ARTICOLO n. 45 / 2022

SUPERFICI TRASPARENTI

Ho sentito un rumore intermittente.

Come se qualcosa di piuttosto aggressivo continuasse a sbattere contro le pareti della stanza attigua.

Un rumore cupo e simile a un ronzio.

Non poteva essere un moscone: troppo incazzato.

Neanche una locusta: troppo veloce.

Mi affaccio nel mio studiolo e improvvisamente comprendo la natura di questo rumore contro il vetro della finestra che si affaccia sul giardino, un grosso calabrone dal corpo lungo e le ali spiegate si dimena tentando di uscire. 

Sbatte ostinato per cercare la fuga, deve essere entrato questa mattina, quando ho spalancato le finestre come faccio ogni giorno, appena sveglia.

Si divincola dalle tende, ogni tanto fa dei voli più larghi ma poi finisce sempre per tornare sulla superficie trasparente del vetro della finestra, convinto che a forza di sbatterci contro potrà liberarsi.

Si ferma, recupera le forze e poi ricomincia, ronzando ogni volta più forte, sbattendo ogni volta con più violenza.

Mi immobilizzo all’istante.

Ne ho paura, io, di quell’animale.

Ne sono terrorizzata perché sono allergica. Una puntura di quell’insetto bellissimo quanto pericoloso porterebbe me a uno shock anafilattico. E lui a morte sicura, in un do ut des al ribasso.

Si ferma di nuovo sul vetro, abbassa le ali, sosta per qualche interminabile secondo sul bordo di legno della finestra e poi non so se percepisca me o lo spazio libero alle mie spalle, fatto sta che inizia a venirmi contro con il suo volo nervoso e impaurito.

Con un automatismo rapido mi sblocco dalla mia immobilità, indietreggio di scatto. E chiudo alle mie spalle la porta dello studio con un colpo secco, imprigionandolo al suo interno.

Lo sento sbattere contro la porta, adesso. Mi fermo, sono scalza. Le dita nude dei mi piedi arpionate al parquet. Ascolto il suo ronzare dall’altra parte della porta: ora più vicino, ora nuovamente più lontano, verso l’illusoria promessa di libertà della finestra che si affaccia sul giardino.

Non so cosa fare e rimango in attesa qualche minuto, chiedendomi quanto tempo ci vorrà affinché lui prenda confidenza con la nuova realtà in cui si è momentaneamente infilato. Fino all’arrivo di un vicino che lo possa liberare.

Mando dunque un messaggio a G, che vive dall’altro lato del giardino, comunicandogli un perentorio “Sos, calabrone in casa, imprigionato nello studio. Salvaci”. 

Il plurale sta per me e per il mio prigioniero alato.

Mi risponde che è fuori casa ma tornerà a breve, intimando a entrambi – me e il mio prigioniero, di cui in realtà sono a mia volta prigioniera – di resistere.

In cuor mio spero che il calabrone resista all’attesa: lo sento determinato nello sbattersi contro le pareti e temo che possa farsi a pezzi da solo.

Scendo le scale per farmi un caffè senza mai smettere di pensare al mio prigioniero con le ali e il pungiglione e mi soffermo un po’ troppo a lungo su un’immagine, quella del vetro da cui lui osserva l’esterno, una visione parziale dello spazio che pensa invece di essere totale. La cortina trasparente che lo separa dall’esterno è infatti il suo unico punto di osservazione sul mondo, al momento. E quella a quanto pare, gli basta per capire tutto su ciò che vi è contenuto al suo esterno.

Pensa che il mondo, nella sua interezza, sia ciò che vede dal vetro. E viceversa, ha pensato che quella finestra che lo ha portato fin dentro al mio studiolo fosse innocua e priva di inghippi. Il filtro con cui comprende il mondo è parziale, privo di approfondimento, privo di imprevisti. Avrà pensato che la casa fosse vuota? Che fosse solo un riflesso? Che sarebbe uscito subito? 

Mi viene in mente Sottsass e la sua domanda su di chi siano le case vuote e per un attimo sorrido realizzando quanto in realtà il sistema che abito, ovvero quello della impalpabile e apparente notorietà – che mi fa strano chiamare così – , sia incredibilmente simile alla visione che ha delle cose il mio povero calabrone, così sicuro della monodimensionalità di ciò che osserva da restarne incastrato dentro.

Cosa vedono le persone quando mi osservano attraverso quella grossa lente trasparente che sono i social?

Me lo chiedo mentre bevo il caffè e controllo le mail, apro le richieste di connessione, amicizia e guardo i nuovi messaggi che lampeggiano sul mio telefono.

Tra le richieste più svariate che mi giungono coglie subito la mia attenzione quella più selettiva e decisamente auto-sabotante. Come mai ci interessano più le critiche che le lusinghe? Semplice, perché nella realtà sappiamo di essere molto più vicini alle prime che alle seconde. Con un movimento veloce e preciso del pollice destro, apro il messaggio e leggo.

È di un profilo fake – termine con cui noi ex giovani abbiamo iniziato a indicare account anonimi – e privato che si dice incredibilmente deluso da me – uso il maschile perché deumanizzo la persona riducendola al suo stesso profilo, termine che ormai è divenuto sineddoche di uso comune per indicare un essere umano con una connessione a internet. Mi rimprovera del fatto che non avrei parlato di un tal evento mediatico su cui avrei – non so per quale obbligo – dovuto espormi. Scrive che non sono più quella di un tempo e che dovrei prestare più attenzione alle cause, tanto più io. E aggiunge, proprio io, che sono una vittima e che quindi dovrei capire.

Nella mia testa inizio subito a smembrare questo messaggio per analizzarlo chirurgicamente in ogni sua parte.

La delusione, che è l’emozione soggettiva e personale di questa persona nei miei confronti, partirebbe da una non aderenza alle condizioni contrattuali monolaterali iniziali. Ovvero quelle del mio esordio sulla pubblica piazza dei social, battesimo di una popolarità – a suffragio universale – fragile quanto il vetro di Murano durante un terremoto.

Sorrido ancora pensando ai Club Dogo che accusati dalla loro stessa fan base di non essere più quelli di Mi fist (il loro primo album datato 2003, ndr), nel 2014 lanciano a bomba in modalità kamikaze un album titolato Non siamo più quelli di Mi fist. Oggi comprendo perfettamente lo spirito dissacrante del trio di rapper meneghino.

Mi scappa da sorridere, poi, ripensando a questi fantomatici miei esordi: te credo che avevo tempo, eravamo in lockdown, io ero disoccupata da tre mesi e avevo 24 ore al giorno da spendere “alla causa” dedicandomi a tempo pieno alle persone che abitano lo spazio del digitale.

Riecco dunque il paradosso del calabrone: lui vede me in una stanza illudendosi che io sia da sempre nella medesima posizione, e pensando che io non mi muova ne è rassicurato. 

Ma per quanto il vetro della finestra come dello schermo illuda del contrario, noi, anche solo per fisiologia, nasciamo cresciamo corriamo evolviamo e poi schiattiamo, quindi l’immobilità non è certamente tra le peculiarità della nostra specie. L’apparente cristallizzazione di tempo e spazio è frutto di uno sguardo soggettivo che pretende di trasformare le persone in immobili simulacri.

Che io ora sia in un tour promozionale del libro appena uscito, debba far quadrare sei scadenze, abbia da presentare altri libri, gestire semplicemente la vita che è ripartita in questa fase di convivenza con il virus, non conta. Non viene recepito, perché il calabrone dal vetro vede ciò che vuole vedere, in un tempo e in uno spazio limitatissimi, a portata del movimento delle dita.

Chiedo via WhatsApp a due colleghe se anche per loro funzioni così, se anche a loro non sia perdonata (compresa?) l’assenza. Mi accendo la prima sigaretta della giornata tendendo l’orecchio verso la porta dello studiolo sperando di sentir ancora ronzare.

Mi rispondono subito entrambe, come sospetto, è un sì unanime: nessun perdono, solo delusione, siamo colpevoli di poca cura.

Eppure – penso mentre sbircio dal buco della serratura per controllare il mio quasi amico alato – io le “cause” continuo a portarle avanti, ho solo cambiato lo spazio in cui lo faccio.

Come mai non si è compreso?

Appurato empiricamente che no, non sono più quella di Mi fist e che il cambiamento è fisiologico in quanto essere umano, mi chiedo cosa sia successo. Come abbia fatto a non comprendere la fregatura della monodimensionalità social. Io, che sono pure claustrofobica, come ho fatto a rinchiudere la mia immagine in un solo, eterno, irreale e soffocante fotogramma distorto?

Ed è proprio qui, seduta sul pavimento del corridoio mentre aspetto che G venga a liberarci, che comprendo di essere io stessa a mia volta un gigantesco calabrone, attirato da una stanza che vista da fuori mi sembrava sconfinata.

Così mentre chiudevo altri calabroni in altrettante stanze per immobilizzarli e tenermeli a debita distanza, anche a me toccava la medesima sorte.

Vittima pure io, accusata dai miei simili (calabroni loro, calabroni tutti) di essermi venduta perché scrivo «per le major» (!). Ehi, proprio come i rapper! Assente e deludente infine perché non vivendo attaccata al telefono risulto incapace di instaurare un vero e approfondito dialogo. Come se bastasse un telefono e come se la mia vita fosse sempre a disposizione di ogni singolo spettatore pronto a illuminare di avvisi il mio schermo.

A tal proposito, ho letto qualche settimana fa che sarei una ricca privilegiata, che scriverei libri sui nobili e su mia nonna, presunta miliardaria. Non serve che io ribadisca che niente di questo corrisponde al vero, oltre tutto basterebbe aprirlo, uno dei miei libri, per scoprire quanto queste notizie siano totalmente prive di fondamento. 

E allora mi chiedo: il reale dove si è fermato? Cosa lo ha fermato? Cosa ha provocato il collasso di spazio, tempo e narrazione su questo orizzonte degli eventi fatto di vetro trasparente che sono i nostri smartphone?

Quando siamo diventati pezzi componibili ma soprattutto scomponibili da poter montare come se fossimo bambole o pezzi del Meccano?

Oggetti di consumo e digestione, siamo diventati il bolo alimentare da divorare e poi cagare fuori.

Pezzi scomponibili di una catena di montaggio postmoderna, veniamo venduti di volta in volta al miglior sguardo. Esseri disanimati agli ordini del turbocapitalismo contemporaneo, mettiamo a disposizione la nostra immagine, la nostra arte e perfino le nostre stronzate. Non mancano nel catalogo le persone che ci scopiamo così come i luoghi da cui veniamo, le nostre idee migliori come quelle peggiori. Ma la critica (o meglio la lamentela) è subito pronta e vibra contro vetri trasparenti: non siamo più quelli di Mi fist!

Non siamo più quelli di Mi fist, ma è altrettanto vero che non avevamo firmato alcun contratto che garantisse la nostra reperibilità 24/7, il nostro dover essere obbligatoriamente sante o puttane in base al trending topic del giorno, il nostro addio al mondo tangibile per il mondo impalpabile.

Non capisco, mentre cammino avanti e indietro sempre nel corridoio, quando io abbia concesso agli altri di prendersi pezzi di me e divorarli e strumentalizzarli e modificarli o addirittura, come nel caso del libro e della biografia a me attribuita, inventarli dal nulla: chi sono io?

Dove sono in questa storia?

Sono il calabrone o la mano che chiude bruscamente la porta?

Non capisco i confini, non mi riconosco nel mio stesso volto riflesso nelle superfici trasparenti e a mia volta non riconosco la stanza in cui sono entrata e nella quale sbatto contro le pareti cercando di trovare una via di uscita che forse, forse sono stata io stessa a sbarrare.

Vorrei urlare che oltre i vetri c’è molto di più, che quello che fanno gli scrittori è raccontare. È fuori dalle stanze chiuse che il mio riflesso si compone di miriadi di immagini diverse. La mia storia è frammentata da infiniti momenti anche meravigliosamente dissonanti tra loro. Il mio desiderio era solo quello di essere libera di fare un volo sereno, di mattina, da un giardino, attraversando le pareti di una casa.

Mi chiedo se qualcuno aprirà mai questa porta, se i vetri trasparenti si incrineranno un po’ ogni volta che ci sbatto contro e se costringerò questa stanza alla resa. Oppure se mi farò solo male. Mi manca il fiato mentre penso al calabrone che continua a ronzare arrabbiato e mi viene da urlare perché non sono io la persona giusta per poterlo liberare.

Mi vibra il telefono tra le mani. È G.

«Sto arrivando a salvarti», scrive.

Muovo veloce le dita sul vetro trasparente del mio telefono e digito nervosa: 

«Il calabrone: salva lui, non me».

ARTICOLO n. 59 / 2024