ARTICOLO n. 6 / 2025

NON VISTO, NON DETTO

In occasione del Giorno della Memoria, ritorna in sala da domenica 26 gennaio a mercoledì 29 gennaio – distribuito da I Wonder Pictures – il film vincitore di due premi Oscar tra cui la statuetta come Miglior film internazionale, “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer. Trova il cinema più vicino a te qui

Nei cinque minuti finali de La zona di interesse di Jonathan Glazer, Rudolf Höß si trova a Berlino, nella sede della WVHA, l’organismo dal quale ha da poco ricevuto il compito di organizzare la Ungarn-Aktion (che in seguito, in suo onore, sarà ribattezzata Aktion Höß), ovvero la deportazione di circa 800.000 ebrei ungheresi nei campi tedeschi. È sera, i corridoi sono vuoti, e sembra che non ci sia nessun altro, nel palazzo, al di fuori di lui: esce dal suo ufficio, lo chiude a chiave e cammina deciso verso le scale. Sta andando a casa, ma non si tratta della casa in cui lo abbiamo spiato, insieme alla sua famiglia, per quasi tutto il film: quella villetta è lontana, è in territorio polacco. Lui però ha da poco scoperto che l’Aktion Höß, oltre a rappresentare un significativo avanzamento di carriera, gli permetterà di tornare proprio lì, ad Auschwitz, che è il posto dove la sua famiglia sta bene e vuole continuare ad abitare.

Così, cammina deciso: ha quarantatré anni, per tre di questi ha amministrato il Lager più grande di tutto il sistema-campi e, adesso, raccoglie i frutti del suo lavoro. Prende le scale ma, dopo qualche gradino, ha un’incertezza, forse un mancamento: rallenta, si ferma, sputa; ha dei conati di vomito che gli spettatori, subito, prendono per una forma di rimorso, forse di pentimento: dopo anni passati a organizzare l’orrore, davanti alla più grande occasione della sua vita Höß ha un tracollo, un momento di debolezza. È tutto il film che ci aspettiamo un segno di umanità da parte sua, ed eccolo, finalmente. Per un attimo Höß si riprende, scende un’altra rampa, si ferma di nuovo e di nuovo ha dei conati, più forti dei precedenti. Tutta la scena (non ci avevo fatto subito caso) è disturbata da un rumore bianco il cui volume sale man mano che Höß scende le scale, e che diventa dominante dopo quest’ultimo momento.

Accade a questo punto qualcosa di indicibile: Höß sembra sentire questo rumore, si guarda intorno, si chiede forse da dove provenga. È in campo lungo, sperduto dentro corridoi vuoti e freddi, ha voglia di vomitare e c’è un suono che lo sovrasta e lui lo sa. La scena, a questo punto, cambia repentinamente: adesso, al centro dello schermo, che si è fatto nero, c’è una macchiolina di luce, che ha la forma dei lampadari sotto cui Höß sta forse per vomitare. Due donne aprono una porta – la macchiolina era lo spioncino: siamo dunque altrove, lontano da quei corridoi e da quei lampadari –, parlano in polacco, anche loro sovrastate dal rumore bianco che ha preoccupato, in un altro tempo e in un altro spazio, Rudolf Höß: lo spazio altro in cui si trovano è Auschwitz, la porta che hanno appena aperto è quella della camera a gas del campo I; il tempo altro in cui agiscono è oggi: sono inservienti del museo, hanno scope, palette, tute da lavoro. Il rumore che fa la scopa sul pavimento della camera e, poco dopo, il suono delle aspirapolveri azionate da altre donne che stanno pulendo le baracche dove sono raccolti i capelli, le scarpe, le protesi, gli effetti personali delle vittime assomigliano sinistramente al rumore bianco che ha spaventato Höß.

È l’unica volta in cui Glazer entra dentro il Lager: il film è finito, e anche le persone e i fatti di cui ha parlato non ci sono più. Per quasi due ore ha filmato tutto fuorché ciò che ci fa vedere ora, vale a dire l’interno del campo: ma è un interno asettico, postumo, vuoto di vittime – simbolicamente potentissimo ma diverso rispetto all’interno a cui, mentre i figli di Höß si tuffavano in piscina o la moglie Hedwig curava le azalee e il cavolo rapa, chi ha guardato il film ha pensato costantemente.

Per qualche motivo, questo finale clamoroso mi fa pensare, ogni volta che lo guardo, all’inizio di un altro film – l’altra grande opera sui campi che questi nostri anni ci hanno regalato e che è apparentemente l’opposto della Zona d’interesseIl figlio di Saul dell’ungherese László Nemes. In Saul, se si escludono le scene finali, siamo infatti sempre dentro al campo. Eppure, anche qui, il campo non si vede quasi mai. La camera è sempre vicinissima al corpo e al volto di Saul Auslander: chi guarda Il figlio di Saul guarda soprattutto lui – ciò che gli sta intorno è sempre fuori fuoco. Il film inizia con Saul che si avvicina alla camera: il suo volto, bellissimo e straziato, è magro, giallo, suggellato da un herpes labiale che non si riesce a non guardare. Indossa un vecchio cappotto con una X rossa spennellata sulla schiena: è il segno che è un Sonderkommando, e che dunque non va sterminato. Mentre si guarda intorno e si scambia cenni con dei colleghi vediamo, dietro di lui e fuori fuoco, vecchi, bambini e donne che procedono in fila disordinata. Vengono condotti in un luogo chiuso: il soffitto è basso, ai muri ci sono dei ganci di ferro dove i vecchi e le donne, aiutati anche da Saul, appendono i loro abiti.

C’è silenzio, o quasi: qualcuno sussurra, i tedeschi danno ordini, i prigionieri sono stanchi e increduli, ma tranquilli. Chi ha un po’ di dimestichezza con la struttura dei campi e con la dinamica della gestione degli arrivi a questo punto dovrebbe aver capito dove ci troviamo e cosa sta per succedere: Nemes, in ogni caso, non lo dice e lascia tutto ai margini di una visione al cui centro c’è, ostinatamente, il volto di Saul. Si apre una porta e i prigionieri, nudi, vi entrano in massa. Noi rimaniamo da questa parte con Saul e, insieme a lui, ascoltiamo il suono terribile delle urla che, presto, cominciano a provenire dall’interno, e con esse ascoltiamo le preghiere, e i colpi sulla porta sprangata. Questo momento dura pochi secondi, Saul e gli altri Sonderkommando stanno in fila fuori, in silenzio, e guardano nel vuoto. Anche loro ascoltano, forse, o forse no. Come accade nel film di Glazer, sono i suoni a dire che cosa sta accadendo: ma mentre in Glazer, all’apparenza, si racconta altro – la vita borghese di una famiglia tedesca che, per così dire, ha un Lager nel giardino –, in Nemes le porte di questo giardino ci vengono aperte, solo che tutto è nascosto, schermato dal corpo e dal volto di Saul. È così nella camera a gas, sarà così più tardi quando, seguendo Saul, arriveremo in un bosco poco fuori dal campo, in una notte di esecuzioni sul margine di una fossa comune.

Detto altrimenti: La zona di interesse, e paradossalmente ancora di più Il figlio di Saul, funzionano, vale a dire che esprimono il loro massimo potenziale, soltanto se chi li guarda conosce già la storia che raccontano, le dinamiche intrinseche della vita dei campi e i loro segreti. Per esempio: c’è una scena, in Glazer, in cui si mostra Höß che si sta rivestendo dopo aver consumato un rapporto sessuale con una donna che non è la moglie Hedwig. Di questa donna e di questo rapporto non viene detto nulla, tanto che la scena, in sé, sembra superflua: ma lei è Eleanore Hodys, internata ad Auschwitz perché comunista, che divenne l’amante – o meglio: la schiava sessuale – del comandante. A Norimberga Hodys, che era sopravvissuta, avrebbe in seguito testimoniato di essere stata messa incinta da Höß e che per questo lui avrebbe pianificato di ucciderla. Tutti i comandanti dei campi avevano delle schiave o degli schiavi sessuali (i Piepel): molte di queste relazioni erano note, ma non in via ufficiale. La gravidanza di una detenuta avrebbe creato non pochi grattacapi a Höß: pare che ci fosse questa relazione clandestina alla base del suo trasferimento temporaneo a Berlino, che tanti patemi creò a Hedwig.

Ecco, Glazer sceglie di non dire nulla di tutta questa vicenda, ma solo di mettere in scena un uomo e una donna che hanno appena avuto un rapporto; allo stesso modo, Nemes vuole uno spettatore che conosca già il significato di una X rossa sul cappotto. Esagero: i due più grandi film sull’Olocausto di questi ultimi anni l’Olocausto non lo mostrano, perlomeno non in modo tradizionale. Giocano semmai sulla consapevolezza dello spettatore, lo sfidano creando scene in cui si vede solo una parte dei fatti, lo invitano a fare congetture su chi sia quel personaggio o che cosa significhi quel simbolo. Chiedono insomma una partecipazione attiva che spazza via in un solo colpo l’aspetto didattico, pedagogico, che da sempre è sotteso a questo genere di film. Glazer non dice che Auschwitz è il male, ma fa un’opera che può essere goduta appieno solo da chi sa già che Auschwitz è il male, e condivide la posizione etica dell’autore. Di più: fa un’opera che può essere assorbita appieno solo da coloro che sanno, sull’argomento, tutto ciò che sa l’autore.

Tutto ciò può sembrare un problema marginale. Invece, credo, è il rovello di tutti coloro che si cimentano con un’opera d’arte che ha a che fare con la Storia. Che cosa racconto di un avvenimento a cui tutti hanno libero accesso, che tutti possono conoscere e approfondire o che è addirittura così noto che tutti lo hanno studiato a scuola? Quali aspetti devo selezionare? Che cosa posso dare per scontato? E ancora: ha senso, oggi, dopo ottant’anni e migliaia di libri e di film e di testimonianze, raccontare l’Olocausto come veniva raccontato ancora vent’anni fa? Che cosa posso dire io, di nuovo e di diverso, affinché la mia opera acquisti senso e valga la fruizione?

Di fronte a tali questioni, nelle sue Lezioni di Łódź, ora pubblicate anche in italiano dentro al volume Il tenero narratore(Bompiani, 2024), Olga Tokarczuk ha parlato del concetto di eccentricità: «Si tratta» ha detto «di una particolare posizione che assumiamo nel percepire il mondo: un’uscita dal centro, al di fuori della comune e canonica sperimentazione della realtà, generalmente accolta. È la ricerca consapevole di una prospettiva mai universalizzata prima, che con la sua novità mostra ciò che non è stato colto, ciò che è stato omesso». Chi non è eccentrico a sufficienza, continua Tokarczuk, semplicemente non è bravo a sufficienza: non è in grado di fornire una prospettiva altra, laterale, su ciò che sta raccontando.

Ora, come si può fornire questa prospettiva altra, laterale, sull’Olocausto, fermo restando che se ne voglia parlare da un punto di vista storicamente attendibile ed eticamente sano? 

Mi sembra che La zona di interesse e Il figlio di Saul, pur nella loro diversità, diano una risposta simile: lavorando sulla forma – naturalmente senza dare i contenuti per scontati, ma fidandosi del fatto che il fruitore sia in grado di riempire i buchi che l’opera volutamente lascia (la Hodys, i vecchi le donne i bambini gasati immediatamente dopo il loro arrivo al campo). La bellezza di questi due film non sta nella storia che raccontano, anche se entrambi si fondano su punti di vista originali; sta piuttosto nel modo eccentrico in cui sono realizzati, lasciando dietro un velo tutto ciò che altri hanno già mostrato, e portando in primo piano ciò che è marginale, altro.

Detto altrimenti: non si guarda La zona di interesse o Il figlio di Saul perché sono film sull’Olocausto. Li si guarda perché il modo in cui sono realizzati dice sull’Olocausto qualcosa che non era ancora stata detta. Il volto tumefatto di Saul, così come il fatto che una camera lo talloni a un metro di distanza e ci mostri ogni sua imperfezione e ogni dolore, è più importante delle modalità con cui venivano fatte le esecuzioni, o della messa in scena dei compiti di un membro dei Sonderkommando. Il suono di un’aspirapolvere, nella Zona, è più decisivo delle discussioni sulle stazioni di smistamento dei treni dall’Ungheria, perché i treni ungheresi stanno anche sui libri di storia, mentre le aspirapolveri che attraversano il tempo e lo spazio e giudicano un genocida e si fanno memoria dello sterminio ci sono soltanto nel film di Glazer.

A questo proposito, c’è una coda, nel viaggio nel tempo e nello spazio che Höß forse compie alla fine della Zona di interesse. Ormai il rumore bianco non c’è più: si è trasformato nel rumore delle aspirapolveri in funzione oggi, nel museo di Auschwitz. Höß lo ascolta con noi, ma non è detto che ne comprenda il valore umano e simbolico. Anzi. Dopo un attimo di titubanza, smette di guardarsi attorno e sembra tornare nel suo tempo e nel suo spazio – è di nuovo soltanto il 1944 e c’è di nuovo soltanto Berlino. Ricomincia a scendere le scale, ma il piano di sotto non è più illuminato: la luce a tempo si è spenta, ma Höß sembra aver riacquistato la sicumera che aveva poco fa, calza il berretto e così, in divisa completa, continua a scendere spavaldo nel buio, verso quello che tutti ci auguriamo sia un inferno.

In collaborazione con I Wonder Pictures e I Wonderfull. Guarda il trailer del film qui.

ARTICOLO n. 11 / 2025