Alice Urciuolo

ARTICOLO n. 22 / 2022

LO STILE DELL’ABUSO

Intervista a Raffaella Scarpa

Parlare di violenza psicologica è tanto arduo quanto inafferrabile sembra il concetto stesso di violenza psicologica. La violenza fisica possiamo vederla, è tangibile, lascia dei segni spesso molto chiari, ma da dove iniziare invece a parlare di qualcosa che, come la violenza psicologica, non si vede, non si tocca? Come riconoscerla, come dimostrarla, come, inoltre, essere sicuri di averla subita? Sono queste domande apparentemente senza risposta che spingono la protagonista della serie Maid (Netflix) a dire alla prima assistente sociale con cui si interfaccia che lei, a differenza di altre donne, non è vittima di violenza e quindi non ha diritto ad usufruire del loro aiuto, semplicemente perché il suo compagno non l’ha mai picchiata. La consuetudine di identificare l’intero fenomeno della violenza domestica con la violenza fisica è uno dei motivi per cui il concetto di violenza psicologica ci appare così sconosciuto: è qualcosa che non abbiamo mai studiato, che non abbiamo mai imparato a riconoscere e a nominare. Eppure, in un contesto di violenza domestica, è proprio il linguaggio lo strumento fondamentale attraverso cui l’abusante riduce e mantiene la vittima in uno stato di soggezione e subordinazione.

Per vent’anni Raffaella Scarpa, docente di Linguistica italiana e Linguistica medica e clinica presso l’Università di Torino, ha raccolto testimonianze dirette sia da parte di donne abusate che da parte di uomini abusanti, e ha messo al centro dell’analisi proprio il linguaggio. Il risultato di questa grande ricerca è Lo stile dell’abusoViolenza domestica e linguaggio, edito da Treccani nel settembre del 2021. Un lavoro acuto e potente, in cui Scarpa ridefinisce il concetto di violenza domestica elaborando nuove categorie interpretative, ne illustra i meccanismi, e descrive per la prima volta in modo approfondito il complesso sistema linguistico che ne sta alla base. Perché in questo caso l’analisi linguistica, dato che «nello stile si deposita ciò che il soggetto non sa di voler esprimere o che non vuole che si sappia che sta esprimendo»altro non è che una vera e propria macchina della verità. 

Per anni ho cercato un libro che parlasse di dinamiche di potere all’interno della coppia e mettesse al centro il linguaggio: non l’ho mai trovato, non esisteva ancora, né in Italia né fuori dall’Italia. Oltre che per l’ingegno, la precisione e la ricchezza del lavoro di analisi svolto da Scarpa, credo che anche per questa sua assoluta novità Lo stile dell’abuso sia un libro fondamentale e un vero evento nel nostro panorama editoriale.

A.U. Per introdurre Lo stile dell’abuso vorrei partire dalla dedica che si trova alla fine della premessa: «Dedico questo libro a chi non sa riconoscere l’intollerabile».

R.S. È la frase che mi è costata più impegno nella formulazione. La percezione del limite della tollerabilità, della giustezza del tollerabile. Non di quello che ciascuno di noi può sopportare, perché lì l’asticella si alza all’infinito: noi abbiamo una soglia altissima, se non esponenzialmente infinita di sopportazione e di «normalizzazione» di ciò che ci accade, nel senso che il male non viene riconosciuto come tale. 

Viene spesso ribadito come aiutare le donne a denunciare, come seguirle nel percorso di riabilitazione, ma questi sono problemi secondari in ordine cronologico, la questione che va affrontata prima di tutte con la vittima è: portare alla luce ciò che è vero. Il primo problema della violenza domestica è la cosidetta «egosintonia»: chi subisce questa condizione spesso non riesce, anche se si è esposti a violenze che non sono soltanto psicologiche, ma a vere e proprie torture fisiche quotidiane, ad autopercepirsi come vittima di violenza domestica, etichetta attraverso la quale ci parliamo. E lo strumento che disarticola la nostra capacità di percepire uno stato di volenza subìta è proprio la lingua.

Per me è una questione di militanza attiva rispetto a questo tema denunciare a chiare lettere e sempre che se una persona non è in grado di distinguere ciò che sta subendo è il linguaggio che crea le condizioni di induzione alla dispercezione, induzione all’incapacità di giudizio, induzione all’incapacità d’azione, induzione all’incapacità di parola, che sono le condizioni tipiche della violenza domestica. 

Quante volte abbiamo sentito dire: «ma se sei stata in una condizione del genere in qualche modo ti andava bene», oppure: «allora sei masochista»? Ecco, no: non c’entra il masochismo, non c’entra il rapporto diabolico tra persecutore e vittima, non c’entra nulla: tu vittima non ti rendi conto di ritrovarti in quella situazione, e proprio il linguaggio genera le precondizioni che consentono a una persona di stare nella più innaturale delle condizioni possibili. 

A.U. È molto arduo far capire che quando si denuncia un comportamento abusivo a distanza di tempo ciò non è dovuto al fatto che fino a quel momento «ti andava bene così», ma perché quel tempo trascorso è servito alla vittima per rendersi conto della condizione di assoggettamento psicologico in cui si trovava. Una delle caratteristiche della manipolazione, appunto, è proprio il fatto che la vittima non riesca a rendersi conto di essere manipolata. E in una condizione del genere è molto facile non riuscire più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Penso al romanzo che citi ne Lo stile dell’abusoIl quinto angolo, in cui la protagonista in una cella della Lubjanka veniva costretta dai suoi persecutori a trovare fino alla morte il quinto angolo di una stanza quadrangolare. 

R.S. Non sono mai stata troppo convinta che la definizione «violenza domestica» veicoli i giusti contenuti, perché la violenza è un fenomeno sovraevidente: te ne accorgi, la vedi. Come dice René Girard, l’espressione di un uomo arrabbiato e di un gatto arrabbiato si somigliano, non c’è niente di più evidente di una postura aggressiva o di un’azione violenta. La violenza domestica invece non è violenza nella maniera in cui siamo culturalmente abituati a concepirla e a percepirla, ma è molto più vicina a mio parere a quello che è un protocollo di tortura. L’esempio che citavi è una delle classiche procedure di tortura che avvenivano nella Lubjanka, questo cercare il quinto angolo di una stanza quadrangolare è effettivamente una coercizione alla dispercezione: da un certo punto in poi si innesta e tu non puoi più risalire la china. L’altro fenomeno molto vicino e che spiega i meccanismi della violenza domestica è proprio lo stadio d’assedio. La violenza domestica a mio parere è una forma speciale di tortura innestata in una sorta di stato d’assedio, cioè essere perimetrati e circondati ed essere torturati in uno spazio chiuso. 

A.U. Come citato nel tuo libro, il potere consiste nel fondare una realtà – che poi questa realtà non corrisponda alla verità dei fatti poco importa. Voglio partire da qui per parlare di una questione fondamentale che tu discuti all’inizio del tuo lavoro, e che fa da base a tutta l’analisi stilistica successiva: la differenza tra violenza e potere. Scrivi che si possono individuare due motivi principali per cui non si parla di violenza psicologica: il primo è la consuetudine di identificare l’intero fenomeno della violenza domestica con la violenza fisica, il secondo è la sottostima del potere del linguaggio all’interno di una relazione abusante. Ma violenza e potere sono due cose molto diverse. Come dice Hannah Arendt in una frase da te citata: «La violenza può distruggere il potere, è assolutamente incapace di crearlo». 

R.S. Questo è uno studio che in qualche modo ha avuto bisogno di rifondare i concetti, perché culturalmente quello che noi autorappresentiamo come violenza domestica non corrisponde al fenomeno, se non in maniera limitata, riduttiva e deviante. Mentre la categoria del potere, che di per sé ha una natura più sottotraccia, meno sovraevidente, per una serie di ragioni ne spiega meglio le dinamiche: in primo luogo perché può non essere scoperto, può essere agito e allo stesso tempo può non essere chiaramente interpretabile come tale, a differenza del gesto violento, che all’unanimità viene riconosciuto come tale. In secondo luogo perché, come diceva Foucault, il potere fonda sistemi di verità, non è detto che governi o assoggetti apertamente. Quindi dire che una cosa è vera, è accaduta e capiterà, è esercitare una forma di potere. Quando questo raggiunge dimensioni ipertrofiche, e nel linguaggio si decriptano tutti questi meccanismi formali che mirano a creare verità fittizie e decostruzioni delle stesse realtà, si capisce perfettamente che potere, linguaggio e violenza sono strettamente collegati. Il primo concetto fondamentale è quindi quello di potere come costruzione di verità, il secondo invece deriva da Deleuze, e forse ed è una delle affermazioni segnavia che stanno all’origine di questo libro, e dice: «il potere è ciò che divide una persona da ciò che può». La violenza domestica non vuole fare altro che dividere la donna, visto che parliamo di questo tipo di violenza domestica, da ciò che può fare, cioè da tutta la potenzialità del suo agire, del suo pensare, del suo essere, della sua identità. Questo vuol dire annientare, far sparire: uccidere, né più né meno. Ecco perché almeno per queste due ragioni la categoria di potere mi sembrava molto più adatta e produttiva rispetto a quella di violenza. 

A.U. L’analisi linguistica da te svolta parte da testimonianze dirette raccolte nell’arco di ben 20 anni. Hai seguito 27 persone tra uomini maltrattanti e donne maltrattate, tutti all’interno dello statuto del matrimonio o della convivenza, tutti quindi accomunati dalla condivisione di uno stesso luogo fisico – la casa – alcuni avevano figli, altri no. Hai voluto seguirli in una veste extraistituzionale, perché le loro testimonianze venissero alterate il meno possibile dal filtro formale, perché ti parlassero come a una confidente. Com’è nato questo lavoro e come si è svolto?

R.S. La raccolta dei dati è stata complessa. Questa ricerca è nata quando anni fa ho conosciuto una coppia. In quel periodo studiavo metrica, il ritmo della poesia e il valore delle pause e dei silenzi nel testo poetico, quindi avevo un orecchio ben allenato, e la relazione verbale di questa coppia aveva qualche cosa che non mi tornava. Nulla di atipico, semplicemente c’era qualcosa che all’orecchio stonava. Poi da lì la frequentazione è andata avanti, e io ho capito che con tutta evidenza ci trovavamo in un contesto di violenza domestica, poi questo è stato evidente a tutti. Da lì è iniziata la mia ricerca su questo fenomeno così sui generis proprio rispetto al linguaggio, e sono passata al secondo caso, poi al terzo caso e così via. Il lavoro è stato molto lento, sono andata per tentativi, a volte un avvocato mi suggeriva dei casi interessanti, e io entravo in contatto con la coppia in veste di persona interessata a comprendere il fenomeno, anche gli uomini e le donne che hanno scelto di collaborare con me lo hanno fatto come persone che pensavano fosse importante guardare più da vicino il fenomeno. C’è voluto tanto tempo anche perché ogni persona aveva bisogno di un settingspecifico: c’era chi parlava bene in un bar, chi in una stanza chiusa e così via. Inutile dirlo: sono le persone che hanno fatto essere questo libro quello che è, donando materiale come registrazioni, email e messaggi nel contesto della violenza e non a denuncia avvenuta e a storia finita. Prima che una donna spaventata accenda un registratore durante una lite, prima che validi il suo uso per l’analisi linguistica e prima che il compagno lo validi a sua volta, perché devono essere in due a pensare che quello che stanno facendo sia una buona causa, il tempo passa.

A.U. Mi ha colpito notare come non tutte le donne che hanno scelto di collaborare alla tua ricerca fossero a un livello di comprensione profonda di quello che stava succedendo. A volte sembrano ancora in una fase di negazione, e nonostante questo hanno scelto di testimoniare.

R.S. Sì, molte si trovavano ancora nella situazione della violenza, altre ne erano fuori, alcune lavoravano alla raccolta dei testi con il compagno, altre invece no, altre ancora avevano denunciato e poi si erano ricongiunte al compagno. Perché, e questo per me è molto importante dirlo, come non bisogna mai parlare di amore quando si parla di violenza domestica, allo stesso modo non bisogna mai parlare di patologia quando si parla di violenza domestica. Patologizzare significa relegare un fenomeno nell’eccezionalità e accettare che possa essere non completamente compreso proprio perché è una malattia.  Non c’è nulla di patologico nell’incastro tra abusante e abusato, e soprattutto le dinamiche devono essere comprese a fondo, spiegate, illustrate senza trascurare che il legame tra queste due persone è un legame comunque molto forte e non si può ridurre tutto a «uno è un mostro e un altro è una vittima», se procediamo in quella direzione non si va da nessuna parte, non si comprende nulla, e se non si comprende non si può neanche combattere.

A.U. Nonostante questo fenomeno ci appaia inafferrabile, sembra che ci siano delle tappe obbligatorie e comuni in queste relazioni, sia dal punto di vista della storia della coppia che dal punto di vista linguistico. Tutte queste relazioni, ad esempio, iniziano con una fase di love bombing. E quando finiscono sembrano sempre lasciare alla vittima un senso di smarrimento: «come è possibile che sia successa questa cosa?», direi che è questa la domanda che si pongono tutte le donne vittime di violenza psicologica. Segue poi un fortissimo senso di spersonalizzazione, una crisi d’identità, il non sapere più chi si è. Una testimonianza presente ne Lo stile dell’abuso dice: «Per prima cosa sono andata al supermercato. Per mesi, mentre spingevo quel carrello che solo lui poteva decidere come riempire ho fantasticato su tutto ciò che avrei comprato io, nella mia nuova vita. Ma oggi non sapevo più cosa volevo».

R.S. L’opera di riabilitazione alla fine di una storia in cui c’è stata violenza psicologica è un processo molto lento, è come riacquisire la mappa del reale, iniziare a distinguere il vero dal falso, il giusto da ciò che è sbagliato. In un contesto del genere il concetto di: «io posso ancora comprare un vestito e sapere quello che voglio» non è affatto scontato. Non è affatto scontato se fino a poco tempo fa il silenzio è stata la mia dimensione, ma non il silenzio del segreto, il silenzio di chi non ha più una lingua, come diceva Michel de Certeau. Perché l’obiettivo del torturatore è proprio quello di espropriare la vittima dalla propria lingua. E poi c’è il senso di colpa, ciò che si pensa è: se io non sono stata in grado di riconoscere la natura di quella persona che diceva di amarmi e di cui io mi fidavo ciecamente, in che cosa io posso ancora avere fiducia rispetto alle mie capacità di lettura del mondo? Una delle testimonianze ne Lo stile dell’abuso dice: «Se incontri animali simili, se incontri un mostro non puoi più fidarti neppure della tua ombra perché tutti possono trasformarsi da un momento all’altro in qualcosa che non ti aspetteresti mai». E questo tipo di spaesamento è difficile da compensare. Un’altra donna nel libro dice: «Una sera […] l’uomo che ora mi sta a fianco, ha usato un’espressione del mio ex marito. Ho rimosso quelle parole. Non sono riuscita più a portare avanti la conversazione, lì sul divano sono diventata di nuovo di pietra. I fantasmi sono usciti dai muri. Mi si è stretto un groppo in gola e non sono più riuscita a spiccicare una parola».

A.U. Tu scrivi: «Lo stile dell’abuso può essere descritto come un sistema linguistico a più direttrici che operano di concerto, in sinergia». E ne individui sei: Costruzione del soggetto, Decostruzione del soggetto; Creazione di realtà, Interdizione del soggetto; Accerchiamento, Autorappresentazione. Vuoi provare a sintetizzarle?

R.S. L’analisi stilistica è uno strumento di forte decriptazione, di svelamento, come si diceva, è una macchina della verità. Le direttrici stilistiche attraverso le quali ho provato a descrivere il sistema del discorso abusante rendono sovraevidente che il presupposto in funzione del quale tutta questa mostruosità può avvenire è di tipo linguistico. Lo stile dell’abuso è un sistema linguistico stilistico complesso perché organizzato su sei direttrici. Importate è comprendere il meccanismo alla base. Le prime due sono, dal punto di vista stilistico, straordinariamente interessanti. Dico stilisticamente perché lo stile è appunto ciò che lega l’istanza profonda del soggetto all’epifenomeno linguistico, perché nello stile si deposita ciò che il soggetto non sa di voler esprimere o che non vuole che si sappia che sta esprimendo, quindi è in questo senso che l’analisi linguistica è una mappa della verità. 

Le prime due sono appunto la Costruzione del soggetto e la Decostruzione del soggetto. Immaginate dal punto di vista strettamente linguistico uno spettro di fenomeni, di stilemi: l’uso di determinate parti verbali, l’uso di determinati aggettivi, l’uso dei superlativi, l’uso delle parti pronominali. È interessante notare quanto l’abusante usi i pronomi «io» e «tu» ma non usi «noi». È strano, perché in una dimensione fusionale si immaginerebbe un uso predominante del noi, ma il noi è anche fortemente depotenziante, perché le due unità per essere l’una al servizio dell’altra devono rimanere divise. E poi ricorre l’uso di «loro», che incarna il resto del mondo che non può comprendere, che è nemico, che è ostile ed estraneo.

Nella fase di costruzione l’abusante come un demiurgo dice all’abusata chi è. Frasi tipiche di questa fase sono: «Te lo dico io chi sei tu», «Solo io ti conosco veramente», «Solo io so chi sei». A latere, voglio dire che l’attribuzione di un’identità all’abusata da parte dell’abusante è tipica delle prima fasi, ma se vogliamo è tipica delle prime fasi dell’innamoramento in generale, ecco perché bisogna fare molta attenzione: lo stile del discorso abusante è da leggere nella complessità di tutte queste direttrici che agiscono di concerto. 

Dopo che l’abusante ha fidelizzato la vittima e si è garantito pienamente la sua fiducia, ecco che subentra la seconda fase, quella di decostruzione. In cui, ad esempio, l’uomo che ti ha detto che sei la persona più capace di questo mondo ti dice che allo stesso tempo sei anche la più impacciata e la più inadeguata, l’uomo che ti ha detto che sei la cuoca più straordinaria ti dice anche che fa veramente schifo quello che hai fatto stasera, e così via. Rispetto a questo «sei» e «non sei» le capacità di autopercezione di sé iniziano a traballare, ed è un meccanismo molto semplice da innestare – ripeto, basti leggere i manuali desecretati dei protocolli di addestramento dei torturatori: uno dei primi indirizzi è quello di dire e disdire, in questo modo si abbassa straordinariamente la soglia di capacità di lettura dei dati reali del torturato.

Il terzo movimento è quello della creazione di realtà: l’abusante inizia a raccontare cose non vere che sono accadute o a raccontare cose riformulate in una direzione diversa, rispetto al passato, al presente e al futuro (gaslighting), e con una dovizia di particolari che soltanto una menzogna consente, perché le grandi costruzioni fittizie sono sempre straordinariamente precise nel dettaglio, sempre.

Il quarto movimento è l’interdizione del soggetto attraverso dei confronti verbali che altro non sono che trappole, perché, se decriptato linguisticamente, il discorso dell’abusante si rivela costruito esclusivamente su fallacie argomentative, cioè quelle cose che da Aristotele in avanti ci è stato detto essere argomentazioni mendaci, finte argomentazioni. Difatti non c’è nulla di più impermeabile alla dialettica del linguaggio abusante, con il discorso di abuso non si può entrare in rapporto di dialogo. È tipico dell’abusante trascinare la donna abusata in discussioni infinite ed estenuanti, una mossa che in realtà non ha altro scopo se non quello di rendere completamente inutile e frustrante il rapporto dialettico stesso: non esiste un progetto di scambio, non esiste il «noi» come pronome personale, e l’impossibilità dello scambio dialettico è garantito dal fatto che tutto il discorso è semplicemente fallace. «Io ero chiusa in quel labirinto di parole», dice una delle vittime.

Il quinto movimento è l’accerchiamento: si dice spesso che la violenza domestica sia una gigantesca strategia di controllo. Io penso che sia invece più vicina all’accerchiamento, ovvero che la lingua si comporti in modo che la donna abusata viva nella continua sensazione non di essere semplicemente controllata, ma di essere circondata e chiusa in un perimetro da cui non può scappare, con la perenne minaccia di irruzione, resa da espressioni come «sono sempre lì», «sto per arrivare», «è come se fossi lì».

Il sesto movimento è l’autorappresentazione, una modalità di autonarrazione dell’abusante che si rappresenta invariabilmente come la vittima nella relazione. La strategia linguistica che media questa resa di immagine è più sottile della semplice autovittimizzazione, è piuttosto una dismissione totale di qualsiasi responsabilità nella relazione d’abuso accompagnata da una minimizzazione dei gesti e dei fatti.