ARTICOLO n. 70 / 2021

STORIA DEL TEST DI VERGINITÀ

traduzione di Alice Guareschi

Nel 2017, i ricercatori dell’Università del Minnesota hanno pubblicato una sistematica revisione di tutte le ricerche peer-reviewed disponibili sull’affidabilità dei cosiddetti «test di verginità» in cui viene esaminato l’imene, e anche sull’impatto che hanno sulla persona che viene esaminata. Il gruppo di lavoro ha identificato 1269 studi. Le testimonianze sono state ricapitolate e valutate, per giungere a questa conclusione:

Lo studio ha scoperto che l’esame di verginità, conosciuto anche come delle «due dita», dell’imene, o esame per-vaginale, non è uno strumento clinico utile, e può essere fisicamente, psicologicamente e socialmente devastante per l’esaminata. Dal punto di vista dei diritti umani, il test di verginità è una forma di discriminazione di genere, così come una violazione dei diritti fondamentali, e, quando eseguito senza consenso, una forma di aggressione sessuale.

L’anno seguente, nel 2018, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile hanno diffuso una dichiarazione che chiedeva la soppressione dei test di verginità. Il comunicato affermava che «il “test di verginità” è una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne, e che può incidere in modo negativo sul loro benessere fisico, psicologico e sociale. Il “test di verginità” consolida concetti stereotipati rispetto alla sessualità femminile e alla diseguaglianza di genere». Non esistono test di verginità attendibili. Si può dire se uno ha fatto sesso guardando tra le sue gambe, quanto si può dire se uno è vegetariano guardando il suo ombelico. Ciò nonostante, il fatto che la verginità non possa essere provata, testata o localizzata nel corpo non ha scoraggiato la gente dal sostenere il contrario.

Oggi, purtroppo, la verginità di una donna è ancora altamente quotata in giro per il mondo, il che ha portato, di conseguenza, alla creazione di dannosi rituali legati al mantenimento e alla prova della purezza sessuale, tuttora in vigore ai giorni nostri. Di solito questi test comportano la ricerca dell’imene intatto, o quello che è conosciuto come il «test delle due dita», cioè la verifica della strettezza vaginale. Questa pratica è stata segnalata in molti paesi, tra cui Afghanistan, Bangladesh, Egitto, India, Indonesia, Iran, Giordania, Palestina, Sudafrica, Sri Lanka, Swaziland, Turchia e Uganda. Il fgm National Clinic Group afferma che la mutilazione genitale femminile viene considerata «un mezzo per preservare la verginità di una ragazza fino al matrimonio (per esempio in Sudan, Egitto e Somalia). In molti di questi paesi, la mgf è vista come un prerequisito per il matrimonio, e il matrimonio è vitale per la sopravvivenza sociale ed economica di una donna». L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, su scala globale, duecento milioni di ragazze siano state sottoposte a mutilazione genitale, in buona parte per preservare la loro verginità fino al matrimonio.

L’idea della purezza sessuale femminile come prerequisito per il matrimonio sta alla base di molte culture e religioni nel mondo. In Indonesia, ad esempio, il test di verginità rimane un requisito per le donne che vogliono arruolarsi nell’esercito o nelle forze di polizia. In tutta America vengono organizzati i cosiddetti «Balli della purezza», dove i padri portano le proprie figlie adolescenti a un «appuntamento»; la ragazza si impegna a rimanere vergine fino al matrimonio, e il padre, a sua volta, si impegna a proteggere la verginità di sua figlia fino a che non si sarà sposata (presumibilmente con un fucile e un qualche tipo di sistema d’allarme). Le donne possono ora farsi ricostruire l’imene per il mercato matrimoniale, e il business dell’imenoplastica va a gonfie vele. Nel 2016, la provincia sudafricana del KwaZulu-Natal ha introdotto una borsa di studio accademica per giovani donne che possono provare di essere vergini. E, nel 2017, il Comitato Investigativo russo e il ministro della salute, Vladimir Shuldyakov, hanno suscitato una grande indignazione ordinando ai medici di eseguire il «test di verginità» sulle studentesse, e di segnalare alle autorità chiunque venisse trovata senza imene.

Non solo la verginità è impossibile da provare, è anche piuttosto difficile da definire. Sembrerebbe molto semplice capire cosa sia, ma la certezza non regge poi così bene quando si comincia a titillarla un po’. Per essere più chiari, definire cosa vuol dire fare sesso per la prima volta può risultare più complicato del previsto. Se due ragazze fanno sesso, perdono la loro verginità? E se usano un dildo strap-on? Se una coppia eterosessuale colpisce la prima, la seconda e la terza base, ma viene eliminata alla quarta, in un caos sudato e soddisfatto, i due sono ancora vergini? Si può perdere la verginità da soli? Il rapporto deve per forza implicare una penetrazione pene-vagina? Se sì, questo esclude i rapporti omossessuali? Il gay pride è davvero un raduno di massa di vergini? E se una coppia eterosessuale fa solo sesso anale? Lui perde la sua verginità, ma tecnicamente lei conserva la sua?

Nonostante le numerose ricerche sull’argomento, l’imene è tuttora circondato da molte leggende. Ancora oggi la gente crede che fare ginnastica e andare a cavallo possano provocarne la rottura (non è vero), e fino alla fine degli anni ‘90 Tampax non ha smesso di rassicurare le giovani donne sul fatto che un assorbente interno non avrebbe «colto il loro frutto» (1988).

Persino il linguaggio che circonda la verginità è tendenzioso. Il concetto stesso di «perdere» o «conservare» la propria verginità suggerisce che, una volta persa, a noi tutti mancherà qualcosa e non saremo più interi. Suggerisce anche che la verginità è qualcosa di tangibile che è stato nostro sin dall’inizio. In senso metaforico, si può «dare» a qualcuno la propria V-card, ma questo non vuol dire che uno può appendersela sopra al caminetto di casa, o rivenderla su ebay (anche se molte donne in realtà ci hanno provato). 

Il concetto di verginità è innegabilmente legato al genere, e la ragione per cui pensiamo di sapere cosa vogliamo dire quando parliamo di «perdere» quel suddetto «frutto» (1933) è perché inconsciamente assumiamo che la verginità sia legata al sesso pene-in-vagina. Ecco cosa si intende per «eterosessualità obbligata». Questo non vuol dire che l’eterosessualità sia obbligatoria nel vero senso della parola, ma che i nostri copioni culturali relativi alla sessualità si concentrano di più sul sesso eterosessuale che su qualsiasi altro tipo di sesso: è diventato la nostra «normalità». Ora, non c’è dubbio che questo sia un privilegio cisgender, ma è il risultato di migliaia di anni di condizionamenti culturali. È solo grazie allo straordinario lavoro svolto negli ultimi cinquant’anni dagli attivisti lgbtq se abbiamo iniziato a creare uno spazio per discutere forme alternative al sesso uomo-donna. Ma c’è ancora molta strada da fare.

Quando qualcuno si preoccupa della verginità, quasi sempre si tratta della verginità di una donna. La stessa parola «vergine» viene dal latino virgo, che significa ragazza o donna non sposata. I ragazzi e gli uomini non sono mai stati valutati in base al loro status di vergini come succede invece alle donne. In vari momenti della storia, le donne sono state ripudiate, imprigionate, multate, mutilate, frustate e persino uccise come punizione per aver perso la verginità al di fuori del matrimonio, mentre sui quarantenni maschi vergini vengono fatti dei filmetti comici.

La ragione per cui la verginità femminile, e non quella maschile, è stata così rigidamente punita è oggetto di qualche dibattito, ma alla fine probabilmente è solo una questione di eredità paterna. Non è giusto, eppure nel mondo pre-pillola la gravidanza fuori dal matrimonio era un problema fisico e finanziario molto più impellente per la madre che per il padre; di conseguenza, erano gli intrallazzi di lei a venire controllati, piuttosto che quelli di lui. Ma non solo: in una società paternalista, dove ricchezza e potere vengono tramandati per linea maschile, la castità femminile è fortemente sorvegliata per garantire una discendenza legittima, e perché i beni terreni di tua proprietà passino ai tuoi figli (e non a quelli del lattaio). Questa teoria ha un certo peso se si considera che nelle poche società matriarcali in giro per il mondo, la ricchezza si trasmette per linea femminile. In queste culture, la sessualità femminile è guardata in modo molto diverso.

Oggi, la prova più famosa del test di verginità è il sangue prodotto dalla rottura dell’imene. Ma i nostri antenati non usavano neanche la parola «imene», e di certo per trovarne uno non andavano a frugare all’interno delle vagine come se stessero scavando alla ricerca di un tesoro. I testi di medicina, infatti, cominciano a parlare di imene solo nel xvsecolo. Nessuno dei medici classici (Galeno e Aristotele, per esempio) ne fa menzione. Il medico greco Sorano suggerisce che ogni sanguinamento vaginale post-coito è il risultato dello scoppio di vasi sanguigni, e nega categoricamente ogni tipo di membrana all’interno della vagina. Molti testi antichi riconoscono che le vergini possono sanguinare quando fanno sesso per la prima volta, ma la cosa non veniva ricollegata all’imene. Al contrario, si pensava che il sanguinamento fosse provocato dal trauma della penetrazione del pene e non bastasse come prova di verginità. È stato il medico italiano Michele Savonarola, nel 1498, ad usare per primo la parola imene, descrivendolo come una membrana che «viene rotta nel momento dello sverginamento, così che fuoriesce del sangue». Da questo momento in poi, i riferimenti all’imene e al suo legame con la verginità diventano sempre più comuni. Ma il fatto che i nostri antenati non verificassero l’integrità dell’imene non significa però che la verginità non fosse soggetta a test rigorosi, prima che l’imene diventasse il parametro di riferimento della manomissione.

Le più antiche vergini dell’antichità sono le vergini vestali romane, sacerdotesse consacrate a Vesta, la dea della terra e della famiglia. Scelte in giovane età, dovevano dedicare trent’anni di preghiera e castità alla città di Roma e prendersi cura della fiamma del tempio di Vesta; se una vestale aveva rapporti sessuali, per punizione veniva sepolta viva e lasciata morire di fame. Come verificare quindi la verginità di una vestale? Bene, entra in gioco qualche preghiera. Si credeva che le sacerdotesse avessero un legame speciale con gli dei, così quando la vestale Tuccia venne accusata, le fu data l’opportunità di compiere un miracolo per provare che era ancora vergine. Secondo Valerio Massimo, Tuccia provò la propria verginità trasportando dell’acqua in un setaccio, invocando la dea: «Vesta, se ho sempre accostato mani pure ai tuoi sacri corredi, ottieni che con questo crivello attinga acqua al Tevere e la porti al tuo tempio». Da allora il setaccio è diventato un simbolo di verginità, tanto che la regina Elisabetta I è stata spesso ritratta con un crivello in mano, a simboleggiare che nessuno aveva mai dato un morso alla sua ciambelletta con ciliegia. Ma nel caso non aveste avuto un setaccio a portata di mano, c’erano altri test di verginità a vostra disposizione — bastava avere un serpente, qualche formica e una torta. Lo scrittore romano Eliano (175–235 d.C.) descrive un rituale per verificare la verginità che si svolgeva nei giorni sacri:

Nel bosco vi è una tana vasta e profonda, dove dimora un mostruoso serpente. In determinati giorni dell’anno entrano nel bosco delle giovinette ancora vergini, che recano nelle mani una focaccia e hanno gli occhi bendati. Le conduce direttamente alla tana di questo mostro uno spirito divino; esse avanzano passo passo, senza inciampare, come se avessero gli occhi scoperti. Se sono veramente illibate, il serpente accetta le loro offerte di cibo, poiché le ritiene pure e adatte a un animale prediletto dagli dei. Altrimenti i cibi restano intatti, perché esso conosce in anticipo e indovina la loro impurità. La focaccia della giovinetta deflorata viene allora sminuzzata dalle formiche per renderne facile il trasporto; successivamente le formiche la portano fuori dal bosco e ripuliscono così il luogo. Gli abitanti, venuti a conoscenza dell’accaduto, indagano sulle giovinette che hanno preso parte alla cerimonia e quella che ha disonorato la sua verginità viene punita secondo la legge.

In cosa consistesse esattamente questa «punizione» non viene chiarito, e visto che i serpenti non sono noti per essere proprio amanti delle focacce, questo test sembra piuttosto ingiusto. 

Ma per confermare davvero che il sigillo non era stato rotto, serviva una bottiglia di pipì. Il testo del xiii secolo De Secretis Mulierum spiega che l’urina delle vergini è «chiara e limpida, a volte bianca, a volte frizzante». Il motivo per cui «le donne corrotte» hanno «un’urina torbida» è per via della «lacerazione» della pelle e «dello sperma maschile che compare sul fondo». Pisciare Perrier è un gran bel trucchetto da party, ma ci sono altri indizi a cui fare attenzione. Guglielmo da Saliceto (1210–1277) ha scritto che «una vergine urina con un sibilo molto più acuto» e, se solo si potesse avere un pratico cronometro a portata di mano, «impiega invero più tempo di un bambino».

I test di verginità medievali sono particolarmente concentrati sulle urine; anche il fisico italiano Niccolò Falcucci è stato un profeta del piscio, aveva però qualche altro asso nella manica.

Se si copre una donna con un pezzo di stoffa fumigata con il miglior carbone, se è vergine non ne percepisce l’odore né con la bocca né con il naso; se invece lo sente, non è vergine. Se assume il carbone con una bevanda, se non è vergine immediatamente espellerà urina. Una donna corrotta urinerà subito anche se la fumigazione è preparata con il gittaione. In merito alla fumigazione con il lapazio, se è vergine diventa pallida all’istante; se invece non lo è, il suo umore cade nel fuoco e su di lei vengono dette altre cose.

Il testo ebraico anonimo del xiii secolo intitolato Book of Women’s Love dice: «La sera la ragazza deve urinare sopra dei marshmallow, e riportarli al mattino; se sono ancora freschi, è pudica e buona, se invece non lo sono, non lo è.» Prima che cominciate a pisciare in un sacchetto di toffolette multicolore: il marshmallow a cui si fa riferimento qui è una pianta officinale [l’altea comune]. 

Ma forse vi state sforzando di ispezionare, ascoltare o cronometrare i vostri intenzionali giochi d’acqua. In tal caso, sarà necessario esaminare l’aspetto generale di una ragazza per trovare gli indizi che rivelano se il suo fiore è stato colto. Prima di spiegare che la pipì di una vergine fa le bollicine, il De Secretis Mulierum di Alberto Magno precisa cosa bisogna cercare. «I segni di castità sono i seguenti: la vergogna, la modestia, la paura, un passo e un eloquio impeccabile, l’abbassare lo sguardo davanti agli uomini e alle loro azioni.» (Per la cronaca, se una ragazza avesse ordinato e mangiato il menu formato famiglia di Pizza Hut da sola, e stesse pregando che non vengano trovate le prove nel cestino della spazzatura, i segni sarebbero gli stessi). Magno continua: 

Se il seno di una fanciulla è orientato verso il basso, è un segno che è stata corrotta, perché al momento dell’inseminazione le mestruazioni risalgono verso l’alto verso il seno e il peso supplementare fa sì che si affloscino. Se un uomo ha un rapporto sessuale con una donna e non avverte alcun dolore al pene e nessuna difficoltà ad entrare, è un segno che è già stata corrotta. Infatti, il vero segno della verginità di una donna è la difficoltà di compiere l’atto e il fatto che questo provochi dolore al suo membro.

Naturalmente, da quando l’imene è diventato il test di verginità di riferimento, controllare se la pipì è frizzante e emette un sibilo, cercare tette sode e verificare la capacità di annusare carbone senza farsela addosso sono per lo più caduti in disgrazia. Verificare la verginità è diventata tutta una questione di strettezza e di sangue. Anche se raramente, in giro per il mondo capita ancora oggi che, come prova della verginità della moglie, vengano esibite le lenzuola insanguinate. In alcune regioni della Georgia, la sposa ha una «Yenge», di solito una donna di famiglia più anziana, che la istruisce su cosa l’aspetta la prima notte di nozze. Per tradizione, era responsabilità della Yenge prendere le lenzuola macchiate di sangue dal letto nuziale e mostrarle a entrambe le famiglie per «provare» che la sposa era una novizia della scopata. Nonostante al giorno d’oggi il ruolo della Yenge sia per lo più rituale, in alcune zone la pratica dell’esibizione delle lenzuola insanguinate continua ancora.

Anche il test delle lenzuola insanguinate ha un pedigree molto antico. Lo si trova nella Bibbia, nelle vecchie romanze medievali, e si dice anche che Caterina d’Aragona sia stata in grado di esibire le lenzuola macchiate di sangue per provare di aver sposato Enrico viii da vergine. Inutile dire che sin dal momento in cui è stato sottoscritto un test così profondamente sbagliato, ci sono stati modi per falsificarlo. Vista la posta in gioco nel caso in cui il dono della verginità della sposa fosse già stato spacchettato da qualcun altro prima del «sì», potete capire perché una ragazza potesse mentire sulla propria passera nella prima notte di nozze; e da che i testi medici hanno cominciato a spiegarci come provare la verginità, ci hanno anche fornito consigli su come ripristinarla. Trotula è il nome dato a tre testi italiani del xii secolo sulla salute femminile. Autrice di almeno uno dei tre era una donna, Trotula da Salerno, che praticava la medicina a Salerno, città costiera del sud Italia. Alla ragazza che ha perso la verginità, Il Trotula offre questo consiglio particolarmente subdolo:

Di questo rimedio avrà bisogno ogni ragazza che si sia ridotta ad aprire le gambe e abbia perso la propria verginità per la follia della passione, di un amore segreto e delle sue promesse… Quando arriva il momento del matrimonio, per evitare che l’uomo lo venga a sapere, la falsa vergine ingannerà per bene il marito in questo modo. […] Prendi dello zucchero macinato, l’albume di un uovo, dell’allume, e mescolali in acqua piovana in cui sono stati fatti bollire menta puleggio, nepitella e altre erbe simili. Dopo aver immerso un panno di lino morbido e poroso in questa soluzione, con esso si lavi ripetutamente le parti intime […] Ma il migliore di tutti è questo inganno: il giorno prima delle nozze, fa che inserisca delle sanguisughe in vagina (ma si faccia attenzione a che non penetrino troppo in fondo), così che ne venga fuori del sangue e si trasformi in un grumo. E così l’uomo sarà ingannato dall’effusione di sangue.

Per ripristinare la verginità, il Book of Women’s Love raccomanda quanto segue: «prendete delle foglie di mirto e fatele bollire per bene in acqua fino a che non ne rimane che un terzo; prendete poi delle ortiche senza spine e fatele bollire nella stessa acqua finché ne resta solo un terzo. La ragazza dovrà lavare le sue parti intime con quest’acqua al mattino e prima di coricarsi, per nove giorni.» Tuttavia, se avete molta fretta, «prendete della noce moscata e macinatela in polvere; mettetela in quel posto e la sua verginità sarà immediatamente ripristinata». Nicolas Venette (1633–1698), l’autore francese de L’amour Conjugal, a chi volesse simulare la verginità dà questo consiglio:

Preparate un bagno con ornamenti di foglie di malva e di calderugia, qualche manciata di semi di lino e di semi di erigeron, atriplice, branca ursina o elleboro puzzolente. Fatele sedere in questo bagno per un’ora, dopo di che fatele uscire ed esaminatele due o tre ore dopo il bagno, osservandole nel frattempo da vicino. Se una donna è signorina, tutte le sue parti amorose saranno compatte e ben serrate una con l’altra; se non lo è, saranno cadenti, allentate, e non più rugose e strette com’erano quando aveva in mente di sceglierci.

Come sostiene Hanne Blank nel suo meraviglioso Virgin: The Untouched History, molti degli ingredienti qui elencati sono astringenti o antinfiammatori che si pensava restringessero la vagina. Anche se Venette non lo inserisce nella sua lista, uno dei più noti restringitori era l’acqua di allume. Nel suo Dictionary of the Vulgar Tongue (1785), Francis Grose cita «un’acqua che raggrinza» come «un’acqua impregnata di allume, o altri astringenti, usata da vecchi trafficanti esperti per contraffare la verginità». L’allume è un tipo di composto chimico ampiamente usato oggi nei conservanti e nell’industria alimentare. Incredibilmente, ci sono in circolazione molti siti web che raccomandano ancora l’allume per restringere la vagina. Approfitterò dell’occasione per dire una cosa: per favore, santo Dio, non fate una cosa simile alla vostra povera passera; fate i vostri esercizi di Kegel e abbiate fede.

Oltre a voler fingere nella sua prima notte di nozze, un’altra ragione per cui una ragazza poteva voler passare per novizia è che la verginità era un bonus extra. Nel viii secolo le vergini erano un’attività redditizia, e ogni ragazza del mestiere o tenutaria di bordello sapeva come falsificare un imene per trarne il massimo profitto. Nocturnal Revels (1779) fornisce dettagli espliciti di donne che rivendono la propria verginità più di una volta, e cita una frase della famosa maitresse Charlotte Hayes: la verginità «è facile come fare un pudding». Charlotte continua dicendo di avere venduto la sua «migliaia di volte». L’eponima eroina del primo romanzo erotico, Fanny Hill (1749), racconta con precisione al lettore come veniva falsificata la verginità nell’industria del sesso.

In ciascuna delle testiere del letto, al di sopra dell’intelaiatura, c’era un piccolo cassetto così abilmente nascosto negli intagli del mobile che sarebbe sfuggito anche alla ricerca più attenta; erano cassetti che si potevano aprire e chiudere facilmente pigiando una molla e contenevano entrambi una fialetta di vetro già piena di sangue e una spugnetta pronta per l’uso. Tutto quello che dovevo fare era raggiungerla, tirarla fuori e spruzzarmi in modo opportuno il liquido tra le gambe, un liquido rosso che si trovava lì in quantità molto maggiore di quella necessaria per salvare l’onore di una ragazza.

Altri suggerimenti subdoli comprendevano il fare sesso durante le mestruazioni per assicurarsi la presenza di sangue, e posizionare all’interno della cavità vaginale il cuore di un uccello o una vescica di maiale ricucita con dentro del sangue, così che «sanguinasse» al momento giusto.

Nonostante una credenza storica profondamente radicata nella vergine che sanguina, la cosa non è mai stata accettata all’unanimità dalla comunità scientifica. Ci sono sempre state isolate voci della ragione che hanno riconosciuto che si trattava di un mucchio di idiozie. Un medico come Ambroise Paré non solo ha negato che si potesse provare la verginità con un imene, ma sosteneva che una cosa come l’imene non esisteva nel 1573. Da allora ci sono stati mormorii occasionali sul fatto che l’imene non fosse esattamente quel tanto sbandierato certificato di autenticità. Nel xix secolo, questi bisbigli sono diventati un percepibile brontolio. Il dott. Blundell ha messo in discussione il valore di questa «membrana mistica», e nel 1831 Erasmus Wilson ha affermato che l’imene «non dovrebbe essere considerato un complemento necessario della verginità». Edward Foote ha scritto che «l’imene è un test di verginità crudele e inaffidabile» e che «i medici sanno che è un test di verginità altamente fallibile». Nel xxsecolo il brontolio è diventato un grido assordante e nel xxi secolo le grida sono state rimpiazzate da plateali alzate di occhi al cielo e esplosioni esasperate di «porca puttana! Basta con queste stronzate!» La ricerca a cui ho fatto riferimento all’inizio di questo capitolo ha identificato qualcosa come 1296 studi nelle banche dati elettroniche che indagano la validità del test di verginità e l’attendibilità dell’imene e, nella stragrande maggioranza, arrivano alla conclusione che non si può «provare» che qualcuno è vergine, e che gli imeni non dicono un bel niente sul passato sessuale delle loro proprietarie. Eppure il mito persiste, e le donne sono sistematicamente sottoposte a esami inutili e invasivi per cercare di stabilire la loro esperienza sessuale. Oggi gli esami di verginità sono in gran parte effettuati su donne non sposate, spesso senza consenso o in situazioni in cui le singole non sono in grado di darlo. Test di verginità sulle studentesse sono stati segnalati in Sudafrica e Swaziland, come deterrente per l’attività sessuale prematrimoniale. In India, il test fa parte dell’accertamento di aggressione sessuale per le donne vittime di stupro. In Indonesia, l’esame fa parte della procedura di candidatura per le donne che vogliono entrare nelle forze di polizia. Ma se anche si potesse dimostrare la verginità di qualcuno, il problema in realtà non è l’esame in sé (benché già abbastanza brutto) — il problema sono gli atteggiamenti culturali che valutano le donne basandosi principalmente sul loro essere sessualmente attive o meno. Non è possibile «provare» se qualcuno ha fatto sesso esaminando i suoi genitali, perché la verginità non è qualcosa di tangibile. L’imene è semplicemente un tessuto elastico all’interno della vagina, ma non la sigilla come il coperchio di un Tupperware. Gli imeni hanno forme e spessori diversi — alcuni sanguinano quando vengono lacerati, altri no. L’imene di certo non fa un botto quando viene rotto e non è in grado di provare la storia sessuale di qualcuno più di quanto non possa farlo un gomito. Non si può «perdere» la verginità perché la verginità non è un fatto fisico, è un’invenzione — a prescindere da quanto può essere frizzante la tua pipì.

© 2020, Kate Lister

ARTICOLO n. 32 / 2024