ARTICOLO n. 23 / 2021

Quale futuro per i festival?

Dazed and confused. Così ci siamo sentiti. Ancora lo siamo. Come nella canzone dei Led Zeppelin, involontaria colonna sonora di questa lunga e inconclusa pandemia. Tuttavia, da pochi giorni, anche in Italia le sale cinematografiche hanno ottenuto il via libera alla riapertura, seppure con molte restrizioni. Pochi Paesi ci avevano preceduto, anche se di poco (Spagna, Inghilterra, Stati Uniti), altri seguiranno (la Francia).

Gli interrogativi legati a questa ripartenza che ci si augura definitiva – dopo quella illusoria dello scorso settembre, vanificata dalla seconda e dalla terza ondata del virus – sono numerosi e alimentati da un’aura d’inquietudine neppur troppo sottile. Tornerà il pubblico a frequentare le sale dopo la lunga abitudine alla comodità che le piattaforme hanno generato e continueranno a sfruttare con cinica determinazione? Saprà l’industria cinematografica risollevarsi dopo essere stata messa in ginocchio dalla pandemia, al pari di tutti gli altri settori dedicati alla creazione artistica?

Altri interrogativi riguardano le possibilità di sopravvivenza dei distributori, soprattutto quelli indipendenti, che hanno garantito il funzionamento di un modello di diffusione dei film che dura da più di un secolo; o la capacità di tenuta delle produzioni tradizionali a fronte dell’enorme potenziale d’investimento dei nuovi soggetti che sono i veri padroni delle piattaforme web. Alcuni iniziano anche a chiedersi quale futuro si stia ridefinendo per i festival di cinema.

Tra i molti a farsi queste e altre domande, anche Paul Schrader, grande sceneggiatore e regista (American Gigolo, Mishima, il recente First Riformed), molto attivo sui social e la sua pagina Facebook.

Anche lui, come altri, ritiene che il cinema così come abbiamo imparato a conoscerlo, ad appassionarcene e ad amarlo, sia in remissione. Che la pandemia abbia disabituato lo spettatore alla tradizionale forma di spettacolo della durata canonica di 90-120 minuti. Che sia in atto una sorta di mutazione antropologica messa in moto dalla dipendenza dalle serie, caratterizzate dalla loro lunghezza indefinita e dal rituale episodico della narrazione. Che il futuro dello spettacolo in sala sia legato alla capacità di dar vita a esperienze basate su eventi per i quali si renda necessario e inevitabile uscire dalla propria casa, o alla costruzione di un vincolo come quello che s’induce in uno spettatore quando è spinto a diventare membro di un cineclub.

Ascoltiamolo: «Penso che questa trasformazione corrisponda al terzo cambiamento tettonico nella storia del cinema. Il primo avvenne dopo Nascita di una nazione, quando ci si rese conto che si potevano fare un sacco di soldi mettendo una moltitudine di persone dentro una grande sala buia senz’aria condizionata. Così nacquero i grandi cinema dell’epoca del muto, e tutte quello che ne seguì. Il secondo cambiamento si produsse quando il cinema dovette fare i conti con la televisione e, ironicamente, ciò avvenne nello stesso momento della comparsa dei film intelligenti, i film seri che da noi John Frankenheimer e Arthur Penn furono tra i primi a realizzare, mentre in Europa tutto era iniziato con il Neorealismo italiano. Improvvisamente, c’era stata data un’altra ragione per andare al cinema. Quanto al terzo cambiamento…beh, tutto mi è risultato più chiaro quando, parlando con un mio parente che abita nel Michigan, alla domanda “Che tipo di film guardi?”, mi sono sentito rispondere: “Io guardo Netflix”. In quel momento ho compreso il genio di Reed Hastings (il fondatore di Netflix, ndr.)».

Detto in estrema sintesi, la grande intuizione di Hastings consiste nell’aver ribaltato una consuetudine durata alcuni decenni, che consisteva per lo spettatore nella scelta del film per il quale avrebbe deciso di uscire di casa per andare al cinema.

Con Netflix, oggi è sufficiente accendere il proprio televisore e scegliere da un menù vastissimo, che contiene film per tutti gusti (polizieschi, commedie, film di guerra, documentari, persino grandi film d’autore – Martin Scorsese, Alfonso Cuaron e, a breve, Jane Campion – con la produzione dei quali il colosso del web sembra volersi vendicare degli studios hollywoodiani che gli avevano dichiarato guerra agli inizi). Paul Schrader muove considerazioni interessanti in merito ai cambiamenti che questo modello di consumo induce nell’estetica del cinema. Per esempio, il fatto che l’arte del film consista «nella capacità di comporre storie concise che atterrano come un pugno in faccia», mentre nel caso della serialità televisiva il primo episodio serva a costruire un modello che i registi successivi (che possono essere persone diverse) si limitano a seguire e a duplicare.

Un’altra differenza consiste nel fatto che il cinema è un director’s medium (cioè il frutto della creatività di un regista, che controlla l’intero processo), mentre la serie è un writer’s medium, cioè il risultato del lavoro di uno sceneggiatore (salvo eccezioni, come nel caso di David Fincher, ideatore regista e produttore della serie Mindhunter). Anzi di una writers’ room, cioè un gruppo di sceneggiatori che sono costretti a lavorare insieme e debbono per forza scendere a compromessi tra di loro: «così viene meno l’idea di una voce forte, singolare, ciò che rende un film di Woody Allen, per esempio, una sua inconfondibile creazione. Non puoi guardare un film di Allen senza renderti conto che stai guardando un film di Allen, mentre un sacco di serie rivelano l’impronta della committenza».

Ancora. Vedere Nomadland (da poco premiato con l’Oscar per il miglior film) al cinema non è la stessa cosa che vederlo sulla piattaforma che pure lo ospita in contemporanea. Perché se hai scelto di andare a vederlo in una sala provi un diverso tipo di coinvolgimento: resti a vederlo fino alla fine anche se non ti piace, mentre a casa puoi mollare la visione in qualunque momento, se non ti soddisfa fino in fondo.

Facciamo un passo indietro, anzi di lato. Abbiamo seguito sinora Schrader nella conversazione con Richard Brody, pubblicata su The New Yorker il 22 aprile scorso (ci torneremo fra poco). Proviamo ora a domandarci che cosa sia cambiato invece nell’universo parallelo dei festival cinematografici in seguito alla pandemia. Moltissimi sono stati costretti a cancellare la loro edizione, alcuni per due volte di seguito. Lo sappiamo dall’assillante bollettino delle perdite non solo umane con il quale i media ci hanno tenuto costantemente informati, durante il lockdown totale o parziale che dura da quindici mesi. Sappiamo anche che molti di questi non troveranno la forza e le risorse per ripartire, una volta che saremo ritornati a una qualche forma di normalità.

Pochissimi si sono potuti svolgere «in presenza», benché costretti a rinunce e limitazioni imposte dai protocolli di sicurezza, con meno film in programma e la capienza delle sale ridotta alla metà. Poi c’è il caso, molto interessante, di numerose altre manifestazioni che hanno scelto la via del web, affidandosi alle risorse della virtualità pur di non scomparire o, in alcuni casi, optando per soluzioni ibride in grado di garantire una qualche forma di fruizione in presenza per un numero limitato di spettatori, mentre agli altri potenziali fruitori veniva offerta la possibilità di collegarsi in streaming per vedere i film che altrimenti sarebbero stati loro negati.

Doveroso chiedersi, a questo punto, se quest’ultimo sia destinato a diventare il paradigma festivaliero del futuro, se sia possibile e/o auspicabile una coesistenza di diversi modelli di fruizione a vantaggio di tutti, o se non sia invece necessario un grande sforzo collettivo per garantire la sopravvivenza di spazi reali, fisici, non virtuali, destinati alla tutela e alla valorizzazione dei prodotti artistici.

La risposta non può che essere plurima, a seconda delle diverse tipologie di festival con cui si ha a che fare. Non credo ci possano essere dubbi sul fatto che l’enorme quantità di piccole e medie manifestazioni specializzate, destinate alla circolazione e alla promozione di cortometraggi, documentari e film minori che difficilmente possono contare su di un mercato in grado di garantire loro una circolazione ampia e uno sfruttamento commerciale di dimensioni significative, siano enormemente avvantaggiate dalla possibilità di servirsi delle risorse offerte dallo streaming per mostrare i film selezionati.

A fronte di una diminuzione dell’effetto di promozione territoriale (il legame con la città o la regione di svolgimento), l’occasione di aumentare in maniera significativa il numero degli spettatori virtuali risulta alquanto allettante e potenzialmente remunerativa. Recenti esperienze in questo senso suonano a conferma di quanto affermato: gli spettatori, abituati ad utilizzare le piattaforme, sembrano assai più propensi a connettersi da casa con un festival, piuttosto che affrontare spostamenti impegnativi a fronte di costi non indifferenti e incertezza sulla qualità delle proposte.

L’ampliamento della platea potenziale, che si affianca a quella reale, non ha solo un effetto di promozione dell’immagine di un festival e di gratificazione degli obbiettivi culturali della proposta, ma può tradursi in un ritorno economico che risuona positivamente a vantaggio di tutti i soggetti coinvolti: organizzatori, produttori dei film e gestori delle piattaforme utilizzate.

Diversa la situazione dei grandi appuntamenti che si suole definire con il termine di «generalisti», come Venezia, Cannes, Berlino, Toronto, San Sebastian, Telluride, New York, Locarno, Busan e Tokyo (per citare solo i festival più noti e di maggior prestigio). In questi casi, le funzioni principali che ne presiedono e giustificano l’esistenza – celebrare l’arte e la creatività cinematografica, contribuendo alla sua affermazione al di là delle ragioni economiche e produttive sottese, e servire nello stesso tempo alla giusta causa della promozione dei film in vista della loro imminente distribuzione nei circuiti esistenti (quello tradizione delle sale cinematografiche e quello nuovo rappresentato dalle piattaforme) – non possono prescindere dallo spazio fisco entro il quale interagiscono tutti i soggetti che partecipano alla sua realizzazione: autori, critici, giornalisti, operatori professionali, cinefili e semplici spettatori occasionali, attirati dalla curiosità dell’evento e dalla presenza delle star.

È una cerimonia complessa e articolata, affidata a riti che si ripetono sempre uguali, ciascuno dei quali (pur nella diversità dei pesi e dell’importanza che gli si vuole attribuire) svolge una funzione essenziale per il conseguimento del risultato finale: il tappeto rosso, la conferenza stampa, photo TV e radio call, la successione interminabile delle interviste, l’incontro con il pubblico, il rituale degli autografi, le master class, la cerimonia della consegna dei premi. E, naturalmente, su tutto e prima di tutto, l’esperienza della proiezione in una sala perfettamente attrezzata, che presuppone la garanzia delle migliori condizioni di visione possibili e la partecipazione all’emozione della scoperta di un film inedito con altri spettatori: elemento, questo, che nessun succedaneo virtuale è in grado di surrogare, né tantomeno di sostituire. La prevalenza del fattore umano: se mai la pandemia è servita a qualcosa, il suo apporto è consistito anche nell’aver favorito la riscoperta del valore insostituibile della condivisione dal vivo di uno spettacolo, di un evento.

Tutt’al più, nell’immediato futuro – in cui assisteremo all’istaurazione di una normalità nuova che avrà alcuni tratti in comune con quella a cui eravamo abituati e altri inediti – i festival impareranno a sfruttare al meglio le risorse che la tecnologia e l’intelligenza artificiale mettono a nostra disposizione per migliore la qualità dei servizi offerti ai partecipanti (conferenze stampa e interviste online, panel con protagonisti da tutto il mondo che non si sarebbero altrimenti potuti spostare, potenziamento delle occasioni di promozione degli autori e delle loro opere, anche proiezioni in streaming per i film ancora privi di distribuzione).

Una certa qual forma di contaminazione o, se si preferisce, di integrazione fra la dimensione fisica e quella virtuale sarà dunque inevitabile e persino auspicabile. Ma poiché si è fatto ripetutamente ricorso a termini quali cerimonia riti e rituale, conviene concludere con Paul Schrader che «in un certo senso, andare al cinema in passato era come andare in chiesa. Non esci dalla chiesa perché ti annoi. Ci sei andato per annoiarti». Diciamocelo allora, restando nella metafora: se la vita è noia (Sartre, Leopardi, Moravia), il cinema è pur sempre il miglior modo di annoiarsi, e un festival in presenza, in totale condivisione con una moltitudine di altri esseri umani, è la più alta forma di celebrazione di questo insondabile e insostituibile mistero noioso che è il culto della Settima Arte.

ARTICOLO n. 32 / 2024