ARTICOLO n. 11 / 2023

METODI MAESTRI AMICI

Intervista di Eloisa Morra

A ridosso della nuova edizione di Indagini su Piero (Adelphi, 2022) ho avuto il piacere di intervistare Carlo Ginzburg, storico di fama, su metodi e interlocutori che hanno segnato la sua traiettoria di ricerca. Nato a Torino nel 1939, Ginzburg è a oggi uno degli intellettuali italiani più riconosciuti all’estero (ha insegnato a lungo alla UCLA, e fino al 2010 ha tenuto la cattedra di Storia delle Culture Europee alla Scuola Normale). Merito di una straordinaria erudizione unita alla capacità di verticalizzare i problemi traducendoli in uno stile impeccabile, che riverbera gli stimoli d’una vita passata tra i libri. Leggere Carlo Ginzburg è un’esperienza che esige lettori disposti a confrontarsi con i propri limiti: i suoi saggi avanzano per intuizioni fulminee, mettendo in contatto tra loro momenti apparentemente distanti della storia della cultura, con risultati sempre sorprendenti. Ma rileggendo s’intende che i ‘clic’ del connaisseur sono conseguenza d’una capillare esplorazione di archivi, biblioteche e della consapevolezza costruttiva di cui si diceva: ne sono prova raccolte quali Occhiacci di legno e La lettera uccide e le monumentali analisi comparate di Storia notturna e Nondimanco. La capacità diagnostica nell’unire l’infinitamente piccolo all’infinitamente grande richiama le architetture di Auerbach, Gombrich, Orlando, Starobinski, ma con un ulteriore quid di versatilità. Senz’altro diversificati tra loro — si è occupato di processi per stregoneria e di casistica, di straniamento e di Picasso, della metodologia di Aby Warburg e delle fallacie del processo Sofri — gli oggetti di studio di Ginzburg possono essere letti come ordito d’un tappeto la cui cifra consiste nell’indagine della relazione tra caso e anomalia. Che il suo lavoro sia decisivo lo prova la capacità di oltrepassare i confini disciplinari (e gli angusti confini nazionali): storici dell’arte, italianisti, storici della lingua, antropologi di tutto il mondo hanno tratto e ne traggono tuttora linfa vitale. Chiunque voglia avvicinarsi al piacere della ricerca – “l’euforia dell’ignoranza” data dall’approcciarsi a un argomento di cui si sa poco per approfondirlo sempre più, diventandone quasi posseduti – dovrebbe leggere i suoi libri.

Eloisa Morra: Complice un occhio alla destinazione della conversazione inizierei da un’occasione esterna, la ripubblicazione di Indagini su Piero — con una nuova postfazione e un apparato iconografico arricchito — e delle sue opere per i tipi di due case editrici assai diverse da Einaudi, Adelphi e Quodlibet. Edizioni ampliate e “problematiche” (nel senso che mettono in luce ipotesi scartate, dubbi propri di ogni ricerca), che oltre a porre di fronte al pubblico il cantiere aperto dei suoi studi tracciano un’autobiografia intellettuale. Cosa l’ha spinta a questa scelta?

Carlo Ginzburg: L’idea della ripubblicazione — anzi, di nuovi libri alternati a volumi già editi, corredati di nuove postfazioni, un genere che mi è molto congeniale — nasce dall’incontro e dall’amicizia con Roberto Calasso. Quando negli anni Ottanta stavo lavorando al mio libro sul sabba, Storia notturna, Calasso mi chiese di pubblicarlo con Adelphi; dopo qualche esitazione decisi di pubblicarlo con quella che era da sempre la mia casa editrice, cioè Einaudi. Quando, anni più tardi, Einaudi venne comprata da Berlusconi, ne uscii (anzi, uscimmo in due: l’altro era Corrado Stajano). Dopo un periodo di lavoro con Feltrinelli decisi, d’accordo con Calasso, di ripubblicare con Adelphi Storia Notturna (2017), che aprì la serie dei libri già editi; tra i libri nuovi si sono susseguiti Paura reverenza terrore (2015), Nondimanco (2018) e più recentemente La lettera uccide (2021), che raccoglie alcuni saggi apparsi solo in inglese e tradotti da me, più un paio di inediti. 

E.M. Da dove nasce invece la richiesta di Quodlibet?

C.G. Dal loro interesse, e da un dato materiale: alcuni dei miei libri erano ormai fuori catalogo. Abbiamo pubblicato Giochi di pazienza, con due postfazioni (stavolta separate, a differenza del testo) una mia e una di Adriano Prosperi, e una versione ampliata di Occhiacci di legno, in cui le riflessioni sulla distanza sono diventate dieci

E.M. Indagini uscì nel 1981 come primo numero della collana “microstorie” Einaudi: ha formato più generazioni di studiosi, oltre ad avere una ricezione straordinaria. Negli incontri e presentazioni recenti ha percepito la presenza di un nuovo pubblico di lettori?

C.G. Senza dubbio, questo era lo scopo principale: trovare nuovi lettori. 

E.M. La storia dell’arte è stata cruciale nella sua traiettoria di ricerca, e non penso solo ai temi ma piuttosto ai metodi e agli interlocutori. Le Indagini nascono negli anni in cui scriveva il saggio su Centro e periferia con Enrico Castelnuovo, cui ha dedicato anche un saggio recente, Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship (2016, poi 2021). Il rapporto con Castelnuovo ha cambiato il suo rapporto con la storia dell’arte?

C.G. Castelnuovo è stato un amico carissimo; da lui ho imparato molto, ma non mi pare che abbia cambiato il mio interesse per la storia dell’arte e i suoi metodi, che era già molto intenso. Avevo già scritto il saggio Da Warburg a Gombrich (del ’66, poi incluso in Miti emblemi spie), e nutrivo una forte passione per la storia della pittura (da ragazzo volevo diventare pittore, anni dopo volevo diventare storico dell’arte: non sono diventato né l’uno né l’altro). Quando uscì Indagini su Piero vari storici dell’arte lo criticarono, in qualche caso aspramente. Qualcuno sostenne che non mi interessavo ai fatti artistici: una sciocchezza. Successivamente Castelnuovo m’invitò a scrivere insieme a lui il saggio “Centro e periferia” per la Storia dell’arte italiana Einaudi (1979, poi 2019): un’esperienza straordinaria (e straordinariamente divertente). 

E.M. Nel saggio sull’importanza del conoscitore dedicato a Castelnuovo indicava Michael Baxandall tra i pochi storici dell’arte al di fuori dell’ambito italiano sensibili alla lezione di Longhi (anche per l’attenzione alla stratificazione linguistica, al linguaggio delle botteghe). Mi parla del suo rapporto con Baxandall?

C.G. Conobbi Baxandall a Londra, al Warburg, dove trascorsi un anno (1967-’68). Diventammo amici; ricordo fitte conversazioni con lui, e una bellissima conferenza che sarebbe poi confluita nel saggio che chiude Giotto and the Orators (Giotto e gli Umanisti). Baxandall mi riporta a Piero della Francesca: penso al capitolo di Painting and Experience (Pittura e esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento) in cui si analizza un particolare degli affreschi di Arezzo (il baldacchino visto di scorcio che sovrasta Cosroe, sul punto di essere decapitato). Baxandall ricostruisce la reazione dei mercanti aretini committenti di Piero attraverso un’esperienza sociale (una nozione che è al centro del suo libro): la lettura della pagina di un Trattato d’abaco dedicata alla misurazione di una botte. A questo punto si scopre – un colpo di scena magistrale — che l’autore di quel Trattato d’abaco era per l’appunto Piero. Ma anche se non fosse stato Piero l’argomentazione avrebbe funzionato lo stesso, perché il Trattato d’abaco rinviava comunque al contesto culturale e sociale dei committenti di Piero. 

E.M. Che cosa pensa dei visual studies

C.G. La nozione di visual studies mi pare troppo ampia, e troppo generica; trovo più interessante ritornare sul lavoro del conoscitore, per esplorarne le ricchissime implicazioni. Su questo tema ho scritto recentemente, oltre a Piccole differenze, un saggio intitolato Storia dell’arte da vicino e da lontano.  

E.M. Lavorando in Nord America ci si rende conto di quanto quella radice longhiana — anche continiana, della critica delle varianti — non sia stata per nulla recepita. In alcuni casi addirittura queste due figure non si conoscono proprio (nell’insegnare un corso su fatto e finzione ho inserito Anna Banti in programma, e menzionando Longhi mi sono resa conto che gli studenti non l’avevano mai sentito nominare). In quel saggio, Piccole differenze, accenna alla difficoltà di tradurre il linguaggio di Longhi; e forse il suo legame col mercato potrebbe aver generato diffidenza.

C.G. Su quest’ultimo punto non sono d’accordo: il legame di Berenson col mercato non ha certo impedito la diffusione dei suoi scritti. Ma nel caso di Longhi la difficoltà di tradurre il suo linguaggio ha costituito un ostacolo: e lo stesso è avvenuto con Contini. Nell’Éloge de la variante (In Praise of the Variant. A Critical History of Philology) Bernard Cerquiglini ha ignorato gli scritti di Contini (fondamentali) sulle varianti.

E.M. Tornerei sui due maggiori elementi di novità di Indagini su Piero in Adelphi, che nasce come reazione e confutazione della cronologia di Longhi. Il primo è l’apparato iconografico, davvero straordinario, che permette di seguire e verificare passo passo le sue ipotesi, in modo più perspicuo rispetto alle precedenti edizioni Einaudi: come avete lavorato? Nella Postfazione lancia invece una sfida agli attuali storici dell’arte, rovesciando la cronologia tra la Resurrezione di Piero e quella di Andrea Del Castagno. Ha ricevuto reazioni su questo aspetto?

C.G. Il primo nasce dal lavoro fatto insieme a Francesca Savastano di Adelphi, redattrice bravissima, che non smetterò mai di ringraziare; la seconda dalla necessità di rimettere in discussione alcuni dei risultati delle mie ricerche (già le precedenti edizioni includevano varie appendici) e di presentare nuove ipotesi. Longhi aveva sostenuto una dipendenza della Resurrezione di Andrea Del Castagno (da lui chiamato sprezzantemente Castagnaccio, soprannome che alludeva forse alla secchezza del segno) da quella di Piero. In realtà è vero l’inverso: Piero aveva visto l’affresco di Del Castagno, traendone nutrimento per andare in tutt’altra direzione. Non ho avuto ancora reazioni dagli addetti ai lavori: ma l’approfondimento di questo rapporto mi pare assolutamente necessario. 

E.M. Molti libri di Longhi nascono come commenti o reazioni a mostre. Mi chiedevo se le era mai capitato di vedere in particolare una mostra, un allestimento che le suggerisse, magari, la scrittura di un saggio.

C.G. Credo che questo sia successo, ma a decenni di distanza, con la Flagellazione. Perché l’ho vista la prima volta nel 1953 (avevo 14 anni), in una mostra di quadri restaurati dall’Istituto Centrale del Restauro. Non mi sarei mai immaginato che avrei continuato a occuparmi di quel quadro per decenni.  

E.M. Tornando invece alla collana “microstorie”, rileggevo il suo articolo “Microstoria: due e tre cose che so di lei” (1994) dove sottolineava, appunto, l’importanza della scala.

C.G. Lì facevo riferimento a un saggio di Jacques Revel, da lui poi ha raccolto in un volume intitolato per l’appunto Jeux d’échelles. La micro-analyse à l’expérienceAl plurale: il rapporto tra “scale diverse” visto come caratteristica della microstoria.

E.M. L’idea di scala/scale diverse è legata anche alla nozione di esperimento, termine che ha usato più volte in La lettera uccide. Una scala ridotta permette la possibilità di estrarre soltanto alcuni elementi in relazione a un problema, per poi in futuro ampliare o generalizzare. Quanto ha contato in questo senso che lei abbia avuto un nonno come Giuseppe Levi, biologo legato alla scienza sperimentale e maestro di tre premi Nobel?

C.G. Penso che questo abbia avuto una grande importanza. Il prefisso “micro” della parola “microstoria” rinvia al microscopio, ossia allo sguardo analitico, non alle dimensioni reali o simboliche dell’oggetto della ricerca. Ma per me il microscopio, preso alla lettera, è legato a mio nonno, Giuseppe Levi: una figura che ha contato moltissimo da ogni punto di vista, affettivo e intellettuale. (In un convegno a lui dedicato, ho descritto le reazioni che ebbi quando – avevo dieci anni – m’invitò nel suo laboratorio a guardare attraverso la lente di un microscopio). Ora, nella microstoria, ciò che consente di passare dall’esame analitico basato su una serie di dati alla generalizzazione è per l’appunto l’esperimento. Come mi è capitato di dire più volte, al progetto collettivo che è stato la microstoria io sono arrivato attraverso lo studio di casi. Il termine “caso” ricorre alla fine del mio primo saggio pubblicato, Stregoneria e pietà popolare (1961), basato su un processo di stregoneria del 1519 contro una contadina modenese, Chiara Signorini. Alla fine del saggio scrivevo: «Esso è in grado di gettare qualche luce sulla natura del rapporto, che si concretava drammaticamente nel processo, tra streghe e inquisitori. Anche da questo punto di vista il caso di Chiara Signorini, pur nei suoi aspetti irreducibilmente individuali, può assumere un significato in qualche modo paradigmatico». Quando, anni fa, ho riletto queste frasi ho pensato che il termine “paradigmatico” riecheggiasse il grande libro di Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Ma mi sbagliavo: il mio saggio uscì nel ’61; il libro di Kuhn nel ’62.

E.M. Conclusioni analoghe dunque, ma in autonomia.

C.G. Diciamo che usavo il termine “paradigmatico” nel senso di “esemplare”: uno dei tanti significati con cui Kuhn lo ha usato nel suo libro. Ma quello che mi colpisce retrospettivamente è l’importanza che attribuivo a un caso definito anomalo, e però al tempo stesso esemplare. Quest’intreccio è qualcosa che ha accompagnato la mia traiettoria di ricerca fino ad oggi. Alla microstoria sono arrivato attraverso lo studio di casi. In un saggio intitolato Il caso, i casi ho spiegato come il “caso”, nei due sensi del termine (in inglese, case e chance) mi abbia portato a studiare la casistica, che è al centro del mio libro Nondimanco.

E.M. Tornando ai primissimi saggi, quanto ha contato il magistero di Delio Cantimori, soprattutto in relazione alle sue idee sulla storia della mentalità, della cultura?

C.G. Senza l’insegnamento di Cantimori il mio percorso di ricerca sarebbe stato completamente diverso, e infinitamente più povero. Penso ai suoi libri, ai suoi saggi, e prima ancora ai suoi seminari: un esempio straordinario di “lettura lenta” (la definizione della filologia data da Nietzsche). ‘Storia della mentalità’ era un’etichetta allora era in voga. Poi però ne ho preso le distanze: nella prefazione alla ristampa de I benandanti (1973) sottolineai che avevo evitato la nozione di mentalità collettiva, concentrandomi su uomini e donne con nome e cognome. Si trattava di una presa di distanza rispetto alla generazione delle Annales successiva a quella dei fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre. Ma a spingermi in quella direzione c’era anche l’esempio di Cantimori.

E.M. Cambiando versante, mi interessa un parere per chi si trova a insegnare in contesti universitari dove la identity politics è dominante; colpisce nel suo lavoro la continua dialettica tra il ridar voce alle vittime da un lato, dall’altro l’estrema coscienza della ‘distanza’, della necessità della filologia.

C.G. Ho scritto un saggio che si chiama Our Words and Theirs, ora in La lettera uccide, in cui ho cercato di sviluppare la dicotomia tra etic ed emic proposta da Kenneth Pike (linguista, antropologo e missionario protestante): due termini riferiti, rispettivamente, alle categorie degli osservatori e alle categorie degli attori. Rileggendo Pike attraverso Bloch ho sostenuto che le domande etic da cui gli storici partono sono sempre anacronistiche (così come sono etnocentriche le domande etic da cui partono gli antropologi): ma le une e le altre possono essere riformulate attraverso un dialogo con le categorie degli attori (emic). L’esaltazione dell’anacronismo da parte di studiosi francesi come Nicole Loraux, Georges Didi-Huberman e Jacques Rancière confonde l’anacronismo (inevitabile) delle domande con l’anacronismo delle risposte, che trasforma lo storico in un ventriloquo. Per quanto riguarda termine “identity”, penso che abbia un valore emic ma non etic: in altre parole, non ha nessun valore analitico. Oggi è soprattutto un’arma, per tracciare dei confini, o dei muri.

E.M. Passiamo al rapporto con la letteratura (immagino potremmo aprire un lungo capitolo). La mia prima curiosità è legata allo stile: è interessante come non si limita ad analizzare dei problemi, ma anche a raccontarli, cioè a rendere visibile il percorso, anche le difficoltà e gli errori che l’hanno portata ad avvicinarsi a quella particolare serie di rapporti. Spesso a lezione in Normale menzionava Marc Bloch come punto di riferimento anche stilistico: ma al di là di Bloch e di altri studiosi (anche oltre i confini della ricerca storica), chi l’ha aiutata nel trovare una sua voce, così riconoscibile? Non parlo solo di strutture narrative ma di giri di frase, ritmo, ecco.

C.G. L’idea di rendere visibili le impalcature che hanno reso possibile l’edifico della ricerca viene dalla letteratura del ‘900: una nozione abbastanza ampia da includere Proust e Brecht. Se invece la domanda verte sul ritmo, allora penso di aver cominciato a imparare da Pinocchio. Calvino, in un’intervista (forse l’ultima sua) rilasciata a Maria Corti e pubblicata in “Autografo”, parlò con ammirazione dello stile di Pinocchio, che definì, se non ricordo male, “magro come un chiodo”. Da Pinocchio ho imparato moltissimo: il ritmo, la punteggiatura, la concisione. Per me è stato veramente un testo fondamentale.

E.M. Parlando di Calvino mi interessa un caso specifico, la pubblicazione delle Fiabe italiane nel ’57. E, ecco, lei aveva 18 anni e quindi immagino che l’abbia vissuta.

C.G. Le ho trovate straordinarie, non c’è dubbio. Assolutamente straordinarie.

E.M. Mi interessa, appunto, l’attenzione di Calvino per l’aspetto morfologico della fiaba. Secondo lei ha avuto una influenza (non mi piace questa parola, ma la uso lo stesso) anche sul suo lavoro? Ecco.

C.G. Ho letto Propp molto presto, a cominciare da Le radici storiche dei racconti di fate, uscito nella collana viola di Einaudi. Come ho scoperto anni fa, era stato tradotto per consiglio di Franco Venturi, allora attaché culturale a Mosca. Per formazione, orientamento e interessi Venturi era lontanissimo da Propp. Però colse immediatamente il grandissimo valore intellettuale di quel libro e propose di tradurlo. Credo che sia stata la prima delle pochissime traduzioni di quel libro. Mentre Morfologia della fiaba molto più tardi venne tradotta in molte lingue ed ebbe una grande eco internazionale, Le radici storiche – se non erro, la tesi discussa pubblicamente da Propp – ebbe scarsa risonanza. Calvino fu spinto verso le fiabe italiane anche da quel libro, e più in generale dal rapporto con la collana viola diretta da Pavese.

E.M. Mi concentrerei sul rapporto umano, intellettuale con Calvino, forse una delle prime di cui abbiamo parlato: che impatto ha avuto? 

C.G. Com’è noto, Calvino era molto amico di mia madre. Diventai anch’io suo amico, nonostante la differenza di età. Da lui, dalla sua straordinaria intelligenza ho imparato moltissimo. Gli ho voluto molto bene. Il dialogo tra noi si sviluppò anche grazie a Gianni Celati, che insieme a Calvino aveva lanciato un progetto di rivista mai realizzato (Ali Babà). Calvino scrisse una bella recensione al libro Crisi della ragione, in cui era incluso il mio saggio SpieRadici di un paradigma indiziario. Alla memoria di Calvino e di Arnaldo Momigliano History, Rhetoric and Proof: una serie di lezioni che avevo fatto a Gerusalemme. La versione italiana, un po’ diversa, s’intitola Rapporti di forza.

E.M. Rileggendo l’ultimo Calvino — Sotto il sole giaguaro, Prima che tu dica pronto: insomma, l’ultimissimo — mi stavo chiedendo: è possibile ipotizzare che abbia assorbito in quegli ultimi lavori le radici del suo paradigma indiziario?

C.G. Non saprei dire. In quella recensione a Crisi della ragione parlò in maniera generosa e divertita dell’ipotesi che avevo fatto sull’origine del racconto a partire dalla traccia che non c’è, paragonandomi a un “cacciatore neolitico”. Nel nostro dialogo questo elemento giocoso era ben presente. E forse qualche traccia di quello che lei diceva si trova nelle Lezioni americaneNe parlammo a lungo, passeggiando a Roma. Fu il nostro ultimo incontro. 

E.M. Quindi, più sul versante teorico che non su quello narrativo.

C.G. Narrativo-teorico, diciamo. La letteratura come un mondo condiviso: la teoria della letteratura mi appassiona. Spitzer, Auerbach, sono stati per me autori importantissimi.

E.M. Certo, il dettaglio rivelatore. E invece mi veniva in mente un’altra figura, non so se si possa definire di fratello maggiore (comunque di certo un interlocutore), Cesare Garboli.

C.G. Anche lì c’è stato un rapporto di amicizia molto stretto e un dialogo molto fitto, che  riemerge per esempio nel saggio Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship, dove riprendo il saggio di Garboli sulle ‘equivalenze verbali’ di Longhi. È una conversazione che continua – purtroppo solo metaforicamente.   

E.M. Ripensando a quel suo saggio è interessante il richiamo a Garboli a proposito della traduzione, cioè dell’ironia di Longhi sull’impossibilità della traduzione. Stavo poi pensando anche il fatto che all’inizio dello stesso saggio lei fa riferimento anche a dei modi “non proficui” di pensare al rapporto tra testi e immagini, ovvero a delle teorie che hanno considerato le immagini come se fossero dei testi da leggere.

C.G. A mio parere l’espressione “leggere le immagini” va evitata, perché impedisce di cogliere le differenze ineliminabili tra immagini e testi: prima tra tutte, la natura affermativa delle immagini. In un altro saggio incluso in Occhiacci di legno, intitolato “Idoli e immagini”, scritto per una miscellanea in onore di Ernst Gombrich, ho ricordato (e riprodotto) il famoso quadro di Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”. Se non ci fosse quella didascalia, negare ciò che viene rappresentato (la pipa) sarebbe impossibile. Le immagini, per loro natura, non possono negare. Su questo punto si può e si deve continuare a riflettere.

E.M. Si, perché il discorso su questo è infinito; non c’è fine al discorso sulla pittura. Tornando invece agli interlocutori, mi aveva colpito e anche commosso il suo ricordo di Celati a Bologna, nel gennaio scorso. Ci parla delle convergenze tra le sue ricerche e gli interessi di Celati, in Finzioni occidentali?

C.G. C’erano tra noi in quel periodo – siamo all’inizio degli anni ’70 – rapporti di grande amicizia. A quel punto s’inserì quel progetto di rivista mai realizzata, che era forse prima ancora di Celati che di Calvino. Ci furono incontri molto fitti, e scambi di lettere in gran parte pubblicati nel numero Ali Baba di “Riga”. Poi Gianni si trasferì in Inghilterra, e i nostri rapporti diventarono, purtroppo, molto più radi. 

ARTICOLO n. 72 / 2024