ARTICOLO n. 68 / 2023

VIAGGIO SOLA

La temperatura dell'estate

Qui mi piacerebbe abitare, mi dico ogni volta che passo davanti a una di quelle che chiamo le case barbute – sono case ricoperte di rampicanti, edera o vite americana, che d’autunno virano al rosso, in primavera a un verde tanto tenero da esser quasi violento, e d’estate a un buio bluastro, fresco, da giungla disegnata in un libro per bambini. Mi vedo dentro le stanze ombrose di bosco, fra pareti avviluppate di peduncoli tenaci; sogno di galleggiare nell’aria tinta dei riflessi delle fronde, immagino di seguire sul soffitto, nei tardi pomeriggi dorati, i profili tremuli delle foglie. Mi penso felice. Ma se lo dico a voce alta, che mi piacerebbe abitare in una casa barbuta; se lo dico a voce alta, nella fattispecie, a qualcuno, ricevo sempre la stessa risposta: sì, ma ti immagini quanti insetti? Oppure: ma ti immagini l’umidità. O ancora, dai più pragmatici: ma pensa che fatica la manutenzione. Ti ci vorrebbe pure un giardiniere, qualcuno che sappia come si fa; non ci si può mica improvvisare, con un rampicante così, cominciano la concione; e proseguono poi per un bel pezzo a enumerare gli svantaggi di quelle magnifiche palazzine fronzute che ingenuamente avevo eletto a sfondo ideale per un futuro sognato. 

Il bello è che hanno ragione, e io lo so benissimo. D’altronde non penso che mi potrò mai permettere una casa barbuta, e men che meno un giardiniere per la manutenzione. Di fatto, però, quando le repliche realistiche degli altri la riportano a quello che è, ogni fantasticheria si affloscia su sé stessa, si spegne. Torno a quello che stavo facendo, torno a occuparmi di piccole incombenze prosaiche, mi scordo una volta per tutte i glicini e la penombra delle stanze non mi attira più con l’intensità magnetica di poco prima. Tornano in primo piano le preoccupazioni del giorno, le commissioni da sbrigare, il pensiero del lavoro da finire, le consegne. Torno a essere una partita IVA che si arrabatta e non si sogna nemmeno di assumere un giardiniere addetto ai rampicanti.

Per via del lavoro in cui, per l’appunto, giorno dopo giorno mi arrabatto, trascorro in viaggio, e per la precisione in treno, circa due terzi del mio tempo di veglia. Viaggio sola. Mi piace molto, anche se qualche volta mi prende una gran malinconia, nelle piccole stazioni, quelle in cui l’edicola ha chiuso da anni e rimane lì, gabbiotto sbarrato ricoperto di firme, tag, qualche volta una dedica d’amore, un insulto a qualcuno che non conosco e non conoscerò, perché sono sempre di passaggio. Le piccole stazioni, oltre all’edicola, spesso hanno perso anche il bar; qualche volta c’è un distributore di bibite e merendine che si mangia la moneta da un euro e si blocca, oppure una moneta da un euro non ce l’ho e non c’è nessuno a cui chiedere se ha da cambiare.

Qualche volta aspetto una coincidenza che non arriva, il secondo treno è in ritardo; qualche volta la coincidenza l’ho persa, in ritardo era il primo treno e il secondo invece puntualissimo, e ne devo aspettare un altro che pare non arrivare mai. Allora mi prende una punta di tristezza perché penso che nessuno, sulla faccia della terra, può conoscere la noia di aspettare come la conosce chi l’ha provata una, due, tre, quattro volte, nelle stazioncine di provincia, ed è un pensiero che mi consola e mi raggela insieme; il pensiero del tempo perso, dei cumuli di minuti e ore sbocconcellati da quella forma d’attesa dimessa, per cui, anche a spazientirsi, non cambia niente, nella solitudine da eterna domenica pomeriggio delle piccole stazioni. In piedi sulla banchina del binario 2 – il 3 non esiste –  leggi frasi scritte a pennarello dai ragazzi sulle panchine, lei ama lui, lui è bonissimo, quell’altro è un infame, e ti fai domande perfettamente inutili (chissà come si chiama chi ha scritto questa cosa, chissà se l’ha scritto in segreto o per impressionare qualcuno che stava proprio qui, chissà che giorno era, quanti anni sono passati, quanto resiste una scritta a pennarello?), per ingannare il tempo che lì, però, non si lascia ingannare; resiste, ha una consistenza che non si lascia sciogliere nella distrazione. Capita che passi un merci sferragliando, fa un gran baccano e il sussulto ti fa guadagnare un mezzo minuto; poi torni a ripensare al tempo perso.

Dimentico questo sconforto tipicamente ferroviario quando il treno è in movimento. Quando il treno è in movimento non dico a nessuno le cose che penso mentre guardo fuori dal finestrino, dunque nessuno mi può dire che nella casa che ho avvistato in mezzo ai campi, o alla periferia di una città in cui dovremo fermarci, chissà quanti insetti e quanta umidità, e quanta manutenzione ci vuole. E allora, mentre il treno va fisso gli occhi oltre il finestrino; qualche volta c’è il sole, oppure piove. Qualche altra volta il cielo è grigio, o scolora nel crepuscolo, o nell’alba. Sempre, sotto qualsiasi cielo, faccio lo stesso gioco.

Guardo la campagna che fugge fuori dal vetro, e mi dico che non c’è da stupirsi se il cinema è iniziato con il film di un treno che corre; anche da dentro il treno si vede un film. Guardo la campagna e gli alberi, le colline e i fiumi, ma soprattutto le case. Non è facile, perché scappano velocissime; ma fa parte del gioco. Devo cercare di imprimerle nella retina in una frazione di secondo, quel che basta a fantasticare: di abitarle tutte, tutte quelle che sfilano, case coloniche e cascine, ville o palazzotti, qualcuna poco più di un capanno. Guardo i giardini cintati, che per qualche ragione mi fanno tenerezza, soprattutto quando circondano villette isolate; le aie e i pergolati, le piscine, d’estate splendenti di azzurro, d’inverno coperte dai teli. Un cane che salta dietro il cancello, come se potesse inseguire il treno; un altro che saggiamente se ne resta seduto sull’erba, e guarda i vagoni passare, e chissà cosa pensa, se pensa. Allora io, seduta al mio posto, il computer aperto davanti, perché ho del lavoro da sbrigare, perché quel tempo non lo dovrei perdere, e proprio per questo finisco per dissiparlo, mi immagino di scomparire, di inabissarmi come il treno che entra in galleria, e saltar fuori da tutt’altra parte, riemergere in una vita alternativa, fuori dal vagone, in una di quelle case sconosciute.

Quasi la vita fosse – per il tempo della fantasticheria – non una successione di indicativi, in cui si rincorrono a tappe forzate presente futuro e passato, ma un rigoglio di congiuntivi che si corroborano l’un l’altro, come virgulti di un cespuglio esuberante di possibilità. Così finalmente mi sento risarcita dell’avarizia della vita vera, che esige il sacrificio di mille possibili futuri perché possa aver luogo un unico presente. Nella fantasia non è così, e nel giro di qualche ora di viaggio mi ritrovo ad abitare, senza la fatica di un solo trasloco, dieci case diverse, per lo meno. Case che sicuramente hanno i loro problemi, formiche o umidità o manutenzione; se ci fosse il tempo di realizzare la fantasticheria, basterebbe un attimo e me ne accorgerei, dell’attrito della realtà. E allora capisco una cosa, dopo anni di viaggi, di sogni a occhi aperti, di case viste baluginare e un istante dopo ricordate solo con gli occhi della mente, che guarda mattine di primavera sotto quel certo pergolato, a far colazione e veder passare i treni – treni immaginari che non fanno rumore, perché l’immaginazione non ha bisogno di pagare lo scotto al vero, no?, ma che se confidassi la mia chimera a qualcuno, il rumore tornerebbero a farlo: ti immagini che frastuono, a cento metri dalla ferrovia?, mi direbbero, e ancora una volta l’illusione si sgonfierebbe come un soufflé estratto prematuramente dal forno. Capisco che non vorrei vivere davvero in nessun luogo che non sia quello in cui vivo già; e da cui posso permettermi questo gioco, che non serve a niente, non costa niente, non porta a niente, di guardare le case per un istante solo e concedermi di immaginare vite impossibili, senza che nessuno me lo faccia notare. 

ARTICOLO n. 35 / 2024