Carolina Bandinelli

ARTICOLO n. 37 / 2024

È AMORE SE TI TRAVOLGE

Pubblichiamo un estratto da Le postromantiche. Sui nuovi modi di amare (Laterza). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

Era il 1977 quando in Francia uscì Frammenti di un discorso amoroso, scritto da Roland Barthes per dimenticare e sublimare un amore non corrisposto. Si narra che Barthes, innamorato pazzo e dolente, abbia deciso di consultare lo psicanalista Jacques Lacan il quale, vedendolo in quello stato, gli avrebbe detto: “Guarda, lascia perdere”. Barthes seguì il suo consiglio e al tempo stesso lo trasgredì. Pose fine alla storia d’amore e iniziò la scrittura dei Frammenti.

Non so se questo aneddoto sia vero – me l’ha raccontato Arturo, mio fratello, il tipo di persona che sotto l’ombrellone legge tomi di teoria lacaniana, per cui tendo a credergli quando si parla di queste cose. 

In ogni caso è una storia verosimile perché i Frammenti non sono soltanto un’opera di semiologia, ma anche la celebrazione dell’innamorato e del suo discorso. Un libro scritto sull’amore, ma anche in amore.

Scritto da chi ama e rivendica la sua posizione. La afferma e la esalta, in risposta a quelli che l’amore non lo considerano degno d’impresa intellettuale e a tutti i cosiddetti “normali” che non ci sono caduti – non ancora.

L’osceno straparlare dell’innamorato diventa visibile e degno d’attenzione: posto al centro della scena. È come se un innamorato finalmente uscisse dalla sua tana – metaforica e non – ed esibisse il suo monologo interiore davanti a tutti, in mezzo alla strada. L’effetto è strabiliante: non è il discorso di ­­­un pazzo ma la danza di un virtuoso, un “semiologo selvaggio”, un sovversivo! 

E quindi non possiamo che alzarci in piedi e applaudire gridando “Anch’io! Anch’io!”, perché sentiamo che quelle fantasie esagerate, quelle immagini straripanti e quelle ipotesi improbabili che ci hanno avvinto durante notti insonni e giornate infinite non sono il materiale scandaloso di un’anima scimunita, un delirio privato senza senso, ma l’espressione di un’esperienza collettiva e condivisa. Grazie a Barthes, l’innamorato non è più solo.

Così è stato per me. Nella mia cameretta di adolescente alla fine degli anni Novanta, da Roland mi sentivo compresa e difesa. Leggevo e rileggevo le pagine sull’incontro, la dedica, l’abbraccio, l’abbandono…, e ritrovavo il filo dei miei discorsi di ragazza che s’innamorava volentieri. 

La mia copia dei Frammenti – un volumetto Einaudi, in copertina il particolare di un quadro del Verrocchio con due mani che si sfiorano sullo sfondo di velluti d’altri tempi – mi ha seguita da Firenze a Londra e porta ancora le sottolineature fatte con il 2B che usavo al liceo per disegnare; molti passaggi sono segnati da tre righe scure, in alcuni casi rafforzate da punti esclamativi enormi. 

Non credo di aver letto nient’altro con così tanto trasporto, di essermi sentita così capita da un libro. Finalmente potevo confessare l’imbarazzante patimento in cui mi gettava l’attesa di una telefonata: c’era il telefono fisso e ogni trillo poteva essere un segno che quel tizio dalle apparenze poco raccomandabili che avevo baciato alla festa del vino novello si fosse proprio innamorato di me, folgorato dai miei occhi e dalla mia sottana, come Petrarca con Laura in chiesa il giorno di Pasqua. 

Stato d’animo che ero costretta a nascondere con amici e parenti: mi avrebbero subito rimproverata di farmi “troppi film”. “Non è che mi faccio i film”, avrei voluto gridargli. “Barbari! Io genero immagini, enuncio, danzo. Guardate che bellezza questa temporalità che m’inchioda alla fatale mia identità d’innamorata!”.

Volevo tantissimo innamorarmi come i personaggi di cui avevo letto nei libri e che avevo visto in tv. Al contempo seguivo il copione di una sessualità scevra da moralismi e tuttavia ancora governata da assunti misogini e spesso ridotta a un bene di consumo. Facevo casino. Cercavo di realizzare l’improbabile crasi tra Carrie Bradshaw e Anna Karenina.

Nelle performance sessuali si celava la speranza che la mia bocca o le mie mani potessero trasformare un tamarro senza nome in un contemporaneo Werther; all’indomani di amplessi etilici in parcheggi periferici declamavo sonetti invocando un segnale che non sarebbe mai arrivato: «O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne, / che ’l dì celate per vergogna porto». Puntualmente mi ritrovavo sola con il dubbio di essere un’idiota.

Vivevo come una colpa il non riuscire a combinare condotta sessuale promiscua e incanto d’amore. Barthes mi assolveva e consolava.

Perché i Frammenti non sono soltanto il “ritratto strutturale del soggetto romantico”, ma anche la grandiosa apologia della sua specifica jouissance, cioè del modo in cui gode del dolore in quanto varco esistenziale per un di-più di verità. Una verità sull’essere cui si accede proprio attraverso l’esperienza amorosa.

L’espressione inglese to fall in love cattura il potenziale rovinoso di questo legame. C’è una vitalità festosa, ma anche un rischio oscuro: l’amante si può perdere, può impazzire (l’amore romantico è amore folle), non solo il suo equilibrio ma la sua stessa esistenza sono in pericolo.

A seguito dell’incontro con l’amato, scrive Barthes, entriamo in un tunnel: quella «lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli» che ci porta «a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente l’altro, me stesso e l’incontro che ci ha scoperti l’uno all’altro».

Ripenso spesso alle esperienze della mia formazione sentimentale, quando ricamavo su un incontro occasionale i ghirigori dell’amore assoluto. Un modo di cercare e interpretare l’amore che ha formato il mio sentire e che avrei visto ripetersi, salvo variazioni di intensità, maturità e circostanze, anche negli anni a seguire, fino all’età adulta. 

Ricordo in particolare il sabato in cui andai per la prima volta a ballare (i pomeriggi di domenica all’Happyland di Campi Bisenzio non contano). Ero uscita dalla finestra (l’unica fortuna di stare al piano seminterrato), e avevo messo un cuscino sotto le coperte come avevo visto fare a Joey e Dawson. Avevo seguito alcuni amici più grandi di me al Jaiss, una discoteca a Empoli che solo molti anni dopo avrei scoperto essere stata tempio della techno anni Novanta. 

Mi ero messa gli anfibi con la suola chiodata e la punta di ferro. Andavano bene per impressionare (o credere di impressionare) i punk del liceo artistico, ma erano del tutto inadatti al ballo, da quella volta in poi solo scarpe da ginnastica nei club. I piedi mi facevano malissimo, ma chi se ne frega però, perché a un certo punto ero diventata così leggera che alle scarpe non ci pensavo più. Pensavo solo a Guido, che era bello: gli occhi allungati, una cicatrice sullafronte, le labbra perfette. Ci baciammo per ore sui divanetti della “zona relax”, tra cartoni di acqua naturale di montagna e leccalecca panna e fragola. I sensi allertati, gli organi interni smossi dai bassi, ogni zona erogena, tutto il corpo, tutto il cuore, tutto teso verso Guido, ragazzo di cui non sapevo assolutamente nulla. Tranne il nome, che guidava un Booster giallo con la marmitta truccata e che una volta aveva preso sei pasticche tutte insieme.

­­­Il lunedì, da sola a casa e con la mascella ancora indolenzita, aspettavo che mi chiamasse. A quella telefonata ero appesa come a un verdetto. La mia amica Francesca lo diceva sempre: «chi ama, chiama». E allora doveva chiamare. Come poteva non riconoscere il significato di quei baci? Di quelle mani calde nel buio, con la musica dritta nella cassa toracica, la bocca impastata sul treno della mattina, il tè col limone al bar della stazione di Rifredi? 

Per me, questi dettagli erano andati a comporre la scena dell’incontro, l’immagine che mi aveva “rapita”. D’altra parte, lo diceva anche Roland Barthes, l’incontro d’amore lo si costruisce solo retroattivamente, come punto di inizio mitico della storia, e io ventiquattro ore dopo la serata al Jaiss mi ero già messa all’opera.

La telefonata di Guido serviva da conferma che ci avevo visto giusto, che davvero quello poteva essere stato l’incontro d’amore. E allora aspettavo. Per qualche giorno il mio impegno principale fu attendere.

Vista dall’esterno sarei potuta sembrare scema, chiusa in camera per interi pomeriggi, pronta a scattare al primo squillo del telefono, inviperita se mio fratello occupava l’apparecchio per più di due minuti. 

Roland lo sapeva, e lo sapeva spiegare con parole così belle che la realtà ne usciva trasfigurata: attesa. Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni). […]L’attesa è un incantesimo: io ho avuto lordine di non muovermi. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, allinfinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. 

Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente.

Che poi è la stessa cosa che dice (con parole un po’ meno belle) Max Pezzali quando si domanda disperato «Come mai / ma chi sarai / per fare questo a me / notti intere ad aspettarti / ad aspettare te». 

Eravamo tutti d’accordo, io, Roland e Max, sul fatto che l’attesa sembra essere una stasi ma non lo è: ci diamo un gran daffare a rincorrere e ricreare immagini affastellate di abbandono e coronamento, pronti a riconoscere e interpretare i segnali del cosmo, a cogliere l’ispirazione per scrivere “chilometri di lettere”.

Il punto è che ero decisa a innamorarmi e scommettevo su Guido, la cui unica mossa, a ben vedere, era stata quella di darmi una pasticca di ecstasy con una buona percentuale di MDMA. Il dubbio che quella notte poteva non essere stata la versione contemporanea e un po’ tamarra dell’incontro del Petrarca con Laura, ma una triviale “pomiciata in discoteca, fatti d’emme”, non riusciva a intaccare il mio afflato poetico e produceva anzi altri e nuovi stati d’animo lirici: accorati pensieri sulla terribile scissione tra una realtà volgare, cinica e ottusa, e l’ardire meraviglioso della fantasia d’amore.

Scissione dolorosa, certo, ma in verità ero contenta mentre soffrivo: la fantasia di un amore romantico era proiezione di un mondo altro, e soffrirne la mancanza un modo per evocarlo, per farlo esistere nella sua assenza.

Mi accorgo di essere cresciuta riconoscendo nella sofferenza un sintomo inequivocabile dell’amore. Per anni, ben oltre l’adolescenza, mi sono gettata nei drammi iniqui di relazioni ­­­impossibili per potermi identificare nell’amore attraverso il tormento.

Mi sentivo attratta da uomini con situazioni difficili, geograficamente lontani, clinicamente depressi, (in)felicemente sposati, mentalmente instabili, emotivamente immaturi, oppure semplicemente stronzi.

Sapevo che non erano all’altezza del sentimento amoroso, ma ciò non mi impediva di sovrascrivere una narrazione romantica alla banalità modaiola dello “scopare in giro”.

Non volevo un amore qualunque, un amorazzo da rotocalco buono per le sale d’aspetto. Volevo un amore con la A maiuscola: quello che ti travolge e ridefinisce il senso di ciò che è avvenuto prima e di quello che avverrà nel futuro. «In un Evento, non cambiano soltanto le cose, ma cambia anche il parametro col quale misuriamo i fatti del cambiamento stesso: un punto di svolta modifica l’intero campo all’interno del quale i fatti appaiono», ha scritto Slavoj Žižek. 

L’amore-evento che stavo cercando doveva essere un’esperienza capace di sovvertire l’equilibrio dell’io, di scompaginare le coordinate del mondo per come lo avevo conosciuto fino a quel momento.

La prima volta che lessi Madame Bovary non mi resi minimamente conto dell’ironia di Flaubert che, come appresi in seguito, con il romanzo voleva mettere alla berlina gli stilemi del romanticismo, smontare la figura dell’innamorato che si strappa le vesti e i capelli per rivelarne l’animo sciocchino e impressionabile. Io però ero dalla parte di Emma: una ragazza giovane che secondo gli usi del tempo sposa un uomo che lei non ama, ma che può offrirle una vita materiale dignitosa.

Charles Bovary è un medico di campagna zelante e sempliciotto che la intrappola in un matrimonio alienato, di cene appiattite da silenzi volgari. Lei ha sogni diversi, non le importa di essere madre e moglie, guarda con sospetto la bambina che ha partorito, i gesti di Charles la disgustano. Sola in casa legge romanzi immaginando la vita di Parigi: teatri, poeti e tessuti pregiati, artisti carismatici che potrebbero prenderla e portarla via, lontano dall’immensa noia di Yonville. Invece gli uomini che incontra nella vita reale e di cui sarà amante si riveleranno meschini e bugiardi, Emma lo sa ma non può accettare una realtà così insulsa, una “vita insufficiente”. Resiste al disincanto. Si suicida.

A me questa parve la storia di una donna che si ribellava a un mondo imbecille. A ucciderla non era stata la letteratura che aveva sfrenato la sua immaginazione. Era stata uccisa dalla vigliaccheria e dall’opportunismo di Rodolphe, dalla piccolezza di Charles. Era la realtà a non essere all’altezza di Emma, non lei idiota perché incapace di accettarne lo squallore. All’università scoprii con sorpresa che con il termine bovarismo, coniato da Jules de Gaultier nei primi anni del Novecento, si indica la facoltà di credersi ciò che non si è, di credere cioè alle fantasie che ci fabbrichiamo per convincerci di essere diversi e di vivere in un mondo diverso.

Ci rimasi male. Per me Emma era (e resta) un’eroina vittima dell’ostinata indifferenza delle cose alla maestà del desiderio. Certo, io avevo un vantaggio conoscitivo rispetto a lei: sapevo che le passioni vanno nascoste, che è sempre meglio fingersi disinvolte, impermeabili, perché va bene tutto ma mai mostrarsi deboli. Perciò mai chiamare per prime, resistere alla tentazione di rispondere subito a un messaggio, non esaltarsi troppo per un invito e, soprattutto, non lamentarsi mai per un’attenzione non ricevuta, una telefonata mai arrivata.

Bisogna essere cool. Così si conquistano gli uomini. Questi i precetti diffusi dai manuali simbolo degli anni Novanta e Duemila come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992), il saggio più venduto di tutta la decade secondo la CNN; oppure La verità è che non gli piaci abbastanza ­­­(2004), bestseller da cui fu tratto l’omonimo film, un grande successo al botteghino.

Io non li avevo letti e non avevo nemmeno visto il film. Ma queste “grandi verità” percolavano già nelle telefonate con Francesca: «Che faccio lo richiamo Marco?», «No! Aspetta che ti chiami lui!». Non lo chiamavo, ma quando chiamava lui dicevo sempre “sì”. Mi spiegava che non voleva una relazione – forse perché era ancora innamorato della sua ex ragazza, più bella di me? più magra di me? più brava di me? –, passavamo le notti a parlare e bere vino rosso in camera sua, ascoltando la musica. Quando mi voleva io mi spogliavo e speravo sempre di poterlo avere addosso più di quei pochi istanti. 

Persino l’annoso problema dell’eiaculazione precoce mi sembrava il segno di una mia manchevolezza, e mi dicevo: “è stato bellissimo lo stesso”. 

Una sera andammo al cinema, un film d’autore in bianco e nero perché noi non eravamo tipi da blockbuster. Avevamo passato la notte insieme. «Stasera vedo una che mi piace», disse, «si chiama Jacqueline, è di Lione, pensavo di invitarla a uscire con noi». Invece di scoppiare a piangere e piantare una scenata – perché come ti viene in mente di dirmi una cosa del genere quando poche ore fa eri dentro di me, cioè non “vicino” o “accanto”, proprio dentro, e quindi vaffanculo –, ecco invece di dire questo, risposi: «Certo, ma che bella idea, vengo anch’io!».

E andai davvero, a vedermi la scena di lui che imbroccava Jacqueline con le stesse mosse e parole con cui aveva poche settimane prima rimorchiato me. Ordinai uno shot di tequila, cominciai a ballare con uno sconosciuto e lo baciai in mezzo alla pista anche se non mi piaceva com’era vestito e aveva i capelli un po’ troppo corti. Alle tre di notte tornai a casa ubriaca, prima di entrare mi sdraiai a stella sulla ghiaia del parcheggio guardando le stelle coperte dalla nuvole e le cime blu dei cipressi scuri nella notte scura. 

Avevo fame e decisi di farmi una valdostana fritta, pasteggiai a whisky. Poi un pianto sull’impossibilità del vero amore, Roland Barthes, e a letto. In questa scissione tra discorso amoroso e incontri occasionali ci siamo trovate in molte, e ci siamo sentite strane.

Ci ha preso il legittimo sospetto che imbastire la trama romantica su amplessi casuali e mediocri sia soltanto un esercizio di stile, con il rischio di rimanere incastrate in relazioni ridicole, o addirittura tossiche, di svegliarsi dopo qualche settimana di estasi e rendersi conto che okay, è un cretino, oppure di soffrire senza motivo, per giorni e giorni, talvolta mesi, per uno che non si sa nemmeno chi è. E però allo stesso tempo siamo state incapaci di smollare il sogno di un amore, dandoci una gran pena a concederci e poi ritrarci, tessere per scucire, tutto un fare e disfare fino a non capirci più niente.

Ora, quest’impasse non deriva da un difetto di fabbricazione dell’universo o dalla nostra innata deficienza, piuttosto dalle contraddizioni insite nell’idea di amore cui siamo state esposte nel corso delle nostre vite: da una parte l’utopia romantica, e dall’altra l’interpretazione del sesso come svincolato dai sentimenti. Un ossimoro che è stato il nucleo della nostra educazione amorosa, e che ancora ci dà tanto da parlare, a me e alle mie amiche, a noi che siamo romantiche inguaribili ma che del romanticismo abbiamo anche capito l’artificio, noi che il sesso ci piace eccome ma che in molteoccasioni avremmo preferito dire: “anche no”.