Jean-Paul Manganaro

ARTICOLO n. 49 / 2021

CARMELO BENE: IL PULPITO E IL FOGLIO

Non si può parlare, per C.B., di «lettura» nel senso classico della parola, né di «recita» né di «proferazione», anche se c’è tutto questo. Con lui, «dire un testo» diventa un atto, un «fatto in proprio», un evento definitivamente occasionale che continuamente ritraccia e risitua elementi disparati colti in nuove configurazioni, quasi conflittuali, tutte esteriorizzate.

Tali elementi sono numerosi e bisognerebbe cominciare col descrivere appunto l’esteriorità, spinta al suo grado estremo, dei luoghi in cui la performance avviene, in quanto spazi di affabulazione creativa: Torre degli Asinelli a Bologna o Théâtre de l’Odéon a Parigi col pieno sala per la Divina Commedia, Palasport di Milano per Majakovskij, l’Accademia di Santa Cecilia o la Basilica di Massenzio a Roma o la Scala di Milano o il Teatro greco di Taormina per Manfred, il Campidoglio di Roma per Egmont, ancora la Scala per Adelchi di Manzoni, la Piazza Centrale di Recanati per i Canti di Leopardi, l’Arena di Verona per Hamlet Suite. Luoghi certo importanti, ma il cui interesse non risiede nelle possibilità di sfoggio dell’individualità particolare di un «personaggio-attore», né nella volontà implicita di un accesso più largamente popolare o populista, né nella spettacolarità di una folla-marea in ascolto o dei riferimenti poetici la cui classicità è incontestabile. L’esempio stesso dei Canti orfici di Dino Campana testimonia questa capacità intrinseca a «far sorgere dall’ombra» il dimenticato e lo sconosciuto a forza di essere dimenticato. Si può anche dire che, grazie a lui, l’«opera» impegnata «esce fuori di sé». Ogni volta, l’opera viene strappata alle reclusioni, libresche, accademiche, di costrizione e di oppressione – in tutti i suoi lavori, del resto, la «cosa» testuale è mostrata materialmente, in quanto «illeggibilità» dalla quale scartarsi, o piuttosto da eliminare «divorandola», letteralmente.

L’opera dev’essere liberata dalla sua intimità laconica e spossata e scagliarsi nella potenza di una massa pulsionale che non le si supponeva, che essa stessa non supponeva in sé, forse perché taciuta. È già trasformarla in atto, dato che in questo passaggio da un supporto all’altro, dallo scritto alla voce, ha cambiato natura, si offre ormai in una nuova resistenza materiale, fino ad allora sconosciuta. Da qui la «stupefazione» del pubblico che ascolta, non più attraverso il filtro passivo di un vano gesticolare della parola infinitamente detta, ridetta e ri-conosciuta – della «dimostrazione» altamente accademica e classica (si pensi a Gassman, ad Albertazzi, a tutti coloro contro cui C.B. si è messo in gioco) –, gesticolare incluso ormai in un percorso di cui non sa più determinare il punto di arrivo né l’a priori. La voce che «legge» o «proferisce» o che «recita» si transustanzia in un vero e proprio corpo che non ha più niente a che vedere con la «persona» dell’attore, né col testo: è diventata, diventa, nell’istante occasionale del suo passaggio, la totalità esteriore che dà a vedere la sua elaborazione immediata, l’inarcarsi che costruisce la spina dorsale della sua nuova vita, vita nuova instancabilmente ripresa.

All’esteriorità del luogo colto nella sua più grande ampiezza corrisponde dunque la vastità dell’esteriorizzazione, l’ostensione della materia creata in cui il testo non è più testo, l’attore non è più attore: ciò che viene captato è allora la singolarità dell’opera materializzata nel proprio fabbricarsi, per mezzo di una testura o tessitura vocale ancora in-audita, che offre a un immaginario qualunque, con una modestia eroica e potente, la possibilità di ascoltare e intendere l’evento proprio della creazione dell’opera, e che ritende momentaneamente l’integralità della sua capacità plastica, privata, dallo stesso gesto, della sua natura apparentemente definitiva, immersa nel magma dei suoi imprevisti. Nel momento stesso in cui il testo nella voce e la voce nel testo perdono la loro configurazione espressivamente storica – quella, per lo meno, che veniva loro assegnata o che si prestava loro, che era a loro destinata a ogni istante: Dante e La Divina Commedia, Byron e Manfred, Majakovskij e Majakovskij, Laforgue e Hamlet Suite – la stessa voce e lo stesso testo perdonoin realtà la strettezza, sempre in agguato, della narrazione e dell’ascolto che ne deriva, la falsa apparenza di «giustezza» attribuita loro in a priori imperiosamente controllati, per acquisire l’insieme delle velocità che li riferiscono. L’opera non appartiene più che nominalmente al suo autore, è diventata una «situazione secondo C.B.». In questo senso va perfino al di là della stretta riconfigurazione di un puro significante sorto da un significato ormai inattivo; va al di là, con la sua pratica capace di riconoscere che la materia di cui dispone e in cui si ridispone non può essere sottomessa o assoggettata a una ennesima trasformazione dualistica della forma, ma che (l’uno o l’altra) è slittato, invece, in uno spazio e in un tempo in cui la voce è ormai sprovvista di quantità e di segni. Non è più che pura potenza in opera.

Il problema della lettura si trasforma allora in una questione di affetti e di percetti, di vibrazione sonora, di ricezione traumatizzante, di ampiezze e amplitudini mirate in un costante andare e venire dell’atto di «dire», all’infinito, all’interno dell’esteriorità dei luoghi, cioè nella costruzione progressiva della sonorità e del suono come emissione e come ascolto, l’una nell’altro, all’interno del tempo e dello spazio di quell’occasione specifica, ma all’esterno dei meccanismi che ne hanno costruito il passato. È questo forse mirare al suono come a un presente. Si capiscono allora i sovvertimenti operati dall’amplificazione strumentale, la volontà acustica, il sistema che rende conto, con una precisione meticolosa e maniaca, delle minime pulsioni nell’esercizio vocale che si mette in movimento, o in posta, più che in gioco. La costruzione classica, che si dava come definitivamente compiuta – e dunque conforme alle norme –, viene impegnata nella deliberazione dell’inachèvement costante, dell’incompiuto continuo, contro tutte le conformità possibili, dell’incompiuto dell’opera che, spaccata, non riesce più a richiudersi – su cosa del resto? Dove il finale e l’applauso non sono più che l’accettazione di una semplice misura musicale, di un semplice accordo. D’altronde: leggeva forse, recitava a memoria o in spirito? Avrebbe potuto dire che «era letto».

L’affondare nel nero vasto degli esterni che si connettono, la notte fonda del teatro, l’inseguire se stesso in immagine fissa, il volto incompiuto nelle mezze tonalità di ciò che è compiuto solo perché fa qualcosa, il pulpito e il foglio dove giacciono i testi, lo sguardo e l’infinità del «dire»: l’impressione è grande, oggi ancora e a cose fatte, che non c’era lettura possibile. Lasciar sorgere una voce come potenza vocale che sprofonda nelle materie della lingua per «manifestarne» il fondamento tellurico, la forza minerale, la tensione presa nello sgomento. Ad ogni altra «dimostrazione» faceva posto il gesto «in proprio» dell’attore, la voce diventata gesto.