Witold Gombrowicz

ARTICOLO n. 13 / 2022

Il diario di Stefan Czarniecki

TRADUZIONE DI DARIO PROLA

1

Sono nato e cresciuto in una casa molto per bene. Con pensiero commosso torno a te, o mia infanzia! Rivedo mio padre, un bell’uomo dalla figura fiera e dal volto in cui tutto, lo sguardo, i lineamenti e i capelli brizzolati, si componeva armoniosamente esprimendo l’appartenenza a una razza nobile e perfetta. E vedo anche te, madre, irreprensibilmente vestita di nero, con la sola concessone di quel paio di antichi orecchini a bottone. E vedo me, un ragazzetto esile, serio e pensieroso e mi viene da piangere per tutte le speranze disattese. Nella nostra famiglia non c’era forse che quest’unico neo: mio padre odiava mia madre. No, mi sono espresso male, non è che la odiasse: semplicemente non la sopportava. Non ne ho mai saputo il motivo e proprio qui inizia il mistero le cui nebbie, negli anni della maturità, mi hanno condotto alla catastrofe morale. Chi sono infatti diventato? Un buono a nulla, una persona moralmente fallita. Per esempio, quando bacio la mano a una dama finisco sempre per sbavargliela tutta e poi tiro fuori il fazzoletto e farfugliando «Ah, mi scusi» gliela ripulisco. 

Mi accorsi ben presto che mio padre evitava come la peste di toccare mia madre. Non solo: quando parlava con lei evitava il suo sguardo e il più delle volte guardava di lato o si osservava le unghie. Non c’era nulla di più triste di quello sguardo basso di mio padre. A volte capitava che la guardasse di sbieco con un’espressione di immenso disgusto. Una cosa per me inconcepibile, poiché io non provavo per mia madre alcuna avversione. Per quanto continuasse a ingrassare terribilmente, tanto da strabordare da ogni parte, mi piaceva stringermi a lei e appoggiare la testolina sulle sue ginocchia. Come dunque spiegare il fatto della mia esistenza, com’ero venuto al mondo? Suppongo di essere stato concepito con un atto di forza, a denti stretti, a dispetto degli impulsi naturali; in poche parole, immagino che mio padre, in nome degli obblighi matrimoniali, per qualche tempo abbia lottato eroicamente contro il disgusto (poneva infatti l’onore della sua virilità sopra ogni altra cosa) e che il frutto di questo eroismo sia stato io, un bimbetto. 

Dopo quello sforzo sovrumano, e con ogni probabilità mai più ripetuto, la sua repulsione esplose con irruenza. Una volta origliai mentre gridava a mia madre torcendosi le dita dalla rabbia: «Stai diventando calva! Tra qualche tempo sarai calva come un uovo! Una donna calva, ti rendi conto cosa significa per me? Una donna calva. La calvizie femminile… la parrucca… no, questo non potrei sopportarlo!».

Poi aggiunse piano con voce traboccante di tormento: «Ah, sei orrenda. Non sai quanto sei orrenda. La calvizie è un dettaglio, il naso pure, un dettaglio o un altro possono essere orribili, sono cose che capitano anche nella razza ariana. Ma tu sei tutta quanta orrenda, oscena dalla testa ai piedi, sei l’oscenità in persona… Ci fosse almeno un punto del tuo corpo libero da questa oscenità, avrei perlomeno qualcosa a cui aggrapparmi e – te lo giuro – concentrerei su quello tutti i sentimenti che ti ho promesso davanti all’altare. Mio Dio!».

Non riuscivo a capire: perché la calvizie di mia madre era peggiore di quella di mio padre? Oltretutto i denti della mamma erano persino migliori, aveva un canino con l’otturazione dorata… E per quale ragione non solo non provava ribrezzo per mio padre, ma – al contrario – amava accarezzarlo quando c’erano degli ospiti; solo in quelle occasioni mio padre non rabbrividiva di raccapriccio. Mia madre ispirava un senso di maestà. Mi sembra ancora di vederla patrocinare un mercatino di beneficienza, oppure una delle cene a cui veniva invitata, o la sera mentre recitava le preghiere con la servitù, nella sua cappelletta privata. 

La devozione di mia madre non aveva eguali; non era nemmeno fervore, ma avidità: avidità di digiuno, di preghiera, di buone azioni. A un’ora prestabilita io, il maggiordomo, il cuoco, la cameriera e il guardiano ci raccoglievamo nella cappelletta drappeggiata di nero. Dopo le preghiere iniziava con i suoi ammaestramenti. «È peccato! È un’oscenità!», tuonava mia madre, il mento le tremava e le dondolava come un tuorlo d’uovo. Forse non porto il dovuto rispetto ai cari estinti. È questo il linguaggio che ho appreso dalla vita, il linguaggio del mistero… ma non anticipiamo i fatti.

A volte mia madre ci convocava in un orario insolito: me, il cuoco, il maggiordomo, il guardiano e la cameriera. «Povero figlio mio, prega per l’anima di quel mostro di tuo padre, pregate anche voi per l’anima che il vostro padrone ha venduto al diavolo!». Capitava che sotto la sua guida cantassimo le litanie fino alle quattro o alle cinque del mattino, finché la porta non si apriva all’improvviso e compariva mio padre in frac o in smoking, con un’espressione di supremo disgusto dipinta in viso. «In ginocchio!», gridava mia madre, andando verso di lui tutta ondeggiante e oscillante, il dito puntato verso l’immagine di Cristo. «Avanti, a dormire, a letto!», ordinava mio padre ai domestici con modi da gran signore. «È la mia servitù!», rispondeva mia madre, e mio padre se ne andava subito via, accompagnato dalle nostre supplici lamentazioni davanti all’altare.

Che cosa significava tutto questo e perché la mamma parlava delle «sue brutte azioni», perché provava disgusto per le sue azioni, quando lui provava disgusto per lei? La mia mente innocente di bambino si smarriva tra tanti misteri. «Scostumato!», diceva mia madre. «Ricordatevi, non si può tollerare! Chi non grida di ribrezzo alla vista del peccato, è meglio si leghi al collo una macina da mulino. Il disprezzo, l’odio e il disgusto non sono mai abbastanza. Ha promesso, e adesso prova disgusto! Ha promesso di non provare disgusto! Fuoco e dannazione! Prova disgusto per me, e anche io provo disgusto per lui! Oh, verrà il giorno del Giudizio! All’altro mondo vedremo chi di noi due è il migliore! Il naso! Lo spirito! Lo spirito non ha né naso né calvizie, e una fede ardente apre le porte delle future delizie del paradiso. Verrà il giorno in cui tuo padre, torcendosi dal dolore, mi implorerà, seduta alla destra di Yahweh, volevo dire del Signore Iddio, di fargli leccare un mio dito umettato. Lo vedremo se proverà disgusto». Anche mio padre del resto era devoto e andava regolarmente in chiesa, per quanto mai nella nostra cappelletta privata. Di tanto in tanto, con la sua impeccabile raffinatezza, diceva strizzando gli occhi in modo aristocratico: «Credimi, mia cara, è disdicevole. Quando ti vedo davanti all’altare con quel tuo naso, quelle tue orecchie, con quelle labbra, sono sicuro che anche Cristo si sente a disagio. Naturalmente non voglio negarti il diritto alla devozione – aggiungeva – certo, dal punto di vista della religione una neofita è una cosa meravigliosa, per quanto difficile e vana. La natura non si fa smuovere dalle preghiere e ricorda il detto francese: «Dieu pardonnera, les hommes oublieront, mais le nez restera».

Intanto io crescevo. A volte mio padre mi prendeva sulle ginocchia e studiava a lungo e con inquietudine il mio viso. «Il naso, almeno per adesso, è il mio», lo sentivo bisbigliare. «Dio sia lodato! Ma qui negli occhi… nelle orecchie… povero bambino!», e così dicendo i suoi nobili tratti si contraevano di dolore. «Soffrirà terribilmente quando se sarà consapevole, non mi stupirei se dentro di lui si verificasse una specie di pogrom interiore». Di quale consapevolezza parlava e di quale pogrom? Come dovrebbe essere il manto di un ratto nato da un maschio nero e da una femmina bianca? Maculato? Forse quando colori contrastanti sono di forza uguale, il risultato di questa unione è un ratto senza tinta, senza colore… ma vedo che ancora una volta sto anticipando i fatti con le mie impazienti digressioni.

2

A scuola ero un alunno molto diligente anche se non ben voluto. Ricordo la prima volta che mi trovai davanti al preside, volenteroso, pieno di zelo e buoni propositi, con quella solerzia che caratterizzava sempre la mia natura. Il preside mi diede un benevolo buffetto sotto il mento. Pensavo che più mi fossi comportato bene e più avrei meritato la simpatia degli insegnanti e dei compagni. Le mie buone intenzioni si scontravano tuttavia contro un insuperabile muro di mistero. Quale mistero? Beh! Non lo sapevo, e non lo so neppure adesso; sentivo soltanto di essere circondato da tutte le parti da un mistero sconosciuto, ostile eppure incantevole, che non riuscivo a penetrare. E non era forse incantevole e misteriosa anche quella conta che facevo con i miei compagni nel cortile della scuola e che recitava così: «Un, due, tre, sporchi son gli ebrei, i polacchi sono eroi, tocca proprio a te»? Sentivo quanto fosse incantevole, la recitavo con delizia e trasporto, ma per quale ragione fosse incantevole questo non riuscivo a comprenderlo; anzi, avevo l’impressione di essere del tutto inutile e che sarebbe stato meglio se fossi restato in disparte a guardare. Cercavo di rifarmi agli occhi degli altri con la gentilezza e l’applicazione, ma in cambio ricevevo soltanto antipatia, non solo dai miei compagni di scuola, ma, cosa strana e assai più ingiusta, anche dagli insegnanti.

Mi ricordo anche la filastrocca:

Chi sei tu? Un giovane polacco

Il tuo segno? Un’aquila color bianco.

E ricordo anche il mio compianto professore di storia e letteratura patria, un vecchietto silenzioso e piuttosto indolente che non alzava mai la voce. «Giovanotti», diceva tossendo nel grande foulard, oppure sturandosi l’orecchio con il dito, «quale altra nazione è stata il messia delle nazioni? L’antemurale della cristianità? Quale altra nazione ha avuto un principe come Józef Poniatowski? Se consideriamo il numero di geni, e soprattutto di precursori, ne abbiamo tanti quanta l’intera Europa». E di punto in bianco diceva: «Dante», «Lo so io, professore», scattavo, «Krasiński!», «Molière?», «Fredro!”», «Newton?», «Copernico!», «Beethoven?», «Chopin!», «Bach?», “Moniuszko!». «Giovanotti, potete vederlo da voi», concludeva. «La nostra lingua è cento volte più ricca di quella francese, che pure viene considerata la più vicina alla perfezione. Figuriamoci! I francesi arrivano a dire al massimo petit, petiot, très petit. E invece pensate noi che ricchezza: piccolo, piccolino, piccoletto, piccino, piccinello, piccinetto e via dicendo». Anche se io ero il più veloce e il più bravo a rispondere, non gli piacevo. Perché? Non lo so. Tuttavia una volta tossicchiando disse con uno strano tono confidenziale e ammiccante: «I polacchi, giovanotti, sono sempre stati pigri, poiché la pigrizia suole accompagnarsi alle grandi capacità. I polacchi sono dei bravi ma pigri bricconi. I polacchi sono un popolo stranamente simpatico». Da allora il mio entusiasmo per lo studio diminuì, tuttavia neanche così mi guadagnai i favori del mio pedagogo che aveva un debole per i pigri mascalzoni. 

Ogni tanto socchiudeva un occhio e allora tutta la classe tendeva bene le orecchie. «Sentite?», diceva. «La primavera. Si sente nelle ossa, riempie prati e boschi. I polacchi sono sempre stati così, birbanti e indomiti. Eh, sì, spiriti irrequieti… per questo piacciamo così tanto alle donne svedesi, danesi, francesi e tedesche. Ma noi preferiamo le polacche, perché la loro bellezza è famosa in tutto il mondo». Questi discorsi mi fecero un tale effetto che finii con l’innamorarmi di una signorina. Eravamo nel parco di Łazienki e stavamo studiando sulla stessa panchina. Rimasi a lungo indeciso su come attaccare bottone, finché le dissi: «Permette?» Non mi rispose neppure. Il giorno successivo, dopo essermi consultato con i miei compagni di classe, mi feci coraggio e le diedi un pizzicotto, al che lei socchiuse gli occhi e iniziò a ridacchiare…

Ce l’avevo fatta! Tornai a casa felice, trionfante e sicuro di me, ma anche stranamente inquieto per quell’inesplicabile risatina e quegli occhi socchiusi. «Sapete una cosa?», dissi il giorno dopo in cortile, «anche io sono un’anima indomita, un briccone, un piccolo polacco, peccato che non c’eravate ieri al parco, avreste visto un paio di cosette molto interessanti…» E gli raccontai tutto. «Idiota!», dissero, anche se per la prima volta mi ascoltarono con interesse. Allora uno di loro gridò: «Una rana!», «Dove?» «Ammazzala, ammazzala!». Tutti si gettarono sulla rana e io non fui da meno. Iniziammo a sferzarla con delle bacchette fino a quando non morì. Fiero ed eccitato per essere stato ammesso a uno dei divertimenti più esclusivi dei miei compagni di scuola, vedendo in questo avvenimento l’inizio di una nuova era nella mia vita, gridai: «Ehi! C’è anche una rondine. Una rondine è volata in classe e ora sbatte contro il vetro. Aspettate…». Andai a prendere la rondine, e le spezzai un’ala perché non potesse volare. Poi andai a prendere la mia bacchetta. Quando tornai i miei compagni le si erano stretti intorno. «Poverina», dicevano, «povero, piccolo uccellino. Diamole del pane e del latte». Quando si accorsero che intendevo colpirla con la bacchetta Pawelski strizzò gli occhi con tanta forza che gli si evidenziarono gli zigomi e mi diede un tremendo pugno in faccia.

«Si è preso un pugno in faccia», gridarono. «Sei senza onore, Czarniecki, non ti fare mettere sotto, restituisciglielo!». «Non posso», dissi, «sono troppo debole. Se provo a restituirgli il pugno, me ne beccherò un altro e finirò doppiamente umiliato». Allora tutti mi si gettarono addosso e, senza risparmiarmi motti di scherno, me le diedero di santa ragione.

L’amore, quale incantevole e incomprensibile assurdità! Pizzicare, spilluzzicare, persino prendere tra le braccia, quante cose comprende! Eh, oggi so bene come considerarlo! Ci vedo una misteriosa affinità con la guerra, perché anche in guerra si tratta in fin dei conti di pizzicare, spilluzzicare o prendere tra le braccia. Ma allora non ero ancora quel fallito che sono oggi, al contrario ero pieno di buone intenzioni. L’amore? Posso affermare con certezza che lo cercavo intensamente perché speravo di infrangere così quel muro di mistero… con fede e fervore sopportavo tutte le stramberie del più strambo dei sentimenti, nella speranza di comprenderne un giorno il senso. «Ti desidero!», dicevo alla mia amata. Ma lei mi liquidava con delle frasette generiche. «Lei non vale niente!» mi diceva misteriosamente, osservando il mio viso. «Damerino, cocco di mamma!».

Ebbi un fremito: come sarebbe cocco di mamma? Che cosa aveva voluto dire? Che avesse intuito che… perché io qualcosa avevo già cominciato a sospettarla. Avevo capito che se mio padre era di razza pura fino al midollo, anche mia madre lo era ma in un altro senso, in senso semitico. Che cosa aveva spinto mio padre, un aristocratico impoveritosi a sposare mia madre, la figlia di un ricco banchiere? Capivo oramai il suo sguardo impaurito quando scrutava i miei lineamenti, e le uscite notturne di quell’uomo il quale – sentendosi deperire nell’orribile simbiosi con mia madre – veniva spinto dagli imperativi della specie a trasmettere il proprio sangue ad alvi più degni. Ma avevo davvero capito? No, forse non avevo capito. Di nuovo l’incantevole muro del mistero si stagliava di fronte a me. In teoria sapevo, ma non provavo alcun ribrezzo né per mia madre e neppure per mio padre; ero un figlio devoto. E anche oggi fatico a comprendere; non conoscendo la teoria, non so come dovrebbe essere il manto di un ratto nato da un maschio nero e una femmina bianca; posso solo supporre di essere stato il frutto di un caso eccezionale, una circostanza atipica, ovvero quella in cui due genitori appartenenti a razze nemiche, eppure dotate della stessa forza, si fossero neutralizzate a vicenda in maniera così perfetta da rendermi un ratto senza pelo e senza colore! Un ratto neutro! Questa era la mia sorte, il mio mistero, il motivo per cui ho fallito nella vita e per cui, ogni qual volta prendevo parte a qualcosa, in realtà non prendevo parte a nulla. Per questo al suono di quelle parole – cocco di mamma – mi aveva colto l’angoscia, tanto più grande in quando le aveva accompagnate un lieve abbassarsi delle palpebre, gesto che mi aveva già scottato un paio di volte nella vita.

«Un uomo», diceva socchiudendo i bellissimi occhi, “un uomo dovrebbe essere ardito!”.

«Certo», rispondevo, «posso essere ardito». La fantasia non le mancava. Mi ordinava di saltare i fossati e trascinare dei pesi. «Vorrei che calpestasse quell’aiuola, ma non adesso, più tardi, sotto gli occhi del guardiano. Spezzi quegli arbusti, getti nell’acqua il cappello di quel signore!». Mi guardavo bene dal fare spacconate, memore dell’incidente nel cortile della scuola, e d’altra parte quando le chiedevo di spiegarmi le ragioni di quelle richieste mi rispondeva di non saperlo neanche lei, di essere un enigma, una forza della natura. «Sono una sfinge», diceva, «un mistero…». Quando fallivo si intristiva, e quando riuscivo era felice come una Pasqua e come ricompensa mi permetteva di baciarle l’orecchio delicato. Tuttavia non voleva mai rispondere al mio: «Ti desidero». «In lei c’è qualcosa», diceva imbarazzata, «non saprei… di ripugnante». Sapevo bene cosa intendesse.

 In tutto questo, devo ammetterlo, c’era un che di stranamente incantevole, di leggiadro, sì, proprio di leggiadro, ma anche di stranamente poco convincente. Tuttavia non mi perdevo d’animo. Leggevo molto, soprattutto i poeti, e cercavo di far mio, come potevo, il linguaggio del mistero. Ricordo di aver svolto un tema dal titolo: «I polacchi e gli altri popoli». Ovviamente, scrissi, non è neppure il caso di ricordare la superiorità dei polacchi rispetto ai negri o agli asiatici, che hanno la pelle ripugnante. Ma anche rispetto agli altri popoli europei la superiorità dei polacchi è indubbia. I tedeschi sono pesanti, brutali e hanno i piedi piatti; i francesi sono piccoli, gracili e depravati; i russi pelosi; gli italiani canterini. Che sollievo essere polacco! Non c’è nulla di strano che tutti ci invidino e vogliano spazzarci via dalla faccia della terra. Solo i polacchi non suscitano il nostro disgusto. Scrissi proprio così, senza esserne convinto, eppur beandomi del linguaggio del mistero e dell’ingenuità delle mie affermazioni.

3

L’orizzonte politico si oscurava e la mia amata manifestava uno strano stato di eccitazione. Ah, quei grandiosi e fantastici giorni di settembre! Come avevo letto in un libro, profumavano di brugo e di menta, erano fuggevoli, amari, brucianti e irreali. Le strade brulicavano di gente, canti e cortei, di spavento, follia ed esaltazione – il tutto scandito del passo cadenzato delle truppe. Qui un vecchio insorto, lacrime e benedizioni; là la mobilitazione, gli addi dei giovani sposi; qui stendardi, arringhe, scoppi di entusiasmo, l’inno nazionale; là giuramenti, sacrifici, lacrime, manifesti, indignazione, solennità, odio. Se si volesse dar credito alle parole degli artisti, mai le donne erano state così incantevoli. La mia amata smise di far caso a me, il suo sguardo si era fatto più oscuro e profondo, divenne eloquente, ma guardava soltanto i militari. Mi chiedevo che cosa avrei dovuto fare. Il mondo del mistero si era fatto all’improvviso molto più potente e dovevo essere doppiamente accorto.

Esultavo insieme agli altri ed esprimevo il mio patriottismo, qualche volta partecipai anche ai linciaggi delle spie. Eppure sentivo che tutto quello era solo un palliativo. Qualcosa nello sguardo della mia Jadwiga mi spinse ad arruolarmi in tutta fretta. Venni assegnato a un reggimento di ulani. Fin dall’inizio mi resi conto di aver imboccato la strada giusta poiché alla visita medica, tutto nudo con un foglio in mano davanti a una commissione di sei funzionari e due medici che mi avevano ordinato di alzare la gamba per osservarmi il calcagno, incontrai lo stesso sguardo grave e indagatore, come assorto e freddamente calcolatore, che aveva Jadwiga. Ora mi stupivo che quella volta al parco, nel mettermi di fronte ai miei limiti, non avesse fatto caso ai calcagni.

E così ero un soldato, un ulano che cantava insieme agli altri: ulani, ulani, leggiadri fanciulli, per voi le ragazze d’amore son folli. A ben guardare, per lo meno presi a uno a uno, nessuno di noi era più un fanciullo; quando attraversavamo a frotte la città con quel canto sulle labbra, chinati sui colli dei cavalli, con le lance e il cappello a visiera, un’espressione stranamente incantevole si disegnava sulle labbra delle donne e io sentivo che questa volta i cuori battevano anche per me… Il perché non lo so, ero sempre il conte Stefan Czarniecki, di madre nata Goldwasser, soltanto che ora portavo gli stivali e le bande color amaranto sul colletto. Incitandomi a non avere alcuna pietà, in presenza di tutta la servitù (la cameriera appariva la più commossa), mia madre mi benediceva per la battaglia con una santa reliquia. «Sgozza, incendia, ammazza», diceva ispirata. «Non farla passare liscia a nessuno! Attraverso di te Yahweh, volevo dire il Signore, scatenerà la sua ira. Sei uno strumento d’ira, ribrezzo, ripugnanza, odio. Stermina tutti i dissoluti che provano disgusto, anche se davanti all’altare avevano promesso che non ne avrebbero provato!». Intanto mio padre, un fervente patriota, piangeva in un angolo. «Figlio mio», disse, «potrai lavare con il sangue la macchia delle tue origini. Prima della battaglia pensa sempre a me, e fuggi come la peste il solo ricordo di tua madre, perché potrebbe esserti fatale. Pensa a me e colpisci senza pietà! Senza pietà! Stermina quei farabutti fino all’ultimo, affinché scompaiano tutte le altre razze e sopravviva solo la mia!». La mia amata per la prima volta mi concesse le labbra; accadde nel parco, al suono di un’orchestrina in un caffè, una sera profumata di menta e di brugo; senza alcun preambolo o chiarimento, semplicemente mi concesse le labbra. Che delizia! Al solo ricordo mi scendono le lacrime! Oggi capisco bene che si trattava soltanto di pareggiare il bilancio dei cadaveri: dal momento che noi uomini ci avviavamo alla carneficina, loro, le donne, si mettevano all’opera; ma allora la mia vita non era ancora un totale fallimento e questo pensiero, per quanto non mi fosse ignoto, costituiva per me soltanto una speculazione filosofica incapace di trattenere le lacrime che scorrevano sulle mie guance. 

«Oh, signora guerra, qual è il tuo potere?». Mi scuso se ancora una volta ritorno al mistero che mi tormenta così tanto. Un soldato al fronte s’imbratta di fango e di carne, lo tormentano malattie, dermatosi, sporcizia, e inoltre quando il suo ventre è squarciato da un proiettile gli si riversano fuori le budella… Dunque? Perché mai un soldato dovrebbe essere una rondine, e non una rana? Per quale ragione il mestiere del soldato è bello e desiderato ovunque? O per essere più precisi, non bello, ma leggiadro, leggiadro al massimo grado. Proprio la sua leggiadria mi dava la forza di combattere contro la paura, quell’abominevole traditrice dell’anima di ogni soldato, ed ero quasi felice, come fossi già passato dall’altra parte di quel muro impenetrabile. Ogni volta che facevo centro con il mio fucile, mi sentivo aleggiare sull’indecifrabile sorriso delle donne e sulle note di quella marcetta militare, e dopo molti sforzi riuscii persino a entrare nelle grazie del mio cavallo, autentico orgoglio di ogni ulano, che fino a quel momento non aveva fatto che mordermi e prendermi a calci.

4

Accadde tuttavia un fatto che mi gettò in quegli abissi della depravazione morale dai quali ancora non riesco a risalire. Le cose stavano procedendo nel migliore dei modi: la guerra impazzava in tutto il globo e insieme a lei il Mistero; gli uomini si affondavano le baionette nella pancia, si odiavano, aborrivano e disprezzavano, si amavano e adoravano, e là dove prima il contadino trebbiava tranquillo il grano ora si alzava un cumulo di macerie. E io ero insieme a quegli uomini! Non avevo alcun dubbio su come agire e cosa scegliere; la dura disciplina militare mi indicava la via del Mistero. Partivo all’attacco, oppure stavo disteso in una trincea tra i gas asfissianti. La speranza, madre degli stolti, mi mostrava radiose prospettive future, come sarei tornato a casa in congedo, liberato una volta per sempre dalla mia sciagurata neutralità rattesca… Ma, ahimè, le cose andarono diversamente… In lontananza risuonavano i colpi dei cannoni… La notte scendeva davanti a noi su quel campo sconquassato, nel cielo veleggiavano brandelli di nuvole, soffiava un ventaccio gelido, mentre noi, più leggiadri che mai, per il terzo giorno di fila difendevamo con accanimento quel colle sormontato da un albero spezzato. Il tenente ci aveva ordinato di resistere fino alla morte.

In quel momento un colpo d’artiglieria arriva con un sibilo, si schianta, scoppia, recide di netto entrambe le gambe all’ulano Kacperski, gli squarcia il ventre, e quello all’inizio appare sbigottito, non capisce cosa sia successo, e un attimo dopo anche lui scoppia, ma a ridere, anche lui si schianta ma dalle risate! Si tiene le mani sul ventre che spruzza sangue come una fontana, e poi pigola e pigola per lunghi minuti in un buffo falsetto, con una vocina stridula, isterica ed esilarante. Quanto può essere contagioso il riso! Non potete neppure immaginarvi l’effetto che può fare il suo suono inatteso su un campo di battaglia. Riuscii a stento a resistere fino alla fine della guerra. Ma una volta tornato a casa, quando ancora continuava a risuonarmi nelle orecchie quella risata, constatai che tutto quello per cui ero vissuto fino a quel momento era in frantumi, che si erano totalmente dileguati i sogni di un’esistenza nuova e felice accanto a Jadwiga, e che in quel deserto che si apriva all’improvviso davanti a me non mi restava nient’altro che diventare comunista. Perché? Io comunista? Ma anzitutto che cosa intendo per “comunista”? Non comprendo in questa parola un preciso contenuto ideologico, né un programma, né alcun fardello; al contrario, la impiego piuttosto per quanto di estraneo, ostile e incompressibile racchiude costringendo gli individui più seri ad agitare convulsamente le braccia o a emettere selvagge grida di terrore e ribrezzo.

   Tuttavia, se proprio è necessario specificare un programma, allora eccolo qui: esigo con fermezza che tutto – padri e madri, razza e confessione, virtù e fidanzate – venga statalizzato e distribuito in porzioni uguali e sufficienti dietro la presentazione di apposite tessere annonarie. Esigo e chiedo davanti al mondo intero che mia madre venga fatta a pezzi e distribuita fra le persone poco zelanti nella preghiera e che lo stesso si faccia con mio padre con la gente di razza indefinita. Pretendo inoltre che i sorrisini, i vezzi e ogni forma di grazia vengano distribuiti solo dietro esplicita richiesta, e che il disgusto immotivato venga punito con la chiusura in una casa di correzione. Ecco il programma. E, per quanto riguarda il metodo, esso consiste soprattutto in una risatina acuta e nel socchiudere gli occhi. Con un certo dispetto sostengo il principio che la guerra abbia distrutto in me tutti i sentimenti umani. Affermo altresì di non avere personalmente firmato alcun armistizio con nessuno e che, per me, lo stato di guerra continua. Mah, direte voi, che programma irreale e che metodo stupido e incomprensibile! Va bene, ma il vostro programma è più reale e i vostri metodi sono più comprensibili? In ogni caso non mi impunterò né sul programma e neppure sul metodo, e se ho scelto l’espressione “comunismo”, è solo perché il “comunismo” è un mistero ugualmente impenetrabile per gli intelletti che lo avversano quanto lo sono per me i vostri bronci e le vostre risatine. 

Proprio così, signori miei, ridete, socchiudete gli occhi; accarezzate le rondini e torturate le rane; avete da ridire sul naso di questo o di quello; siete sempre lì a odiare qualcuno, a provare ribrezzo per qualcuno; poi ricadete in un inconcepibile stato di estasi, pieni d’amore e d’entusiasmo, e tutto questo a causa di un qualche Mistero. Ma che cosa accadrà se anche io avrò finalmente un mio mistero e lo imporrò al vostro mondo con tutto il patriottismo, l’eroismo, la dedizione che l’amore e l’esercito mi hanno insegnato? Che cosa succederà quando sarò io a sorridere (con un sorriso ben diverso) e socchiuderò gli occhi con la disinvoltura di un vecchio militare? Forse nel modo in cui ho trattato la mia adorata Jadwiga ho superato me stesso in fatto di spiritosaggine. «La donna è un enigma?», le ho chiesto. (Dopo il mio ritorno mi ha accolto con enorme effusione, ha guardato la medaglia e siamo andati subito al parco). «Oh, sì», ha risposto. «Non sono forse enigmatica?», ha detto socchiudendo le palpebre. «Una donna-forza della natura e una sfinge». «Anche io sono un enigma», ho detto. «Anche io ho il mio linguaggio misterioso ed esigo che tu lo parli. Vedi quella rana? Giuro sul mio onore di soldato che te la infilo nella camicetta se non pronunci subito, del tutto seriamente e guardandomi negli occhi, le seguenti parole: «ciam – bam – biu, mniu – mniu, ba – bi, ba – be – no – zar».

Non c’è stato verso, non ha voluto. Si schermiva, diceva che era una cosa stupida e assurda, che lei non poteva, si fece tutta rossa, provò a buttarla sullo scherzo, e alla fine si mise a piangere. «Non posso, non posso», diceva tra i singhiozzi, «che vergogna, ma come si fa… che parole assurde!». Presi dunque quel rospo bello grosso e tenni fede al mio giuramento. Sembrava impazzita. Si rotolava per terra come un’ossessa e lo strillo che emetteva si potrebbe paragonare soltanto al grido acuto ed esilarante di un uomo al quale un colpo di artiglieria abbia tranciato di netto le gambe squarciandogli parte del ventre. Forse un simile paragone, così come lo scherzo della rana, vi possono apparire di cattivo gusto, tuttavia vi prego di ricordare che pure io, un ratto senza colore, un ratto neutro, né bianco e né nero, sono disgustoso per la maggior parte della gente. Non è che la stessa cosa debba sembrare di buon gusto e leggiadra a tutti. Personalmente la cosa che mi sembrava più leggiadra e misteriosa, più odorosa di menta e di brugo in tutta questa storia, è che alla fine, non riuscendo a liberarsi dal rospo scatenato sotto la sua camicetta, sia impazzita per davvero.

 Forse non sono neppure un comunista, forse sono soltanto un pacifista militante. Vago per il mondo, veleggiando su questo abisso di incomprensibili idiosincrasie, e ovunque veda un sentimento misterioso, che sia virtù o famiglia, fede o patria, allora non posso fare a meno di commettere qualche carognata. Ecco il mio mistero che impongo al grande enigma dell’essere. Non riesco a trovar pace passando accanto a una coppia di felici innamorati, a una madre con il proprio bambino oppure a un vecchietto per bene. Ma quanta pena mi capita di provare per Voi, caro Padre e cara Madre, e anche per te, santa infanzia mia!