storica e di costume utile per comprendere i motivi che spingevano le donne, così tante donne, alla vita di clausura.

Per i natanti alla lettura entusiasti nella loro fede, ho delle brutte notizie: sono rarissimi i casi in cui le suore divenivano tali per vocazione.

La clausura era un percorso non interiore, bensì spesso – quasi nella totalità dei casi – imposto.

La scelta di una donna rispettabile – e già qui, il moderno che è in noi sobbalza – non era mai sua. I padri, gli zii, i fratelli sceglievano per lei un destino e la forbice di opzioni non era poi ampia: o il matrimonio, che era a tutti gli effetti una compravendita, o il monachesimo femminile. 

Nel 1200 le suore aumentarono, per questa prassi sociale, in modo smisurato. Nel 1500, soprattutto nella sua seconda metà, i numeri salirono ancora di più. Basti pensare che un motto dell’epoca era “una sola figlia dovrebbe avere marito, le altre dovrebbero avere un muro”, ovvero, in soldoni, la primogenita va in moglie e le altre in convento.

La ragione di questo motto era ben più materiale di quel che si potrebbe pensare: le doti per matrimonio erano ingenti e le famiglie cercavano di risparmiare, dandone in sposa solamente una. Anche i conventi richiedevano beni e denaro per l’ammissione delle novizie, ma la spesa era sicuramente minore rispetto a quella matrimoniale.

La domanda che adesso ci potremmo dunque fare è: ma perché, visto che in ogni caso la famiglia -e per famiglia intendo gli uomini di casa- era costretta a spendere e dividere i propri beni, le donne non maritate non venivano lasciate vivere nelle case paterne?

La risposta ci arriva prontamente da Monson che, raccontando delle abitudini italiane del sedicesimo secolo, ci spiega – a pagina 87 – che il rischio della vita fuori dal convento era troppo alto. No, non stiamo parlando di un pericolo per la vita o la sopravvivenza della donna -ricordiamoci sempre che le novizie venivano da famiglie abbienti – ma di un pericolo morale. Infatti, scrive Monson, «[la donna] per proteggere il proprio onore e quello della famiglia, non usciva mai senza essere accompagnata; i suoi parenti maschi sapevano che era meglio tenerla rinchiusa. In quel modo avrebbe evitato di subire o provocare tentazioni, ma anche di indurre gli altri a pensare che lo stesse facendo, un fatto altrettanto deprecabile».

Gli uomini dunque, per evitare il disonore di una parente violentata o rapita, la chiudevano in convento senza il suo consenso, con la sola colpa di avere un corpo di donna in una società in cui i corpi di donna erano ritenuti oggetti ancor più che oggi.

Questo sistema di leva obbligatoria per la vita monastica vedeva dunque centinaia e centinaia di giovani – usualmente intorno ai 14,15 anni d’età – obbligate a diventare novizie senza però averne la benché minima inclinazione.

E in un regime del terrore e della privazione, della clausura obbligata e della vita cancellata, tra quelle mura sono successi fatti incredibili quanto memorabili, che Monson ci racconta in 300 pagine affascinanti e tragiche. 

Per comprendere infatti la natura delle storie ricostruite e raccontate da Monson, dobbiamo pensare a due elementi fondamentali della natura umana.

Il primo è l’arguzia: le storie delle suore di questo libro sono piene di sagace intelligenza, quel tipo di estro che si sviluppa solo in situazioni di cattività in cui la sopravvivenza è estremamente dura; il secondo è la capacità di creare forme sociali nuove, anche in luoghi in cui spesso le parole sono vietate per lunghissimi periodi (pensiamo alle monache Benedettine e ai lunghi voti del silenzio, per esempio).

In un ambiente ostile perché non voluto e in secoli ricchi di rinnovamento artistico e sociale, vivere dentro a quelle mura diventa per le suore una prova disumana, che le spinge a trovare modi per ribellarsi al limite della genialità e che prevedevano molto spesso la collaborazione delle consorelle, anch’esse vittime di un sistema che non avevano mai scelto. 

Un esempio di questo mio cappello introduttivo ci viene dato dalla vicenda delle canonichesse di San Lorenzo a Bologna, e ricostruito nel primo capitolo del saggio di Monson. Nel 1584 il convento era infatti rinomato per le doti musicali delle suore. Ma l’Inquisizione, in quegli anni, decise di limitare prepotentemente le attività artistiche delle recluse, pensando che il successo delle loro capacità fosse sintomatico di vanità, ergo di peccato.

Le limitazioni – tra cui il divieto assoluto di fare prove o cantare in pubblico, anche durante le funzioni religiose – furono un duro colpo per le giovani donne del San Lorenzo, che provarono in più modi ad arginarle, fallendo sempre e ricevendo più richiami al decoro da parte del vescovato.

Durante l’ottobre di quello stesso anno, la sparizione di una viola dall’aula di musica del convento creò non poco scompiglio. 

Le suore fecero di tutto per ritrovare lo strumento misteriosamente sparito, fino a pregare per ore per avere degli indizi divini.

Dal cielo però tutto tacque. Perciò le sorelle si rivolsero all’unica altra entità soprannaturale capace, secondo loro, di poter risolvere il furto: il Diavolo.

Con una serie di riti satanici – tra cui disegnare grossi cerchi sul pavimento con un coltello e fare divinazione con acqua santa e anelli pagani – le monache provarono a ricevere dei segnali. O forse, come ci suggerisce Monson, a darli a qualcuno di molto terreno.

Infatti non ci volle molto perché la storia uscisse dalle celle e arrivasse alle orecchie dell’arcidiacono. 

Dopo una lunga indagine – durata circa due anni – le sorelle coinvolte nella divinazione satanica vennero scomunicate e quindi rese libere.

Similare fu l’evento incendiario del 1673 al convento San Niccolò di Strozzi. Stavolta non furono scomodate le fiamme dell’inferno, ma quelle del mondo reale.

Il convento era famoso per l’allevamento dei bachi da seta e la produzione dei filamenti grezzi del tessuto pregiato prodotto dalla loro saliva. 

I bachi venivano disposti nel sottotetto del convento, su lunghe stuoie di canneto unte di grasso: un innesto perfetto per uno show quasi pirotecnico. In poche ore il tetto e il convento vennero rasi al suolo dalle fiamme.

Il processo portato avanti dalla Sacra Congregazione mostrò subito come le suore, appena visto del fumo, fossero scappate a gambe levate dalla struttura, non provando neanche per un momento ad arginare l’avanzata demolitrice. 

La fuga fu veloce quanto lunga: le consorelle, infatti, non si fermarono fuori dalla struttura, ma tornarono ognuna nella propria casa natia. 

La cosa puzzò subito di bruciato – perdonatemi, era quasi dovuto – alla Congregazione, che capì che quell’incendio ovviamente doloso fu solo un espediente per la fuga. 

Altre storie di inizio 1500 vedono monache seduttrici (al fine di farsi mettere incinta e quindi svestirsi dai panni della clausura) e travestimenti ingegnosi per fuggire dai conventi per recarsi a teatro o a sentire concerti e canti gregoriani. Insomma, per seguire le sacre – stavolta sì – pulsioni umane, anche le più ingenue, le suore erano disposte a tutto e con incredibile arguzia. 

In quest’ottica di ribellione all’imposizione possiamo dunque rivedere sotto altra luce la storia della monaca più famosa d’Italia, la monaca di Monza, la cui vicenda venne poi romanzata da Manzoni ne I promessi sposi.

Come mi spiegava Marcello Fois a Roma qualche settimana fa, la vicenda monacale ricordataci dal Manzoni era più comune di quel che si pensi. La ribellione era semplicemente manifestazione della imprescindibile natura umana, intrappolata nei corpi delle novizie costrette al voto.

Anche la novella di Boccaccio su Masseto di Lamporecchio, la prima della terza giornata del Decamerone, può essere quindi riletta in ottica differente (Masseto si finge sordomuto per entrare in un convento di monache famose in paese per la loro fame di corpi maschili; la garanzia data dal mutismo del giovane spinge le suore ad accoglierlo tra loro, facendo sesso con lui convinte che il giovane non avrebbe potuto, per la sua condizione, parlarne con nessuno) e sicuramente meno caricaturale.

Gli istinti delle donne, seppur sopiti da una società perfidamente maschilista e controllante, non sono mai stati frenati da regole rigide e prepotenti. 

Certo, la punizione spesso era severa – Monson ci racconta di Cristina Cavazza, monaca del 1700 costretta a 12 anni di isolamento ferreo per essere fuggita dal monastero di santa Cristina a Bologna – e negli anni più duri di psicosi superstiziosa la Chiesa di Roma ha mandato più e più donne al rogo per fatti di natura umana, mai diabolica. 

Eppure, come ci racconta questa raccolta di suore ribelli e geniali, nulla è mai bastato alle donne per arrendersi e smettere di celebrare la propria natura, fosse questa nemica di Dio, dei padri, dei fratelli o della sola, stupida, ignorante superstizione.

Nel riscrivere la storia per dare voce e dignità a vicende come quelle delle monache del sedicesimo e diciassettesimo secolo, i documenti ritrovati e ricomposti da Monson sono preziosi ed emblematici. Uno spaccato brillante di quanto l’estro femminile non sia mai stato sottomesso, neanche dalle mura fredde dei conventi e dal silenzio imposto dagli ordini.

Le suore che si comportano male diventano così delle magnifiche, incendiarie protofemministe disposte a tutto per la dignità di potersi sentire, anche solo per il tempo di una fuga nella notte, libere.

ARTICOLO n. 97 / 2022

OPERETTA MORALE

L'anno che verrà

Passeggere
Come quest’anno passato?

Venditore
Più più assai.

Passeggere
Come quello di là?

Venditore
Più più, illustrissimo.

Passeggere
Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore
Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere
Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore
Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere
A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore
Io? non saprei.

Passeggere
Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore
No in verità, illustrissimo.

Passeggere
E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore
Cotesto si sa.

(Operette morali, Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere)

Nell’arco dei 365 giorni che compongono l’anno, due mi sono fatali: il Ferragosto e il Capodanno.

Due feste di inizio e fine, spartiacque di buoni propositi e lente riprese, momenti in cui si fa la somma di ciò che si è fatto e si inizia poi a dividerla e scomporla in frammenti sempre più piccoli.

Se Ferragosto ha il compito di dividere l’estate, segnandone la inesorabile fine, Capodanno coincide con la fine della conta dei mesi dell’anno e per questo si porta appresso un valore simbolico e morale ancor più pesante del suo torrido fratello.

Se infatti a Ferragosto la fine – delle ferie – non è così repentina, a Capodanno l’ansia assale gran parte del genere umano, conferendoci l’impressione di non aver fatto davvero tutto il possibile per essere felici. E di tempo per rimediare, a Capodanno, ne rimane davvero poco: una manciata di ore e la magia sarà finita. 

Il 31 dicembre celebriamo perciò velocemente e scaramanticamente, con le nostre mutande rosse nuove di pacca, sperando di non ripetere errori già commessi, di portare denaro nelle nostre tasche e di allontanare il dolore che abbiamo accumulato durante l’anno.

È il momento di quell’ultimo messaggio da mandare, del bacio da dare per iniziare con slancio, della festa più rumorosa da organizzare, in modo da esorcizzare il futuro sconosciuto.

Il 31 è una corsa, ogni anno, verso il compimento dei nostri privati quanto imprevedibili desideri.

La macchina da presa scivola veloce su un carrello immaginario che ci segue per tutto il giorno, vedendoci fare commissioni, compiere rituali, muoverci con frenesia; sentendoci nervosi all’aumentare dell’adrenalina, zoomando sui nostri palmi sudati, le nostre facce tese, i sorrisi rigidi.

Il piano sequenza prosegue e arriva alla festa, perché il 31 c’è sempre qualche festa a cui andare o da organizzare, e si muove tra gambe nervose, mani sui cellulari, bicchieri che sbattono, occhiate febbrili all’orologio per controllare quanto manca al primo giorno di un nuovo anno di cui non sappiamo niente ma immaginiamo non sarà uguale al precedente –   come lo sappiamo? con la scaramanzia – e verso il quale nutriamo speranze enormi quanto naïf.

Queste speranze sono ataviche e comprensibili, si allacciano a doppio nodo alla solennità di un momento rituale come il Capodanno, ci aprono le porte al nuovo – che, come scrisse Leopardi in quell’Operetta Morale che ho usato come esergo, è l’unica forma in cui la felicità sopravvive e coincide con il futuro – e si incastrano in ogni nostra più profonda paura: se siamo soli, se siamo senza soldi, se non abbiamo la salute, se non siamo del tutto sereni o se, per paradosso, lo siamo troppo, Capodanno ci rende inquieti, perché ci pone delle domande a cui noi, di base, non abbiamo mica poi tanta voglia di rispondere.

Quest’ansia di incompiutezza, che diviene rituale propiziatorio, è uno dei temi pop più conosciuti e visionati, da Harry e Sally che si corrono incontro a New York prima della mezzanotte, a Marissa e Ryan in una serie TVambientata a Los Angeles in cui tutti sono in maniche corte. Da Bridget Jones che corre in pigiama per Londra per fermare l’uomo di cui è innamorata a L’appartamento (Billy Wilder, 1960), in cui Shirley MacLaine corre da Jack Lemmon prima dello scoccare del nuovo anno. Le aspettative – che coincidono con il combattere la solitudine costi quel che costi – si racchiudono in una sola notte all’anno e ci fanno credere che anche per noi ci saranno fughe nella notte in pigiama e baci al conto alla rovescia, soldi facili, vita in discesa.

Ma nel mondo reale siamo molto più simili al Capodanno del primo, indimenticabile Fantozzi o a quello di Risate di gioia (1960) di Monicelli.

Solo che ogni anno, ogni Capodanno, noi ci illudiamo che stavolta non sarà così, che celebreremo un rito propiziatorio perfetto e che dunque l’anno che verrà inizierà e proseguirà con il botto.

Questo rituale tutto pagano infatti ci porta a pensare che ciò che faremo a Capodanno lo faremo per tutto il resto dei 364 giorni che ci attendono, caricando di aspettativa il futuro, scollegandolo dal reale stato in cui versa la – nostra – storia.

Ho iniziato scrivendo che io Capodanno lo soffro molto, proprio per questa sua voglia di alienarci dal reale e spingerci a credere di poter rimediare e concludere immaginari cicli vitali. Da brava atea quale sono, trovo infatti impossibile la redenzione immediata del Capodanno, elevato nel suo valore a giubileo pagano.

Mi chiedo dunque, ogni 31 dicembre, come chiunque al mondo, come sarà l’anno nuovo. E cerco di darmi risposte concrete quanto plausibili, cercando di allontanare da me l’idea che se farò tutto come devo allora avrò in premio il futuro che desidero ardentemente, cercando di contemplare l’impossibilità della previsione dell’avvenire che, secondo Leopardi, proprio nella sua imprevedibilità racchiude la così tanto agognata gioia. Ma ci sono delle cose più grandi di me, del mio orticello, del cuore caldo e rassicurante del mio nido, che posso provare a immaginare e prevedere in questo 2023.

Sono anteprime che mi, e ci è concesso avere perché sono legate a sistemi che esulano dal caso e dalla fortuna, come la politica e la cultura. Perciò, mentre evito di chiedermi che binari prenderà la mia privata esistenza il prossimo anno, mi domando cosa ne sarà del sistema che ci gravita attorno e provo come esercizio a descrivere l’anno che verrà.

Non avremo macchine volanti, non ci saranno abitanti sulla Luna e tantomeno su Marte. 

Avremo ancora una guerra di serie A da gestire e altre, ritenute di serie B, da ignorare. I nostri politici finanzieranno ancora le guardie costiere che minacciano il mediterraneo? Ho il terrore di poter prevedere con esattezza la risposta.

Nell’anno che verrà, ci annoieremo ancor di più di approfondire le notizie che riceviamo incessantemente da ogni device in nostro possesso, e questo farà un favore enorme a chi ci governa e governerà, a prescindere dal colore politico: un popolo disinformato è più facile da sottomettere.

La violenza prenderà ancora una posizione politica: se a commetterla sono persone nere allora verrà resa nota e funzionale alla propaganda; il resto degli omicidi e degli stupri passeranno invece indisturbati tra i fatti di cronaca non rilevanti. No, i femminicidi non diminuiranno. 

Il clima rimarrà fuori dalla politica e diventerà solo argomento da bar o da vicini di ombrellone (“non ci sono più le mezze stagioni” / “già, di sera qualche anno fa qui si usciva con il maglioncino a manica lunga”), perché nessuno vuole mettersi contro chi ha i soldi, tantomeno chi governa i paesi ricchi del mondo.

Il riconoscimento dei diritti fondamentali sta prendendo una brutta piega da qualche anno e dubito che avremo una ventata di progressismo a strettissimo giro: unioni civili, 194, 180 e Ius Soli non avranno lo spazio necessario neanche nel 2023.

L’anno che verrà non sembra quindi una gran festa, da queste premesse. Però noto una nuova scintilla, che si fa più nitida mese dopo mese e credo prenderà più consistenza nel 2023.

La nuova generazione ha fame, determinazione e intelligenza da vendere. E i mezzi per poter alzare la voce.

La mia generazione è pronta dunque a sostenerla, perché sappiamo che fine possono fare i giovani quando vengono picchiati e non ascoltati: noi Millennial siamo stati educati proprio così e guarda come cazzo stiamo.

La cultura non era così bramosa di novità e nuove idee da tantissimo tempo e la controcultura è al suo massimo splendore. Le piazze e i collettivi si stanno ripopolando, così come le associazioni e le sedi sindacali.

C’è, per l’anno che verrà, una previsione di nuova energia, una spinta per il rinnovamento sociale e culturale che mi rassicura e rincuora e credo sia, in definitiva, l’unica forma di futuro sulla quale possiamo concretamente lavorare, nutrendola, tutelandola, dandole spazio e respiro affinché non soffochi o venga, al peggio, soffocata.

Nell’anno che verrà non so cosa sarà di me, di chi amo, di chi odio, di chi mi sono dimenticata o mi dimenticherò. So solo due cose: che se il nostro futuro come singoli è imprevedibile – perciò ci porta gioia al solo pensiero, come raccontano le Operette morali – e ogni rituale propiziatorio è di per sé inutile. Il futuro della collettività non lo è, perché già ben delineato su quella linea curva che determina l’andamento della storia del mondo. E se davvero possiamo prevedere dove stiamo andando, sarebbe da scellerati non fare qualsiasi cosa in nostro potere per migliorare le cose.

L’anno che verrà spero, e credo che sia pieno di partecipazione. Questo Capodanno, al conto alla rovescia, pensiamo all’unico futuro che possiamo prevedere e permetterci, ovvero quello collettivo.Che, metti caso girasse bene, magari ci porterà proprio a quella felicità che Leopardi sapeva annusare ma non agguantare. 

ARTICOLO n. 90 / 2022

LIBERA NOS A MALO

Liberaci dal male.

Questo mi sembra che tutti i media e la società civile chiedano a noi sopravvissute alla violenza di genere, quando vedo iniziare la rincorsa affannosa alle nostre testimonianze con l’avvicinarsi del 25 novembre.

Liberaci dal male e solleva la nostra coscienza dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per sensibilizzare sul tema della violenza maschile contro le donne nei restanti 364 giorni dell’anno.

La mia casella di posta si riempie di notifiche nelle settimane immediatamente precedenti a questa.

Convegni, programmi televisivi, interviste, panel, richieste di tenere speech, monologhi, lezioni, dirette, consigli e recitare atti di dolore nell’etere. 

Si richiede prontezza di risposta, magari qualche lacrima, due o tre domande sui genitori perché fanno sempre piangere, una buona dose di grinta per chiudere e l’immancabile «cosa ci consigli di fare per renderci utili nel nostro piccolo?», saluti guardando in camera e ora passiamo ai consigli per gli acquisti.

Il 25 novembre, ovvero la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il mondo si tinge d’arancione. Segni rossicci sulla faccia di vip più o meno noti, politici di ogni lato che cavalcano l’onda per rimediare uno 0,1% in più ai sondaggi della domenica, pagine di gossip che improvvisamente ci ricordano quanto sia terribile menare le proprie partner, quadrati arancio su ogni profilo Instagram, articoli cupi e sconfortati di testate che per tutto il resto dell’anno fanno disinformazione sul femminicidio rafforzando stereotipi e bias che ci portiamo dietro da sempre, programmi TV che ogni domenica sera invitano gli spettatori a dubitare delle vittime di violenza e che però in questa data fanno improvvisamente servizi speciali con volti contriti e ritrovata serietà, commentatori del web che fino al giorno prima scrivevano oscenità sotto ai post delle giornaliste e attiviste che si occupano di questi temi e che magicamente, per 24 surreali ore, trovano la pietas necessaria per postare la foto del loro calciatore preferito con il segno rosso sul volto, «Grazie Ibra sei sempre un campione di umanità».

Muori puttana, zitta troia, non abbiamo problemi noi maschi, ti piace fare la vittima, non ti va mai bene niente, non tutti gli uomini sono violenti, ti dovrebbero scopare di più, eppure mi sembri felice per essere una che è stata menata dall’ex, ti auguro ti stuprino bene, guarda che sei fissata, sei pesante, vi lamentate sempre, se non ti ci fidanzavi non ti succedeva, hai spaccato i coglioni, stai zitta, zitta, zitta troia.

Questo è ciò che ricevo ogni giorno della mia vita sui social media. Ogni fottuto giorno dell’anno tranne uno: il 25 novembre.

Dopo il mio usuale post sulla scarsità di impegno che mettiamo nell’affrontare il tema della violenza sulle donne, ricevo migliaia di commenti contenenti cuori, lacrime, emoji di abbracci.

Dalla mezzanotte però, come se un immaginario timer scadesse, come se Cenerentola stesse rientrando a casa incazzata per non essersi divertita abbastanza e aver pure perso una scarpa alla festa, quello stesso post inizia a riempirsi di commenti piccati, di code di paglia, di «sei paranoica», «tu hai un problema con gli uomini», «io che sono cresciuto in una famiglia di donne ti dico che ti sbagli» (per bizzarria del caso, posso assicurare che le persone più misogine e sessiste che abbia mai incontrato in vita mia hanno sempre iniziato il loro discorso con questa frase, come se poi la vicinanza femminile esonerasse dall’essere stronzi o problematici).

Quando finisce la ricorrenza, dalle fogne della nostra coscienza comincia a riemergere l’animale che ci portiamo dentro, quello che ci dice che alla fine la violenza maschile non è un problema poi così grosso, che i numeri sono bassi, che gli uomini muoiono più delle donne, che siamo esagerate noi scrittrici progressiste perché abbiamo un’ossessione, lo facciamo per notorietà, mancanza di sesso, sicuramente traiamo vantaggio da questo continuo lamentarci.

L’animale che ci portiamo dentro ha un timer, una sveglia interna, che gli impedisce di resistere in posizione di ascolto per più di 24 ore. 

L’animale che ci portiamo dentro lo conosciamo bene, lo vediamo emergere sempre, ha fatto anche lui la scuola cattolica da cui sono usciti i peggiori femminicida della storia del nostro paese.

La scuola cattolica è un concetto interessante, una sineddoche più che altro. La scuola cattolica del nostro animale è infatti la società patriarcale in cui viviamo. 

Ci pensavo, a questo concetto, rileggendo qualche passaggio del libro omonimo di Edoardo Albinati, premio Strega 2016, che descrive molto bene il dualismo che ci teniamo dentro come se fosse un segreto inconfessabile.

Da un lato, noi esseri umani abbiamo bisogno di dimostrare il nostro essere benintenzionati, ma dall’altro ci piace la faccia da ipertiroideo di Angelo Izzo che ci ricorda un po’ noi ogni volta che confessiamo allo specchio ciò che non avremmo il coraggio di ammettere a voce alta davanti a un nostro simile.

Se per essere considerati buoni cittadini abbiamo bisogno di una facciata di cristiana morigeratezza, il nostro animo più profondo ci ricorda che il bisogno di potere è insaziabile per noi esseri umani.

Il potere che bramiamo è quello di avere ragione, di rimanere comodi e preferibilmente giudicanti, di non ascoltare chi di queste materie ne sa qualcosa e di reputare i nostri bisogni immediati i più importanti al mondo – da qui nascono i vari commenti social e giornalistici che recitano «ci sono cose più importanti a cui pensare» – e soprattutto quello di poter disporre dei corpi delle donne a nostro piacimento, in ogni situazione, in ogni modo, fisico o anche solo mentale.

Il potere, questo potere, è fatto di materiale plasmabile e vischioso, si adatta all’occasione come fosse un vestito che ci cade addosso perfettamente.

Quando Donatella Colasanti, alle 22:50 di quel 30 settembre 1975 venne fotografata mentre usciva dal bagagliaio della 127 bianca parcheggiata in viale Pola a Roma, arrampicandosi sul cadavere massacrato di Rosaria Lopez, l’animale che ci portiamo dentro ha sussultato e si è subito vestito a lutto.

Ci siamo ammutoliti, abbiamo provato pena, orrore, compassione, disgusto e paura. Ci siamo chiesti cosa ne fosse del genere umano.

Ma il timer che aziona la bestia ci ha messo poco a trillare di nuovo.

Già nei primi giorni del processo a quello che venne chiamato “massacro del Circeo”, la società civile, i giornali e gli avvocati di Izzo, Ghira e Guido hanno iniziato a nutrire la smania di potere nei confronti del corpo e della vita di Colasanti.

Il potere di schiacciare una testimonianza così forte, che avrebbe inevitabilmente inficiato la possibilità di uscirne puliti a tre giovani della Roma bene, tre fascisti in erba dal bell’aspetto e il conto in banca pieno, è diventato incontenibile: si era sempre creduto che il male abitasse solo nei bassifondi; ora che si scoperchiava questo vaso di Pandora, come si sarebbero salvati i ricchi dall’onta che li aveva appena investiti?

Mentre gli avvocati dei tre assassini e stupratori ricordavano quanto i costumi di Colasanti fossero stati leggeri nell’accettare un invito da tre semisconosciuti, le brave famiglie italiane riunite intorno al tavolo della cena con il televisore acceso ripetevano come in un mantra che alle loro figlie certe cose non potevano accadere, perché non erano come quella lì del bagagliaio. 

Loro erano perbene. 
Loro avevano una certa morale. 
Loro, le figlie, le controllavano a vista.

Giudicando Colasanti per la sua voglia di vita assolutamente normale, la società civile e il pool di avvocati della difesa ribaltavano il senso del processo stesso, rendendola, da vittima, principale accusata. 

Come ricordò Tina Lagostena Bassi, che difese Colasanti nel processo del massacro al Circeo e fu la prima avvocata a usare la parola stupro in un’arringa (“Processo per stupro” del 1979 portò con la Rai per la prima volta il senso di colpa nelle case degli italiani, facendo ingoiare qualche amaro boccone a quelle tavole immacolate piene di sicumera), le udienze non erano contro la sua assistita: lei era l’accusa, non la difesa, come invece stava emergendo dagli atti e dalle parole degli avvocati, che cercavano di screditare il corpo di Colasanti e la sua condotta, ritenuta immorale e non coerente.

Eppure il ribaltamento di ruoli a cui venne sottoposta era inevitabile, troppo invitante, ed era così facile silenziare una voce in un paese che non voleva altro che essere rassicurato del fatto di avere ancora tutto sotto controllo, tutto ancora in suo potere – i nostri maschi certe cose non le fanno, no?

Giudicata colpevole da una giuria immaginaria composta dalla nostra collettività, Colasanti si è adoperata per tutta la sua ahimè troppo breve vita nel ribaltare la concezione patriarcale e di possesso che impera sui corpi delle donne; concezione che li vuole sempre sotto giudizio e sempre in fallo.

Questa concezione, di cui si nutre il nostro animale, è deliziosamente da scuola cattolica.

Da un lato la morale e dall’altro la violenza cieca per salvaguardarla. Il silenzio come arma per non sporcarsi la nomea e la fedina penale, il potere per distruggere chiunque voglia attaccare questo sistema perfettamente collaudato e sorretto su un dislivello sociale e culturale di discendenza millenaria: il sessismo patriarcale.

Questo sessismo ci portava e ci porta ancora – e porterà in futuro – a controllare le donne, a volerle silenziare, a volerle mettere sul banco degli imputati, a dar loro delle poco di buono, delle frustrate, delle lamentose, delle galline, delle troie – zitte, troie – che sono finite così solo perché non sono state abbastanza ligie alla morale e alle regole di quella strana scuola cattolica a cui nessuna di noi si è mai volontariamente iscritta.

Dal 1975 le cose sono cambiate, legalmente parlando. Abbiamo vinto battaglie, lo stupro è un reato contro la persona e il delitto d’onore sembra quasi un ricordo lontano, anche se non lo è.

Ma a livello culturale, noi siamo ancora posseduti da Izzo, Ghira e Guido. Noi siamo ancora Izzo, Ghira e Guido.

Mi piacerebbe poter parlare oggi con Donatella Colasanti e Tina Lagostena Bassi per dire loro che alla fine, nel 2022, la scuola che forma generazioni di assetati di potere, noi l’abbiamo smantellata. Che quei ruoli di vittime e carnefici sono finalmente ben definiti. Che i media hanno imparato a fare cultura e che la società civile ha capito come salvare le nostre vite. 

Ma non è così. Noi, agli animali che ci portiamo dentro, abbiamo continuato a dare da mangiare senza sosta e senza vergogna.

E questo infatti è ciò che metaforicamente facciamo ancora oggi: nutriamo la nostra bestia interiore. Tentiamo di mantenere in equilibrio la nostra morale, purgandoci solo il 25 novembre ma lasciando invariato il sistema di potere tutto il resto dell’anno, perché ci si possa ricordare che, a chi è in cima alla catena alimentare, certe cose non succedono. Che chi sta sulla cima è intoccabile. Che se sbagli una volta, donna, tu sei fuori dal gioco.

Lasciamo tutto invariato e difendiamo il nostro diritto a screditare i corpi delle donne e delle sopravvissute perché in fondo, a noi, la violenza sugli altri piace.

Piace da morire, anche se non siamo in grado di dirlo a voce alta, per paura che qualcuno giudichi la nostra, di morale.

Ci fa sentire al sicuro mantenere il potere. 

Ci fa tirare grandi sospiri di sollievo. Ci ricorda che se fai un passo falso o vuoi uscire dal seminato, se rinneghi la scuola cattolica che prega di mantenere per sempre il primato supremo del poter esprimere il giudizio definitivo, allora vieni cancellata.

La violenza dei commenti sui social (sui quali ci esponiamo perché riteniamo le piattaforme dei luoghi in cui noi non esistiamo realmente) del mettere in dubbio le parole di chi sopravvive, dello scrivere articoli di giornale che morbosamente raccontano la bellezza di due sex worker appena trucidate, i «cosa ne pensate della ragazza vittima di Genovese?» usciti dai nostri televisori per mesi, i «puttana, doveva ammazzarti» che leggo nei miei direct su Instagram sono tutti figli del nostro bisogno di potere. Sono tutti gli insegnamenti di quella scuola cattolica che tanto ci sta a cuore.

E questo potere di voler ammutolire le donne e chi ne prende le loro difese, quello che vedo quotidianamente, è lo stesso che ha mosso Izzo, Ghira e Guido.

È lo stesso identico desiderio di potere che avevano Genovese, Weinstein, coloro che commettono femminicidio.

L’animale che ci portiamo dentro e si nutre di controllo è uguale in tutti, perché il suo embrione è lo stesso: è la cultura in cui nasciamo, in cui veniamo formati, dalla quale veniamo bombardati ogni giorno da ogni media, audiovisivo, social, prodotto.

Siamo tutti colpevoli di non fermare la bestia che ci cresce da millenni. Tutti.

Certo, poi però fate un post per il 25 novembre, o un articolo di giornale strappalacrime o un servizio TV da magone in gola.

Ma qualcuno deve dirvelo: le vostre purghe di un giorno non servono a niente. Non servono a salvare vite, a ricordare quelle che non ci sono più o a prevenire violenze future.

Servono solo a voi, alla vostra morale, al vostro animale per sentirsi meno colpevole, meno sul banco degli imputati, meno Izzo, meno Ghira, meno Guido.

Eppure voi non siete Donatella Colasanti.
E io non sono qui per ripulirvi la coscienza.

Sono qui per ricordarvi che fare ciò che fate, ovvero stare fermi tranne un giorno su 365 di quelli che compongono un anno, è una scelta. 

Ma che quella scelta lì, quella che vota tacitamente per rivendicare il potere di decidere sui nostri corpi di donne, ci ammazza.

Non sono qui per rassicurarvi che a voi non succederà di diventare cattivi, perché voi lo siete già. Lo siamo stati tutti.

Ma qualcuno ha scelto di rimanerlo.

Non vi prometterò che voi non sarete i prossimi sul banco degli imputati. Non è il mio mestiere né il mio interesse liberarvi dal male.

Non sono qui per farvi sentire persone migliori una volta l’anno con la mia storia di sopravvivenza. Sono qui per farvi male, darvi fastidio e ricordavi i ruoli.

Sono qui per ricordarvi che se non fate niente, se rimanete in silenzio, se non fermate la catena, se continuate a scrivere articoli che ci dipingono come oggetti, se non vi lavate da soli le mani dalle parole d’odio che ci riversate addosso ogni giorno dell’anno tranne uno, allora siete proprio come Izzo, Ghira, Guido e tutti gli altri che ci hanno sempre volute zitte, colpevoli, troie, morte.

L’animale che ci portiamo dentro si nutre di una cosa sola: la connivenza che nasce dal silenzio.

E un quadrato arancione postato un solo giorno all’anno non ha mai salvato nessuna.

Non ha mai fatto chiudere la scuola cattolica in cui continuiamo a iscriverci anno dopo anno, nei secoli dei secoli.

Amen.

A Donatella Colasanti.
Ci stiamo ancora battendo per la verità.

ARTICOLO n. 61 / 2022

L’ESTATE È UNA DROGA BUONISSIMA CHE FA DAVVERO MALE

Dove sarò questa estate?

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline…
Cesare Pavese, La bella estate

Ricordo con precisione un periodo della mia vita compreso tra il 2005 e il 2015 in cui noi milanesi di adozione continuavamo a ripeterci, assuefatti dall’ottica della FOMO (Fear Of Missing Out, la maledizione di noi Millennial che ti porta ad aver paura di non essere sempre al centro della scena, facendoti perdere il luogo, la festa, il tema o la situazione del giorno, ndr), che l’estate fosse soltanto una stupida parentesi per i poco fantasiosi e per le cosiddette masse.

La maggior parte delle persone della mia età e dei miei conoscenti affermava con ferocia che rimanere in città fosse decisamente meglio: pensavano che le persone sopravvalutassero la stagione estiva e ripetevano come un mantra la leggenda per la quale la metropoli nella calura di agosto diventasse quasi romantica. Bugia. Milano, in estate, nella prima decade dei 2000 faceva paura e la città deserta era letteralmente in mano alla piccola criminalità. Ma a noi sparuti spatriati non sembravano interessare i furti, gli scippi, l’aumento incontrollabile degli stupri, e ci ripetevamo allo specchio come un mantra, mentre i nostri contratti in nero non ci concedevano ferie, che Milano fosse meravigliosa in agosto: dopotutto, morire di caldo in una stanza doppia a Famagosta fa meno male quando sposi le bugie a cui sei costretto a credere per sopravvivere senza impazzire.

L’estate dunque non andava particolarmente di moda e moltissime persone si convincevano di quanto questo disgusto fosse anche il loro: nessuno prendeva il sole, c’era tra alcuni quasi una tacita gara – dal sapore preoccupantemente razzista e classista – a chi rimaneva con la pelle più chiara degli altri: evidente dimostrazione di non aver mai abbandonato la città o indossato il costume per tutta la stagione estiva, quasi fosse una medaglia al valore.

Vestivamo tutti di nero, ci ostinavamo a passeggiare sulla Darsena nelle ore di punta ricoperti di crema solare e lasciavamo il mare per lavori mal retribuiti e senza garanzie, con la promessa di una birra all’idroscalo o una serata estiva di clubbing all’aperto.

Dopo la Fashion Week del mese di giugno, la città iniziava lentamente e inesorabilmente a svuotarsi dei più ricchi e dei più anziani. Me ne rendevo conto subito perché al bar dove ho lavorato per otto anni prima come cameriera e poi come bartender si presentavano sempre le stesse facce. Le facce degli irriducibili, di chi l’estate, addosso, non l’avrebbe avuta. Di chi non poteva cambiare la routine e quindi si convinceva, con incredibile sforzo di auto ipnosi, di non volerla cambiare.

Era una grande bugia quella sulla bruttezza dell’estate e la vedo nitidamente solo adesso, quasi 20 anni dopo quel mio primo periodo di sudore meneghino.

Per capire meglio la triste verità che ho intuito dietro a quel rifiuto verso le vacanze estive e comprendere la derapata che il senso di estate ha preso per la mia generazione devo fare un passo indietro.

C’è stato infatti un momento preciso in cui l’estate ha smesso di rilassarci, a noi Millennial.

Già, perché, quando ero bambina, trent’anni fa, l’estate era il momento di stacco per eccellenza, di sospensione della routine, di respiro dall’inverno.

Ho sempre avuto l’impressione che l’estate fosse magica, che sapesse di vita più di ogni altra stagione.

Sarà perché vivo gran parte dell’anno in un posto di mare, che per sua natura si apre stagionalmente ai turisti ma che in inverno cessa di esistere. Sarà perché non soffro affatto il calore ma patisco con incredibile dolore il freddo dei mesi invernali. O sarà forse perché credo che tutti i corpi, seminudi e sudati, siano più onesti e incredibilmente teneri che in ogni altra dimensione pensata per noi esseri umani.

Fatto sta che il mio pensiero sull’estate è stato quasi sempre ricolmo di infinito amore.

Ho scritto per anni di memorie familiari e personali che mi legano all’alta stagione. Piccoli racconti, un memoir, alcuni articoli che rendono romantica la calura e i luoghi in cui solitamente la vivo. Ma crescendo ho iniziato a capire, anche grazie a quegli anni di agosto in città, che a me l’estate piace perché sotto sotto è più umana degli esseri umani.

E negli ultimi due anni di Coronacene il mio sentimento di affetto e di incredibile curiosità per la stagione estiva è aumentato esponenzialmente.

Pavese, con cui ho aperto questa mia riflessione, aveva descritto molto bene, nella sua trilogia La bella estate del 1949, il sentimento prevalente nei giorni estivi: la stagione della calura è un climax di aspettative che si risolve in una prevedibile quanto opposta disillusione.

Se per secoli l’estate era stata prerogativa dei ricchi (si chiamavano infatti vacanze, non ferie: non è un dettaglio da poco), con il boom economico le ferie – che per Costituzione spettano a ogni lavoratore –, divennero un rituale nazionale ben più diffuso.

Le carovane di auto stracariche e i treni speciali con tratte rafforzate, le città deserte, gli abbonamenti speciali ai giornali da far recapitare all’indirizzo di villeggiatura, la riunione di nuclei familiari, il ritorno nei luoghi d’origine erano un momento di incredibile socialità e respiro per sempre più persone.

I primi stabilimenti balneari divennero agglomerati di famiglie che interrompevano la routine. Tra il 1968 e il 1970 gli alberghi delle località di villeggiatura contavano un milione e mezzo di posti letto in più rispetto alla decade precedente. Insomma, le ferie erano diventate una questione nazionale piuttosto comune che escludeva chi non aveva lavoro, chi era nella soglia di povertà che come sempre veniva – e viene ancora – ignorato dallo Stato, e i lavoratori in nero.

L’aspettativa che da sempre abbiamo accostato alla vacanza (Ci innamoreremo? Ci succederanno avventure meravigliose? Avremo qualcosa da raccontare agli amici al nostro ritorno? Avremo il famoso “corpo da spiaggia” che le riviste ci hanno fatto credere di dover avere per scendere a mare?) aumenta negli Anni ‘80 e poi nei ruggenti e vuoti ‘90. Dalle leggende sulle turiste tedesche, ai corpi sempre più performanti; dal luccichio del lusso cafone della Costa Smeralda e dei suoi nuovi inquilini alla sempre più disperata necessità di ostentare ricchezza anche senza averla, la vacanza diventa assoluta performance.

E questa performance è diventata ancor più incontrollabile con l’avvento dei telefonini con videocamera, che hanno preso il posto delle diapositive – per chi è molto giovane: vi siete evitati una bella tortura post vacanziera, e un po’ vi invidio – e poi dei social, che ci fanno vedere stili di vita irraggiungibili e assurdamente iper-celebrati alternandoli a video di gattini, insalate di riso e ombrelloni in quinta fila (le file degli stabilimenti balneari sono una deliziosa, crudele e ironica rappresentazione della gerarchia sociale, un giorno ne riparleremo, promesso).

Negli anni milanesi di cui sopra, quelli dei miei venti – ben poco ruggenti –, inizia però a cambiare qualcosa nel modo in cui noi Millennial vivevamo l’estate.

Infatti, se da bambini ci crogiolavamo sul sedile posteriore della macchina dei nostri genitori ascoltando musicassette comprate con i giornali in edicola, da quasi adulti impreparati alla vita ci troviamo in mano un mondo del lavoro che non solo non ci vuole, ma che se per caso ci fa il favore di assumerci lo fa in nero, o con contratti Co.Co.Co o con i voucher INPS. Se sei stagista – modo carino per indicare una forma di schiavitù – spesso non ti pagano neanche.

Quindi le vacanze diventano il nemico.

I nostri genitori scappavano al fresco, i nonni ancora vivi si godevano la campagna, i nostri fratelli piccoli erano con i parenti e noi cercavamo di capire come mai ci fosse toccata sta piaga fatta di contratti di merda e vomito biliare.

La fase dell’aspettativa e dell’emozione, ben descritta tramite il personaggio di Ginia in La bella estate di Pavese, non esisteva più. Eravamo già catapultati nella fase della disillusione.

Poche cose positive posso dire sulla mia generazione, ma una tra queste la reputo sublime: siamo stati talmente poco in grado di ribellarci anche quando avevamo ragione (spoiler: sempre), che siamo diventati campioni mondiali di rassegnazione. Quindi, piuttosto che imporci e denunciare chi ci faceva lavorare per quattro euro l’ora, abbiamo reso romantica l’estate in città.

La situazione di stallo di quella infelice decade si sblocca un po’ con l’avvento del digitale e dei posti di lavoro che incredibilmente abbiamo creato dal nulla. Apriamo una sequela infinita di partite iva perché comunque assumere non ci assumono, monopolizziamo uno spazio importante dell’industria creativa e digitale e riusciamo a sopravvivere nonostante gentrificazione, affitti fuori controllo, costo della vita da Emirati Arabi.

Ci riappropriamo giusto per un paio d’anni dell’estate, giusto il tempo di riassaporare quel sentore di idillio e aspettativa illusoria di poter fare cose incredibili sotto al solleone, che arriva il Coronavirus a ricordarci che forse non era proprio il nostro momento storico, cari colleghi Millennial.

Le vacanze durante il Coronacene sono diventate un fenomeno di semi-isteria collettiva totalmente giustificata. Dopo anni – due – di restrizioni, morti, licenziamenti, cambio del tenore di vita, soglie di povertà mai raggiunte, aumento della violenza, paura, incertezza, crisi climatica ormai irreversibile, nel momento in cui arriva l’estate non siamo più “vacanzieri”. Cambia perfino il lessico con cui ci approcciamo all’estate, con l’arrivo del virus: non andiamo “in vacanza”, bensì “ci aprono”.

E noi tutti, come animali in cattività, abbiamo respirato questa illusione di libertà con incredibile tumulto: dobbiamo approfittarne “prima che ci richiudano”. Dobbiamo fare quello che non abbiamo potuto fare mentre contribuivamo al mantenimento della salute collettiva. 

Ed eccoci qui, che progettiamo la fuga, imballiamo le mete turistiche, spendiamo il triplo rispetto agli anni precedenti e diamo tutto, tutto quanto ci rimane in termini di energia, come se ci scappasse la vita dalle mani, come se avessimo paura di non avere più tempo – lo abbiamo?

Abbiamo, negli ultimi decenni, smontato e rimontato il concetto d’estate come magia e illusione.

Ci siamo ritrovati a perdere l’adolescenza che questo periodo simboleggiava per tutti, trasformandola prima in rassegnazione e poi in bulimica urgenza di sistemare le cose perdute e pruriginosa ansia di non aver più tempo per farle in futuro.

L’estate, anno dopo anno, diventa sempre più umana, prende vita e annusa la società e le sue paure. L’estate ci rende quanto più simili alla nostra natura e alla nostra generazione di appartenenza di quanto si creda. L’estate ci lascia nudi e sudati, impauriti, come i corpi sul mare.

L’estate diventa più umana di noi e ci fa venire paura. Paura di non vederla più. Paura di non provare più quell’illusione adolescenziale. Paura di non avere più tempo, più soldi, più giorni liberi. L’estate, vista così, potrebbe essere un momento perfetto di rivoluzione, che ci ricorda da dove veniamo, come abbiamo dormicchiato per tutto l’inverno, e dove potremmo andare: di nuovo, la promessa di avventure incredibili incatenate in un inverno di disillusioni. L’estate è una droga buonissima che fa davvero male. Ecco perché, in definitiva, io la amo così tanto.

ARTICOLO n. 45 / 2022

SUPERFICI TRASPARENTI

Ho sentito un rumore intermittente.

Come se qualcosa di piuttosto aggressivo continuasse a sbattere contro le pareti della stanza attigua.

Un rumore cupo e simile a un ronzio.

Non poteva essere un moscone: troppo incazzato.

Neanche una locusta: troppo veloce.

Mi affaccio nel mio studiolo e improvvisamente comprendo la natura di questo rumore contro il vetro della finestra che si affaccia sul giardino, un grosso calabrone dal corpo lungo e le ali spiegate si dimena tentando di uscire. 

Sbatte ostinato per cercare la fuga, deve essere entrato questa mattina, quando ho spalancato le finestre come faccio ogni giorno, appena sveglia.

Si divincola dalle tende, ogni tanto fa dei voli più larghi ma poi finisce sempre per tornare sulla superficie trasparente del vetro della finestra, convinto che a forza di sbatterci contro potrà liberarsi.

Si ferma, recupera le forze e poi ricomincia, ronzando ogni volta più forte, sbattendo ogni volta con più violenza.

Mi immobilizzo all’istante.

Ne ho paura, io, di quell’animale.

Ne sono terrorizzata perché sono allergica. Una puntura di quell’insetto bellissimo quanto pericoloso porterebbe me a uno shock anafilattico. E lui a morte sicura, in un do ut des al ribasso.

Si ferma di nuovo sul vetro, abbassa le ali, sosta per qualche interminabile secondo sul bordo di legno della finestra e poi non so se percepisca me o lo spazio libero alle mie spalle, fatto sta che inizia a venirmi contro con il suo volo nervoso e impaurito.

Con un automatismo rapido mi sblocco dalla mia immobilità, indietreggio di scatto. E chiudo alle mie spalle la porta dello studio con un colpo secco, imprigionandolo al suo interno.

Lo sento sbattere contro la porta, adesso. Mi fermo, sono scalza. Le dita nude dei mi piedi arpionate al parquet. Ascolto il suo ronzare dall’altra parte della porta: ora più vicino, ora nuovamente più lontano, verso l’illusoria promessa di libertà della finestra che si affaccia sul giardino.

Non so cosa fare e rimango in attesa qualche minuto, chiedendomi quanto tempo ci vorrà affinché lui prenda confidenza con la nuova realtà in cui si è momentaneamente infilato. Fino all’arrivo di un vicino che lo possa liberare.

Mando dunque un messaggio a G, che vive dall’altro lato del giardino, comunicandogli un perentorio “Sos, calabrone in casa, imprigionato nello studio. Salvaci”. 

Il plurale sta per me e per il mio prigioniero alato.

Mi risponde che è fuori casa ma tornerà a breve, intimando a entrambi – me e il mio prigioniero, di cui in realtà sono a mia volta prigioniera – di resistere.

In cuor mio spero che il calabrone resista all’attesa: lo sento determinato nello sbattersi contro le pareti e temo che possa farsi a pezzi da solo.

Scendo le scale per farmi un caffè senza mai smettere di pensare al mio prigioniero con le ali e il pungiglione e mi soffermo un po’ troppo a lungo su un’immagine, quella del vetro da cui lui osserva l’esterno, una visione parziale dello spazio che pensa invece di essere totale. La cortina trasparente che lo separa dall’esterno è infatti il suo unico punto di osservazione sul mondo, al momento. E quella a quanto pare, gli basta per capire tutto su ciò che vi è contenuto al suo esterno.

Pensa che il mondo, nella sua interezza, sia ciò che vede dal vetro. E viceversa, ha pensato che quella finestra che lo ha portato fin dentro al mio studiolo fosse innocua e priva di inghippi. Il filtro con cui comprende il mondo è parziale, privo di approfondimento, privo di imprevisti. Avrà pensato che la casa fosse vuota? Che fosse solo un riflesso? Che sarebbe uscito subito? 

Mi viene in mente Sottsass e la sua domanda su di chi siano le case vuote e per un attimo sorrido realizzando quanto in realtà il sistema che abito, ovvero quello della impalpabile e apparente notorietà – che mi fa strano chiamare così – , sia incredibilmente simile alla visione che ha delle cose il mio povero calabrone, così sicuro della monodimensionalità di ciò che osserva da restarne incastrato dentro.

Cosa vedono le persone quando mi osservano attraverso quella grossa lente trasparente che sono i social?

Me lo chiedo mentre bevo il caffè e controllo le mail, apro le richieste di connessione, amicizia e guardo i nuovi messaggi che lampeggiano sul mio telefono.

Tra le richieste più svariate che mi giungono coglie subito la mia attenzione quella più selettiva e decisamente auto-sabotante. Come mai ci interessano più le critiche che le lusinghe? Semplice, perché nella realtà sappiamo di essere molto più vicini alle prime che alle seconde. Con un movimento veloce e preciso del pollice destro, apro il messaggio e leggo.

È di un profilo fake – termine con cui noi ex giovani abbiamo iniziato a indicare account anonimi – e privato che si dice incredibilmente deluso da me – uso il maschile perché deumanizzo la persona riducendola al suo stesso profilo, termine che ormai è divenuto sineddoche di uso comune per indicare un essere umano con una connessione a internet. Mi rimprovera del fatto che non avrei parlato di un tal evento mediatico su cui avrei – non so per quale obbligo – dovuto espormi. Scrive che non sono più quella di un tempo e che dovrei prestare più attenzione alle cause, tanto più io. E aggiunge, proprio io, che sono una vittima e che quindi dovrei capire.

Nella mia testa inizio subito a smembrare questo messaggio per analizzarlo chirurgicamente in ogni sua parte.

La delusione, che è l’emozione soggettiva e personale di questa persona nei miei confronti, partirebbe da una non aderenza alle condizioni contrattuali monolaterali iniziali. Ovvero quelle del mio esordio sulla pubblica piazza dei social, battesimo di una popolarità – a suffragio universale – fragile quanto il vetro di Murano durante un terremoto.

Sorrido ancora pensando ai Club Dogo che accusati dalla loro stessa fan base di non essere più quelli di Mi fist (il loro primo album datato 2003, ndr), nel 2014 lanciano a bomba in modalità kamikaze un album titolato Non siamo più quelli di Mi fist. Oggi comprendo perfettamente lo spirito dissacrante del trio di rapper meneghino.

Mi scappa da sorridere, poi, ripensando a questi fantomatici miei esordi: te credo che avevo tempo, eravamo in lockdown, io ero disoccupata da tre mesi e avevo 24 ore al giorno da spendere “alla causa” dedicandomi a tempo pieno alle persone che abitano lo spazio del digitale.

Riecco dunque il paradosso del calabrone: lui vede me in una stanza illudendosi che io sia da sempre nella medesima posizione, e pensando che io non mi muova ne è rassicurato. 

Ma per quanto il vetro della finestra come dello schermo illuda del contrario, noi, anche solo per fisiologia, nasciamo cresciamo corriamo evolviamo e poi schiattiamo, quindi l’immobilità non è certamente tra le peculiarità della nostra specie. L’apparente cristallizzazione di tempo e spazio è frutto di uno sguardo soggettivo che pretende di trasformare le persone in immobili simulacri.

Che io ora sia in un tour promozionale del libro appena uscito, debba far quadrare sei scadenze, abbia da presentare altri libri, gestire semplicemente la vita che è ripartita in questa fase di convivenza con il virus, non conta. Non viene recepito, perché il calabrone dal vetro vede ciò che vuole vedere, in un tempo e in uno spazio limitatissimi, a portata del movimento delle dita.

Chiedo via WhatsApp a due colleghe se anche per loro funzioni così, se anche a loro non sia perdonata (compresa?) l’assenza. Mi accendo la prima sigaretta della giornata tendendo l’orecchio verso la porta dello studiolo sperando di sentir ancora ronzare.

Mi rispondono subito entrambe, come sospetto, è un sì unanime: nessun perdono, solo delusione, siamo colpevoli di poca cura.

Eppure – penso mentre sbircio dal buco della serratura per controllare il mio quasi amico alato – io le “cause” continuo a portarle avanti, ho solo cambiato lo spazio in cui lo faccio.

Come mai non si è compreso?

Appurato empiricamente che no, non sono più quella di Mi fist e che il cambiamento è fisiologico in quanto essere umano, mi chiedo cosa sia successo. Come abbia fatto a non comprendere la fregatura della monodimensionalità social. Io, che sono pure claustrofobica, come ho fatto a rinchiudere la mia immagine in un solo, eterno, irreale e soffocante fotogramma distorto?

Ed è proprio qui, seduta sul pavimento del corridoio mentre aspetto che G venga a liberarci, che comprendo di essere io stessa a mia volta un gigantesco calabrone, attirato da una stanza che vista da fuori mi sembrava sconfinata.

Così mentre chiudevo altri calabroni in altrettante stanze per immobilizzarli e tenermeli a debita distanza, anche a me toccava la medesima sorte.

Vittima pure io, accusata dai miei simili (calabroni loro, calabroni tutti) di essermi venduta perché scrivo «per le major» (!). Ehi, proprio come i rapper! Assente e deludente infine perché non vivendo attaccata al telefono risulto incapace di instaurare un vero e approfondito dialogo. Come se bastasse un telefono e come se la mia vita fosse sempre a disposizione di ogni singolo spettatore pronto a illuminare di avvisi il mio schermo.

A tal proposito, ho letto qualche settimana fa che sarei una ricca privilegiata, che scriverei libri sui nobili e su mia nonna, presunta miliardaria. Non serve che io ribadisca che niente di questo corrisponde al vero, oltre tutto basterebbe aprirlo, uno dei miei libri, per scoprire quanto queste notizie siano totalmente prive di fondamento. 

E allora mi chiedo: il reale dove si è fermato? Cosa lo ha fermato? Cosa ha provocato il collasso di spazio, tempo e narrazione su questo orizzonte degli eventi fatto di vetro trasparente che sono i nostri smartphone?

Quando siamo diventati pezzi componibili ma soprattutto scomponibili da poter montare come se fossimo bambole o pezzi del Meccano?

Oggetti di consumo e digestione, siamo diventati il bolo alimentare da divorare e poi cagare fuori.

Pezzi scomponibili di una catena di montaggio postmoderna, veniamo venduti di volta in volta al miglior sguardo. Esseri disanimati agli ordini del turbocapitalismo contemporaneo, mettiamo a disposizione la nostra immagine, la nostra arte e perfino le nostre stronzate. Non mancano nel catalogo le persone che ci scopiamo così come i luoghi da cui veniamo, le nostre idee migliori come quelle peggiori. Ma la critica (o meglio la lamentela) è subito pronta e vibra contro vetri trasparenti: non siamo più quelli di Mi fist!

Non siamo più quelli di Mi fist, ma è altrettanto vero che non avevamo firmato alcun contratto che garantisse la nostra reperibilità 24/7, il nostro dover essere obbligatoriamente sante o puttane in base al trending topic del giorno, il nostro addio al mondo tangibile per il mondo impalpabile.

Non capisco, mentre cammino avanti e indietro sempre nel corridoio, quando io abbia concesso agli altri di prendersi pezzi di me e divorarli e strumentalizzarli e modificarli o addirittura, come nel caso del libro e della biografia a me attribuita, inventarli dal nulla: chi sono io?

Dove sono in questa storia?

Sono il calabrone o la mano che chiude bruscamente la porta?

Non capisco i confini, non mi riconosco nel mio stesso volto riflesso nelle superfici trasparenti e a mia volta non riconosco la stanza in cui sono entrata e nella quale sbatto contro le pareti cercando di trovare una via di uscita che forse, forse sono stata io stessa a sbarrare.

Vorrei urlare che oltre i vetri c’è molto di più, che quello che fanno gli scrittori è raccontare. È fuori dalle stanze chiuse che il mio riflesso si compone di miriadi di immagini diverse. La mia storia è frammentata da infiniti momenti anche meravigliosamente dissonanti tra loro. Il mio desiderio era solo quello di essere libera di fare un volo sereno, di mattina, da un giardino, attraversando le pareti di una casa.

Mi chiedo se qualcuno aprirà mai questa porta, se i vetri trasparenti si incrineranno un po’ ogni volta che ci sbatto contro e se costringerò questa stanza alla resa. Oppure se mi farò solo male. Mi manca il fiato mentre penso al calabrone che continua a ronzare arrabbiato e mi viene da urlare perché non sono io la persona giusta per poterlo liberare.

Mi vibra il telefono tra le mani. È G.

«Sto arrivando a salvarti», scrive.

Muovo veloce le dita sul vetro trasparente del mio telefono e digito nervosa: 

«Il calabrone: salva lui, non me».

ARTICOLO n. 29 / 2022

FORD ESCORT

Ricordo con precisione la prima volta in cui ho desiderato morire.

Avevo sette anni ed ero in vacanza con i miei genitori, sui Pirenei.

A loro piaceva molto girare l’Europa in macchina e tenda da campeggio e la Francia del Nord è stata una delle mete preferite di quegli anni d’infanzia.

Entrambi i miei genitori parlavano fluentemente il francese e si erano appassionati alle zone meno turistiche del paese. In più, la qualità dei campeggi d’oltralpe era innegabilmente migliore rispetto a quella italiana: le piazzole erano immerse nel verde, enormi, i servizi igienici erano puliti, il silenzio era quasi assordante. 

In Italia ricordo invece dei bagni pubblici che più che toilette erano armi batteriologiche con notevoli esempi di quella di dripping su tutti i muri e a discapito delle leggi della gravità, piazzole talmente piccole da poter sentire i vicini copulare o russare, autostrade sopraelevate passare sopra agli spiazzi dei campeggiatori.

Una volta, in un camping del centro Italia, andò a fuoco la tenda di un nostro vicino ed eravamo così appiccicati gli uni agli altri in quel minuscolo spiazzo che abbandonammo in fretta e furia la vecchia canadese, convinti che avremmo preso fuoco anche noi. Per fortuna non successe: il vento girava a favore, perciò andò a fuoco l’altro vicino, quello che si trovava sventuratamente dal lato opposto al nostro.

La vecchia tenda canadese comprata dai miei genitori nel lontano 1983 diventava per un mese la nostra dimora itinerante. Il rituale di montaggio e smontaggio di pali, tiranti e stoffa impermeabile pesantissima, era un gioco familiare che mi emozionava sempre.

Ognuno aveva un compito: mio padre picchettava, mia madre che da sempre ha una mente logica e pragmatica metteva i pali nel posto giusto, io sistemavo le stuoie e i materassini nell’interno. 

Era un esercizio di convivenza, una sorta di propedeutica alla cooperazione sociale: montando quella tenda imparavamo a darci dei ruoli diversi, quasi paritari, tutti egualmente essenziali nella catena di montaggio e che esulavano per qualche ora dalla gerarchia che la struttura familiare spesso impone.

La notte mi sembrava di essere di nuovo piccolissima. Dormivamo tutti e tre nella tenda, che era uno spazio molto grande. Io sul lato sinistro e, separati di qualche spanna, mia madre e mio padre con il loro materassino.

Ho imparato la sopportazione, in quei viaggi. Mio padre russa come un trattore ingolfato e mia madre è talmente precisa da far saltare i nervi. Io, che ho il sonno da sempre leggero e soffro molto la precisione, vivevo quelle giornate come se fossero delle sfide intense e al tempo stesso dei divertenti giochi a premi per capire come poter essere meno confusionaria e imparare ad addormentarmi seguendo il ritmo cadenzato del russare del mio babbo.

Con questo peculiare allenamento sviluppai un discreto senso del ritmo e una metodologia paramilitare di impacchettamento e spacchettamento delle valigie che mi sarebbe poi tornata utile (molti anni più tardi, davanti all’inevitabile tournée di promozione del primo libro, mi sarei ricordata di quell’insegnamento sull’arrotolare i vestiti per poter ottenere più spazio nello zaino).

Ma il vero nucleo del viaggio, la sua anima, si svolgeva nelle tratte in macchina.

La vecchia Ford Escort a diesel azzurrina, immatricolata nel 1986, era un concentrato di lamiere, interni in plastica nera e sedili di un tessuto che sotto al sole sapeva raggiungere la temperatura di fusione del piombo. Ai miei occhi però, sulle strade di montagna e quelle parallele al Mare del Nord, diventava un rifugio accogliente in cui il tempo si cristallizzava per ore e ore e tutto perdeva la sua contestualizzazione: che anno era? E noi, eravamo davvero mortali?

Si potevano fare un sacco di cose nell’abitacolo del vecchio motore dal design simil-sovietico.

Leggere, mangiare, distendersi nel baule spazioso come un divano, dormire, fare giochi di società e perfino fare i compiti per le vacanze che mi dava la maestra.

Nei sedili sul retro avevo creato uno spazio perfetto in cui ogni mia richiesta era a portata di mano, mia o di mia madre, a cui bastava passarmi ciò di cui avevo bisogno senza neanche girarsi.

Grazie al mio stoico sistema vestibolare, non ho mai sofferto il mal di macchina – o di mare o d’aereo.

Perciò ho imparato presto che potevo leggere i miei libri anche mentre la vecchia Ford si arrampicava su per i tornanti più impervi e le strade più tortuose dei Pirenei.

Ero – sono tutt’ora – impressionante, non ho mai avuto un solo momento di esitazione gastrica.

Questa abilità mi permetteva di leggere ad alta voce i libri che divoravo nel tempo libero, cosicché potessero sentirli anche i miei genitori, come se fossi una sorta di antesignano audiolibro da ascoltare mentre loro erano concentrati sul viaggio.

Non ero fan della fiction per bambini, perciò spaziavo da Calvino ad Agatha Christie, da Buzzati alle poesie del Pascoli. 

Decantavo versi o pagine di narrativa distesa con le gambe all’insù e la testa penzoloni dal sedile, i piedi nudi, nessuna preoccupazione.

Davanti avevo mamma e babbo che pensavano a tutto il resto. Tutto quanto. E il tempo per me cessava di esistere.

Spesso non mi interessava neanche la meta finale della tappa.

Un microcosmo perfetto per una bambina, un luogo in movimento in cui fare conoscenza in modo filtrato (dai vetri del finestrino) di ciò che avevo intorno e diretto (con i libri) per ciò che invece contribuiva alla mia emotività.

Il punto fisso, ciò che rendeva unica questa esperienza, era ovviamente la presenza dei miei genitori sui sedili davanti, in una simbolica posizione di guida, del veicolo ma anche della mia stessa esistenza.

Osservavo con amore infinito le gestualità di mia madre che apriva il finestrino a manovella della Ford, che scricchiolava furiosamente con il sole ma che scorreva agile e senza rumore con la pioggia. O il suo sfogliare le mappe cartacee che a me erano indecifrabili e che lei invece sapeva decodificare così bene che non ci siamo mai persi, in tutti quei viaggi, per tutti quegli anni.

Ero incantata dall’accendisigari – questo cimelio automobilistico mi manca tantissimo nelle nuove macchine, era un capolavoro per noi tabagisti – che mio padre azionava premendolo per poi accendersi una delle sue sigarette che in Italia erano le MS e in Francia diventavano le Gitanes Papier Maïs: dopo che bruciava la punta della sigaretta, il mio babbo mi permetteva di tenere in mano quell’aggeggio misterioso e io guardavo il filamento di metallo diventare incandescente e luminoso per poi pian piano spegnersi. 

Ricordo il mangianastri.

Era un rito nel rito.

Cassette con su inciso Battiato (credo di sapere a memoria tutto La voce del padrone proprio grazie a uno di quei viaggi lì) o De André (Non al denaro non all’amore né al cielo lo imparai come se fosse un’unica preghiera). Cassette che spesso si incastravano nel mangianastri e dovevano essere riavvolte nella bobina con una penna, facendole girare su loro stesse.

Perfino gli impedimenti più noiosi del quotidiano, come dover fare pipì o riavvolgere una cassetta, diventavano speciali.

Avevamo tutto: i nostri luoghi, la nostra velocità, la nostra colonna sonora, la nostra casa su ruote e quella con stoffa e pali, su terra.

Fu netto, il pensiero.

Arrivò intrusivo e lucido, tagliente come un foglio di carta preso di striscio con il polpastrello. 

«Io non voglio che finisca mai».

Subito dopo successe una cosa che capitava di rado, vista la prudenza alla guida dei miei genitori: mio padre dovette sterzare di colpo per evitare un’altra auto che stava uscendo dalla sua corsia.

Fu rapido, velocissimo, come il rush di adrenalina che dai polsi mi prese il viso e poi i piedi.

Dicono che quando hai paura il sangue confluisca tutto alle estremità per garantire la fuga.

Eppure io non avevo avuto nessun istinto, nessun movimento involontario che facesse intendere il mio desiderio di ripararmi da un eventuale impatto frontale.

Io rimasi ferma, seduta nel mezzo, sui sedili posteriori, con lo sguardo fisso a quella macchina che veniva dritta verso di noi. Ero calma. Ero pronta.

Fu allora che arrivò a farmi visita quel pensiero.

Fu allora che desiderai di morire per la prima, primissima volta in vita mia.

Pensai, lo ricordo con chiarezza, che sarebbe stato bellissimo morire in un incidente, tutti e tre insieme, sul colpo, nella nostra Ford Escort azzurrina dal design simil-sovietico e con Battiato in sottofondo che cantava Summer On a Solitary Beach.

Sarebbe stato bellissimo perché in quel modo la nostra vacanza perfetta, il nostro limbo di amore familiare, sarebbe durato in eterno e privato dall’inevitabile sofferenza di chi invece è, per come va la vita, costretto a rimanere.

Non sapevo da dove arrivasse quell’immagine, non pensavo di essere capace di saper pensare alla morte, che allora io non conoscevo: nessuno era ancora venuto a mancare nella mia famiglia e io non ero sicuramente quella che si può definire una bambina cupa. Ero estremamente silenziosa, questo sì, ma non triste o quantomeno non così pragmatica da pensare alla fine della vita. Soprattutto a quella degli altri.

Pensai però che sarebbe stato bello finire felice, con un bonus sorrisi per chi rimaneva: una famiglia che se ne va in coro alla fine è meno triste e dolorosa di una famiglia che si estingue man mano.

Pensai che se fossimo morti in quel preciso momento nessuno di noi avrebbe dovuto affrontare il lutto per la morte degli altri due. E io sapevo, sapevo già precisamente che se tutto fosse andato come previsto dalla vita che riteniamo «lineare», quella persona che avrebbe dovuto affrontare la perdita sarei stata prima o poi io.

Fui talmente folgorata da quella che credevo essere una rivelazione geniale che, poco dopo il frontale evitato da mio padre, sottoposi ai miei genitori quel bizzarro finale di stagione che avevo previsto per la nostra vacanza: perché, dissi, non moriamo tutti e tre insieme?

E lì accadde una cosa che non avevo previsto minimamente e che avrei capito soltanto molti anni dopo: i miei genitori, senza neanche girarsi, scoppiarono a ridere.

Una risata unanime e di pancia, irrefrenabile, pura, che mi sconvolse perché davvero, davvero non riuscivo a comprendere cosa ci fosse di assurdo in quella mia richiesta così seria e apparentemente così lucida.

Loro ridevano di quella che per me era la via più semplice per tutti, quella che avrebbe comportato il famoso lieto fine.

Sono passati ventotto anni da quell’estate in cui per la prima volta pensai alla morte.

Nel frattempo ho sperimentato tante volte il lutto sulla mia pelle.

Ho imparato cosa voglia dire sopravvivere al dolore, al tempo e allo spazio che divide i corpi di chi va e di chi rimane.

Ripenso spesso a quell’estate sui Pirenei, alla nostra Ford azzurrina a diesel dal design simil-sovietico, ai miei libri letti a testa in giù e al rituale della tenda canadese.

E penso ancora, quasi quotidianamente, al momento in cui, se tutto andrà come ahimè deve, rimarrò io quella che deve sedersi al posto di guida. 

Adesso ho capito il senso di quella risata.

Gianna e Valerio ridevano perché loro erano già grandi.

Io, quel giorno, sui Pirenei ho urlato chiaramente che non ero pronta a diventare grande. Che io, il dolore, non lo volevo proprio considerare come alternativa, che la mia sopravvivenza era legata a doppio nodo con la loro.

E che a me andava benissimo così.

Anche se non è così che la natura opera.

Ci sono momenti, poco prima di dormire, in cui il pensiero di sopravvivere ai miei genitori mi rende impossibile il sonno.

E di nuovo sento quel rush di adrenalina che parte dai polsi e si dirige veloce alle estremità del mio corpo, preparandomi alla fuga.

Eppure mi trovo a dover rimanere in quella posizione senza vie di fuga, stavolta neanche immaginarie.

Il passaggio all’età adulta è smettere di cercare scappatoie dallo spazio ma soprattutto dall’andamento lineare del tempo, da cui non possiamo evadere, anche se a volte ci sembra possibile grazie a quei momenti di incredula bellezza che sappiamo vivere soprattutto nella prima, primissima infanzia.

Ricordo chiaramente la prima volta in cui ho desiderato di morire. 

E quando adesso ci ripenso mi viene da ridere. 

Di gusto, in modo cristallino e puro, proprio come Gianna e Valerio fecero ventotto anni fa in quella Ford Escort.

E capisco, tra una risata e un nodo alla gola, di essere diventata, finalmente e mio malgrado, un’adulta anche io.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.

ARTICOLO n. 14 / 2022

Sympathy for the devil

Un bel po’ di tempo fa ho avuto una relazione brevissima, di quelle che chiamarle relazioni mi fa quasi sorridere, che hai giusto il tempo di dire, «Ehi, sembra molto interessante!», ma poi si rivelano essere solo una costruzione inesistente poggiata su fondamenta di pancarré inzuppato d’acqua.

Ci conoscevamo da anni: io vivevo ancora a Milano, avevo i capelli rosso fuoco e non soffrivo gli hangover. Stiamo parlando, dunque, di una vita fa. 

Mi era amico, appariva e spariva a intervalli regolari ma era una persona su cui potevo sicuramente contare quando mi succedeva qualcosa che mi faceva stare male. 

Bella testa, penna così così: aveva quella cosa tipica delle persone intelligenti, che non si applicano perché alla fine «massima resa e minima spesa» è più allettante: un potenziale così pigro non l’ho mai visto in tutta la mia vita e me ne sono sempre dispiaciuta. 

Una persona davvero interessante, ma che non ero mai riuscita a incrociare per una relazione o anche solo una scopata occasionale. Solo una volta ci eravamo quasi andati vicino ma poi, sul più bello, lui scelse una modella svedese al posto mio e io finii fidanzata con un ragazzo delle mie parti. Tutto tacque per anni, ma non la nostra amicizia: lui si subì stoicamente le mie lacrime per altri uomini e io le sue ansie per altre donne.

Ci siamo rincorsi a più riprese senza mai concretizzare, complice anche la mia attenzione che non resta troppo a lungo sulle cose: mi distraggo, dimentico, non rispetto le scadenze (e qui la redazione di The Italian Review lo sa bene), sparisco per giorni, ho un pessimo rapporto con Whatsapp, inizio a trovare più attraente stare in casa che uscire, odio le sorprese e tante altre meraviglie che mi fanno passare da sociopatica. Quando in realtà sono solo piuttosto svampita.

Poi, però, in questo gioco di apparizioni e sparizioni, io e lui abbiamo incrociato i nostri flussi. Per caso. Una sera in un locale.

Con un limone da sedicenni e un postumo da sbornia degno di ogni bella serata. E la relazione ha dunque preso forma.

Iniziata con il botto, con uno slancio di romanticismo che solitamente è presagio di poca sostanza (come quelle feste piene di decorazioni glitterate che riescono a mascherare il pessimo alcol e la musica di merda in filodiffusione) ma a cui non ho voluto dare il peso che in realtà meritava: una relazione ibrida, tra un film di Muccino (urlano tutti, si corre un sacco, ci sono tremila comparse e fidanzate nascoste) e una canzone di Lucio Dalla (ancora lacrime, un sacco di lacrime, «un sacco di capelli che non si riescono a contare»). Il suo declino è  iniziato presto.

Certo, all’inizio era bello. 

Poesie, libri, note scritte sul telefono e inviate mentre l’altra persona dorme, treni, stazioni, litri di vino – postilla per il futuro: se beve più di me può esserci la non così remota possibilità che abbia un problema con l’alcol – viaggi, libri, auto, case, fogli di giornale: tutto da manuale e una tenerezza bambina che non lasciava spazio ai discorsi da adulti.

Ci sono volute poche settimane infatti per capire che la mia, più che la figura dell’amante, era la figura della madre. 

Con tutti i mali che questa cosa può comportare.

Divento presto la nemica, colpevole di andare veloce e avere una vita caotica (si chiama lavoro, ma tant’è). 

I miei consigli diventano presto armi, la mia richiesta di maturità diventa impertinenza, il mio essere concreta diventa segnale di stronzaggine. 

Il bisogno di confronto costruttivo sui temi a noi cari diventa anch’esso un fardello dal quale liberarsi e la mia immagine, da divinità greca scesa in terra avvolta in una veste di lino bianco, si trasforma nella figura della matrigna di Cenerentola.

La capacità di reciproco arricchimento e crescita che qualsiasi relazione dovrebbe dare assume di colpo l’aspetto di una minaccia che mina la tranquillità dell’altro. E l’altro comincia a essere screditato in modi più o meno bizzarri, più o meno maturi («stai a fa’ la punta ar cazzo» assurge a frase emblematica di questa mia seconda opzione).

Di colpo la voglia di risolvere i problemi era diventata una cosa di cui non parlare, le mie necessità erano di troppo, esistevano solo le sue. Ogni mio bisogno – dal semplice dormire insieme al mio desiderio di confrontarmi su aspetti che i nostri lavori ci portano quotidianamente ad affrontare – era visto come pesante, come motivo di ansia, come qualcosa che si poteva evitare perché non serviva, a detta sua, per assicurare la riuscita della relazione. La mia paura di essere invisibilizzata nella storia era diventata una bambinata. Fino a quando questa paura non si è realizzata e io, di punto in bianco, sono stata divorata dalla sua necessità di non affrontare le cose. E da un giorno all’altro mi ha fatta sparire. Come se fossi un pezzo di un programma elettorale che era appena stato spuntato e su cui non tornare più. Non avevo più voce in capitolo su di noi, su di me in quel primordiale agglomerato sociale che è la coppia, su quelle che erano le mie richieste. Non c’ero più. 

Ho smesso presto di piangere per il fallimento di questa relazione che tanto desideravo e ho ritrovato la lucidità. 

E ho capito che non era lui, proprio lui, solo lui a essere così: era tutto il sistema.

Tutto il fottuto sistema in cui viviamo.

Il percorso che ha preso questa vicenda sentimentale al sapore di un film con Laura Morante (si fuma un sacco e si urla, si urla sempre anche lì) mi era infatti davvero familiare. 

Ho avuto come l’impressione di aver già visto questo meccanismo più volte ma non in altre relazioni, bensì in una pratica quotidiana a cui assisto con rassegnazione ormai da tempo: quella con cui la bolla conservatrice liquida le istanze progressiste e le tematiche sociali che ultimamente prendono spazio nell’editoria, sui giornali e sui social media. 

Per capirci: se fate divulgazione, scrivete o anche semplicemente ricondividete un contenuto altrui su un diritto civile o sociale che vi tocca o vi sta particolarmente a cuore, sono più che convinta che tra i commenti o gli inbox da voi ricevuti troverete almeno tre, «eh, ma che pesante», oppure, «ci sono cose più importanti», ma anche dei «ecco che arriva la maestrina».

Non è un vizio di forma dei social media, ma una prassi culturale sistemica di mantenimento del controllo.

Chi detiene il potere, infatti, per poter continuare a fare un po’ quello che vuole, usa da sempre dei metodi di retorica piuttosto standardizzati e talmente diffusi da essere entrati di prepotenza nel nostro uso quotidiano.

Prendiamo il dibattito sul ddl Zan per fare un esempio.

Lega e Fratelli d’Italia per mesi hanno cercato di liquidare le istanze previste dal decreto originale affermando che fosse superfluo, inutile, che ci fossero ben altri problemi, che esistessero già leggi ad hoc per le situazioni specificate nella bozza, che fosse divisivo, problematico, contro natura, una potenziale rovina della calma e della tranquillità del Belpaese.

Invalidare le istanze civili non è sicuramente cosa nuova e recente come l’affossamento del ddl Zan.

Pensiamo allo ius soli. O alla richiesta di riconoscimento da parte del SSN di vulvodinia e neuropatia del pudendo come malattie croniche e invalidanti. O ancora alla legalizzazione della cannabis: tutte cose che sono reputate pericolose, o inutili, o fuori dal tempo.

Ogni volta in cui si propone un’istanza, questa viene liquidata dall’intero sistema come superflua, come viziata, come potenzialmente rovinosa.

L’ultimo caso, in questo senso, è tutta la polemica su schwa e linguaggio inclusivo, che ha animato i conservatori di tutto lo Stivale che hanno perfino creato una petizione su change.org (diretta a chi?) per vietare (come?) l’uso della schwa (perché?) che avrebbe, secondo loro, distrutto la lingua italiana (quando?).

E questo smisurato terrore davanti all’inevitabile cambiamento linguistico, civile e sociale, si porta dietro un’infinita tenerezza che coincide con la smania di detenere il potere e il controllo in ogni modo possibile, anche schiacciando gli altri, i loro bisogni, il loro linguaggio, i loro desideri. 

In più, piccolo off topic, fare leva sulle paure ataviche della gente è l’unico modo in cui la destra del giornalismo – che si finge di sinistra perché altrimenti non tirerebbe manco tre copie in croce – ha per vendere: la paura come forma di controllo è la cosa più vecchia che ci sia, talmente vecchia da far quasi pena.

«Pesantoni», «pericolosi», «maestrine», «rompicoglioni», «viziati», «rancorosi» sono tutti termini che vengono affibbiati a chi è esigente di cambiamento.

Un cambiamento che per sua stessa natura deve mettere in crisi. Perché  – spoiler! – senza crisi non esiste crescita. 

Il problema è che questo modo di invalidare le istanze altrui, a forza di vederlo replicato all’infinito in ogni nostro sistema di riferimento, lo abbiamo portato anche tra le mura di casa.

Nelle nostre relazioni. Nelle interazioni con chi troviamo su internet. 

Nell’amore e in tutti gli altri demoni che ci permettono di vivere nel mondo.

Abbiamo disimparato il confronto preferendo la fuga, ma prima di fuggire preferiamo screditare il nemico. Quando spesso questo nemico neppure lo è.

Riprendendo il mio incipit: se anche una persona cosi sveglia e a noi vicina adotta il metodo del sistema per silenziarci o sviare dalle giuste richieste che apportiamo per le nostre necessità, allora vuol dire che non siamo più in grado di sostenere una conversazione su larga scala.

Se anche il più piccolo agglomerato sociale, ovvero la coppia, crolla davanti alla necessaria spinta verso l’accrescimento reciproco, come pensiamo che possa funzionare un dibattito così esteso?

Abbiamo disimparato a fare le cose insieme. Crescere, innanzitutto. 

Abbiamo dimenticato la cooperazione, sia questa tra due, tre, quattro o quattro milioni di persone.

Individuiamo da sempre le proposte di crescita, scontro e confronto come pesanti, non necessarie, invadenti, superficiali. Perfino diaboliche, alle volte.

Eppure io ho sempre avuto una certa simpatia per quel diavolo lì.

Quello che ti smembra le fondamenta e ricostruisce la casa dal primo mattone, con il fervore di chi crede davvero in chi ha davanti: sia una istanza sociale che una singola persona, un compito, un lavoro, un amore. 

Ho sempre avuto a cuore quel gioco di tacita sfida e fiducia che porta alla crescita, senza il bisogno di liquidare l’interlocutore come inadatto o di serie b.

È proprio questa la natura della crescita stessa: farsi del male per creare nuovi spazi, finalmente abitabili, preferibilmente in compagnia (che brutto demolire da soli).

Trovare interlocutori – in qualsiasi campo della vita – che non abbiano timore della sfida costruttiva e distruttiva è stimolante e lo stiamo dimenticando, facendo strada a gossip da rotocalco e benaltrismo.

Ricominciare a giocare, mettendosi in gioco a nostra volta, è la parte centrale del percorso di crescita. E spesso è proprio la più divertente.

Dopotutto, qualcuno diceva: 

What’s puzzling you is the nature of my game.
Pleased to meet you, hope you guess my name.

ARTICOLO n. 6 / 2022

VIETATO FUMARE

C’è questa foto, che è stata scattata a Palermo, in cui rido e ammicco girata verso la macchina fotografica.

È sera, fa caldo e ho una canotta nera con le spalline sottili, la borsa bianca di tela sulla spalla e un bicchiere, di quello che sembra essere gin tonic, stretto nella mano destra.

Collanina azzurra al collo, capelli raccolti, sudore sul viso.

Intorno ho degli amici, chiacchierano tra di loro, una persona alla mia destra è mossa, sta ballando.  

Io strizzo un occhio, e rido, a bocca spalancata. Porto degli occhiali da sole bianchi, non so di chi.

Dovrebbe essere l’ingresso di un locale, ma non si capisce bene: tutto intorno è molto buio, si intravede della carta da parati in lontananza. 

Io rido al centro della scena e sono completamente bruciata dal flash della macchina fotografica analogica. 

I contorni non sono a fuoco, anzi, quasi tutta la mia figura non lo è, si distinguono a malapena la borsa di tela e le mie stesse mani.

Sto partecipando all’evento di una rassegna culturale, sono gli ultimi giorni di settembre e fa ancora caldissimo.

Non si nota subito ma se si strizzano un po’ gli occhi si vede che tra le mani ho una sigaretta, anch’essa totalmente fuori fuoco. 

Io stessa c’ho messo un po’ per individuarla.

Non si vede il fumo, la sovraesposizione ne impedisce la permanenza sulla pellicola: il bianco del flash e quello del fumo si annullano a vicenda.

Il ragazzo che ha scattato la foto me l’ha mandata qualche settimana fa e io ne sono stata particolarmente felice: sotto Natale, nel pieno della quarta ondata, con una serie di dubbi su ciò che saranno tour, festival ed eventi culturali da qui a maggio, il ricordo di un momento di quasi-libertà mi fa apparire un bel sorriso sulla faccia.

Ritaglio la foto, la raddrizzo, scrivo una caption in cui si capisce che quella era una festa, che era ottobre, che era bellissimo, che spero che ricominci presto la voglia di assembramento e premo «posta sul profilo». La foto adesso si trova su Instagram. 

Quando posto le foto che mi piacciono spesso dimentico che i social sono, sì, finestre sulle nostre quotidianità, ma hanno un valore assolutamente parziale.

Ahimè, ci metto ben poco a ricordarmelo.

Succede infatti che la foto inizia a ricevere commenti e il sentimento di claustrofobia di questo secondo anno di coronacene risulta assai – mi perdonerete il gioco di parole – pandemico

Chi ricorda con tristezza i giorni estivi. Chi ha mancanza della normalità. Chi sente nostalgia per Palermo e per «i sorrisi, l’alcool e l’amore», come scrive il mio amico Ignazio.

Ci sono commenti su quanto la foto sia sfocata ma ugualmente intensa, c’è chi chiede da dove vengano gli occhiali da sole e chi invece si sente contagiato dalla mia felicità impressa sulla pellicola.

Tra questi commenti, però, ne intercetto uno piuttosto lungo, che sembra non aver molto a che fare con il mood generale, bensì con ciò che stringo tra le dita: la famosa sigaretta.

È un blocco piuttosto lungo in cui questa persona mi accusa di promuovere «sostanze dannose, pericolose, che creano dipendenza» e aggiunge che «come scelta personale va benissimo ma fare pubblicità gratis alle multinazionali che campano sulla distruzione della salute è brutto». Più sotto la sua arringa continua, ribadendo che «quanto fumi sono cazzi tuoi (…) hai un potere e questo deve essere considerato quando è usato».

In tutto ciò, io, sulle prime, continuo a non capire a cosa si riferisca, dal momento che la sigaretta nella fotografia, come dicevo, non riuscivo a vederla. Poi, metto più a fuoco, e mi scappa quasi da ridere.

Insomma, quello rivoltomi, è un rimprovero per la presunta superficialità con cui avrei mostrato il vizio del fumo, vizio che mi porto dietro da ormai un paio di decadi e che appare e scompare periodicamente grazie a momenti esistenziali rilassati e senso di colpa: fumare è la mia personale sfida con cui spesso, non lo nego, mi sollazzo, premiandomi o punendomi a seconda dei giorni sul calendario. 

L’accusa della persona che evidentemente non è aficionada alla mia pagina – altrimenti avrebbe saputo che ho smesso di fumare subito dopo quel tour palermitano e che il vizio del fumo, comparato ai vizi che ho portato avanti per una vita, è davvero una bazzecola da educande – verte sul fatto che io, in quello scatto, inneggerei al tabagismo facendo da supporter alle multinazionali che commerciano in nicotina. 

Insomma, ciò che questa critica voleva dire è che rendere cool – ma come poi? – un gesto che uccide le persone è una cosa che chi come me ha un certo seguito non dovrebbe fare e, nel caso, che lo faccia di nascosto, al riparo dagli occhi dei bambini, sia mai che qualcuno pensi a questi maledettissimi bambini. 

La prima reazione che mi è sorta spontanea è stata cercare di capire quando io mi sarei tramutata in madre di un popolo invisibile denominato con il termine collettivo e ben poco identitario di followers, che l’autore del commento reputa incapace di comprendere – secondo una personalissima scala di valori morali – la differenza tra bene e male, giusto e sbagliato, su una cosa così elementare.

Ma la seconda osservazione che questo commento mi ha portato a fare è stata di carattere più ampio e mi ha ricordato che su internet corrono brutti tempi. 

No, non sono una di quelle persone che condanna il mezzo social dicendo che tutto sta andando a puttane per colpa dei dispositivi mobili e che moriremo soli sbranati dai gatti o investiti dagli autobus perché non sappiamo più comunicare e non contempliamo il mondo intorno a noi: io credo davvero che internet e i social media siano un mezzo assimilabile al progresso più che all’autodistruzione del genere umano.

È infatti proprio grazie ai social che molte delle istanze sociali e civili, che per anni sono state insabbiate, trovano oggi un luogo di dibattito e un mondo in cui confrontarsi.

Categorie da sempre silenziate possono prendere per la prima volta parola e alzare la loro voce. Non è poco, anzi: è l’abc dell’inclusività.

Penso però che il coronacene abbia accelerato qualche processo e che, dopo un isolamento prolungato in cui l’unico mezzo possibile per la socializzazione era ed è quello digitale (che è privo di regole e limiti), le urgenze civili e sociali stiano andando un pochino oltre a quella che è la capacità stessa del metamondo.

Il punto che mi interessa comprendere, in un flusso di pensieri che vomito qui sopra, è quanta responsabilità stiamo addossando al singolo avatar e soprattutto in che modo.

Ripartendo dall’antefatto della sigaretta invisibile mi ritrovo a pensare a quanto ci dia pena l’azione altrui, come se questa potesse e dovesse sopperire alle mancanze sociali che sono invece responsabilità di un sistema educativo statale, di sovrastrutture politiche universali.

E questo vuoto culturale e istituzionale si manifesta davanti ai miei occhi in un duplice modo, con due diverse fazioni che agiscono esattamente nella stessa maniera: nel punire, senza rieducare, ogni singolo individuo che commette l’imperdonabile errore del giorno.

Quindi da una parte abbiamo i conservatori, la parte della comunità intellettuale e politica che si appella al passato, che condanna la vacuità delle istanze delle nuove generazioni e le azioni dei singoli rappresentanti delle stesse, che propone un linciaggio basato sul mero gossip e cerca di sputtanare gli esponenti del movimento progressista invalidandone le tesi con giochi che sono più simili al bullismo che alla vera e propria critica politica e sociale.

Persone che chiedono che certe cose si facciano a casa nostra, a porte chiuse, non davanti ai bambini perché poi «la teoria del gender come ce li farà crescere?», «dove andremo a finire, signora mia?», le battaglie vere sono altre e questa gente passa il tempo a farsi i tatuaggetti a forma di cuore sulla pelle e a usare asterischi e cancelletti.

Dall’altro lato, vista la più totale mancanza di una politica che sia giovane e consapevole del paese reale, la giusta rabbia del progressismo spesso si arena in baggianate e rivolte di massa verso singoli comportamenti. Che lasciano spazio solo a personalismi e quindi a nessuna dimensione di complessità, finendo con l’imporre divieti senza spiegare per cosa si venga effettivamente puniti.

Spesso succede anche una cosa bizzarra, tanto da fare il giro: come nel caso della sigaretta di cui sopra, si finisce per incolpare il singolo di una sua scelta personale – discutibile, come ogni vizio, dopotutto – chiedendo a gran voce di nasconderla, perché altrimenti «che modello educativo dovrebbe venirne fuori?».

Questo procedimento mi ricorda proprio quello proibizionista e perbenista che tanto vogliamo smantellare e usa proprio i mezzi punitivi del conservatorismo per generare silenzio e terrore.

Ecco, in entrambe le situazioni da me appena citate il problema è proprio il modello educativo: non lo dovrebbero dare i singoli e non si dovrebbe imputare ad altri in uno slancio di idolatria. Sentimento che nasce proprio dall’assenza di reali sistemi educativi di riferimento.

Non dovremmo cercare la perfezione in un sistema parallelo, ma in quello che abbiamo e che dovrebbe guidarci e che si sta dimostrando sempre più incapace nello stare al passo con i tempi della rivoluzione culturale nata sui social.

Gli stessi social sono diventati, da palestra di dibattito prolifico quale erano, dei giganteschi contenitori di frustrazione. Una frustrazione più che legittima, che nasce dall’essere costantemente inascoltati, ignorati, invisibilizzati. 

Ma che non trovando sfogo e ascolto adotta gli unici mezzi che conosce, ovvero quelli del padrone.

Nei talk che accompagnano le presentazioni dei miei libri mi viene chiesto spesso cosa si possa fare per convincere i nostri amici, vicini di casa, parenti, ad abbandonare posizioni fasciste o retrograde ed escludenti. E ogni volta che mi viene posta questa legittima domanda io mi sento terribilmente affranta perché un sistema che da sempre ci ignora, ci fa anche credere che la responsabilità ricada su di noi, sulle categorie marginalizzate, sui singoli, come se dovessimo istruire le persone con devozione e abnegazione.

Ridendo, dunque, rispondo sempre a questo quesito che a convertire le persone una ad una ci ha già provato una persona nata a Betlemme. E infatti non è andata a finire troppo bene.

Nell’ansia di frenare il vomito biliare delle personalità tory del nostro panorama politico e culturale finiamo per scordarci che è al sistema che dobbiamo rivolgerci o perderemo totalmente la complessità del nostro pensiero. È al sistema che dobbiamo imporre di educare e sensibilizzare.

E la complessità è essenziale quando si battono dei nuovi sentieri, come quello della rivoluzione culturale in cui stiamo ampiamente entrando, perché senza comprendere limiti e potenziali si finisce per applicare le teorie con confusione (come, ad esempio, richiedendo una donna qualsiasi al Quirinale. Ma se quella donna fosse antiabortista, razzista o con posizioni politiche liberali andrebbe davvero bene? Dove perdiamo la logica, tra la teoria e la pratica a ogni costo?).

Mi ritrovo spesso a confrontarmi con canali di informazione e media che fanno dei disservizi giganteschi: basti pensare a come viene trattata la violenza di genere dai canali mainstream e come non si sappia ancora scrivere di femminicidio, deresponsabilizzando il sistema culturale che ne è la sua stessa, chiarissima, matrice.

Mi trovo anche a dover ricordare a redazioni televisive e personalità di spicco che stanno davanti alle telecamere e a milioni di spettatori che la propaganda antiabortista in prima serata dovrebbe essere vietata. Mi trovo, di base, ad interagire con quelle che sono le fonti secondarie di informazione e apprendimento, il cui carattere universale ha quindi una portata catastrofica nella sopravvivenza di stereotipi e bias culturali. È in questi sistemi che dobbiamo inserisci esigendo dialogo e cambiamento.

Questi sono infatti ambienti ottimali per poter intavolare un discorso di applicabilità della rappresentazione corretta delle categorie marginalizzate.

Ma prendere le foto di una influencer di otto anni fa in cui usa una terminologia che oggi sappiamo essere senza dubbio alcuno razzista e darle della stronza traditrice non è altrettanto intelligente, anzi: la punizione esemplare non interviene qui, perché stiamo applicando retroattivamente cose che purtroppo sappiamo soltanto oggi e grazie alle voci di chi si sobbarca un peso enorme e che non dovrebbe essere suo.

I giornali, il sistema, le fonti, i ragionamenti sono da portare nei luoghi di comando perché è lì che sono sempre mancati ed è il sistema educativo stesso che deve sobbarcarsi una nuova visione del mondo che sia comprensiva di tutte le persone.

La guerra tra poveri, la chiamo io.

Quella lotta tra persone che si menano virtualmente dimenticandosi del sistema e appigliandosi a minchiate di controllo serve solo a perdere tempo gratificando nel breve periodo ma lasciando intatto un meccanismo che procede imperterrito con i suoi anacronistici e goffi ragionamenti e in cui difesa si schierano dei veri e propri bulli di professione, impauriti dal nuovo che avanza.

Il fulcro di questa mia rubrica a cadenza mensile sarà quello di analizzare i limiti di un sistema vetusto, chiuso, crudele e comprendere dove inizi la complessità del progressismo, che spesso perdiamo davanti al fumo di una sigaretta, un divieto troppo netto e privo di senso, alla voglia di rendere retroattivo qualcosa che retroattivo non può essere e a porre dei dubbi sul perché una infografica sia il nuovo mostro invisibile del giorno.

Sento che ci stiamo perdendo via la complessità.

Nel dubbio ci penso un po’ su, accendendomi una paglia.

Non vogliatemene, nel caso mi permetto di ricordarvi, però, che il fumo uccide.

ARTICOLO n. 16 / 2021

Il corpo è politico?

La prima volta che ho letto la parola «troia» abbinata al mio nome ero in terza media e fumavo una delle mie prime, stupide sigarette nascosta dietro al muro della palestra, quello pieno di scritte fatte con il pennarello.

Noi ragazze andavamo ogni giorno a controllare che nessuno ci avesse lasciato messaggi d’amore o di ingiuria, in un misto di ansia ed eccitazione che finiva quasi sempre in una repentina disillusione: i temi più gettonati erano la Fiorentina o i professori. Le poche ragazze citate erano sempre le stesse, bellissime, che facevano palpitare i miei compagni ma che non erano minimamente interessate al primo, goffo, approccio al sesso prepuberale.

Quel giorno – era verso la fine della scuola, prima degli esami – vidi il mio cognome, con una bellissima grafia, scritto con un pennarello rosso a punta morbida: «Vagnoli troia». Tutto in stampatello, senza pretese di grandezza – era una scritta piuttosto piccola, ma terribilmente potente nel suo significato.

Non capii come fosse giusto reagire. Una parte di me voleva essere considerata una brava persona senza epitaffi di questo tipo, su quella che a tutti gli effetti era la più grande bacheca a nostra disposizione prima dell’avvento del digitale. Ma qualcosa dentro di me scalpitava.

Non ho mai saputo chiamarlo per nome, quel sentimento di rivalsa che ti esplode dentro quando ti danno della troia: è qualcosa che parte da dentro e risponde al vecchio adagio che fa più o meno «ora ti faccio vedere io di cosa sono capace». Anni dopo, davanti a quel plotone di esecuzione (semicit.) che fu la mia prima shitstorm sui social media, in cui ricevetti tantissime volte tutte insieme la parola troia riferita al mio corpo e alla mia persona, mi sarei ricordata di quel giorno davanti al muro della scuola, arrivando a capire la stretta connessione che intercorre tra il corpo e la morale patriarcale che divide le donne e chi si identifica nel genere femminile in sante e, appunto, puttane. Contribuendo a eliminare le seconde dai giochi di potere e dal tavolo della discussione.

Troia è infatti uno slur sessista.

Per slur intendiamo una parola che nel corso del tempo acquisisce un significato ghettizzante e che si riferisce ad un preciso target e a una determinata categoria marginalizzata. Avremo dunque slur omofobi, razzisti, transfobici, abilisti e, in questo caso, sessisti. Si distinguono dai normali insulti proprio per il loro indirizzo collettivo.

Il potere degli slur è ovviamente quello di veicolare un’emozione negativa.

Gli slur sessisti sono principalmente variazioni peggiorative del termine «prostituta» e non pensiamo che siano poche le parole in esame: Edgar Radtke nel 1980 sintetizzò che all’epoca esistevano ben 645 epiteti corrispondenti alla parola «puttana», quindi avoglia a depotenziarle tutte.

Il punto focale di questa interconnessione tra parola e significante è però un altro, quello del valore morale che si porta dietro e della norma da cui nasce. Perché ogni donna ha ben presente cosa succede quando qualcuno le rivolge la parola troia contro, come se fosse un proiettile: ci si sente immobili, nude, private di un valore che non capiamo bene da dove arrivi.

Ma come si diventa, per il mondo tangibile, delle troie?

Semplicissimo: fottendo la norma che si accosta allo stereotipo.

Per prassi secolare, infatti, per essere sante bisogna corrispondere a un modello ben preciso, edulcorato, educato, che occupi poco spazio e sia riverente e devoto.

Questo accade perché le regole che disciplinano gli stereotipi individuano una sottomissione eterna al male-gaze («sguardo maschile») del genere femminile, che deve ricevere una precisa educazione basata proprio sulle qualità sociali che ci si aspetterebbe da una donna.

Perciò viene da sé che le qualità che si accostano agli stereotipi di genere debbano essere preservate.

Esemplare in questo senso è il lavoro di Elena Gianini Belotti che nel suo Dalla parte delle bambine del 1973 estrapola proprio questi meccanismi –consci o replicati in maniera autonoma ed involontaria, che si applicano nella crescita delle figlie femmine.

Il procedimento di stereotipizzazione, come spiega Belotti, non si ferma nell’infanzia ma prosegue durante tutto il corso della nostra vita e implica che in ogni momento, chiunque tradisca queste norme, verrà punito fino al proprio pentimento (in questo caso abbiamo come perfetto exemplum, fino alla rilettura in chiave storica della sua figura alla fine degli anni ’60, Maria Maddalena che da prostituta si redime e abbraccia la Fede diventando così icona della redenzione).

È qui che dunque si incastra la forma mentis della troia: una persona che tradisce – ecco che abbiamo il famoso senso morale: il tradimento è onta di virtù e permane nella sfera delle emozioni –; una regola fissa tramite la sovversione del suo proprio corpo – ecco qui la dimensione terrena – alla legge patriarcale.

Le dimostrazioni in cui questo accade sono molteplici, ma hanno tutte un comune denominatore: l’autodeterminazione.

Si può infatti chiamare troia una persona con una gonna troppo corta, una sex worker, chi ha partner occasionali o chi esplora il sesso nella vita pratica o semplicemente nella teoria (aiutatemi a dire «sex columnist»). Ma anche chi si discosta dal senso comune, chi flirta per prima, chi apre le gambe per piacere e non si chiama Bocca di Rosa: insomma, se lo scegli sei nella sfera del dolo, non della colpa.

Questo perché la prassi millenaria vuole che il sesso per la donna sia passività, un mezzo con cui dare e mai ricevere. Quest’ottica di accessorietà rispecchia perfettamente il ruolo sociale che il genere femminile ha nel mondo e la sua invisibilità (formidabile in questo senso il lavoro di Criado-Perez, Invisibili) che passa soprattutto dalla conoscenza del proprio corpo e dal suo utilizzo come strumento politico.

Già, ma perché chiamiamo il corpo femminile un corpo politico?

Un corpo è politico quando si fa carico di messaggi, riappropriazioni e rivoluzioni in una società che ne vuole il controllo, etico e pratico, sviluppando leggi che ne limitino la libertà, ignorandolo a livello rappresentativo e cancellandolo quando non rispecchi l’assoggettamento a cui dovrebbe sottostare.

In questo caso, la riappropriazione del nudo, della sensualità, della malizia, della pornografia e del sex work vanno a trasgredire le standardizzazioni patriarcali creando una narrazione diretta e non più secondaria, annullando il male-gaze di cui sopra e ponendosi come SOGGETTI del desiderio, ribaltando il paradigma che Karley Sciortino sintetizza come «presumibile predatorietà della sessualità maschile» in contrapposizione alla «presumibile passività di quella femminile» (Karley Sciortino, Generazione Slut).

La ridefinizione dei ruoli sessuali in ottica sex positive e postpornografica ha avuto origine nelle sex wars di fine anni ’80 in cui il movimento femminista ebbe una scissione: da una parte le radicali (e puttanofobiche) capitanate da Dworkin e MacKinnon e dall’altra il movimento sex positive che rivendicava una nuova libertà di fare del sesso mettendo al centro il corpo e la persona, non il desiderio maschile e le regole imposte dal binarismo di genere.

La riappropriazione del nudo, delle pratiche come il BDSM e dell’industria del porno si inserivano in un nuovo modo di narrare l’educazione sessuale ed i corpi, cercando di distruggere il tabù legato al corpo femminile.

Su questo, cito il lavoro di Annie Sprinkle che, nella sua performance del 1990 intitolata Public cervix announcement, inseriva uno speculum in vagina ed invitava gli spettatori ad osservare la sua cervice: fu rivoluzionario e provocatorio, mostrava cosa si nascondesse dietro a ciò che tutti vogliono ma non vedono mai, perché nel porno mainstream il corpo femminile è tutto tranne che umanizzato.

Rimettendo al centro la scelta della singola persona e l’autodeterminazione dei corpi si procede quindi a una liberazione sia in termini etici depotenziando gli slur che vengono usati nei confronti di chi non sottostà alla fruibilità fallocentrica che diventa dunque ininfluente; sia in termini prettamente economici con la creazione di nuove industrie del porno etico, sex work de-stigmatizzato, maggior consapevolezza e sicurezza e creazione di un’alternativa lavorativa per chi fa o vuole fare sex work.

Con il boom dei social media, la capacità di rappresentazione del singolo, della sensualità e anche del sex work è aumentata esponenzialmente.

Il dibattito sul corpo nella immediata contemporaneità è ai massimi storici e include ogni tipo di corpo: con disabilità, grasso, non binario, non bianco.

Insomma, la discussione sembra essere di nuovo centrale in materia di femminismo intersezionale tanto da essere finita in kermesse sanremese in una Rai boomer e assolutamente non pronta a certe discussioni.

La frase di un brano in gara, che si domandava cosa c’entrasse twerkare con la lotta contro il patriarcato, ha scatenato nella bolla social un boato piuttosto unanime di critiche che sottolineavano come il corpo sia invece centrale nella ridiscussione delle regole preimposte. Nonostante il passaggio si riferisse all’idolatria, è stato comunque indicativo vedere l’onda di rivendicazione che ne è scaturita, dando un chiaro metro di paragone di quanto il corpo e la sua libera espressione siano argomenti essenziali e reputati intoccabili, soprattutto dalla GenZ.

Faccio un altro esempio. Ha scatenato un dibattito di proporzioni mai viste prima anche una puntata del programma RAI  sempre lei! – Detto Fatto, andata in onda il 25 novembre scorso, che suggeriva un tutorial su come fare la spesa «in modo seducente». Ovvero: su come essere prede perfette e sensuali tra gli scaffali di un supermercato.

È impossibile, ormai, che un caso del genere passi inosservato.

Perché è ai massimi storici la distruzione del sapere precostituito su ciò che un corpo femminile dovrebbe fare. E a essere investiti sono proprio i canali di diffusione mainstream che sembrano ancora non aver compreso la velocità di un movimento che sta distruggendo a colpi di culo politico tutto ciò che ci ha sempre ingabbiate, dentro a scatole da noi mai scelte bensì subite.

In battuta finale, nei progetti per il futuro, io mi figuro una rivoluzione del linguaggio che coincida nella riappropriazione del termine che ha dato vita a questa mia riflessione, il termine «troia».

Rivendicarne la maternità diventa infatti un modo sublime per depotenziare lo slur sessista per antonomasia e che ancora oggi ha il potere di escluderci dai giochi e rimetterci in un angolo, declassando chi mostra il proprio corpo ad un essere politico di serie B.

Nel 2018 la struttura della mia scuola media è stata demolita per essere poi ricostruita, con nuove forme e spazi più ampi e finalmente liberi dall’amianto.

Il muro davanti al quale per la prima volta mi sono sentita donna, nuda, fragile è stato fatto a brandelli e con lui ogni scritta, ogni onta, ogni ricordo.

Questo, a mio avviso, dobbiamo fare con la parola troia: buttarla giù, farla a pezzi, ricostruirla e farla nostra per poi poterla vedere finalmente per quello che è: una parola senza più alcun potere.