Rachel Aviv

ARTICOLO n. 1 / 2024

SI CIAMA ANORESSEA

Pubblichiamo un’anticipazione da Stranieri a noi stessi (Iperborea, traduzione di Claudia Durastanti), da domani nelle librerie. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Nel reparto anoressia, mi venne assegnata una nuova compagna di stanza, Carrie, una dodicenne dai capelli color paglia. Le chiesi «Pensi che sono strana?» tante di quelle volte che alla fine disse: «Chiedimelo un’altra volta e ti risponderò di sì». Conosceva tutte le infermiere del piano e aveva legato con le altre pazienti. Consideravo lei e la sua amica Hava, che stava nella stanza accanto alla nostra, delle mentori. Hava aveva dodici anni ed era bellissima, con i lineamenti affilati e lunghi capelli castani che non si pettinava mai. Aveva qualcosa di stropicciato e selvatico e mi ricordava le eroine nei libri che parlavano della frontiera americana. Teneva un diario dettagliato del suo soggiorno in ospedale, costellato dal linguaggio terapeutico attraverso il quale stava imparando a capire se stessa. Da osservatrice precoce della realtà intorno a lei, inserì una nota rapsodica dopo avermi conosciuto: «Dio santo ha solo sei anni», scrisse. «Ma guardala!» Proseguiva: «Che possa fidarsi di un adulto e liberare i comportamenti infantili nascosti da qualche parte sotto quel corpo teso e rigido. Scommetto che sta solo aspettando che qualcuno le tenda la mano per afferrarla!»

Anche Hava poteva essere stata eccessivamente influenzata dallo spirito dello Yom Kippur. Frequentava la scuola ebraica ed era terrorizzata, così scriveva nel diario, di non essere «iscritta nel libro della vita», il registro di Dio su quelli che meritano di vivere un altro anno ancora. Si dava la colpa per «non aver raggiunto uno stato di santa perfezione».

C’erano altre somiglianze tra noi: anche i genitori di Hava erano invischiati in un divorzio prolungato e ostile e anche loro schernivano gli amici di famiglia obesi. Prendevano sempre in giro gli Ornstein «chiamandoli Oinkstein», scrisse. Anche lei aveva un’amica come Elizabeth: una ragazzina che non solo ammirava, ma che voleva diventare. Quando giocava a casa dell’amica, secondo il diario, le piaceva immaginare che viveva lì e non sarebbe mai tornata dai suoi. La sua grafia era così simile alla mia che di recente, leggendo alcuni passaggi del suo diario, ho avuto un attimo di smarrimento, convinta di leggere parole mie.

Quando conobbi Hava, stava in ospedale da quasi cinque mesi. Sua madre Gail era andata a incontrare la sua classe di prima media e aveva provato a spiegare la prolungata assenza della figlia. «Anche se Hava è molto magra», disse alla classe, «è convinta di essere molto grassa».

Hava, che pesava quarantacinque chili, sembrava non essere certa che la spiegazione della madre potesse aumentare il suo prestigio a scuola. Nel diario elencò «le cose che vorrei mi piacessero di me stessa», in cui figuravano «la mia personalità», «la mia intelligenza, i miei voti» e «i miei sentimenti». Faceva dei sogni in cui «ho supplicato i miei compagni di scuola e all’improvviso ero completamente capita e accettata».

Nella stanza dei giochi, dove chiunque cercava di prendersi l’unico Pac-Man a disposizione, Hava aveva fatto amicizia con una tredicenne incinta di due gemelli. Quando Hava si era lamentata delle regole ferree sul cibo nel reparto anoressia, la madre della ragazza incinta si era lasciata sfuggire che poteva bruciare le calorie con l’esercizio fisico. «È stata lei a convincermi che stasera mi metterò a saltare».

Avevo una venerazione per l’amicizia tra Hava e Carrie, che si consolidava attorno a obiettivi comuni. «Carrie e io ci siamo confrontate le ossa, la pelle, il colore e la magrezza», scriveva Hava. «Se Carrie non fosse qui non so dove sarei finita!» Sembravano affrontare insieme cicli di perdita e aumento di peso. Quando il peso era in risalita, le infermiere davano loro il permesso di visitare il reparto ostetricia e parto, dove Hava e Carrie si mettevano a guardare i neonati. Alcuni avevano «aghi e tutto il resto conficcati dentro, mi ha fatto sentire molto grata», scrisse Hava. 

«Vorrei solo che fosse più facile mangiare senza sentirmi in colpa». Quando le infermiere non guardavano, Hava e Carrie percorrevano i corridoi di corsa finché Hava faticava a respirare; si offrivano anche come volontarie per portare i vassoi dei pasti agli altri pazienti: «Il mio esercizio del giorno», c’era scritto sul diario di Hava.

Non sapevo che l’esercizio avesse a che fare col peso corporeo, ma la sera iniziai a fare salti da ferma con Carrie e Hava. Non mi davo più il permesso di sedermi, in modo da non essere un «sacco di patate», come dicevano loro. Le infermiere facevano il giro delle stanze del reparto anoressia con un carrellino pieno di romanzi young adult. Dopo il mio arrivo iniziarono a includere libri per lettori più giovani, come Gli orsi Berenstain, i libri sul cane Clifford e quelli di Mr. Men e Little Miss, compreso Mr. Strong, un libro su un uomo che mangiava otto uova in camicia per colazione, un dettaglio che mi sembrava mostruoso. Imparai a leggere nella mia stanza di ospedale stando in piedi. Quando entravano le infermiere, mettevo alla prova la mia nuova capacità legando le cinque o sei lettere che vedevo sui loro tesserini.

Le ragazze più grandi sembravano considerarmi una specie di mascotte, un’anoressica in divenire. Le mie idee sul cibo e il corpo erano persino più magiche delle loro. Mangiavo un bagel, ma rifiutavo una piccola ciotola di Cheerios: una O gigante era preferibile a trecento O piccole. Quando Hava e Carrie mi permettevano di guardarle mentre giocavano a Go Fish, volevo sapere (ma mi vergognavo a chiederlo) a quale pesce si stavano riferendo: un pesce nell’oceano?

O uno cotto su un piatto? Non capivo che i pesci nell’oceano diventavano quelli cotti nel piatto e, se intendevano questi ultimi, non volevo avere nulla a che fare con quel gioco. Non riuscivo a stare al passo con Hava e Carrie, che parlavano del loro peso non solo in chili ma anche in grammi. Anche se ha fama di essere un disturbo di lettura, forse l’anoressia riguarda anche la matematica. Quando era anoressica, Mukai, l’accademica giapponese, ricordava di essere entrata in un mondo «numerato», dove «tutto veniva concepito in termini di metri, centimetri, chili, calorie, tempi e così via». Scrisse: «Non condividevo più la cultura, né la realtà sociale, e neanche il linguaggio degli altri. Vivevo in una realtà sigillata in cui le cose avevano senso per me, ma per me soltanto».

Non ero abbastanza sofisticata per la matematica richiesta dalla malattia, ma ero attratta dal modo in cui Hava e Carrie avevano adottato un nuovo sistema di valori, un modo sconosciuto di interpretare le sensazioni fisiche per dare loro un significato. Ogni volta che arrivava una nuova paziente nel nostro reparto, Hava annotava l’altezza e il peso della ragazza sul suo diario. «Devo aspettare che la mia smania di cibo si esaurisca e provare l’esaltazione del successo. L’esaltazione è fantastica». Era come se stesse disciplinando il proprio corpo per un proposito superiore che non nominava mai.

Nel saggio del 1995 The Ascetic Anorexic, l’antropologa Nonja Peters, che era anoressica, suggerisce che la malattia si rivela in fasi distinte: all’inizio la persona anoressica è attivata dalle stesse forze culturali che ispirano le donne a mettersi a dieta. Il processo può essere istigato da un commento banale. Mukai decise di mettersi a dieta dopo aver chiesto a sua madre se da grande sarebbe diventata grassa come la nonna. «Forse sì», le aveva risposto la madre. Mukai si era fissata su quel commento, anche se sapeva che la madre «stava ridendo. Stava scherzando. Lo sapevo». 

Nel suo diario, Hava aveva descritto il momento cruciale, quando un’amica l’aveva definita «di taglia media». I genitori di Hava l’avevano spronata a non ascoltare le amiche, ma lei aveva scritto: «Se pensano che sono grassa allora sono grassa». 

Alla fine, una decisione impulsiva guadagna impeto e diventa sempre più difficile tornare indietro. «Una volta intrapreso il sentiero ascetico, il comportamento ascetico produce motivazioni ascetiche, non il contrario», scrive Peters.

Diversi accademici hanno studiato i parallelismi tra anoressia nervosa e anoressia mirabilis, una condizione tipica del Medioevo in cui giovani donne religiose si astenevano dal cibo affamandosi, un modo per liberare lo spirito dal corpo e diventare una cosa sola con la sofferenza di Cristo. Questa perdita di appetito, si diceva, era un miracolo. I loro corpi diventavano un simbolo così potente di fede e purezza che le donne facevano fatica a riprendere a mangiare, anche quando le loro vite erano a rischio. Lo storico Rudolph Bell ha definito questa condizione «santa anoressia», giungendo alla conclusione che quelle donne avessero una malattia. Ma sembra vera anche l’argomentazione contraria: l’anoressia può dare la sensazione di essere una pratica spirituale, un modo distorto di rintracciare un sé più alto. Il filosofo francese René Girard descrive l’anoressia come qualcosa di radicato «nel desiderio non di essere santa, ma di essere percepita come tale».

Scrive: «C’è molta ironia nel fatto che il processo moderno di scacciare via la religione ne stia producendo infinite caricature.» Una volta stabilita la rotta, è difficile cambiare le regole d’ingaggio. In un diario che tenevo in seconda elementare scrissi: «Avevo una cosa che era una malatia si ciama anoressea». Spiegavo che «avevo l’anoressea perchévoglio essere qualcuno migliore di me».