Tony Judt

ARTICOLO n. 4 / 2024

CHI ERA EDWARD SAID?

Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Tony Judt al volume di Edward Said, La pace possibile (Il Saggiatore, traduzione di Antonietta Torchiana).

Quando morì, nel settembre 2003, dopo aver lottato per un decennio con la leucemia, Edward Said era forse l’intellettuale più conosciuto al mondo. Orientalismo, il suo controverso libro sull’assimilazione dell’Oriente nel pensiero e nella letteratura dell’Europa moderna, ha dato origine a un intero filone di studi universitari, e a un quarto di secolo dalla sua uscita continua a suscitare irritazione, venerazione e tentativi di imitazione. Se anche non avesse scritto altro e si fosse limitato a insegnare alla Columbia University di New York – dove lavorò dal 1963 alla morte – Said sarebbe comunque uno degli studiosi più importanti del tardo Novecento. 

Ma non si limitò a insegnare. A partire dal 1967, animato da una passione e da un’urgenza crescenti, Edward Said fu anche un commentatore eloquente e assiduo della crisi mediorientale e un sostenitore della causa palestinese. Questo impegno morale e politico a ben vedere non rappresentò uno spostamento dei suoi interessi intellettuali: la sua critica dell’incapacità occidentale di comprendere l’umiliazione dei palestinesi riprende l’interpretazione della letteratura e della critica dell’Ottocento condotta in Orientalismo e in opere successive (in particolare Cultura e imperialismo, uscito nel 1993). Tuttavia, questa scelta trasformò il professore di letteratura comparata della Columbia in una figura decisamente pubblica, adorata ed esecrata con pari intensità da milioni di lettori. 

Fu un destino ironico per un uomo che non corrispondeva a quasi nessuna delle etichette che gli venivano attribuite con tanta sicurezza dagli ammiratori e dai nemici. Edward Said visse sempre in maniera tangenziale rispetto alle cause cui si dedicava. Questo involontario “portavoce” degli arabi di Palestina, per lo più musulmani, era un cristiano episcopale, nato a Gerusalemme da madre battista nel 1935. Critico intransigente della pretesa superiorità imperiale, aveva studiato in alcune delle ultime scuole coloniali, dove si educavano le élite locali degli imperi europei, e per molti anni si trovò più a suo agio con l’inglese e il francese che con la lingua araba; era un prodotto tipico di un’educazione occidentale con la quale non riuscì mai a identificarsi pienamente. 

Edward Said è stato l’eroe venerato da una generazione di relativisti culturali attivi nelle università di tutto il mondo, da Berkeley a Bombay, per i quali la categoria di “orientalismo” poteva giustificare qualsiasi cosa, dalle analisi dell’oscurantismo “postcoloniale” a fini di carriera (la “scrittura dell’altro”) alle denunce del predominio della “cultura occidentale” nei programmi di studi. Ma Said non perdeva tempo con stupidaggini del genere. Il relativismo radicale, la negazione di qualsiasi fondamento oggettivo, che riduce ogni fenomeno a un mero effetto linguistico, gli sembrava vacuo e superficiale: i diritti umani, osservò in più di un’occasione, «non sono entità culturali o grammaticali, e quando vengono violati sono quanto mai reali».

A proposito delle volgarizzazioni del suo pensiero che vedevano negli scrittori (occidentali) soltanto un prodotto indiretto del privilegio coloniale, Edward Said si espresse con chiarezza: «Non credo che gli autori siano determinati in modo meccanicistico dall’ideologia, dalla classe o dalla storia economica». Come lettore e come autore, Said si riconosceva senza ripensamenti nella tradizione umanistica, «nonostante il disprezzo con cui i sofisticati critici postmoderni liquidano questo termine». Se c’era un aspetto che lo rattristava nella giovane generazione degli studiosi di letteratura era la loro frequentazione eccessiva della “teoria”, a scapito dell’arte della lettura minuziosa del testo. Inoltre Said apprezzava le divergenze intellettuali, perché per lui la tolleranza del dissenso era una condizione necessaria per la sopravvivenza della comunità internazionale degli studiosi; i dubbi che io stesso espressi sulla tesi di fondo di Orientalismo non furono di ostacolo alla nostra amicizia. Tale atteggiamento era difficile da capire per molti di coloro che lo ammiravano da lontano, persone per le quali la libertà accademica è tutt’al più un valore contingente. 

Questa profonda sensibilità umanistica gli rendeva insopportabile un vizio frequente negli intellettuali impegnati: l’approvazione entusiastica della violenza, di solito a distanza di sicurezza e sempre a spese di qualcun altro. Il “professore del terrore”, come i suoi nemici erano soliti chiamarlo, in realtà criticava la violenza politica in tutte le sue forme. A differenza di Jean-Paul Sartre, intellettuale che ebbe un rilievo analogo per la generazione precedente, Said aveva una certa esperienza diretta dell’esercizio della forza: all’università il suo studio fu visitato da vandali e saccheggiato, e lui e la sua famiglia ricevettero minacce di morte. Tuttavia, mentre Sartre non esitò a propugnare l’efficacia e la funzione purificatrice dell’assassinio politico, Said non giustificò mai il terrorismo, per quanto potesse simpatizzare con i motivi e i sentimenti che lo provocavano. I deboli, scriveva, devono mettere a disagio i loro oppressori, e non ci riusciranno mai con l’assassinio indiscriminato di civili.

Eppure Said non era un uomo placido, un pacifista, né tanto meno un tiepido. Nonostante il successo professionale, la passione per la musica (era un ottimo pianista, amico intimo di Daniel Barenboim, con il quale talvolta collaborò) e il talento per l’amicizia, era per certi aspetti un uomo profondamente arrabbiato. Ma nonostante l’identificazione con la causa palestinese e gli sforzi instancabili per promuoverla e illustrarla, era incapace di quel tipo di affiliazione acritica a un paese o a un’idea che permette al militante o all’ideologo di servire con qualsiasi mezzo uno scopo unico. 

Era invece, come dicevo, sempre leggermente defilato rispetto a ciò che sentiva affine. In quest’epoca di sradicamento, non era nemmeno un esule tipico, dal momento che la maggior parte degli uomini e delle donne che oggi sono costretti a lasciare il proprio paese hanno un luogo a cui guardare (pensando al passato, ma anche al futuro): una patria ricordata – spesso in modo fuorviante – che àncora l’individuo o la comunità nel tempo, anche se non nello spazio. I palestinesi non hanno neppure questo: la Palestina non è mai stata costituita formalmente, e all’identità palestinese manca questo punto di riferimento convenzionale.

Di conseguenza, come affermò significativamente Said pochi mesi prima di morire, «non sono ancora riuscito a capire che cosa significa amare un paese». Si tratta evidentemente della condizione caratteristica del cosmopolita privo di radici. Per chi non ha un paese da amare non è facile sentirsi tranquillo e sicuro: la sua condizione può attirare l’ostilità ansiosa di coloro che vedono in questa mancanza di radici il presupposto di un’indipendenza di spirito destabilizzante. Ma si tratta di una condizione liberatoria: il mondo osservato può non essere rassicurante come quello dei patrioti e dei nazionalisti, ma lo sguardo giunge più lontano. Come scrisse Said nel 1993, «non accetto la posizione secondo la quale “noi” dovremmo occuparci solo o soprattutto di ciò che è “nostro”».

Questa è l’autentica voce di un critico indipendente, che dice la verità al potere e fornisce un’opinione che è in conflitto con l’autorità: come scrisse su Al-Ahram nel maggio 2001, «non sta a noi decidere se gli intellettuali israeliani abbiano fallito la loro missione. Ciò che importa per noi è la decadenza del dibattito e dell’analisi nel mondo arabo». Ma la sua è anche la voce di un libero “intellettuale newyorkese”, una specie in via di rapida estinzione in larga misura proprio a causa del conflitto mediorientale, rispetto al quale tanti hanno scelto di schierarsi identificandosi con un “noi”. Edward Said non è stato un “porta-voce” convenzionale di una parte di quel conflitto.

Il quotidiano di Monaco ddeutsche Zeitung intitolò il necrologio di Said “Der Unbequeme”, l’uomo scomodo, ma il risultato più duraturo fu quello di mettere a disagio gli altri: per i palestinesi Edward Said era una Cassandra poco apprezzata e spesso irritante, che accusava i loro leader di incapacità, se non di peggio. Per i suoi critici era un parafulmini che attirava su di sé paura e vituperio. Quest’uomo spiritoso e colto divenne un improbabile demonio, la personificazione di tutte le minacce – reali e immaginarie – incombenti su Israele e sugli ebrei. A una comunità ebraica americana pervasa dal simbolismo della vittima, Said ricordava, con un discorso tanto più provocatorio perché finemente strutturato, le vittime di Israele. Con la sua semplice presenza a New York, era un vivente promemoria ironico, cosmopolita, arabo, della ristrettezza di vedute dei suoi critici. […]

La critica sferzante rivolta al mondo arabo era ciò che più premeva a Said: parlare agli altri arabi, fustigandoli senza mezzi termini. Gli attacchi più decisi sono rivolti ai regimi arabi e in particolare all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), accusati di avidità, corruzione, aggressività e cinismo. Ciò può apparire ingiusto – dopo tutto il potere effettivo è in mano agli Stati Uniti, ed è Israele a seminare distruzione tra i palestinesi – ma l’impressione è che Said ritenesse importante soprattutto dire la verità al suo popolo e sul suo popolo, piuttosto che rischiare di cadere in quella «servile elasticità verso la propria parte che deturpa la storia degli intellettuali sin dalla notte dei tempi». […]

Secondo Said, il vero ostacolo a un nuovo modo di pensare in Medio Oriente non era rappresentato da Arafat o da Sharon, e nemmeno dagli attentatori suicidi o dai coloni estremisti, ma dagli Stati Uniti. L’unico luogo in cui la propaganda ufficiale israeliana ha avuto un successo eccezionale e quella palestinese ha fallito completamente è l’America. Gli ebrei americani (un po’ come i politici arabi) vivono in uno stato di «incredibile auto segregazione nella fantasia e nel mito». 

Molti israeliani sono terribilmente coscienti degli effetti che l’occupazione della Cisgiordania ha prodotto sulla loro società (anche se sono un po’ meno sensibili alle conseguenze per gli altri): «Il dominio su un’altra nazione corrompe e distorce le qualità di Israele, lacera la nazione e fa a pezzi la società» (Haim Guri). Ma la maggior parte degli americani, compresi in pratica tutti i politici, non se ne rende affatto conto. 

Per questo motivo Edward Said sottolinea la necessità che i palestinesi portino il proprio caso davanti al pubblico americano, invece di implorare il presidente degli Stati Uniti perché dia loro uno stato. L’opinione pubblica americana conta, e Said trovava disperante l’antiamericanismo disinformato degli intellettuali e degli studenti arabi: «Non è ammissibile starsene seduti in qualche sala riunioni di Beirut o del Cairo a denunciare l’imperialismo americano (e se è per questo anche il colonialismo sionista) senza capire che si parla di società complesse, non sempre pienamente rappresentate dalle politiche stupide o crudeli dei loro governi». 

In quanto cittadino americano, tuttavia, trovava frustrante soprattutto la miopia politica del proprio paese: solo l’America può spezzare questa sanguinosa situazione di stallo in Medio Oriente, ma «gli Stati Uniti difficilmente possono porre rimedio a ciò che rifiutano di vedere con chiarezza». […] Per essere efficace, questo dibattito deve svolgersi in America ed essere condotto da americani. Ecco perché Edward Said era così importante: per trent’anni, quasi da solo, ha mantenuto aperto in America un confronto su Israele, la Palestina, i palestinesi, e così facendo ha fornito un servizio di valore inestimabile, anche correndo un notevole rischio personale. La sua morte apre un vuoto profondo nella vita pubblica americana. Said è insostituibile.