ARTICOLO n. 58 / 2024
INTELLIGENZA ARTIFICIALE
le parole del futuro
Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.
“Intelligenza artificiale” è un’espressione che ormai è venuta a noia anche a chi si occupa di queste tecnologie. Con il trascorrere del tempo, l’hype verso un prodotto dai costi miliardari che promette o minaccia di salvare o distruggere l’umanità comincia a suonare credibile come i timori del millennium bug dopo il duemila. Alcune persone restano timorose e diffidenti, altre non rinuncerebbero più a queste innovazioni, ma nei grandi poteri economici – dove si prendono le decisioni – continuano movimenti di assestamento tra accordi e minacce.
Di recente, Apple ha siglato un accordo con OpenAI per l’utilizzo di ChatGPT; poco prima, Samsung aveva fatto lo stesso con Google per l’utilizzo di Gemini, tra i più celebri concorrenti a ChatGPT; Microsoft integra l’AI (powered by OpenAI) nel suo nuovo sistema operativo. Queste tecnologie entreranno presto anche nelle abitudini dei più scettici: sarà possibile rifiutarle? Ovviamente sì, nessuno ci ha mai obbligato a comprare uno smartphone, eppure lo abbiamo fatto, un po’ per moda, ma soprattutto perché è comodo. Non solo per le mappe, ma anche per le traduzioni, le foto, i treni, le informazioni, la banca, i giochi, gli appunti, le notizie… persino i social network sono utili. Le giuste critiche a queste reti capitaliste di controllo e persuasione non devono farci dimenticare che, se paghiamo un prezzo così caro, non è solo per dipendenza, ma anche perché troviamo utile conoscere persone e condividere esperienze e informazioni. Così come lo smartphone, anche l’AI scivolerà nelle nostre vite perché, banalmente, è utile.
“Intelligenza artificiale” non è solo un’espressione troppo diffusa, ma anche inaccurata. Non abbiamo una nozione chiara di “intelligenza” – anzi, la cambiamo via via che una mente non umana o una tecnologia ci supera in qualche ambito – e non sappiamo se e secondo quali criteri possiamo definire intelligenti queste macchine. Una calcolatrice è senza dubbio più abile di me nel fare i calcoli, un’ape vola e coordina i suoi movimenti meglio di me, le piante sanno comunicare tra loro attraverso i miceli. Il mondo vivente è pieno di intelligenze che ci superano, tanto che, come suggeriva Stanislaw Lem in Summa Technologiae, anche l’evoluzione è un’intelligenza sorprendentemente efficace, che opera attraverso il tempo e la statistica. La natura lo fa meglio e prima insomma, come suggerisce il recente libro di Giorgio Volpi (Aboca edizioni). Lenta e priva di un’intenzione consapevole, riesce a produrre una straordinaria varietà di soluzioni viventi con risultati che spesso superano quelli di un disegno intelligente e intenzionale. Nel ristretto ambito della manipolazione di simboli, è già innegabile che ChatGPT sia spesso più intelligente di noi, considerato che scrive e parla meglio di molti umani; tuttavia, come la calcolatrice, resta molto meno versatile, non essendo in grado di cose come muoversi nello spazio o di assimilare informazioni per il proprio apprendimento in tempo reale e con cinque sensi.
“Artificiale” è un termine ancor più sbagliato. Ogni tecnologia nasce e si sviluppa in una rete di conoscenze culturali e ambienti sociali, rendendo artificiosa l’idea che siano degli oggetti neutrali o separati dall’uomo. Nel caso delle AI, questa neutralità è ancora più fantasmatica, perché si tratta di strumenti la cui stessa materia prima sono i dati e i feedback forniti dagli umani. Miliardi di immagini e testi vengono dati in pasto agli algoritmi, grazie a un complesso e capillare lavoro di annotazione e di feedback fornito da umani, spesso sottopagati. Come scrive Josh Dzieza per The Verge, il ruolo dei lavoratori dell’annotazione dei dati è cruciale ma invisibile. Questi lavoratori, spesso situati in paesi con salari più bassi come il Kenya, svolgono compiti ripetitivi e tediosi.
Joe, un laureato di Nairobi, etichettava riprese per auto a guida autonoma, un lavoro che richiede ore di annotazione per pochi secondi di filmato, pagato solo $10 ogni otto ore di lavoro. L’annotazione dei dati è essenziale per la funzionalità dei sistemi AI, specialmente per gestire i casi limite che i modelli di machine learning incontrano nel mondo reale. Un incidente con un’auto a guida autonoma di Uber ha evidenziato tragicamente la necessità di un’accurata annotazione dei dati. Nonostante l’importanza di questo lavoro per il funzionamento delle AI, i lavoratori sono spesso pagati poco e non hanno consapevolezza del valore del loro contributo. In altri casi, come quello di Surge AI, le aziende svolgono compiti di labeling più complessi e specializzati, che richiedono competenze specifiche, con paghe tra $15 e $30 all’ora, con alcuni lavori specialistici che raggiungono i $50 all’ora o più. Considerando tutto questo lavoro umano e l’importanza dei dati, l’AI non è poi così artificiale.
Nonostante l’hype eccessivo, le paure esagerate e il nome sbagliato, l’intelligenza artificiale è qualcosa che farà senza dubbio parte del nostro futuro, così come fa già parte del nostro presente. Di recente un’artista americana nota per la sua posizione contro le AI, Jingna Zhang, ha fondato Cara, un social network per artisti sul modello dei più grandi Behance o DeviantArt. La peculiarità principale di questo nuovo social è che filtra le immagini generate dall’AI, proibendone la presenza nel network. L’aspetto più interessante è osservare il walldi Cara e confrontarlo con, per esempio, quello di Civit Ai, un social dedicato solo ad arte prodotta con AI generativa: al netto della tecnica risultano spesso indistinguibili. Si tratta per lo più di ottime realizzazioni ma stilisticamente di maniera, molto simili tra loro, di frequente kitsch. Nulla di male in questo, anzi, sono spesso gradevoli se non eccellenti nel loro ambito, ma testimoniano come probabilmente, nonostante la resistenza di molti illustratori e illustratrici, queste tecnologie faranno parte degli strumenti degli stessi artisti che oggi le criticano, così come accadde con i software di computer graphics, una volta osteggiati dalla medesima categoria (forse con meno forza, ma va detto che ancora non esistevano i social).
L’esplosione di questa sempre più gonfia e meno credibile bolla sulle potenzialità dell’AI aiuterà senz’altro a integrare questi strumenti in molti ambiti lavorativi, che però non saranno in grado di sostituire l’operatore umano senza importanti nuove rivoluzioni, al momento non all’orizzonte. Questo ovviamente non significa che non avranno impatto sul mondo del lavoro, laddove un umano che usa le AI potrà sostituirne due che non le usano. Di recente girava una battuta di qualcuno che diceva che voleva AI per lavare i piatti e fare il bucato, non per creare opere d’arte. Ma a dirla tutta, come scrivono Helen Hester e Nick Srnicek, anche tecnologie come lavatrici e lavastoviglie non sono riuscite ad alleggerire il carico di lavoro delle donne a cui erano in origine destinate, che si è solo ingrossato di nuove mansioni casalinghe. Il problema insomma è politico e in ogni caso siamo lontani dalla meta.