Eva Cantarella

ARTICOLO n. 27 / 2024

AD ANTIGONE PREFERISCO CREONTE

Un’intervista di Valeria Verdolini

Milano. Uscita dallascensore, la porta è già socchiusa. La casa è luminosa, con le stanze comunicanti che si intersecano con il corridoio. Ovunque libri, ma anche oggetti di una vita di viaggi e studio. In ingresso un grande quadro specchiante con una tigre accoglie e restituisce alla casa di studiosa una nota impertinente, che è anche la cifra della conversazione che ne è seguita. Eva Cantarella è nello studio, la trovo dopo aver vagato per le stanze. 

«Eccomi da lei. Avevo lasciato tutto aperto, perché non volevo perdere il filo dei pensieri. Arrivo al punto e poi sono da lei. Parleremo di tutto quello che vuole, ma prima dobbiamo accertarci che nella sua attesa non sia fuggito il gatto. Ha vent’anni, povero, è cieco, ma ha mantenuto uno spirito avventuroso e appena la porta si apre, tenta la fuga».

Accertata la presenza del rosso persiano, poco lontano dalla libreria a soffitto, ci accomodiamo in sala. Loccasione è luscita del recente Contro Antigone, o dell’egoismo sociale (Einaudi, 2024). Professoressa ordinaria di diritto greco e romano, divulgatrice e studiosa, Cantarella ha pubblicato oltre 30 volumi e innumerevoli saggi sul diritto greco, sulla polis, esplorando le contraddizioni di Atene, ma anche la capacità che hanno i classici – così come gli istituti giuridici – di parlare alloggi, di offrirci uno spunto. Di classici ci sono solo gli interessi di ricerca, perché la professoressa ha mantenuto gli occhi e lo stile da ragazzina, che brillano quando la si provoca con una domanda, e quellinformalità spigliata e cosmopolita che permette anche di dissacrare Sofocle, riprendendo alla lettera gli stasimi e riportandolo allinterpretazione autentica.  

Nel libro si distingue chiaramente il mito di Antigone e la versione prosaica della paladina dei diritti contro il potere tirannico dello zio Creonte, e la tragedia di Sofocle, in cui le vicende narrate assumono una piega sensibilmente differente. «Il mito è stupendo. Per fortuna esiste, regge nello spazio e nel tempo, e va molto lontano. Recentemente, per esempio, Milo Rau l’ha riproposto in Brasile, con la sua Antigone in Amazzonia». Il mito è chiaro, è noto. Tuttavia, Antigone è un’invenzione di Sofocle, e Sofocle nella sua tragedia racconta una storia molto diversa». 

La conversazione parte perciò dal sottotitolo paradossale: a fronte della nota eroina che sacrifica la vita per la degna sepoltura del fratello, il suo libro parla di egoismo sociale”. 

«Antigone è di uno spaventoso egoismo! Lo dice lei stessa, chiaramente, eccome se lo dice! Rileggendo il testo è chiarissimo! Il momento nel quale la cosa è non solo evidente, ma esplicita è quando dice a Creonte “tu hai ragione, è giusto che ci siano le leggi ed è giusto che gli altri obbediscono, ma io non intendo farlo!”».

Le domando da cosa derivi allora questo paradosso. «Antigone disobbedisce perché vuole assolutamente compiere un’azione che sarebbe un reato. Fondamentalmente a lei non importa null’altro che della sepoltura di Polinice. Tutto il resto è irrilevante, gli altri che la circondano, le altre azioni umane. Lei vuole solo una cosa, che è un reato per la legge di Tebe».

Le chiedo cosa la spinge a questa ostinata rottura e devianza. Perché voleva così tanto farlo? «Ci sono varie interpretazioni, ma molte si possono semplicemente scartare. L’idea dell’incesto tra lei e il fratello è proprio semplicemente ridicola. E perché quindi agisce così? Per amore fraterno ovviamente, e da questo punto di vista non c’è niente di strano. Ma il modo in cui lei esercita questo amore fraterno è strano: lei dice che non è giusto in generale ma che lo vuole fare comunque, e che lo vuole fare a modo suo. Esplicita che non le importa nulla che sia sbagliato teoricamente, semplicemente non vuole fare altrimenti. L’egoismo sociale è proprio questo: l’affermare che c’è un interesse individuale e in contrapposizione la polis, la visione collettiva della città. E questa è l’unica cosa che le importa. Non le interessano i sentimenti, per esempio. Antigone è una donna che non ha un sentimento. Una delle cose più impressionanti secondo me. Devo dire, sono rimasta colpita, e non è che io sia una romantica che si immagina chissà quali tenerezze. Però mi sono riletta non so quante volte il testo di Sofocle proprio perché volevo essere sicura. E in tutta la tragedia lei non pronuncia una sola volta il nome di Emone, il suo promesso sposo. Non lo nomina mai! E non solo non ne parla, ma non allude al suo matrimonio neanche quando si avvia alla morte, sapendo di rinunciare alle nozze. Si avvia alla fine, e in quel momento le poteva venire in mente vagamente… E invece, nemmeno in quella circostanza compare il futuro marito. Nell’universo di Antigone c’è spazio solo per lei e per la decisione di seppellire il fratello, cosa che sarebbe più che lodevole se non fosse fuorilegge. Peraltro, a voler essere precisi, Antigone si oppone contro una regola giuridica che non è solo lecita, ma anche logica: quando mai si offre degna sepoltura a un traditore della patria? Non era mai accaduto. Dei cadaveri dei nemici si faceva strage. E in questo caso si tratta di Polinice, che organizza la presa di Tebe, e poi lo dovrebbero seppellire in città insieme al fratello caduto per difenderla. Non ha senso, è una pretesa illogica, contraria al senso comune. Avanzare questa pretesa significa essere mossi da un enorme, spaventoso egoismo sociale, accompagnato da una perenne mancanza di sentimenti, e di visione. Colpisce come una persona, da sola, per assecondare il proprio volere, si metta in contrapposizione alla polis, accettando la regola generale ma evocando per sé, per il singolo caso, l’eccezione, l’accettazione della violazione. Ed è una forma di mostruoso egoismo».

La conversazione – così come il volume – si sposta sulle contrapposizioni poste in luce da Sofocle, che ha prodotto un testo dicotomico. La prima è una dicotomia generazionale, tra giovani e meno giovani. 

«Quello è molto importante, anche perché c’è in mezzo tutto questo fatto di quella nuova gioventù che erano i sofisti – i primi sofisti – quindi rappresenta anche un momento importante di trasformazione. Perché il racconto dell’Atene democratica, be’, anche quello spesso sfocia nel mito. Io ho sempre amato Pericle, con le sue contraddizioni. Ad esempio si evoca sempre la pratica democratica dei cittadini ateniesi. Ma alla fine quanti erano questi cittadini? Erano quattro gatti. Perché io tutte le volte che rileggo il famoso discorso, appunto, “abbiamo perso la nostra primavera”, che è bellissimo, anche se non sappiamo se abbia pronunciato esattamente quelle parole, ma immaginando di sì, lui pronuncia questo bellissimo discorso davanti a tutta la cittadinanza e i cittadini chi sono? Sono soltanto i maschi. Anzi, Pericle restringe ancora di più, riducendo l’accesso ai maschi ateniesi figli non solo di padre ateniese, ma anche di madre. Si trattava di pochissimi privilegiati. E gli altri? Atene era abitata da moltissimi meteci. Senza i meteci Atene non avrebbe avuto vita, lavoro. I meteci avevano dato senso alla città, così come i figli dei meteci che erano andati a morire in guerra. E Pericle fa un discorso che è bellissimo se letto oggi, ma che allora era assolutamente impensabile come inclusivo, era elitario. Abbiamo mitizzato i greci da tanti punti di vista e gli ultimi studi, soprattutto statunitensi, stanno rivedendo – anche in modo a volte creativo – come stavano le cose. Questi lavori ci raccontano come, in concreto, i diritti riconosciuti ed esigibili erano pochissimi, e come fossero goduti da una piccolissima parte della popolazione. E sebbene questi giovani studiosi stiano mettendo troppa enfasi e a volte tendano a esagerare, centrano un punto: abbiamo mitizzato la Grecia, abbiamo mitizzato i greci, abbiamo mitizzato persino Pericle».

La chiacchierata prosegue sulla seconda dicotomia centrale nellAntigone sofoclea, ossia quella di genere, tra la mascolinità di Creonte e la responsabilità femminile di Antigone. 

«Di questo nodo non parliamone neanche. È impressionante l’arretratezza in cui versavano le donne greche, sebbene poco lontano, in Oriente, le condizioni fossero diversissime. Lo racconta bene Erodoto quando ripercorre la storia di Tomiri, una donna assolutamente straordinaria.  È la regina dei Massageti, quando muore il marito lei prende il trono. Era molto bella ed era stata chiesta in moglie da Ciro il Grande. Capendo che lui in realtà mirava solo a controllare i Massageti, lei risponde di no, con garbo. Lui risponde dichiarando guerra. Lei cerca diplomaticamente di dissuaderlo, ma non c’è niente da fare. Ciro il Grande fa prigioniero il figlio di Tomiri, Spargapise. Tomiri propone un accordo per liberare il figlio prigioniero. Ciro il grande si rifiuta, ma slega le mani a Spargapise che riesce a suicidarsi. A quel punto Tomiri dichiara vendetta, rispondendo al sangue versato con la minaccia di fargli bere tutto il sangue che aveva causato. Be’, quando ti muore il figlio, che cosa si fa se non la guerra? E naturalmente, vince lei. Piccolo particolare: Ciro il Grande viene ucciso quindi da una donna. Io non l’ho mai letto in un manuale di storia. E poi, il cadavere non si trova. Mandano a cercarlo, lo trovano, lo prendono. Lei aveva preparato questa una bella tinozza piena di sangue, e dentro ci affoga il cadavere di Ciro il Grande. Tomiri incarna tanto la grandissima guerriera quanto una madre coraggio. E incredibilmente questa è una storia minore, poco studiata e poco narrata.

Mentre questi eventi erano possibili, le donne greche erano completamente senza potere. E quindi è abbastanza impressionante questa contrapposizione di figure femminili e questa Grecia, da questo punto di vista così arretrata. Ed era così più o meno dappertutto, tranne forse a Sparta. Se lei mi chiedesse di scegliere tra spartana o ateniese non avrei avuto dubbi, ma basta leggere le fonti, c’è scritto. Vero è che queste donne spartane non vedevano mai gli uomini perché quelli venivano portati via, e spesso loro contavano solo in quanto madri di un eroe.  Però alle donne spartane era consentito l’amore che noi chiamiamo lesbico. Le donne si amavano fra di loro. Questo poteva succedere a Sparta, certamente non ad Atene. E per questo dico che comunque se avessi dovuto scegliere avrei scelto probabilmente Sparta, dove le donne quantomeno partecipavano alla vita sociale. Insomma, sono buffi questi greci, sono un po’ diversi da come ce li hanno insegnati».

Spostiamo il dialogo sulla questione centrale delle leggi costituite e del contrasto evocato da Antigone, ovvero sulle cosiddette leggi celesti che tutti sovrastano. Dove si colloca il testo? Che ruolo ricopre il diritto?

«C’è la legge, e lei la vuole violare e dice è giusto, però non me ne frega niente, non lo faccio. Sofocle mette di fatto in scena il suo timore: egli teme che Antigone incarni quell’individualismo egoistico che il tragediografo attribuisce ai suoi concittadini e che lo terrorizza. Quindi, rileggendo Sofocle noi vediamo una critica all’egoismo.  Perché si inventa un personaggio così antipatico? Perché descrive quella che è la Atene che lui amava follemente e la città lo ricambiava dello stesso amore. Un bel personaggino anche Sofocle, la sua stessa vita è ricca di aneddoti. Del resto, lo stesso Pericle lo sgridava perché gli piacevano i ragazzini. C’è una scena riportata dai testi in cui lui cerca di baciare un ragazzo durante un banchetto. Era un viveur. Era divertente, ma allo stesso tempo era pieno di principi politici rispettabilissimi. Si impegnava. Contrariamente a quello che si dice non è vero che non si impegnasse in politica, tra l’altro era un conservatore, e si impegnava talmente tanto da diventare poi amico e collaboratore di Pericle. Umanamente è un personaggio di grandissima simpatia, divertente, che si invaghisce di donne, uomini e ragazze, ma che al contempo fa tutto il possibile per divertirsi, rimanendo però politicamente impegnato. Era un conservatore che si adatta, e capisce cosa cambia attorno a lui. Una persona intelligente e un gran viveur. Era molto ricco, e nonostante questa vita piena di intrattenimento è riuscito a scrivere moltissimo. Va detto che è anche vissuto un secolo. Forse potremmo tenerci l’insegnamento che una vita piena fa bene e l’allunga. Cent’anni ben vissuti. Una vita godereccia e piena, necessaria per scrivere tragedie.

Tornando all’Antigone, alla fine, non ci posso fare nulla, ma pur con i suoi torti io preferisco Creonte. Creonte poveretto è coerente fino in fondo, fino a quando non entrano in campo gli dèi, perché come sempre poi chi decide sono gli dèi, i quali a un certo punto cambiano opinione radicalmente. I greci erano fatti così, no? E tra l’altro si dimentica sempre che il povero Creonte non è che volesse diventare re per forza, anzi, non voleva proprio, lo dice all’inizio della tragedia. Accetta il compito che gli tocca, e lo svolge con un rigore esagerato. Ma al di là di questo non si può accusarlo di essere un despota. Mi sembra un personaggio positivo, decisamente con i suoi limiti. Senz’altro insomma, tra i due, non avrei un attimo di esitazione».

La provoco allora. Se sta dalla parte di Creonte, quale potrebbe essere oggi un moderno Creonte? Nel libro si trovano elencate le moderne Antigoni (tra le più note, Carola Rackete). Ma mancano moderni Creonte, visti alla fine come buoni governanti.

«Be’, certamente nessun governante europeo, ma anche negli Stati Uniti in questo momento non riesco a vederlo. Magari ce ne fosse uno. Anche in Europa. Sto cercando, chi è il migliore? Macron no di certo. Faccio fatica a individuare qualcuno che possa rappresentare una politica mossa da logica e coerenza, con un certo rigore».

Discutiamo di come il mito abbia ribaltato le cose. E perché nel farlo abbia scelto di acuire la dimensione individuale, leroina salvifica e non una salvezza collettiva. 

«È sempre stato un po’ così, abbiamo sempre avuto bisogno di un ideale, l’ideale è necessario, ma è difficile rappresentarlo davvero in una dimensione collettiva. Ma oggi non troviamo più non solo il collettivo, ma nemmeno il singolo, e la singola, che si farebbero uccidere per un ideale. Salvo rari casi, come il povero Navalny in questi giorni. Una vicenda che, letta da qui, fa sembrare le scelte di Putin poco strategiche, perché quella morte sembra aver avuto la capacità di toccare e attivare molte coscienze, con una reazione mondiale di grande portata. E non mancano solo le Antigone, mancano anche le Ismene, ossia le persone dotate di buon senso. Ismene è un bel personaggio, un personaggio razionale, ma oggi di persone sagge se ne trovano poche». 

Sullo stato del mondo, e sui timori sul mondo, c’è il verso forse più oscuro e più bello dellAntigone, ossia il primo stasimo. Il testo greco usa il termine ambiguo Denia”, associato alle cose del mondo. Un termine che è stato di volta in volta declinato e interpretato come il diritto, la legge, ma anche la tecnica, il progresso. 

«Πολλὰ τὰ δεινὰ vuol dire tutte e due le cose, tant’è vero che poi a un certo punto dice, dipende da come fai, perché se lo usi in un certo modo diventi un cittadino pieno e integrato, se lo usi in modo errato diventi un reietto. Si possono intendere l’uno e l’altro, tanto l’abuso della tecnica per fini nocivi, quanto la violazione delle norme. E quella violazione rende le persone apolis, fuori dal patto di cittadinanza. Apolis voleva dire questo. Ma è evidente che a seconda della bontà dei governi questo uso può essere ribaltato, ieri come oggi. Pensi allo stesso Navalny: prima di morire era di fatto in una condizione di apolis nella Russia putiniana. E la debolezza democratica dei governi mi fa dire che paradossalmente, oggi, fuori dal patto sociale vengono messe le poche persone perbene che ci sono. Perché, diciamoci la verità: quando uno ha Ignazio La Russa come seconda figura dello Stato, diventa tutto inconcepibile. Stiamo parlando di una persona che ancora oggi ammette di tenere i busti di Mussolini in casa. E non ci dimentichiamo che menava. Come menava lo abbiamo visto tutti nel 1968 in piazza San Babila. Non me lo faccia dire».

Andando a concludere la nostra conversazione, quale tragedia o quale mito secondo lei rappresentano meglio la situazione attuale? Che cosa dovremmo rileggere per capire dove siamo oggi?

«Ma non lo so. Probabilmente però in qualunque tragedia troviamo un personaggio nel quale possiamo identificarci. Ma non una sola tragedia. Non lo so, non mi viene in mente niente. Non so se sono io in un momento di particolare distrazione, ma non trovo proprio niente.  Forse ci dice tanto del nostro tempo il fatto che non riusciamo a trovare dei modelli a cui ispirarci, perché ci racconta anche della grande confusione in cui siamo. Un tempo non era così. C’erano dei modelli, e spesso le tragedie e i miti hanno svolto questa funzione, e sarebbe importante che tornassero a svolgerla».