Gianmaria Tammaro

ARTICOLO n. 5 / 2022

ENNIO MORRICONE SECONDO GIUSEPPE TORNATORE

un'intervista

Ennio di Giuseppe Tornatore è un affresco enorme, coloratissimo, pieno di dettagli e di idee. Inizia con le mani di Morricone, si concentra prima sui suoi movimenti, sulla ginnastica, sulle braccia che si allargano e che si riavvicinano al corpo e poi sulle parole. La camera cerca insistentemente la striscia degli occhi e la base della fronte. Il montaggio – firmato da Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci – gioca con la regia, e le immagini giocano con la musica. 

C’è, come sottolinea Tornatore, un ritmo incredibile, che avvolge ogni cosa e ogni momento, e che permette a questo documentario di diventare un torrente di ricordi e di informazioni, di riempirsi di emozioni e sentimenti genuini, e di amalgamare, in due ore e mezza, la storia di un uomo, dei suoi successi e del suo talento con la storia di un intero paese. Ma Ennio non è solo questo. 

È un film sul cinema e sui registi, sull’anima delle storie, sull’importanza dei suoni e dei rumori, su quello che proviamo ogni volta che ascoltiamo una canzone, o che le immagini trovano lo stesso passo della musica. È, poi, un film d’amore, perché Morricone parla di sua moglie, Maria Travia, e lo fa con la dedizione degli innamorati; ed è un film sull’amicizia, perché le persone che vengono intervistate sono tutte profondamente legate a Morricone da un affetto genuino. 

Infine, c’è il rapporto tra Tornatore e Morricone: e quindi ci sono la complicità di ogni racconto e la libera onestà con cui tutto viene ricordato e restituito allo spettatore. Per finire Ennio, dal primissimo pitch alla versione definitiva, ci sono voluti quasi sette anni. E, dice Tornatore, ogni montaggio è stato diverso. «Il primo, ovviamente, era molto più lungo e abbondante. Conteneva più capitoli e aveva lo stesso ritmo e lo stesso andamento». 

Dopo il successo di The Beatles: Get Back di Peter Jackson, potrebbe essere un’idea farne una miniserie, per approfondire ulteriormente il racconto. Ne avete parlato?
«Le dico la verità: nessuno mi ha chiesto di lavorarci nuovamente. Confermo, però, che c’è molto più materiale».

Ma a lei piacerebbe allargare ulteriormente questo racconto?
«Più che allargarlo, mi piacerebbe ricomporlo. Nel secondo montaggio, c’erano molte più cose. Cose che, secondo me, sono piuttosto importanti. Quindi valuterei senza problemi una proposta del genere. Non avrei nessuna riserva. Intendiamoci: si tratterebbe di un lavoro piuttosto complesso. Perché una cosa è trarre una versione più sintetica da una più lunga, un’altra, invece, è ricostruire una versione più estesa che non è mai stata finalizzata».

Mentre parla di Ennio, Tornatore sembra inseguire qualcosa: un’idea, forse; oppure un’intuizione. Non è mai brusco, ma c’è una consapevolezza precisa nella sua voce. Non è vero, dice, quello che hanno scritto. «Questo non era il sogno della mia vita, non ci avevo mai pensato prima. Sono stati i produttori, Gianni Russo e Gabriele Costa, a propormi di fare un documentario su Morricone».

Lei ha accettato immediatamente?
«Se Morricone è d’accordo, ho detto io, lo faccio volentieri. Conoscevo il carattere di Ennio, e conoscevo la sua ritrosia a lasciarsi riprendere. Quindi sono andati da Ennio, gli hanno fatto la stessa proposta, e Ennio ha risposto: se lo fa Giuseppe, per me non ci sono problemi. In un certo senso, mi sono ritrovato coinvolto. E solo a quel punto ho cominciato a immaginarlo e a scriverlo. È diventato un progetto importante per la mia vita, e io ho fatto di tutto per realizzare il miglior documentario possibile».

Dal primo giorno di lavorazione a oggi, sono passati – diceva – quasi sette anni.
«Durante i primi cinque, però, ho fatto solo qualche intervista e qualche ripresa, e poi sono tornato ai miei film. Negli ultimi due anni, invece, mi sono concentrato unicamente su questo progetto». 

Ha dovuto riscriverlo diverse volte.
«Non tanto per gli eventi quanto, in realtà, per il cambiamento di certi contesti produttivi. Per esempio, in un primo momento nel film erano previste anche alcune sequenze di ricostruzione cinematografica. Dunque andavano fatti dei casting e trovati degli attori. Alla fine, però, sono stato costretto a rinunciare e ad abbracciare una formula più tradizionale».

Da dove è partito?
«Per questo documentario, la cosa più importante è sempre stata avere un linguaggio più vicino alla musica che alle immagini. L’intera struttura doveva avere una sua musicalità. Perché è proprio la musicalità che avvicina questo documentario alla personalità e alla figura di Ennio Morricone».

In Ennio si alternano interviste – una delle più deliziose e delicate è quella fatta a Bernardo Bertolucci – e materiali di archivio, e poi, per tutto il tempo, ritornano i temi e la musica scritti da Morricone. Le persone li canticchiano. Danno il tempo. «L’opera di Morricone fa parte del nostro tessuto quotidiano», dice Tornatore, «e io ho giocato con questa cosa. Tutti, prima o poi, finiscono per fischiettare le sue musiche. E lo fanno soprattutto i registi e le persone che, nel corso del tempo, hanno lavorato con lui. Chiunque, in questo film, è pronto ad accennare una musica di Morricone».

C’erano due Ennio. Uno più introverso e timido, e uno più deciso e coinvolto. Lei quale ha conosciuto?
«Tutti e due. Non erano due facce in contrapposizione, ma due aspetti complementari. Ennio era così: ironico, spiritoso, trasparente, di un’onestà unica; e allo stesso tempo era deciso, appassionato, pronto ad accalorarsi e arrabbiarsi per far valere le sue ragioni. Dietro questi due aspetti, c’era la sua profonda genialità. E non sembrava esserne nemmeno consapevole. Eccola, la chiave della sua grandezza».

A un certo punto, nel documentario, dice: io sono tutta la musica che ho studiato.
«Non pensava, però, di essere un genio puro. E questo non sapere l’ha reso ancora più grande: gli ha permesso di alzare ogni volta l’asticella delle sue aspettative e di continuare a sperimentare. Perché per lui comporre musica significava sperimentare. Erano la stessa cosa. Io ho conosciuto il Morricone curioso e il Morricone pronto a puntare i piedi. E nel 99% dei casi, quando lo faceva, aveva ragione lui».

Com’è andato il vostro primo incontro?
«Mi ha messo immediatamente alla prova. Voleva capire le mie intenzioni. Ennio temeva gli approcci estremamente superficiali che a volte ci sono nel cinema. Non tutti i registi conoscono la musica, e non tutti i registi la rispettano. Quando gli dissi che non volevo una musica siciliana per Nuovo Cinema Paradiso, si tranquillizzò e accettò di lavorare al film. Per me si trattava di una storia universale».

Ne La leggenda del pianista sull’oceano, Morricone ha saputo dare voce all’amore.
«In quel caso, la musica è stata decisiva due volte. Non era solo un commento: faceva profondamente parte del film. Con Morricone, ne abbiamo parlato prima dell’inizio delle riprese; ci abbiamo lavorato a lungo. La musica che aveva composto era la musica definitiva, e in questa scena il tema doveva parlare di amore».

In che senso?
«Doveva essere particolare anche rispetto al resto della colonna sonora. L’inizio di questo tema contiene in sé dei lunghissimi intervalli, e sono stati questi intervalli che mi hanno permesso di descrivere nel racconto questo meccanismo che volgarmente chiamiamo “colpo di fulmine”».

Lui vede lei, e cerca di conoscerla attraverso la musica. 
«Il tema non poteva essere deciso. Doveva essere incerto. Soprattutto, poi, non doveva ripetersi mai: doveva evolversi in continuazione. In quel tema c’è tutto: c’è lui e c’è lei; c’è il desiderio di conoscere, ci sono l’amore e la consapevolezza finale. Questo che sto dicendo, però, è la sintesi di ore e ore di lavoro e di discussioni: ed erano ore bellissime, piene, ricche di Ennio e della sua sensibilità. Con le sue musiche, i film hanno trovato qualcosa che, fino a poco prima, non avevano. Qualcuno parla di anima. Sicuramente raggiungevano uno spessore superiore, diverso, che li migliorava enormemente».

Questo documentario riesce a sintetizzare efficacemente anni e anni della televisione italiana e del cinema mondiale. È sempre stato uno dei suoi obiettivi?
«Nella mia idea iniziale c’erano solo un coreuta pronto a raccontare e a raccontarsi e un coro disposto ad affiancarlo e sostenerlo. Quando ho cominciato a montare, però, ho notato un’altra cosa. Non volendo, nel documentario era nata una linea narrativa quasi insospettabile. Attraverso le immagini, la musica e i ricordi veniva fuori un racconto della nostra storia e del nostro paese».

C’è una linearità precisa.
«I programmi tv, i presentatori che lo intervistano, i giornalisti, la timidezza per i primi premi ricevuti: in questa narrazione cronologica, la vita di Ennio diventa quasi un romanzo. E la narrazione cronologica, a volte, può essere un rischio: perché rallenta l’andamento e il tono, e perché può essere quasi polverosa, piena di frammenti di altre cose. In questo caso non è stato così. Anzi».

Secondo lei, abbiamo dato per scontato il genio di Morricone?
«Per scontato no, lo escludo. Lo abbiamo capito, secondo me. Perché ci ha trasmesso molte emozioni e perché è stato una parte importante della colonna sonora delle nostre vite. La sua opera, però, difficilmente verrà ricostruita per intero. Ennio ha scritto tanto. E in ogni cosa che ha scritto e composto, ci sono ancora oggi intuizioni e sfide aperte che possono avere ulteriori interpretazioni ed evoluzioni. Insomma, c’è ancora tanto da studiare e da scoprire. Il mio documentario sarà, secondo me, solo un documentario: uno dei tanti. Ce ne saranno altri, e si continuerà a parlare di Ennio».

Che tipo di amicizia è stata la vostra?
«È stata fondamentale. Dal punto di vista umano, è stata l’amicizia più importante della mia vita. Un’amicizia fatta non solo di stima e di fiducia, ma anche di affetto familiare e profondo. Ci univa una voglia continua di comprendersi. Eravamo liberi di dire quello che pensavamo. La stima c’era sempre, e la nostra amicizia rimaneva: era lì in ogni istante».

Ricorda il momento in cui, per la prima volta, si è lasciato catturare dalle musiche di Morricone?
«Avrò avuto 9 o 10 anni. Ero in spiaggia, allo stabilimento balneare del mio paese. E il jukebox mandava una musica che avevo sentito pochi giorni prima al cinema: una musica senza parole, su cui gli altri ragazzi riuscivano comunque a ballare. Era il tema di Per qualche dollaro in più».

Qual è stata la lezione più importante di Morricone?
«Sapersi fidare degli altri. Mi ha sempre colpito la libertà che, ogni volta, per ogni film, Ennio mi dava. Mi faceva ascoltare quattro o cinque tracce, e poi mi lasciava scegliere. In quel momento, era sicuro del suo lavoro, di ogni pezzo che aveva scritto, ma dava a me l’ultima parola. E quello era un atto estremo di fiducia». 

Che cosa ha capito?
«Per avere fiducia negli altri, bisogna avere prima di tutto fiducia nelle proprie capacità. Oggi io provo a fare la stessa cosa. Quando incontro i miei produttori, porto più idee e più soggetti, e lascio a loro la scelta».

Ennio di Giuseppe Tornatore, prodotto da Gianni Russo e Gabriele Costa per Piano B Produzioni Srl, sarà al cinema in anteprima il 29 e il 30 gennaio. Tornerà in sala il 17 febbraio, distribuito da Lucky Red in collaborazione con TIMVISION.

ARTICOLO n. 77 / 2021

DIVENTARE ADULTI

ritratto di Paolo Sorrentino

Da bambino ero quasi condannato a osservare perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempo che nel ricordo mi appare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfottò, le dinamiche del gioco, le psicologie.

PAOLO SORRENTINO, Vanity Fair, 20 maggio 2020.
Intervista di Malcom Pagani.

Nei film di Paolo Sorrentino i bambini sono ovunque: non sono piccoli e teneri, ma sono uomini e donne adulti, individui ostinati, spesso viziati, infantili, che si autoconvincono delle loro idee, che le ripetono fino allo sfinimento e che per tutto il tempo cercano – perché è questo quello che fanno: cercano – il loro posto nel mondo. 

Essere liberi, per il Tony Pisapia de L’uomo in più (2001), significa essere sé stessi, significa vivere senza costrizioni e senza limiti, conoscere la sostanza delle cose nel profondo e farsela piacere, innamorarsene e poi abusarne fino allo sfinimento, fino a dimenticare. Ne Le conseguenze dell’amore (2004) Titta Di Girolamo ha la stessa paura di cambiare, e di crescere, di un adolescente: si protegge ripetendo gli stessi movimenti e gli stessi rituali; prova a seguire le regole che si è dato, e proprio alla fine, proprio quando pensa di aver perso tutto, vince. Stravince, anzi. Perché scopre l’amicizia, e nell’amicizia diventa completo: diventa adulto. 

Il Geremia de’ Geremei de L’amico di famiglia (2006) vive con sua madre, e tutto il suo mondo ruota attorno a quest’idea assurda di amore-odio. Ricorda l’infanzia, ricorda quello che era, e nella malinconia per il passato diventa cattivo e meschino: fa quello che fa quasi per ripicca. Ama le donne ed è ossessionato dalla bellezza. Lui che, da tutti, viene considerato brutto. È un bambino. Quando la volpe non arriva all’uva, dice che è acerba, che non va bene. Geremia, quell’uva, la vuole comunque. Proprio come, nonostante tutto, continua a volere sua madre. 

Ne Il Divo (2008) Andreotti gioca. Con il potere, con le persone, con quello che gli altri pensano e credono. E si diverte. È uno dei personaggi più ironici del pantheon sorrentiniano. Sembra un folletto: curvo, con le mani sempre raccolte, le orecchie grandi, la fronte enorme e spaziosa. Ha una vocina sottile, meditabonda. È intelligentissimo. Perché, proprio come i bambini, ha una visione diversa. 

Anche il Cheyenne di This must be the place (2011) si trova in una dimensione sospesa, quasi alternativa, dove non si urla ma si parla piano, quasi sottovoce, dove tutto sembra ovattato e rallentato, e dove l’immensità dell’esistenza si risolve nelle piccole cose. Si mette in viaggio per ritrovare le sue origini e rivedere suo padre. Conosce la tristezza, perché nella tristezza ha trovato una compagna fedele. 

Jep Gambardella, ne La grande bellezza (2013), si sente incompleto. Ha scritto un libro, ed è stato un grandissimo successo. Rimpiange, però, il suo passato; soprattutto rimpiange il suo primo amore che non è mai andato via e che, puntualmente, nei ricordi e nei sogni a occhi aperti, ritorna. I motoscafi, le isole, il mare azzurro. Tuff tuff tuff anche qui. I bambini che incontra nelle sue infinite passeggiate gli sorridono come, a volte, sorride la vita: all’improvviso e senza nessuna malizia. È l’innocenza. La stessa innocenza della Santa che dice: le radici sono importanti. E quindi è importante il passato ed è importante l’infanzia; è importante essere, ed essere stati, bambini. 

In Youth – La giovinezza (2015) si parla proprio di questo, e cioè dell’immaturità genuina, spontanea, che risiede in ogni persona, e che non ha niente a che fare con l’età o con gli anni. Ogni rapporto, ogni relazione e ogni ruolo sono solo parti di uno schema più ampio, meno complicato e decisamente prevedibile: la vita è una linea, inizia e finisce; e sta proprio a noi capire che cosa farne. Quando però ci riusciamo è troppo tardi. Siamo soddisfatti, perché abbiamo risolto il rompicapo più difficile di tutti, e siamo, per la prima volta, consapevoli. Una Rossana può davvero essere la felicità. 

Anche il Berlusconi di Loro (2018) è un uomo che vuole continuare a giocare, che non sa accontentarsi, che vede l’amore e il sesso come accessori, e che ne capisce pienamente il valore quando li perde. Non è una giustificazione, non è il tentativo di riabilitare una figura controversa della nostra storia più recente: è l’umanità intesa come caratteristica nella sua definizione più elementare. E quindi come sinonimo di fallibilità, di mediocrità, di errore, di imperfezione e di ironia. 

In The Young Pope (2016) e in The New Pope (2020) il protagonista è stato abbandonato dai genitori, e per tutto il tempo, dal primissimo all’ultimo istante, fa quello che fa per ritrovarli, per risentirsi a casa e per essere finalmente accettato. All’inizio è viziato e arrogante, perché è arrabbiato. Poi, lentamente, riscopre il piacere della semplicità, dell’affetto vero, del bene fatto senza pretendere nulla in cambio. Diventa quello che deve diventare: un uomo.

Il filo rosso del cinema di Sorrentino

Tutto quello che Sorrentino ha raccontato è unito da questo filo rosso, sottilissimo ma evidente, fatto di ricordi, di piccoli frammenti e di battute bellissime: diventare adulti; non essere più bambini; prendere, finalmente, il controllo della propria vita. Ma la verità è anche un’altra. Perché non si smette mai di crescere, si è sempre figli di qualcuno e tutto, anche la cosa più complicata e assurda, può essere ricondotto alla logica del gioco. 

Il cinema è una lente di ingrandimento o, a seconda dei punti di vista, un grandangolo per allargare la propria prospettiva sulle persone e sul mondo. Con il cinema, e con la parola scritta, e anche con la televisione, si può affrontare qualunque argomento e qualunque tema senza mai accontentarsi. 

Il talento di Tony Pisapia è come il talento di Maradona, figura che ritorna spessissimo, anche citata per caso, nei film di Sorrentino. L’ironia di Andreotti è come l’ironia di Geremia de’ Geremei: spesso incompresa, a volte sottile e volutamente cattiva. Il successo, che unisce un po’ tutti i personaggi di Sorrentino, non è l’obiettivo, ma il mezzo: e quindi anche Jep Gambardella, così apprezzato e ben voluto, non sa ancora cosa essere da grande. Uno scrittore? Un giornalista? Un pensatore? Le domande si accumulano, e le risposte non bastano.

È stata la mano di Dio

In È stata la mano di Dio (2021) Fabietto, il protagonista interpretato da Filippo Scotti, è Sorrentino. Quando era giovane, quando viveva a Napoli, quando cercava la sua strada. È un film autobiografico, ma è pure un film di finzione, perché Sorrentino si prende le sue libertà e unisce racconti e ricordi, insegue una cronologia degli eventi più o meno precisa, e poi la ribalta. C’è lo scherzo, c’è la responsabilità delle scelte, e c’è quel passaggio fondamentale, centrale per tutto il tempo, dall’infanzia all’età adulta.

Per Fabietto essere grande vuol dire smettere di farsi chiamare Fabietto, vuol dire fare l’amore per la prima volta e non sognare più zia Patrizia; vuol dire affrontare la perdita dei genitori, e farlo nonostante l’impossibilità di poter dire addio. Ma vuol pure dire prendere un treno e lasciare Napoli, trovare qualcosa – qualcosa di importante – da raccontare, urlare finalmente la propria insoddisfazione e la propria frustrazione.

Fabietto è un personaggio che, nel corso del film, cresce. E prima è un figlio, poi è un orfano. Prima parla con suo fratello come un amico; poi diventa più serio, ed entrambi si confessano cose più difficili e importanti. In un certo senso, Fabietto si riscopre. Perché, nel profondo, è sempre stato la stessa persona: ha sempre visto Napoli, la famiglia, le zie e i cugini in un modo; ha sempre provato a mettere in ordine i pensieri e le parole; ha sempre desiderato, sognato e sofferto. Quando però perde i suoi genitori, tutto si amplifica: diventa insopportabile. Una detonazione di dolore e angoscia. Manca qualcosa, e si nota nell’espressione di Fabietto, si nota nel modo in cui, all’improvviso, rimane in silenzio: si nota nella camminata spedita ma non veloce, nella meraviglia che, piano piano, ritorna, nella serietà che prende il posto dell’approssimazione.

Crescere, dopotutto, richiede sacrifici e privazioni. L’età dell’innocenza finisce quando finisce il tempo dei giochi a tutti i costi e del futuro senza forma: quando si è grandi, quando si è adulti, bisogna decidere. E bisogna, poi, convivere con le proprie scelte. Ed è questo che, prima di ogni altra cosa, Fabietto deve imparare. Il cinema non può essere un capriccio: deve essere una risposta a una domanda specifica. E l’amore, come il sesso, non può avere la consistenza fumosa di un desiderio: deve farsi carne, deve trovare un corpo e avere delle sembianze precise.

Ma chi cresce deve anche essere in grado di trovare da solo i suoi maestri, di sceglierseli. Non è più il tempo della scuola e delle lezioni obbligate: da grandi, dobbiamo capire cosa vogliamo imparare e da chi, poi, vogliamo impararlo. Fabietto – come Sorrentino – trova in Antonio Capuano la sua guida. Anzi, meglio: l’innesco del suo cambiamento. Capuano lo sprona, lo mette davanti a un bivio: Napoli, il cinema, le storie, dire e non dire, parlare oppure tacere; capire cosa vale la pena inseguire, e cosa, invece, non serve, è solo una distrazione.

Crescere a Napoli, crescere lontano da Napoli

Crescere non è una cosa facile, e non c’è un libretto delle istruzioni da seguire per farlo. Crescere, spesso, è il risultato di quello che ci succede intorno, di quello che vediamo e che proviamo, di quello che ci dicono gli altri e che copiamo e riprendiamo da loro. Crescere, a volte, richiede tantissimo tempo. Altre volte, invece, succede all’improvviso: prima si è una persona, e il momento dopo un’altra. 

Conta, in questo grande schema, anche l’ambiente, e quindi la città in cui si nasce. Per Fabietto questa città è Napoli. E in È stata la mano di Dio Napoli è ovunque. Nelle strade, negli scorci di mare, nei tuff tuff tuff dei motoscafi; nell’aria scanzonata e divertita dei contrabbandieri; nei pavimenti di marmo, nell’esultanza sui balconi, nel tifo religioso per un uomo, Maradona, e per una squadra.

Napoli rappresenta, come gli altri personaggi, un grande incontro. E, a suo modo, una grande riscoperta. Una città che vive nel sottosuolo e che è calda, pulsante, trafficata e rumorosa. Una città che è pure delicata, e che come il mare avvolge tutto, ogni cosa, ogni persona. Napoli è una religione, ed è pure una maledizione: perché ti forma, e ti costringe a una determinata idea. Se sei napoletano, dividi le persone in napoletane e non napoletane; se cresci a Napoli, ci saranno la tua città e la città degli altri. Viaggiare è una sfida, perché per trovare una nuova casa bisogna vincere una scommessa. E Fabietto lo sa: glielo si legge in faccia quando prende il suo treno per Roma («solo gli stronzi vanno a Roma»), quando si abbandona con la testa contro il finestrino, e rimane ad ascoltare.

‘O Munaciello

Nel cinema di Sorrentino, i bambini hanno qualcosa di più rispetto agli adulti. Sono estremi. Immuni ai compromessi. Ne La grande bellezza sono Roma stessa, perché giocano, sono felici, e perché sono confinati in uno spazio preciso, sorvegliati a vista. In È stata la mano di Dio, i bambini sono ‘o munaciello: e quindi sono a metà, esseri magici e mistici, fatti di carne e idee, di fede e scaramanzia. Alla fine, però, anche ‘o munaciello è solo un bambino, e quando si mostra alla luce del sole i sogni finiscono per coincidere con la realtà.

Ma in È stata la mano di Dio i bambini sono anche fastidiosi, insistenti; stanno lì e ti fissano, e ti fanno arrabbiare perché non vuoi essere fissato, perché sei in un momento particolare e vuoi rimanere solo con il tuo dolore, e invece loro stanno lì: si aggiustano i capelli, poi gli occhiali, e mentre aspettano il ritorno della madre ti guardano. E tu ti incazzi. I bambini, l’abbiamo già detto, sono estremi. Prima si spaventano per il rumore di una bottiglia che scoppia, poi sorridono divertiti.

La cosa più interessante, però, non è né il punto di partenza – il bambino, appunto – né il punto d’arrivo – l’adulto; la cosa più interessante è quello che unisce questi due punti, il viaggio da una forma all’altra, da un insieme di idee a un pugno di convinzioni (magari sbagliate). Chi cresce deve attraversare un mutamento, che comincia prima di tutto nella testa. Fabietto rimane fondamentalmente identico: gli stessi capelli, lo stesso orecchino, lo stesso modo curvo di stare in piedi e di affrontare le persone. Ma cresce, e cresce visibilmente: gli occhi conservano il loro taglio, ma si chiudono con una saggezza diversa; la voce esce fuori un po’ più lenta e impastata, e le cose importanti, di colpo, sono altre. 

Essere adulti, forse, significa proprio questo: imparare a convivere con il dolore, non allontanarlo; imparare a fronteggiarlo e a provarlo con giudizio. Perché anche quello serve. E insomma, il gioco non si ferma: continua. Cambia la musica di sottofondo, e alla gioia di fare, tipica dell’infanzia e dell’adolescenza, si aggiunge la malinconia per il passato, per ciò che è stato e che non potrà più essere. Il cinema di Sorrentino è una guida, un atlante. Titolo: come diventare adulti.

ARTICOLO n. 66 / 2021

ESISTE IL NUOVO CINEMA ITALIANO?

Nuovo cinema italiano

Nel corso degli ultimi cinque anni a quasi tutti i registi e sceneggiatori italiani, soprattutto a quelli più giovani, è stata fatta la stessa domanda: «Il nostro cinema è cambiato?». Alcuni hanno risposto in modo approfondito e sincero; altri hanno evitato, e altri ancora, invece, sono stati lapidari. Sì, no, forse. Chi lo sa. Qualcuno ha azzardato: il cinema italiano non cambierà mai. 

Quando parliamo di rivoluzione interna dell’industria, scegliamo gli ultimi cinque anni come periodo di riferimento per un motivo particolare. Perché cinque anni fa – quasi sei, in realtà – in sala sono arrivati dei film che hanno cambiato – anche se per pochissimo – l’equilibrio del nostro cinema: Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari; Veloce come il vento (2016) di Matteo Rovere; Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti e Suburra (2015) di Stefano Sollima. 

Tre di questi film sono ambientati tra Roma e la sua periferia, uno è ambientato in Emilia. In Non essere cattivoLo chiamavano Jeeg Robot e Suburra si sono fatti notare due degli attori più famosi e seguiti degli ultimi anni: Luca Marinelli e Alessandro Borghi. E in Veloce come il vento ha fatto il suo esordio Matilda De Angelis, comparsa anche nella serie internazionale The Undoing. Quando questi film sono stati distribuiti, l’età media dei registi era di circa 45 anni, e anche questa è stata una novità piuttosto importante per l’ecosistema italiano.

Ovviamente non è stato un cambiamento radicale. Nei mesi e negli anni precedenti, altri film hanno preparato il terreno. Uno su tutti: Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia, all’epoca poco più che trentenne. Questi quattro film hanno in comune un’altra cosa: raccontano tutti, ognuno con le dovute differenze e con le proprie caratteristiche, storie di genere. 

Il genere all’italiana

Il genere, in Italia, non è mai scomparso veramente. Ma nel 2015 (e nel 2016) l’arrivo di questi film l’ha riportato alla ribalta. A parte Lo chiamavano Jeeg Robot, che è un film che contiene elementi fantastici, un altro punto in comune tra questi titoli è l’estremo realismo presente sia nelle immagini, sia nella costruzione del racconto. In questi film si muore, si soffre e soprattutto si affrontano i problemi di ogni giorno: debiti, dolore, malattia, povertà, droga, corruzione. 

Ognuno di questi film prende una strada diversa, è vero. Ma nonostante l’assenza di un vero coordinamento e di una regia a monte sono comunque riusciti a portare una ventata di novità e di speranza nell’industria italiana. C’è stata poi l’incapacità del sistema di approfittarne, e di innalzare questo nuovo sentimento a un altro livello (non ci sono stati sequel, per esempio; e chi ha provato a utilizzare il genere non è stato in grado di ripetere gli stessi risultati, con lo stesso apprezzamento di pubblico e di critica). Questo, però, è ancora un altro elemento, che approfondiremo a breve. Per ora, soffermiamoci su una riflessione più ampia: quella sul nuovo cinema italiano.

«A che ora è la rivoluzione?»

Prima di tutto: è mai esistita? Alla fine, questa rivoluzione è andata in porto? Risposta breve: in parte. Gli autori e gli attori di questi quattro film hanno avuto un momento di estrema visibilità, e sono andati avanti con le loro carriere. Ma molte delle novità che hanno introdotto si sono perse, e l’Italia – intesa come cinema e come industria – è tornata a un approccio più autoriale: con una figura unica al centro di scrittura e regia, e con una diversificazione molto limitata tra le produzioni.

Tutto è cominciato con Non essere cattivo di Claudio Caligari, presentato in anteprima alla 72° Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Il percorso intrapreso da Caligari, dagli sceneggiatori, Francesca Serafini e Giordano Meacci, e dai produttori, tra cui Valerio Mastandrea, è stato un percorso piuttosto atipico: fatto di tantissime rinunce, di tantissimi sacrifici e di un’alchimia straordinaria tra il regista e gli interpreti principali, Luca Marinelli e Alessandro Borghi. 

Con Non essere cattivo è nato un fortissimo sodalizio tra cast tecnico e cast artistico, e ancora oggi, a distanza di anni, è possibile ritrovarli insieme in attività, incontri e su altri set (Marinelli ha collaborato nuovamente con Serafini e Meacci per Principe Libero nel 2018). La trama di Non essere cattivo si concentra su due amici che provano a resistere e a sopravvivere, sul loro rapporto, sulle difficoltà che devono superare e sulla decisione – presa da uno dei due – di voltare pagina. È un racconto estremamente potente e tra i più belli del cinema italiano contemporaneo. 

Suburra di Stefano Sollima ha fatto un’altra cosa: ha preso Roma e ne ha mostrato i lati più oscuri, tra criminalità e politica. Anche qui uno dei protagonisti è interpretato da Alessandro Borghi, affiancato da una bravissima Greta Scarano e da un cast di prim’ordine (su questo, però, torneremo più avanti). Il tema principale del film non è la profondità della corruzione e del malaffare nell’amministrazione della capitale e nel Vaticano (sì, si parla anche di Vaticano). Sono i rapporti di potere. Sollima, dopotutto, li ha sempre raccontati: a partire da Romanzo Criminale (2008), primissima serie tv di Sky, altra rivoluzione made in Italy.

Le persone, in Suburra, sono appunto persone: non sono personaggi di un poliziottesco piatto e prevedibile; non sono solo luoghi comuni e cliché. In Suburra c’è la complicatezza della vita quotidiana: l’imprevedibilità delle scelte e le incredibili conseguenze che possono avere. Il più forte mangia il più debole: ma il più debole, a volte, riesce ad avere la meglio sul più forte. E anche questa è una delle lezioni contenute nel film di Sollima.

Veloce come il vento di Matteo Rovere è arrivato come un fulmine a ciel sereno: un film di corse, con riprese dal vivo su piste vere, con due personaggi interessanti e mai banali, che ha messo d’accordo pubblico e critica. Stefano Accorsi ha uno dei ruoli più belli della sua carriera; e Matilda De Angelis, che canta anche la canzone dei titoli di coda, Seventeen, dà una grandissima dimostrazione del suo talento. Rovere, come pochi altri registi, ha saputo lavorare con i suoi attori, e ha soprattutto saputo su quali elementi e su quali spunti insistere. 

Il mondo di Veloce come il vento è un mondo sospeso, e tuttavia estremamente credibile. Anche qui, come in Non essere cattivo, gli sceneggiatori hanno giocato un ruolo fondamentale: Rovere ha firmato la storia con Filippo Gravino e Francesca Manieri, ed entrambi in questi anni sono diventati due delle firme più cercate e apprezzate dell’ambiente, dai lungometraggi alla serialità televisiva.

Lo chiamavano Jeeg Robot è stato, tra questi film, quello più inatteso e sorprendente. Gabriele Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone hanno creato una storia semplicemente unica. Di più: hanno plasmato un cattivo iconico, così particolare e innovativo da diventare uno dei personaggi più amati dal grande pubblico nel giro di pochissimo tempo: Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli. Claudio Santamaria è il protagonista, ed è lui a dover rispondere alla chiamata dell’eroe. Ilenia Pastorelli ha un altro ruolo molto importante: è quasi una guida.

Ma Mainetti e Guaglianone non si sono limitati a giocare con i generi, a costruire un nuovo immaginario; sono andati oltre, hanno reso appassionante un tipo di storia fino ad allora piuttosto inedito tra le produzioni italiane, e hanno valorizzato al massimo i loro attori. Mainetti, in particolare, ha trovato il suo posto e la sua visione. Lo chiamavano Jeeg Robot è stato il suo primo film, e fino alla fine, fino all’ultimo giorno in sala, è sembrato una promessa: questo è solo l’inizio. E in un certo senso sì, è stato proprio un inizio. Perché Lo chiamavano Jeeg Robot, più degli altri tre film, è stato in grado di richiamare una parte di pubblico riportandola al cinema. Ma tanto è stato sufficiente?

Non ci sono solo protagonisti

Abbiamo parlato dell’importanza degli sceneggiatori e della divisione necessaria tra la figura del regista-autore e quella dello scrittore. Ma c’è anche un’altra cosa che questi quattro film, così “nuovi” per il panorama italiano, hanno fatto. Hanno dato spazio e spessore ai personaggi secondari. 

Da Non essere cattivo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ogni sequenza e ogni battuta hanno il loro ruolo e ogni personaggio che compare in scena è un personaggio memorabile, da ricordare. Con Lo chiamavano Jeeg Robot è stato particolarmente evidente, per la bravura e il talento di Luca Marinelli. Ma vanno citati anche: Antonia Truppo, Ilenia Pastorelli e Salvatore Esposito nel film di Mainetti; Silvia D’Amico e Roberta Mattei in Non essere cattivo; Paolo Graziosi e Mattei, di nuovo, in Veloce come il vento; Claudio Amendola, Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Adamo Dionisi e Giacomo Ferrara in Suburra.

Insomma, in questi quattro film il lavoro della regia e della scrittura è stato così profondo ed efficace da rendere ogni cosa, anche la più piccola, necessaria e determinante. Per il cinema italiano, questa non è sicuramente una novità. In passato è successo altre volte, certo. Ma un allineamento così forte di intenzioni e di punti di vista è, a suo modo, abbastanza unico. E va tenuto in altissima considerazione. Anche perché non stiamo parlando di film particolarmente ricchi, con super budget o con il sostegno deciso di grossi distributori. Parliamo di progetti pensati e scritti per bene, con una loro identità, con una loro forza, capaci di attirare e di tenere insieme talenti. E nient’altro. Ma cosa hanno fatto, alla fine, questi film?

Il vero cambiamento

Sono riusciti ad appassionare il pubblico; sono riusciti, soprattutto, a superare le dinamiche classiche della promozione, e a essere spinti dal passaparola. In alcuni casi, come in quello di Non essere cattivo e di Lo chiamavano Jeeg Robot, ci siamo ritrovati davanti a dei cult istantanei, ancora oggi apprezzati e consigliati dagli spettatori. Ma c’è stato anche un intervento deciso, da non dimenticare, da parte di chi si occupa della promozione. O meglio: di chi cura i materiali come poster, teaser e trailer. 

Federico Mauro e la società Vertigo, per fare un esempio, hanno giocato – anche perché liberi dai soliti dettami delle distribuzioni – con film come Veloce come il vento, e hanno usato Lo chiamavano Jeeg Robot per fare qualcosa di più: per raccontare la loro storia. I trailer, per la prima volta, non sono stati solo e semplicemente dei biglietti da visita: hanno creato e alimentato l’eccitazione e la curiosità del pubblico; sono stati, a loro volta, dei piccoli momenti rivoluzionari. Ogni nuovo contenuto ha fatto la differenza: ed è stato atteso, ripreso, condiviso.

Attenzione, però: se questi quattro film sono andati bene, e hanno incassato e sono piaciuti così tanto, non è stato merito unicamente delle distribuzioni e di chi ha seguito la fase promozionale. Erano anomalie, e come anomalie sono state trattate. Non c’era un disegno preciso; non c’era l’intenzione particolare di insistere. Il successo è arrivato, ma è arrivato per caso. E anche per questo la promessa di un nuovo cinema italiano sembra essere stata tradita. 

Non abbiamo saputo, in questi cinque anni, costruire un sistema capace di autosostenersi e di autoalimentarsi; non abbiamo trovato una terza via. Continuiamo ad attivarci sempre con una grande fatica. Si produce tanto, e anche oggi, dopo due anni di incertezze e difficoltà, ci sono novità e nuovi titoli ogni settimana. Ma il pubblico lo sa? E soprattutto: il pubblico è intenzionato a vedere questi nuovi film? Questo atteggiamento, questo approccio così vago e largo, ha ancora senso? 

Disney e Marvel, e gli altri colossi hollywoodiani, hanno mostrato chiaramente una cosa: il pubblico va al cinema se è convinto, se sa di potersi fidare; se c’è un brand conosciuto e riconosciuto. In Italia siamo riusciti a fare una cosa simile? Il genere, così tanto apprezzato e ricercato, ha avuto il suo spazio?

Il secondo film di Gabriele Mainetti, Freaks Out (2021), non ha ricevuto la giusta attenzione; ci si è mossi tardi, e questo è un fatto. E anche nel ritardo, non è stata trovata una strategia vincente e condivisa. Mainetti ha finito per spingere e per promuovere Freaks Out quasi da solo, con i suoi social. Aiutato unicamente dal comparto digital.

Punto e a capo

Torniamo alla domanda iniziale. Il cinema italiano è cambiato? Se parliamo di intenzioni, di voci, di nuovi autori, assolutamente sì. Ci sono produttori pronti a rischiare, oggi; produttori che hanno visto, o anche solo notato, il potenziale di determinate storie. Ma sono pochi. Si contano, forse, sulle dita di una mano. Matteo Rovere è un esempio. 

Il sistema, di fatto, è rimasto lo stesso. E quindi un nuovo cinema italiano, una rivoluzione, non ci sono mai stati. Siamo ancora in attesa. La nostra industria, in questi anni, non è stata in grado di fare autocritica, di cambiare, di correggere errori strutturali che vengono ripetuti da decenni. A monte, c’è un’idea da grande editore: questo è il film, questa è la data d’uscita; venite al cinema. Purtroppo però questa visione non basta più. Perché il pubblico e i suoi gusti non sono più gli stessi. 

Serve anche un’inclusività diversa, maggiore e ragionata: bisogna dare libertà alle registe e ai registi, alle sceneggiatrici e agli sceneggiatori; bisogna superare gli schemi tradizionali, ed essere pronti – non a rischiare ma – a investire. Ci sono talenti come quelli di Alice Rohrwacher, di Francesca Mazzoleni e di Susanna Nicchiarelli che si stanno facendo largo a forza, spinte dal successo dei loro film e da un apprezzamento internazionale. Non è una questione quantitativa, ma qualitativa: ci sono ancora molte resistenze, anche sotto questo punto di vista, in Italia.

Per molto tempo la colpa della crisi delle sale è stata data allo streaming: è colpa della loro offerta; è colpa del loro modo di fare e farsi pubblicità; è colpa di un catalogo insuperabile. Ma il resto – e quindi i cinema, intesi come strutture fisiche, la promozione e anche il processo di selezione di nuovi progetti – è rimasto perfettamente identico. Davanti alla minaccia dell’estinzione, il nostro istinto di sopravvivenza non ha fatto niente. Siamo in un nuovo mondo, ma abbiamo la stessa mentalità dell’inizio degli anni 2000.

Il nuovo cinema italiano, forse, arriverà: fa parte della natura ciclica delle cose, e anche dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Oppure questa fase verrà completamente saltata, e l’eredità di film come Lo chiamavano Jeeg RobotNon essere cattivoVeloce come il vento e Suburra sarà condannata a rimanere in secondo piano. Diventerà un promemoria per il futuro, e sarà un ricordo con cui consolarsi.

In questo articolo non vengono citati grandi successi commerciali come Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese ed esperimenti come Mine (2016) di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, e nemmeno l’esordio dei fratelli D’Innocenzo (2018). Abbiamo preferito concentrarci su questi quattro film e su questo periodo (2015-2016) non solo per ridurre il campo di indagine, ma pure per rendere più lineare il nostro ragionamento: Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra, Non essere cattivo e Veloce come il vento sono stati apprezzati dalla critica (recensioni positive) e dal pubblico (buoni incassi); sono tutti racconti di genere (con le dovute differenze, come abbiamo già detto) e hanno tutti dato spazio a nuovi talenti – attori, attrici, registi, sceneggiatori – del cinema italiano. Ancora una cosa: per Lo chiamavano Jeeg Robot va segnalato l’importante lavoro fatto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti.