Giorgio Terruzzi

ARTICOLO n. 19 / 2024

WALTER CHIARI, HAI PRESENTE?

I cento anni di Walter Chiari

Stava là, nel residence. Niguarda. Residence Hotel Siloe. Milano, al limite della periferia nord, la strada, via Cesari, anonima, senza un negozio, il rumore da consumo quotidiano. Silenzio. Un appartamento minimo, due stanze, gli arredi un po’ così, non scelti, adottati in una noncuranza da solitudine. Lui, tuta blu scuro, i capelli spettinati, le mani grandi come pale di un mulino a vento mentre raccontava qualcosa di una vita sincopata. Parole come note da jazz. Caldo nonostante il posto, il divano blu pure quello, un tavolino senza arte o parte. “Ma, scusi, che ci fa qui? No, dico, questa è la sua città, non c’è una casa, un luogo diverso da questo?”. Sorrise con una virgola di amarezza nelle labbra, disse ma no, l’ho data a mio nipote. Disse: le cose appartengono a chi le desidera di più. Una frase celebre, un gioiello cesellato da Dashiell Hammett poco prima di volare via. Era primavera, stava per andarsene pure lui, morto pochi mesi dopo, 20 dicembre 1991, stessa stanza, stesso residence. Aveva 67 anni, aveva quella faccia là, bellissima, da ragazzo che non sa invecchiare, aveva addosso una malinconia da giorni perduti, adrenalina consumata, amori travolgenti, qualche oscuro rimpianto.

Walter Chiari, hai presente? Mica tanto, ma no, per niente. La traccia si è fatta debole, è invisibile per chi non ha l’età. Un peccato, perché Walter Chiari ha regalato un viaggio indimenticabile a ciascuno di noi, fatto di improvvisazioni strepitose, aneddoti esilaranti, sketch indimenticabili, film non sempre memorabili, spettacoli trionfali, flirt da paparazzi e pettegolezzi, uno scandalo alla cocaina che gli costò 98 giorni a Regina Coeli e una ferita a cielo aperto mai rimarginata del tutto. Popolare, amatissimo, quel modo di fare un po’ guascone, morbido, una simpatia da naturalezza, per far innamorare gli italiani al fianco di Mina e Paolo Panelli in una edizione perfetta di Canzonissima, anno 1968; al fianco di Carlo Campanini – la sua spalla ideale – in viaggio sul treno con il sarchiapone. Era di casa, in ogni casa, affabile, come un fratello, un fidanzato, un amico prediletto. Compreso al punto da farsi perdonare ogni trasgressione, ogni svarione, quasi tutto; bonariamente invidiato per quel fare là da conquista a prima vista, l’ironia come tocco magico, adatto, niente a che vedere con la spocchia del playboy, niente camicie sbottonate, catene dorate, roba da Saint Tropez, da gesti e luoghi comuni così distanti dalla sua originalità. Alle donne, a corteggiarle, sembrava non pensasse più di tanto e proprio per questo diventava irresistibile. Relazioni al galoppo e fidanzamenti, uno soprattutto, chiacchieratissimo, con Ava Gardner, data come diva irraggiungibile, alla quale raccontava delle abilità strategiche di Napoleone: “Avevo anche dei soldatini per spiegare i movimenti geniali delle truppe”. Ava? Figuriamoci. Eppure in quella storia d’amore senza futuro, Chiari si era trasformato in un rappresentante dell’orgoglio italico maschile e maschilista. Una specie di eroe delegato, di certo molto invidiato.

Donne. Del resto, un vero esperto. Rivista, teatri, dopoguerra all’alba. Una festa del sogno, del desiderio. Il palcoscenico come pista di atterraggio e di decollo. Prima scrittura nel 1946, Se ti bacia Lola il titolo dello spettacolo. Non il primo debutto visto che Walter Annichiarico, nato a Verona nel giorno dedicato alle donne – 8 marzo 1924 – origini pugliesi, padre brigadiere, madre maestra elementare, trasferito a Milano nel’33, era stato magazziniere, pugile pesi piuma, discreto tennista, fenomenale nel gioco delle bocce, nuotatore agonistico, radiotecnico, bancario licenziato in tronco causa imitazione di Hitler in piedi su una scrivania, giornalista, vignettista, milite della X MAS, conduttore radiofonico, arruolato nella Wehrmacht, ferito, prigioniero degli americani a Coltano insieme a Dario Fo, Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Enrico Ameri. Una precoce odissea. A chiamarlo in teatro fu Marisa Maresca, leggendaria primadonna del varietà, una compagna di lavoro fondamentale, al pari di Delia Scala, molti anni dopo. 

Walter, in pista, sul palco, capace di divertire improvvisando, generando continui straniamenti, noto per i ritardi cronici, le dimenticanze: “Avevo una prima a Trieste, me ne ero completamente scordato. All’ora dell’apertura sipario stavo a Livorno. Per altri versi rimediavo. Una sera Delia era malata, un febbrone. Il teatro stracolmo. Dissi agli spettatori: mi spiace, vi rimborsano il biglietto. Oppure, se proprio volete, potrei recitare la parte sua e la parte mia, una cosa un po’ scombinata. Restarono. Ridevano. Ridevano da matti”.

Passava da una argomento all’altro con una rapidità fulminea, una cultura vasta, sorprendente. Parentesi tonde, quadre, graffe riuscendo a riprendere ogni filo, magari evitando di soffermarsi sul matrimonio con Alida Chelli, su Simone, suo figlio, preso forse dal peso di qualche mancanza, di una vaga inadeguatezza. Raccontava piuttosto degli anni che gli fornirono una patente, lo slancio per diventare Walter Chiari. Il tempo dell’euforia, di un incontro collettivo con la bellezza femminile: ”Un uomo che usciva la sera, magari per vedere anche il teatro, soprattutto, voleva guardare la donna. In un film vedevi solamente la star mentre lì, in teatro, anche l’uomo comune, questo impiegato che stingeva gli occhi invano al cinematografo, che una bella donna mai, non l’avrebbe nemmeno sfiorata, poteva fantasticare anche sull’ultima ballerina di fila, vicinissima, viva, con il suo sorriso. Le prime ballerine si sposavano con gli industriali. Appena entravano in scena erano prenotate. Si fidanzavano, si sposavano e sparivano. Era una specie di riserva di caccia privilegiata alla quale avevano accesso i signori. O magari gli impresari. Uno di loro aveva sposato la donna più statuaria del mondo. Si chiamava Irene. Era talmente bella, talmente perfetta, gli occhi, il naso… sembrava appartenesse a una tetralogia wagneriana rivisitata da una specie di Arcadia latina. Vestita da uomo, con cilindro e bastone. E il ballerino era vestito da donna. Improvvisamente mentre lui si appoggiava, lei gli girava intorno, gli piegava la testa indietro e lo alzava con due mani. Vedevi queste braccia truccate, bianche, esangui, da cui venivano fuori muscoli che sembravano incisi a penna su una litografia. C’era anche chi, della donna in quanto donna, non fregava niente, osservavano il particolare, il disegno del corpo, la grafica. Magari erano quelli che oggi chiamano stilisti. Per noi lo stilista era uno che faceva i cento metri a nuoto. Stile libero. Dopo lo spettacolo arrivava qualcosa per tutte. Da un’autista con la fuoriserie a un mazzetto di fiori. Quelle donne lasciavano qualcosa anche nel teatro vuoto. Un profumo, un’emozione”.

Lo sport, altra passione: “Qualcuno dice: non mi occupo di sport. Non sa che per sua fortuna pratica lo sport da sempre, da quando si è innamorato la prima volta nella vita. Lei, di Venezia, lui di Modena. Si conoscono magari al mare, poi via, per direzioni separate. Amano e scoprono il verso dell’amore, la separazione. Ma ormai sono in campo, senza sapere bene con chi hanno a che fare, una dolcezza, un cinismo dell’altro. Non sai. È che l’arbitro ha già fischiato, la partita è già iniziata. È un debutto in gara, è sport. Quando tocca tirar fuori il tuo meglio, nell’amore, nell’amicizia, sul lavoro, fai sport. Scopri, misuri, riveli, patisci e godi. Sport”.

Un fuoriclasse, un pezzo unico. Non appena ci incontrammo, in quel residence a Niguarda, disse: “Guardi, tra mezz’ora devo andar via”. Cinque ore dopo, con un dispiacere fondo, dissi: “Guardi, devo andar via”. Era sera ormai e sono qui da anni a domandarmi quale impegno, quale urgenza mi portò via. Avrei voluto, avrei dovuto rimanere. A cena, dopocena, a tirar tardi, chissenefrega. Porca malora, Walter, aspetti, faccio in un attimo, torno lì.

ARTICOLO n. 63 / 2023

VUOTI A RENDERE

La temperatura dell’estate

Estate. È una canzone che circola nell’aria fredda dell’inverno. Il brano lo compose Bruno Martino nel 1960, testo di Bruno Brighetti. Titolo, in origine, “Odio l’estate”. Quando Lelio Luttazzi ne fece una parodia, Odio le statue, il verbo, dunque la ripugnanza, venne eliminato. È rimasto nel testo, ha avuto fortuna la melodia, per le versioni meravigliose e dolenti di Chet Baker o di Joao Gilberto. 

Un amore, ovviamente. Estivo e perduto. Con il portoghese virato Brasil ad accentuare il sapore. Un sapore che ciascuno di noi conosce e ritrova, nel freddo di un febbraio, tra il rimpianto e la speranza, perché è quella la stagione, quella la temperatura più densa e colma di memorie. Con ampio, persistente accompagnamento musicale. 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qui. La cerca Paolo Conte, la cerchiamo un po’ tutti. Un grande fotografo scomparso, Carlo Orsi, verso aprile, ogni anno, ripeteva: “dai che ci facciamo un’altra estate”. L’ha ripetuto sino all’ultimo giugno, convinto di farcela, povera stella mia. Diceva: “Eccola, eccola che arriva”. 

Prepariamoci, dunque, perché tutto può accadere in un pomeriggio azzurro, persino troppo azzurro per noi. È una questione banalmente meteorologica che adesso, con la quantità enorme di sciocche chiacchiere sul caldo, che caldo, non se ne può più, viene un po’ maltrattata nella significanza profonda. Il caldo spoglia, spalanca, apre, permette, illumina, autorizza. Cambia il modo di fare, stare e immaginare. Toglie il telo da una moto, mette il grasso sulla catena di una bici, ripristina un guardaroba. Alleggerisce gli abiti, altri pesi perché il momento della prova costume riguarda anche chi del costume se ne sbatte altamente, figuriamoci della prova.

Cuore caldo, testa calda, sangue caldo, calde lacrime. Picchi, comunque. Di passione, di esuberanza, di emozione. Fanno parte del pacchetto, del viaggio, di una obbligatoria, accurata, delirante ipotesi vacanziera. Vanno su i gradi nel termometro, cresce il desiderio. Di cogliere, finalmente, un’occasione mancata, l’estate scorsa, due estati fa…; di progettare escursioni interminabili, visto che sarà interminabile questo tempo nuovo in arrivo. Un regalo da personalizzare, in relazione alla voglia accantonata per mesi, per una vita; all’età, al godimento di un’altra, metti ultima, stagione felice. 

Nel Nord della Scozia o a Samoa puoi andarci solo lì, quando la fantasia circola in un’afa provvidenziale. Le dita che indugiano davanti a un vecchissimo o nuovissimo numero di telefono, ma dài, ma sì. Si farà vivo un figlio lontano, così come un padre, una madre distratta. Attese, progetti. Sbocciano, al pari dei gelsomini. Emanano un profumo che tira, spinge, moltiplica le aspettative. Un colossale Sabato del Villaggio, inaugurato puntualmente, quando la primavera segnala, via meteo, il passaggio. Aprile, maggio, giugno, luglio. Poi viene la domenica, torrida e fastidiosa, a questo punto. Le piante, i fiori, le nuvole, indicano un nuovo transito. Il culmine dura pochi giorni, ore. Colme di ombre, perché ciò che è stato, soprattutto ciò che non è stato, diventa irreparabile. Si accorciano le giornate e si allungano le malinconie. Da domenica, appunto, con appresso, inesorabile il lunedì. 

Scozia? Macché. Salento, una bolgia. Flirt? Ma dài, cosa vuoi? Giacomino? In Scozia, lui sì, con gli amici. Mentre io… beh, io neanche un prete per chiacchierar.

Mica vero, non per tutti. Non per Giacomino o Giulia, o Marianna che hanno il fisico, l’età, la sfrontatezza di attraversarla, l’estate; di sguazzare in questo sole, di amare e farsi amare, di rischiare un dolore, quel dolore lì, assoluto, da cuore caldo e infranto. Di partire davvero, come immaginato, senza tante balle, uno zaino e si va. I bilanci, dopo, casomai. Molto dopo, perché l’adolescenza, la giovinezza, come l’estate, sono infinite.

Dunque, dipende. Dall’anagrafe, dal coraggio. E, magari, dalla consapevolezza di avere a che fare con la temperatura e la stagione del vuoto. Sta qui il baricentro. Nel vuoto, ecco. Che è il compendio stagionale più certo, abbinato ai 30 gradi. Si spopolano i palazzi, le strade, la città. Vanno. Vanno via tutti, ma dove cazzo vanno? In un altro vuoto, protetto da un ombrellone o da una mulattiera, simile al tuo che resti.

Non ha rilevanza alcuna il dove. È la percezione di un’ora da riempire, di un pomeriggio silente, di un caos gioioso che, in definitiva, non ti riguarda affatto. Così, nello spazio soltanto estivo, con un libro tra le mani, una granita di primo mattino, il cellulare spento, non a caso, insomma in uno stallo acustico improvviso e provvidenziale, si spalanca una voragine vagamente prevista certamente straordinaria. Il caldo, allora, diventa un tappeto, uno sfondo, persino un conforto, mentre incappi in un pensiero che in quel vuoto si fa largo e lì resta, come un salvagente sulla superficie mossa del mare. 

È un invito quasi perentorio alla riflessione, a una lentezza rimossa nella ritmica consueta e quotidiana. È un’occasione in forma di domanda. Su te stesso e sul senso del tuo fare. Su un vizio non necessariamente assurdo, su trascuratezze trattate come innocenti sbadataggini. Sospensioni intime, dunque provviste di implacabili specchi. Una vera vigilia, equivalente alla Vigilia di Natale, l’anno che svolta, come ai tempi della scuola. Il momento dei buoni propositi. Sinceri in quanto segreti, azzardati in relazione alla fatica. Di essere e di far finta di essere. Di peccare e di far finta di farla franca. Di tirare dritto quando sarebbe il momento di osservare, accogliere, dare una mano. Meglio, di più, forse, vedremo. Con il caldo che, invece di esaltare, fa sudare, una gnagnera da sfinimento. 

Sono pause mute e sconcertanti. Sono abissi necessari. Istanti, questi sì, nei quali progettare il viaggio, seguendo una mappa solo interiore, da scansionare con ciò che resta della nostra più onesta vitalità. Un caffè, una birra in meno, un’attenzione in più, una sincerità liberata, lo sguardo che passa da se stessi all’altro, quello là, che anche di me avrà avuto, ha di certo bisogno. Piccoli o enormi proponimenti che, comparendo, giustificano e rilanciano, tirano una riga. Sulla sabbia, sul pavimento, sull’anima di chi, la propria anima, in questo caldo stagnante riesce a far volare.

Il pensiero dell’estate, modestamente, per quanto mi riguarda, riporta a pieno schermo il viaggio di Nanni Moretti con la sua Vespa. Caro Diario, il film. Le immagini contengono quella libertà nota ai vespisti, ai motociclisti da agosto in città; l’odore dell’asfalto molle delle strade periferiche, l’abbandono e la solitudine di chi, dentro appartamenti dimessi e bui, dietro tende sfilacciate e verdi da balcone, sopra letti di ospedale, nel silenzio tremendo di un corridoio da penitenziario, fa i conti con un doppio vuoto. Interiore e agostano, assoluto e dimenticato. Per loro, per chi sa cosa lo aspetta, l’estate rappresenta un supplemento di pena, una condanna al nulla spaventosa. Penultimi che diventano ultimi, ultimi che diventano invisibili. Tagliati fuori da ogni condivisione, da ogni percorso euforico, destinato a fallire o meno non importa. 

Il caldo, qui, diventa un tormento che lo scorrere lento dei giorni amplifica. Quale Sabato del Villaggio? Domenica, si spera, in grave ritardo. In desolata attesa del lunedì. Del momento in cui l’estate degli altri, i vuoti irrisori degli altri, le solitudini relative altrui, avranno termine. Con la debole speranza che un qualche proposito buono, elaborato tra una granita e le pagine di un romanzo, in qualche modo li riguardi. 

A piedi, intanto, senza Vespa. Una camicia azzurra, dopo una doccia tiepida. Ogni prospettiva comparsa in primavera si è dissolta, come previsto da un inconscio allenato all’imbroglio. Meglio, bene così. Lo sguardo per aria, lungo facciate di case che il traffico impediva di osservare. Targhe sulle facciate, a ricordare residenti celebri. Parchi senza bambini, giostre deserte, roba da saltare sul camioncino dei pompieri con la certezza di afferrare il codino sospeso, giro gratis, uno via l’altro, cosa tieni aperto a fare?

Macchie di sudore sulla camicia. Ghiaia che scricchiola. Anziani con il Corriere. Anziani con la badante. Badanti annoiate con anziani che leggono il Corriere da tre ore. Il profumo di una crema solare, spuntato non si sa come e perché, forse una babysitter rimasta senza baby. Arriva, piglia e scarica ai Bagni Scogliera. Odore di vernice fresca, cabina appena ridipinta rosso vivo. Il molo per i tuffi. La mia estate migliore è vecchia di cinquant’anni ed è bellissima ancora adesso. Eccola qui. La intravvedo per un attimo di nuovo, mentre perlustro il vuoto di agosto, riempito dai miei vuoti.

ARTICOLO n. 38 / 2023

“CIECO”: MASSIMO FINI IN LUCE

La stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura

Cieco. È il titolo del libro scritto da Massimo Fini alle soglie del compleanno numero 80. È la confessione –ultima dice lui – di un uomo afflitto da un glaucoma che gli ha tolto progressivamente la vista. È un viaggio dentro l’anima esposta di un giornalista, autore, saggista, che ci vede benissimo.Abbastanza, anche ora, forse proprio ora, per continuare a riflettere su se stesso e sui rilanci che la coscienza innesca e determina. Per certi versi, così da sempre. Mi scuso per l’uso qui della prima persona singolare: conosco Fini da molti anni e sono un suo vecchio ammiratore. Per la cultura e la libertà di pensiero; per l’indipendenza e il coraggio; per l’intelligenza e la capacità – talvolta cocciuta, persino autolesionista – di andare contro “pur di…”. 

E non importa nemmeno trovarsi in linea o per nulla d’accordo con le sue opinioni. Conta la stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura. Dunque, un maestro. Anticonformista, presente e attivo, peraltro. In luce, ecco, alla faccia del glaucoma. Per me, per chi ama ancora, ha amato moltissimo questo mestiere. Lo scrivo perché l’ho pensato, per l’ennesima volta, uscendo dalla sua casa colma di libri, dove è un piacere chiacchierare – e fumare – condividendo (anche) qualche comune memoria, un’af-fini-tà per me preziosa.

Giorgio Terruzzi: Il libro, dunque. Cieco. Il titolo maschera una ambivalenza. Annuncia una condizione, una fatica. Ma anche uno stato propizio all’indagine. Non solo intima…

Massimo Fini: Nella mitologia greca il cieco è il veggente. Tiresia, non disponendo della vista, va oltre. Però, porco cane, io ci vedevo benissimo ed ero veggente anche con gli occhi in piena funzione.

G.T. Due date: 1985, 1989. Scandiscono i momenti più difficili della malattia. Puoi ricordarli?  

M.F. La prima data coincide con la prima diagnosi, la seconda segna l’inizio della fine, il momento più doloroso. Guardavo il cielo, osservavo le stelle durante una bellissima notte a Capri. Stavo lì con la mia fidanzata e mentre non riuscivo a mettere a fuoco il firmamento, mi resi conto che non avrei più rivisto nulla del genere.

G.T. Questo testo sembra completare un lungo racconto autobiografico iniziato con Ragazzo. Storia di una vecchiaia, pubblicato nel 2007. È come se l’analisi di te stesso, per certi versi narcisistica, per altri illuminante, sia diventata la vera guida, la fonte del pensiero. Utile a individuare un punto di vista. La cecità su questo procedimento, sino a che punto incide? 

M.F. Be’, io non ho fatto altro che scrivere autobiografie. Se penso a Una vita, soprattutto, a Ragazzo, al Dizionario erotico, a Confesso che ho vissuto, trovo testi autobiografici. Il tema riguarda anche la mia opera filosofica, termine da usare tra virgolette. Come scrive Nietzsche, ogni filosofia è una autobiografia. Credo che questo mio modo di essere, dove è pur possibile riconoscere un certo narcisismo, sia abbinato da sempre a una grande capacità di ascolto. Cosa fondamentale, non solo nel nostro mestiere. Nella vita. Nino Nutrizio, uno dei grandi maestri del giornalismo, direttore de “La Notte” diceva: questo è un lavoro che si fa prima con i piedi e poi con la testa. Bisogna uscire, perlustrare, ascoltare. La testa viene dopo, quando si tratta di dare un senso al materiale che hai raccolto. La cecità ha rafforzato questo modo di fare, quindi di pensare e poi di scrivere. Non avendo la vista sei molto più attento a chi parla, a come parla una persona. In particolare alla musicalità. La scrittura è ritmo, come la musica.Ho notato in che modo i grandi autori di canzoni, ad esempio, collocano un termine in un punto preciso proprio in funzione del ritmo. È ciò che cerco di trasferire nella mia scrittura.

G.T. Penso alle tue passioni. Il calcio, le automobili, la velocità come attrazione verso una spericolatezza che profuma di immortalità. Qui, non vedere, significa fare conti più amari?

M.F. Non è solo una questione di cecità. Nel frattempo sono invecchiato e, in aggiunta, ho dovuto attraversare la pandemia in queste condizioni. Non so come sia riuscito a cavarmela. Certo guidare, usare l’auto per me è stato sempre un segno di libertà. Ti annoi, salti dentro l’automobile, raggiungi un paesino attorno a Milano, una gelataia carina ti sorride e la tua giornata in un attimo cambia sapore. Se parliamo di indipendenza il discorso è più complesso. Il termine vale come cifra della mia vita personale e professionale. Ora non è più così. Dipendo. Dalla segretaria, da una fidanzata, se c’è, da mio figlio, dalla mia ex-moglie. Da tutti. Ho bisogno di assistenza e darmi assistenza diventa difficile perché se una persona mi aiuta troppo mi incazzo, se aiuta poco è un guaio. Per fortuna c’è qualcuno che procede con estrema attenzione. Mio figlio e l’amico regista Edoardo Fiorillo che dispone di autentiche capacità sensitive.

G.T. Leggere per scrivere e scrivere per leggere. Sono queste le inibizioni peggiori?

M.F. Detto i pezzi. Poi li leggiamo, correggo la punteggiatura, la forma, poi verifico la pubblicazione. Ma una cosa è dettare, un’altra è scrivere, anche perché da un aggettivo ne viene fuori un altro mentre lavori sul testo. Ho ammesso più volte che per un bel giro di frase sono anche disposto a dare una direzione diversa, a volte quasi opposta, al senso che avevo immaginato per il mio articolo. Del resto, più o meno meritatamente, mi hanno attribuito il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura, quindi temo molto di perdere la qualità dello scrivere. I miei amici dicono che non è successo, ma sono di parte. Se leggo testi scritti dieci anni fa mi sembrano linguisticamente migliori. 

G.T. Sonno e sogni. Potenziati da questa condizione di cecità?

M.F. Si, certamente. Borges, che come sappiamo divenne cieco, non sognò per tre anni e per questo era assolutamente disperato. All’inizio della malattia il sonno è stato un rifugio. Se dormi, la tua malattia non esiste più. Ma i sogni, talvolta, sono inquietanti….

G.T. Stimolano la memoria, comunque. Penso al racconto dell’estate 1960. Bagni Umberto a Savona. Tutto perfettamente a fuoco. L’hai inserito nel libro per il piacere di ritrovare, da non vedente, ogni dettaglio del passato? 

M.F. Quanti secoli abbiamo impiegato per uscire dall’infanzia? Per uscire dall’adolescenza? Molto tempo. Perché il tempo procede in una progressione particolare. Negli anni della vecchiaia scorre più velocemente mentre le giornate sembrano più lunghe. Meno impegni, molti vuoti. Non so dire se il ricordo assume rilevanza a causa dell’età o della cecità. Walter Tobagi mi aveva soprannominato, con affettuosa ironia, “Passato è bello”: ho sempre avuto un occhio rivolto al passato. Il futuro mi ha sempre fatto orrore. Così, forse, questa precisione fotografica nel ricordare è una inconscia rivincita che mi prendo da non vedente. I dettagli sono importantissimi nel nostro mestiere e ai dettagli bado molto”.

G.T. In Cieco racconti del primo amore. Poi citi De André, Le passanti. Rinunciare al corteggiamento, al gioco di sguardi è insopportabile?  

M.F. È devastante. Passeggiando sento voci di donne, di una ragazza. Intuisco una freschezza, immagino un aspetto fisico. Ma il gioco di sguardi mi è vietato. Se a questo aggiungiamo che sono un voyeur compulsivo, misuriamo l’entità della fregatura. È vero, come dice De André, che lo sguardo di un attimo poteva valere una vita e invece non ne abbiamo fatto nulla. Ma è anche vero che alcune storie d’amore sono nate proprio da uno scambio di sguardi. Nel 2015, appena terminato di scrivere Una vita pensai alla Recherche di Proust. La morte al termine della stesura del testo. Pensai, persino augurandomelo, potesse accadere a me la stessa cosa. E comunque dichiarai di non voler più scrivere. Mi arrivò una lettera inviata da un giovane giornalista, cieco dalla nascita, che mi invitava a cambiare idea. Gli risposi con delicatezza. Ma se avessi dovuto farlo “finianamente” avrei dovuto scrivere: certo, un cieco può fare moltissime cose, tranne vedere”. 

G.T. Scrivi: felicità è una parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata. Però poi la usi a proposito di te stesso di fronte al mare…

M.F. Il mare per me è sempre stato taumaturgico. Per noi che siamo nati al di qual delle colline, come canta Paolo Conte, come scrive Cesare Pavese, il mare è mitologico. Da ragazzo dopo una sbronza pazzesca mi bastava cacciarmi in acqua per uscire come se non avessi bevuto. Il mare è importante anche in questa mia situazione. Non vorrei fare paragoni blasfemi ma perché Nietzsche a Rapallo si consolava accendendo falò sulla spiaggia? C’erano solo tre colori: l’azzurro del cielo, il blu del mare e il verde cupo delle colline. Sono toni che, a fatica, riconosco ancora e quindi per me è come sentirmi sano. Soprattutto in quell’ora sospesa che sta tra il giorno e la notte. Tempo sospeso, appunto. Di notte ho scritto tutti i miei libri. Lavori dentro uno spazio infinito, silente. Il tempo per me ha un valore enorme e il vero peccato è sprecarlo. Quindi, per una facile conseguenza, confesso di detestare quelli che vedono e non sanno usare la propria vista.

G.T. Scrivi della stanchezza del vivere. È tutto vero o è una mezza bugia?

M.F. Purtroppo è una verità. Questo libro è una sorta di De Profundis. Ho avuto poco tempo fa una segretaria giovanissima e molto capace. Disse: non so se augurarti di vivere più a lungo sia un buon augurio. Il paradosso dei paradossi è che sono cieco ma fisicamente sanissimo. Mi sono fatto un’idea: che questa malattia mi abbia protetto dalle altre.

G.T. Infatti, di quell’ “anarcoide russo mezzo pazzo”, come ti definì Giorgio Bocca molti anni fa, vedo ancora delle tracce…

M.F. Finché sono vivo spero che qualche traccia anarcoide rimanga. Io non sono una persona duttile. È un difetto e al tempo stesso una forza. Sono rimasto fanciullescamente lo stesso, nonostante tutte le esperienze attraversate. Sono ancora piuttosto ingenuo di fronte alla vita, anche se a questo punto chiunque mi può fregare. Mi piace ancora catturare l’attenzione altrui attraverso un processo mentale. Il fatto è che una persona devi riuscire a catturarla e questa attività è ormai compromessa. Resta la parola…con la parola me la cavo ancora.

G.T. Insomma, potrà arrivare un altro libro, domani o dopo. In fondo, che ne sappiamo del nostro futuro?

M.F. Noi pensiamo che il futuro sia lineare. Il mondo occidentale sembra destinato al collasso, basato com’è sulla crescita esponenziale. Ma in realtà non funziona così, accadono fatti che non possiamo immaginare. Nella vecchiaia c’è sempre l’imprevisto in agguato. In negativo molto spesso. Ma può essere anche in positivo. Un altro pensiero mi viene in mente: spesso da un male può nascere un bene. Quando castrarono il mio Cyrano dalla televisione, decidemmo di trasferirlo in teatro e ci divertimmo moltissimo. Credo che il tema sia legato alla vitalità residua. Comunque, devo stare attento perché quando le cose vanno bene sono in allarme. Temo una ritorsione, una punizione. Sono agnostico ma, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Non riusciamo mai o del tutto a uscire dalla cultura cattolica. 

G.T. Cosa sei contento di non vedere?

M.F. Di non vedere me stesso che invecchio, allo specchio.

ARTICOLO n. 99 / 2022

SA L’HA VIST CUS’È? IL ’23!

L'anno che verrà

Guarda, siccome continui a fare il pirla, ti sbatto giù la cronologia. Si, si, proprio la crono, mese per mese, perché se mi fisso, mi fisso, vado sino in fondo. In fondo all’anno. Anno 2023. Due, più due, più tre, fa sette. Il numero è magico, come si sa. Infatti, ho avuto una visione che neanche la Bernadette.

Cos’è che dicevi? Sarà la solita sbobba… abbiamo perso tutte le partite, altro che il Milan, i secoli bui, eccetera eccetera. Avrai ripetuto dodici volte la parola “ormai”. Gesù. Depressione carsica, senza contare i calcoli renali, un certo innalzamento della pressione, il cuore che mi va fuori tempo, bla, bla, bla. Che poi, non è che se vai a vivere in Portogallo, come dici tu, sei in salvo, bello paciarotto. Cos’è che hai detto? Madeira… un’isola greca… il Giappone. Certo. Sei lì, davanti al mare o davanti a un bel giardinetto zen, tutto contento. Ti guardi attorno: cosa vedi? Il mare, il giardinetto e poi? E poi basta. In compenso, senti. Senti la Pausini. «La solitudine fra noi, questo silenzio dentro me, è l’inquietudine di vivere, la vita senza te…». Che sarei io, noi, quelli che, nonostante tutto, ti vogliono bene. Dai, va là, te e Madeira. Leggi qui piuttosto. Ti faccio il quadro, così la pianti di menare il torrone. Vado? Vado.

Gennaio 2023

Intanto, la neve. Una nevicata che ci seppellirà, come la famosa risata. Tutti a spalare, a sudare, a tirare palle di neve per giorni, i bambini per strada, altro che cameretta, soli soletti a guardare il TikTok. A furia di ridere con le palle di neve, monta l’iniziativa. Quale? Questa: giornata mondiale del silenzio web. Per un giorno tutte le persone, ma proprio tutte, non possono sbirciare in rete neanche per causa di forza maggiore. Sembrava una scemenza. Invece: successone. Anche per via della neve che, nel frattempo, non cessa di venir giù. La cosa produce un certo fastidio a quelli che se non twittano sbarellano. Ma sì quelli lì, che hanno i followers e quindi la mettono giù dura. È che se il follower si dedica alla palla di neve, o magari a fare legna, dico per dire, buonanotte suonatori. Occhio perché ‘sta faccenda può sembrare una cazzata. Invece innesca. Monta, diventa valanga, visto che siamo in tema. Comunque, come inizio, mica male.

Febbraio 2023

La forte e progressiva riduzione degli scambi via web segnala di sponda una serie di avvenimenti clamorosi. Tipo parlare con quelli lì del bar non soltanto del Milan e affini ma anche di questioni leggermente più intime, metti la prostata o l’intenzione di trasferirsi in Giappone in quanto sfiduciati e depressi. Cosa che genera ilarità e una serie di vaffa, abbinati al sospetto che farsi prendere per il culo dai giapponesi risulterebbe assai più arduo e meno indisponente. Di neve non ne è rimasta granché ma a furia di stare in giro sembra che sia diventato di tendenza ritrovarsi a commentare le battaglie con le palle di neve, organizzare delle cose sul genere fiaccolata, raccolta di bottiglie di plastica lasciate in giro, rivalutazione dell’antico gioco della bottiglia (in vetro) ai giardinetti, che magari ci scappa della roba che scotta nonostante la stagione. L’andazzo genera un calo a picco degli ascolti dei cosiddetti talk show. Se lo show lo fai con delle persone sotto casa, cosa guardi le tele a fare? Festival di Sanremo: un flop. Chissenefrega.

Marzo 2023

I giornali annunciano la fine della guerra Russia-Ucraina, fatto che comporta, oltre a un certo sollievo, la definitiva chiusura di molti talk show, peraltro alla canna del gas. Non trovarsi davanti, che so, un Di Battista (ma chi è?), una Santanchè (ma cosa dice?), uno Sgarbi (oh signur), produce una certa euforia anche tra gli anziani. I quali si sentono stranamente liberati, persino ringiovaniti. La stagione notoriamente “pazzerella” fa il resto. Più luce, più ore, più campi di bocce riaperti, per non parlare dei bar di cui sopra che adesso permettono di prendere per il culo quelli che volevano partire per il Portogallo anche all’aperto. “Volevano”, passato. Già perché nel frattempo l’idea dell’emigrazione è stata accantonata al pari di altre ipotesi che si dicono così, per dire… compro una Guzzi V7, una ceramica di Picasso, cambio telefonino…

Aprile 2023

La fine della guerra porta una quantità di persone, chi più chi meno, a riflettere su alcuni fatti pregressi. C’è chi si azzarda a buttar lì, in pubblico, frasi un tempo impronunciabili. Un dubbio, un dubbietto su quel Zelensky, ad esempio, senza il rischio di venir trattato come bastardo filosovietico. Un dissenso sul tema armi da mandare in giro a nastro, senza il rischio di venir considerato una merda umana che abbandona della gente al proprio destino… Il fatto che il web venga considerato sempre più spesso come un ambito superfluo accentua la riflessione. Ambito, si sa, stracolmo di zone d’ombra. Persino sul Covid pare possibile discutere senza litigare. Addirittura, una signora in fila alla posta, dopo aver pronunciato, a bassa voce, «Beh, anche i vaccini – utili sia chiaro – qualche danno lo fanno», viene risparmiata dalla folla presente. Il fatto diventa notizia e la notizia permette a molti di esprimere delle opinioni personali in pubblico senza temere ritorsioni. Insomma per essere aprile, il più crudele dei mesi, una sconcertante festa dell’anticonformismo. 

Maggio 2023

La stampa concede grande risalto ad una nuova iniziativa popolare: il “White Friday”. Nessuno compra una mazza per 24 ore. Poi si sa come vanno le cose: il Friday diventa Saturday, Sunday, Monday. Si discute a lungo sui pro e i contro per arrivare alla conclusione che smettere di comprare è un casino. Così, il White Friday viene soppiantato dal Grey Friday. Cioè: compri solo le cose che servono sul serio, tipo mele, verdure, pastasciutta, il resto ciccia. Da qui la questione si allarga a macchia d’olio e una serie di manifestazioni spingono il governo a vietare per sempre i saldi. Che abbassino i prezzi tutto l’anno e non se ne parli più. Il fatto che queste istanze non siano più dibattute nei talk show rende tutto più semplice. Intanto il Milan vince di nuovo, con largo anticipo, lo scudetto. 

Giugno 2023

Fine delle scuole. Ma i grandi cambiamenti in atto fanno sì che i collettivi di molti istituti pubblici, riuniti a Venegono, abbiano messo a punto un documento che viene subito adottato dal Ministero dell’Istruzione. È, finalmente, una vera riforma. Basti dire che i programmi prevedono di ridurre le ore dedicate al Pascoli e al Carducci (con tutto il rispetto) e di aumentare le ore dedicate a Kafka e a Beckett, raddoppio delle ore di educazione fisica, obbligo di sistemare le palestre, tempo dedicato alla poesia. «Dei telefonini in classe non ne parliamo neanche» si legge in una nota a margine, mentre cambiano radicalmente i metri di giudizio degli insegnanti. I quali possono essere rimandati o bocciati dagli alunni medesimi quando una classe comprende oltre sette studenti sotto la sufficienza. Questa vera e propria rivoluzione innesca una tale euforia che persino le tristemente note baby gang si sciolgono da sole perché se cominci a divertirti, cosa spacchi cosa? Piuttosto, per giovani e giovanissimi la riforma prevede prove di coraggio estremo, tipo dare una mano a chi resta indietro. Il rugby diventa sport obbligatorio sin dalle elementari. Viva!

Luglio 2023

Ciò che sta accadendo nel Paese determina una serie di cambiamenti anche presso gli organi di stampa, indotti a dare sempre meno risalto a cose di nessunissima importanza come le reazioni di ogni esponente politico a decisioni di scarsissima importanza. Alcune puntate della nota trasmissione Chi l’ha visto vengono dedicate a figure che non compaiono più all’orizzonte da mesi. Protagonisti delle prime puntate Maria Elena Boschi (bassa audience), Gianluigi Paragone (bassissima audience), Massimo D’Alema (puntata annullata). Il fatto di non dover presenziare in televisione ogni due per tre porta gran parte dei politici a darsi da fare con la sensazione che va bene tutto ma a un bel momento la gente va in bestia. Da qui, un vero colpo di scena: una profonda revisione del sistema sanitario nazionale capovolge il rapporto di forza tra privato e pubblico. Ci vorrà un po’ ma intanto… Cosa da non credere: sgombrate le sedi di Casa Pound, vietate le adunate a Predappio, altrimenti la polizia comincia a menare, anche perché menare gli studenti è passato di moda. In giro si incontrano delle persone che improvvisamente si mettono a cantare Singing in the RainEl purtava i scarp del tennisLa bella Gigogin anche mentre mangiano un toast farcito.

Agosto 2023

Vacanze. La Svizzera è la più gettonata, vuoi per i picchi, i pendii; vuoi per il rösti vuoi per le caramelle Sugus che altrove ahinoi non si trovano. I Måneskin si sciolgono, ma pensa te.

Settembre 2023

Chi aveva votato Fratelli d’Italia si chiede cosa sia saltato in mente a Fratelli d’Italia, la Meloni in primis, di varare provvedimenti del genere. Il disorientamento è attutito da una palpabile serenità diffusa, cosa che rende inutile star qui a litigare. La Lega nomina un nuovo segretario e la decisione conforta proprio tutti anche se il divertimento viene meno. Il lungo dibattito all’interno del PD porta alla fondazione del “Partito Ex-Comunista Italiano”. Il programmino prevede: rilanciare la sinistra occupandosi di quelli di sinistra, dei poveri, di chi non frega una mazza a nessuno, persino degli operai. L’intenzione è di formare un governo insieme a quelli di Fratelli d’Italia, tanto ormai… Beppe Grillo, emigrato in Giappone, manda dei video di giardinetti zen. I talent show vengono soppressi a furia di vedere a zonzo degli ex-concorrenti spostati che si credono chissà chi. Fedez si propone come giudice in Corte d’Appello. In uno spot si vede la Pausini (sempre lei) che becca una saccata di botte da persone di una certa notorietà per averle convocate d’urgenza scopo mostrare la nuova TV. Mentana organizza una serie di maratone per seguire gli sviluppi del Mondiale di rugby in svolgimento in Francia. Wow!

Ottobre 2023

Tensioni nella maggioranza ma anche nelle minoranze. Di questo si parlotta ogni tanto, mica poi tanto. Piuttosto sorgono come funghi enti dedicati al recupero dei migranti, alla formazione degli ex-migranti, all’accoglienza. In contemporanea il G20 ha finalmente deciso di comportarsi come chi sa cosa è lì a fare. È un fiorire di iniziative trasversali dedicate allo sviluppo di molti Paesi africani, di iniziative sostenibili. Drastica riduzione delle emissioni. Trump in esilio a Madeira, Orban interdetto dai suoi stessi famigliari. E Putin? Lasciamo stare per carità. Pare, dicasi pare, che se andiamo avanti così, prima o poi tocca anche a quelli che evadono il fisco. Per ora è una battuta ma, visto come tira il vento, potrebbe anche succedere. Milano, all’avanguardia come si dice da anni, diventa completamente ciclabile. Chi ancora considera l’automobile un mezzo di trasporto utile è pregato di posteggiare a Gaggiano, Treviglio, Pandino, Legnano o Merate, nel senso dell’hinterland, e poi pedalare, pedalare, pedalare. Casco obbligatorio anche per i pedoni, così imparano a non prendere su la bici. 

Novembre 2023

Le temperature del pianeta indicano un calo sorprendente. Fa un freddo della madonna ma intanto la Groenlandia ne beneficia e mi si estingue meno roba. Il Milan è in testa al campionato. Il bar sempre pieno così. Tempi di attesa al pronto soccorso 20 minuti max. Ciumbia! Si barbella ma l’umore sale a picco. Gli ultrà delle curve più tristemente note d’Italia vengono obbligati dalle società calcistiche di riferimento a spalare la neve lungo i rettilinei, così i ragazzi si sfogano e la smettono di disturbare. Ogni famiglia programma le vacanze invernali. Dove? In Svizzera, che domanda… il ricordo del rösti e la voglia di Sugus spingono verso i Cantoni dove è un attimo registrare il tutto esaurito. In alternativa, Val Gardena, per via dei canederli, Valtellina per i pizzoccheri. I vegetariani benestanti in India, con dei charter pieni di spezie.

Dicembre 2023

Ripresa massiccia delle nevicate. Il futuro si annuncia radioso, a parte per i ciclisti che con la neve fanno una certa fatica a star su. Lettera a Babbo Natale da spedire tassativamente entro il 4 dicembre. Albero di Natale l’8 dicembre. Su questi punti nessuna deroga. Chi con una palla di neve tira giù il cappello di un passante durante le ore scolastiche è giustificato automaticamente. Chi ancora usa il cellulare in metropolitana viene sbeffeggiato senza ritegno. Motto dell’anno: “Il veglione ha rotto il marone”. Da qui tutto ne consegue.

ARTICOLO n. 79 / 2022

QUARANTA ANNI FA BEPPE VIOLA

Milano e il Triangolo delle Bermude

Il 17 ottobre 1982 era domenica. Stavamo tutti lì, primo pomeriggio, appartamento di via Arbe ad uso ufficio. Beppe: una forte emicrania. Non un fatto eccezionale, ne soffriva, tirava avanti. Sergio Meda e Gianni Mura a scrivere non so cosa. Scrivevo pure io, un pezzo – questo lo ricordo – per Il Manifesto. Tic, tic, tac. Un concertino, il canto delle Olivetti. Fumo da sigarette, un nuvolone. Andrea Motta a sistemare l’archivio. Era un vero maestro: ritagliava, fotocopiava, imbustava secondo criterio sapiente, lo stesso testo destinato a “voci” diverse. Poi Beppe andò via. San Siro. Servizio per la Rai, Inter-Napoli, la partita. Poi andammo via noi, in ordine sparso. Ad avvisarmi venne mio padre, era buio da un pezzo. Non avevo telefono a casa, avevano chiamato lui, a Monza. Dal citofono disse: scendi un attimo. Sulle scale disse: «Beppe…non sta bene». Domandai «Beppe, il portiere?». Questa frase mi è rimasta in mente perché era il frutto di una istantanea, disperata rimozione… Beppe “il portiere”: una persona che non vedevo da anni. Ma era anche l’unica omonimia possibile per scongiurare una brutta notizia. «Ma no, Beppe…Beppe Viola».

Poi fu come infilare una pista di bob, senza frenatore. Policlinico. Ictus. Carlo Sassi, Heron Vitaletti appena fuori l’ascensore, su, all’ultimo piano. Enzo Jannacci che esce dalla terapia intensiva con una faccia da fine delle trasmissioni. Fine, infatti. All’alba un’aria da temporale in arrivo, il cielo: perla e piombo. Fuori dall’ospedale guardai in alto. Franca affacciata alla finestra. È una immagine che non dimenticherò mai. Franca, sua moglie. Quattro figlie a casa. Mentre l’accompagnavo con la Opel Kadett disse: «Dovrò anche andare in banca. Secondo te siamo sul rosso o sul nero?».

Su quella Opel avevamo trascorso una serata colma di risate poco tempo prima. Tutti dentro. Beppe, Franca, Renata, Marina, Anna e Serena che aveva meno di tre anni. Fuori regola, si capisce. In sette, non so nemmeno come riuscimmo farcela. Pizza. Poi sosta al Bar Gattullo. Cantando “Caro amico ti scrivo”. Era stata una serata in famiglia e quella famiglia, da allora, 1982, è diventata parte della mia vita. Ridendo e schersando, con la “esse”, come quelli che aspettano il tram.

In via Arbe, Beppe aveva fondato Magazine. Era un’agenzia giornalistica, un posto dove cavare entusiasmo covando idee, in compagnia di amici fidati e bravi a fare el mestè. Un altro mondo rispetto a quello Rai, dove aveva a che fare con troppe contradizioni. Libri, articoli per una quantità di giornali ai quali veniva proposta una specie di filosofia giornalistica, sviluppata per rose di testi, scopo completamento di un tema visto da angolature diverse. E poi, i quotidiani cosiddetti di provincia. Dal Gazzettino di Venezia al Mattino di Napoli, dal Tirreno di Livorno alla Nuova Sardegna. Dodici in tutto. L’idea di Beppe: i grandi eventi sportivi raccontati come si deve da firme importanti.Una pagina intera, ben fatta, replicata in aree geografiche diverse, per testate che non potevano permettersi un inviato sul posto. Funzionava. Era una fatica bestia ma funzionava eccome. Da Bruno Pizzul a Oliviero Beha, tutti coinvolti. Anche qualcuno che non scriveva proprio come richiesto e così toccava parlarsi al telefono e poi fare il pezzo lì, a Magazine. 

Beppe aveva voluto tirar dentro un giovane. Il giovane ero io, fresco di università, aspirante, felice. Mi chiamava Tenente Colombo. Per lo strabismo dicevo. «Ma no, per l’impermeabile». Fu amore a prima vista, a proposito di oculistica. Di giorno al lavoro, e non c’erano santi perché Viola Giuseppe, classe 1939, classe, sul “mestè” era esigente e intransigente. Scelta delle parole, punteggiatura, un acuto per l’apertura, un gran finale per la chiusura.«Le prime e le ultime tre righe: fondamentali. Servono per tirar dentro chi legge e per lascialo andare con l’idea di aver visto la Madonna». Guai a sgarrare, guai a mediare, regali di Natale rimandati indietro, tenere da conto rigore e libertà. L’ufficio: un porto di mare. Passava Giovanni Trapattoni e con Beppe parlava in dialetto, raccontava vizi e virtù dei suoi giocatori, alla Juve. Ascoltavo, sbalordito. Sandro Gamba, il cittì del basket, parlava di jazz, Jean Louis Trintignant, l’attore, portava mezze forme di parmigiano e bottiglie da un miliardo. Rosso, si capisce. Andavamo a fare la spesa perché in via Arbe c’era la cucina. Gli altri a gridare, dalla finestra, non le solite porcate. Sì ma in rosticceria era esposta una piscina olimpionica con dentro l’insalata di pollo, bella unta, cosa vuoi… cucinavano ancora le polpette alla stazione Centrale, unte oltre ogni decenza. Da asporto, un po’ come adesso. «Ma com’è che le cose più buone sono quelle che fanno male?». Non so, forse ero semplicemente un ragazzo che aveva voglia di imparare, forse imparai a volergli bene dopo sei secondi, forse eravamo simili su tante cose, a cominciare dal rispetto per le regole dei giochi. Fatto sta che la sera, ecco, usciti dal “marchettificio”, Beppe mi trasportava a Disneyland. 

Ma sì, il Triangolo delle Bermude. Ippodromo trotto, dove spariva il grano; Derby Club, dove spariva di tutto; Bar Gattullo, dove sparivano i bignè. Milano aveva ancora addosso quella fregola anni Settanta che metteva assieme, stesso tavolo, saltimbanchi e imprenditori famosi; malavitosi e randagi dotati di cinismo più senso dell’umorismo, al punto da fornire battute irresistibili a nastro. Musicisti, intellettuali, artisti e designer. Presi da una progettualità costante, da una visione ottimistica del fare, da una condivisione comunque possibile. Con un’attitudine alla risata travolgente dentro una città fatta di porte aperte. Beh, il muro di Berlino era su ancora. E c’era il Milan a fare da collante. Anche in quanto fronte che aveva garantito integrazione chi a Milano era arrivato da poco, con l’idea di restarci per sempre. 

Opel Kadett, Olivetti, archivio fatto di ritagli. Il piombo nelle tipografie, case senza telefono. Sembra che stia raccontando del Medio Evo, visto da qua, oggi. Eppure così. Con una gamma di odori formidabili sempre in circolo perché, per ogni tragedia, era pronta una frase fulminante capace di sdrammatizzare. Perché dietro ogni idea c’era il marciapiede, così vispo, carico di facce da catalogare, magari in un ufficio apposito, sempre aperto. Perché dentro il cinismo, la presa per il culo, c’era una sorta di naturale bontà. Una attitudine all’accoglienza anche per quelli che “el ghe manca cinc a faa ses”. Por sacrament. Una pietà, mascherata anche quella, figuriamoci, infilata tra le pieghe dell’esistenza, mondata dalla retorica. 

Beppe Viola era un eversore. Il suo campo d’azione sembrava limitato al giornalismo ma in realtà lui, così come molti altri in viaggio nel Triangolo delle Bermude, praticavano tentativi di rivoluzione, talvolta addirittura inconsapevoli, dentro una cultura plasmabile. La comunicazione come l’architettura, il design correlato all’industria, la musica, l’arte e persino la televisione rappresentavano campi aperti, o apribili, di esplorazione. Arrivavo da Bologna dove avevo avuto a che fare con un altro slancio eversivo, violento e sanguinoso, culminato con l’omicidio di Aldo Moro. Il mio archivio personale non conteneva solo ritagli cartacei, era colmo di volti e parole animate spesso da un autentico desiderio di cambiamento, con la sincera convinzione che le armi fossero strumenti indispensabili per sovvertire una gamma ampia di ingiustizie. La “classe operaia” – termine che pronunciato oggi suona come una ennesima anticaglia – data come parte in causa, era in realtà distante da molte azioni progettate e promosse in suo onore, nel suo nome. In quei percorsi notturni e milanesi potevo riconoscere una atmosfera curiosamente assonante.

Scrivo curiosamente perché in realtà avevo a che fare con ironia e sberleffo dopo aver avuto di fronte un tempo crudo, un’iperbole drammatica i cui esiti avevano prodotto una lista di vittime lunga così, su più fronti, e una deriva altrettanto penosa se penso a chi, attorno a me, era passato dall’eccitazione per un ideale travolgente al disorientamento più cupo, alla droga come sedativo. Ciò che potevo osservare in quella Milano mostrava una aspirazione molto diversa. Originata proprio dalla frequentazione assai più assidua del marciapiede. La radice era infilata tra le macerie della guerra, in una fatica vista da vicino o provata direttamente, abbinata ad uno slancio vitale propizio e propiziatorio. 

Al contrario dei giovani che dalle università avevano teorizzato per poi intraprendere, questi personaggi formavano squadre tutt’altro che omogenee, etichettabili, composte da individui appartenenti a generazioni e ceti sociali differenti, capaci di intendersi e di stare assieme in una tolleranza tanto indispensabile quanto fosforica. Le energie erano potenti su entrambi i campi ma emanate da pregressi diversi, da percezioni diverse e quindi da diverse finalità. Periferie milanesi e case popolari per assumere un gergo, una serie di tic preziosi persino per gli intellettuali più raffinati. La cui formazione era permeata anche di cattivi odori. Ciò che sta in basso, appunto, dove si lavorava alla catena, dove si cantava nei trani – vino sfuso a basso costo – dove i terroni venivano sbeffeggiati per essere accolti. Le osterie di Bologna e Milano mi sembravano incomparabili negli arredi, nelle abitudini dei clienti, nelle atmosfere, nell’acustica, nel tasso di allegria da accompagnare ad una dialettica, una ideologia, una progettualità.

I tentativi eversivi qui erano a colori, dopo anni di visioni in bianco e nero. E le tinte più luminose le forniva chi, inconsapevolmente appunto, non aveva altra ambizione che testimoniare le contraddizioni, le incongruenze, la comicità di un passaggio comune ed epocale. Umanissimo e per questo autentico, non trascurabile anche da chi era abituato a volare alto, partendo da un basso visto da vicino, vivace e ispiratore.          

Il linguaggio parlato, già farcito di termini di fresco conio popolare, finiva nei pezzi. Beppe dava le multe a chi scriveva “sfrecciano”, Lire cinquemila, prego. «Ma te quando parli dici sfrecciano? Hai vent’anni, scrivi per come pensi, per come sei».  Il che voleva dire: leggi. E poi leggi. Letteratura nordamericana soprattutto, da Damon Runyon a Truman Capote. Una modernità da assimilare per poi ricercare uno stile proprio, nuovo. Andava in bestia se ascoltava “la palla fa la barba al palo…il ginocchio in disordine…”. Quando presentai il primo articolo, dopo una notte di lavoro e ansia, lo stracciò sorridendo «Bene, ma si può migliorare, no?». Gesù. Da allora carta carbone, per carità, giusto per conservare qualche punto e virgola stando alla larga dai luoghi comuni.  

Così, tra gente che di mestiere rubava i tir, signori che viaggiavano con il tonno del Consorcio e la pasta de Cecco nel vano portaoggetti, allibratori clandestini e star del cinema, se non imparavi a stare al mondo, oltre che a scrivere meglio, eri proprio un pirla. Lui, Beppe, sempre sudato, febbraio compreso. Sempre pronto a dar via una idea geniale a gente che poi, ciaopepp. Sempre attraversato da una inquietudine più oscura di quanto non apparisse. Sempre capace di sparare una battuta strepitosa. Pezzi, racconti, testi per canzoni, per la pubblicità. Un lavoratore indefesso. Chiamava al telefono Paolo Rossi, non ancora “Pablito”. All’improvviso, senza spiegare con chi stesse parlando buttava lì: «Ti passo un mio amico da intervistare». Come dire stai pronto, pronto sempre a cavartela da solo. Oh, porca malora, Beppe, stella mia. Quando nevicava, uscivamo a tirare palle di neve alle automobili, in viale Sarca, ridendo e scappando contromano lungo un senso vietato, per non farci beccare. Mettevamo su la moka, mi viene da metterla su ancora adesso per fare due ciarle, fumando in qualche angolo.

La prima telefonata il giorno in cui discussi la tesi, la feci a lui. Preso da quell’entusiasmo là, gli dissi che avrei voluto invitare tutti quelli di Magazine a cena. «Bravo, organizzo io». Organizzò infatti. Da Aimo e Nadia, non so se già stellato. Mangiammo e bevemmo, cantammo e sparammo una quantità di cazzate. Feci per pagare il conto. Disse:«Lascia stare, ci ho pensato io. Con i prossimi due mesi di stipendio siamo a posto».

Beppe Viola è morto il 17 ottobre 1982. Franca, una signora all’altezza di qualunque situazione, pochi mesi fa. Le loro figlie sono donne adesso. Avrebbe un tot di nipoti e persino una pronipote. Sarebbe orgoglioso, credo, di ciò che ha lasciato. Compresa la memoria di ciò che è stato. Si, ma adesso mi fermo perché va bene tutto ma se non hai il fisico, meglio darsi al golf, inteso come maglione. Oh signur, Beppe, dove sei?

ARTICOLO n. 51 / 2022

L’ESTATE DEL 1982

Il tramonto amarissimo di un’epoca intera

La data, 1982, rimanda immediatamente a un colore. Azzurro, si capisce. Grazie all’Italia che vince il Mundial spagnolo, Rossi, Cabrini, Altobelli, il Presidente Pertini in tribuna grida «non ci prendono più» e poi gioca a scopone scientifico sull’aereo, destinazione casa, con Dino Zoff, Enzo Bearzot e Franco Causio. La coppa del mondo in bella vista nell’inquadratura celeberrima di Cesarino Galimberti. 

La sequenza è memorabile, preceduta da una raffica di immagini simili ad un crescendo rossiniano. Da una diffusa sfiducia verso quell’avventura calcistica tutt’altro che promettente – compreso girone di qualificazione tutt’altro che rassicurante – a un’esplosione felicemente agonistica innescata e protratta oltre ogni speranza da un “Paolino” deciso a diventare “Pablito”. Non gli avresti dato due lire, a vederlo così, mingherlino e fragile in mezzo all’area nemica. Seee, ciao. Un portento, senza perdere grazia, capace di mandare a casa chi era dato per vincente certo. Brasiliani, argentini, polacchi fatti fuori da quel killer inaspettato, italianissimo nel cognome, bello a vedersi, micidiale nel tocco decisivo. Urca! Abbastanza per catapultarci nella finalissima contro la Germania. Una partita attesa, a quel punto, come una replica sacrosanta e più pregiata del 4-3 messicano, Gianni Rivera che la mette nell’angolino, tac. 

Fu una festa popolare, tra bandiere e fontane trattate al pari di piscine. La piazza, occupata sino a ieri da ben altri umori, pervasa da tensioni supreme, trasformata in una culla gioiosa e provvisoria. Un happening estivo, tonificante come una doccia tiepida dopo una lunghissima fatica, così intensa da farci dimenticare altro. Molto altro, almeno per un po’.

Chi aveva vent’anni o giù di lì nei primissimi anni Ottanta può facilmente far di conto, elencando giorni neri o nerissimi per un’altra sequenza di immagini ad alta intensità. Studenti appena dimessi dall’università, giovani da primo impiego. Reduci. Da un tempo cupissimo che aveva preteso scelte impregnate di dubbi. Un po’ tutti, credo – permettendomi la prima persona – avevamo avuto a che fare con declinazioni più o meno prossime della lotta armata. Con una quantità di contraddizioni rese dolorose dai morti ammazzati, da una violenza che stava nei dibattiti, nelle assemblee, nelle piazze, appunto. Reduci, ma sì, da una centrifuga dentro la quale, in modo autarchico, ciascuno aveva cercato una via, una salvezza, un senso riformulato. Con una lista di cadaveri eccellenti lunga così, qualche amico, vero o presunto, in galera, in depressione, in balia dell’eroina, sostanza circolata non a caso, con vigore potentissimo, al cospetto di un fallimento evidente.

Gli ultimi fuochi. Nel senso delle armi. Per il tramonto amarissimo di un’epoca intera, in un modo o nell’altro, nostra. Non era finita, si capisce. Il generale americano Lee Dozier, logistico delle forze NATO, sequestrato dalla BR il 17 dicembre 1981 nella sua casa veronese, liberato a Padova il 28 gennaio ’82, secondo procedura anomala, sospetta, con una sfilza di indiscrezioni che collegarono all’operazione sia i servizi segreti bulgari, sia, più tardi, il boss della camorra Raffaele Cutolo. Un tema, questo delle relazioni tra malavita, terrorismo e politico, che avrebbe continuato a montare misteri per decenni. Continua ancora, per certi versi. 

A proposito di ombre. Ombre nere. Due avvenimenti connessi e destinati a riempire mai abbastanza le nostre camere oscure: il cadavere del banchiere Roberto Calvi, ex presidente del Banco Ambrosiano, rinvenuto sotto il Blackfriars Bridge a Londra in giugno; l’arresto di Licio Gelli, Gran Maestro della Loggia P2 in settembre.

Basta vagare in archivio qualche ora per comprendere il peso di quel Mundial vinto dai nostri. Una carezza, una pacca su spalle curve, oppresse dalla sensazione di avere a che fare con poteri tanto occulti quanto arroganti. “Trame”. Rosse, nere, grigie. Persistenti e citate in continuazione, al pari di entità incontrollabili, buone per qualunquismi da bar, da tinello. Una cifra da “Bella Italia” che, in fin dei conti, non è mai scomparsa. Talmente impressa nella cultura – non solo politica –  da generare progressive indifferenze, fatalismi da impotenza.  

Chi mostrava ancora interesse per temi guerreschi aveva avuto a disposizione un diversivo: l’avventura breve e tragica dei militi argentini provocatoriamente sbarcati sulle Malvinas, con conseguente reazione degli inglesi che quelle isole chiamavano Falkland. Argentina, presente? Una sfilza drammatica di soprusi, prepotenze e generali affamati come tigri a digiuno. Questo qui – quello là – si chiamava Leopoldo Galtieri. Pensava di combinare uno scherzetto rapido e indolore, un golpe sulla scena internazionale che avrebbe prodotto un recupero di consensi in quel paese strapazzato, con i cadaveri dei desaparecidos ammucchiati nelle fosse. Galtieri: sbaragliato dalle truppe della signora Margaret Thatcher in 74 giorni. Ancora adesso la memoria traccia ghirigori attorno alle immagini di quei poveri disgraziati costretti ad un conflitto che da qui, vuoi per la distanza, vuoi per la minuzia geografica del sito, sembrava una schermaglia, una cosa da poco. Note malinconiche di un tango, la voce radiofonica di Carlos Gardel. Vengono buone adesso per accompagnare fotogrammi sbiaditi, il ricordo, stinto anche quello, dei 907 morti da stupido scontro: 649 argentini, 258 britannici compresi 12 cittadini di Hong Kong, prelevati e inviati laggiù secondo misteriosissimi criteri e 9 civili. Vittime inutili, come migliaia, milioni di altre. Il tema, del resto, è attuale, anche se mai abbastanza influente.

Distrazioni? Certamente. Perché in primo luogo, il mondo del lavoro non proponeva come oggi solo occasioni di far pratica – il termine attuale è stage – a vantaggio del solo datore. Offriva lavoro per davvero. Dunque una concretezza autentica da sperimentare dopo aver letto e studiato anche solo per difenderci da altre tentazioni. Ottimismi in clamorosa circolazione, luci intensificate dai nostri anni bui. La modernità, il futuro come opportunità full optional. I primi computer facevano decollare sogni e bisogni vaghi e mirabolanti, dal vinile al “cd”, un’altra, pacifica rivoluzione, mentre decollava anche E.T., sulla bici, regia di Steven Spielberg. Un film talmente riuscito da indurre a una terza, quinta, trentacinquesima visione in compagnia dei figli che avremmo concepito, dei nipotini che avrebbero concepito loro.   

Ogni epoca, ogni stagione lontana, a ripensarci, a rintracciarne i dettagli, comporta sorprese, tenerezze, il rischio di un rimpianto, qualche malinconia. In quel 1982 si interruppe il volo dorato di Grace Kelly, morta in seguito ad un incidente d’auto anche quello complicato da pettegolezzi e misteri. Era ormai la Principessa Grace, non si sa sino a che punto felice. Ma allora come ora, quella creatura bionda, eterea, perfetta, torna a farci visita così come faceva visita a James Stewart, ingessato e bloccato a casa ne La finestra sul cortile. Niente di comparabile con le immagini ingessate pure quelle, del podio di Montecarlo, lei inglobata nell’aplomb Grimaldi. Sangue blu e rosso sangue. Rosso Ferrari. Gilles Villeneuve a Monaco aveva vinto nell’81, primo trionfo di un Cavallino turbo. Un anno dopo sarebbe morto a Zolder, in Belgio, 8 maggio, in un epilogo pirotecnico, al pari del resto, di un incedere da teppa, da bimbo vivacissimo, incorreggibile. Per questo era amato. Generosità a fondo perduto, a costo di sguazzare in una magnifica scelleratezza. Tradito dal compagno Didier Pironi, disposto e autorizzato a fargli le scarpe a Imola due settimane prima. È una storia, questa, segnata dai capricci del destino. Gilles proprio a Imola, offeso e furente, aveva cominciato a morire. Una rabbia talmente cocciuta da portarlo ad affrontare un giro disperato in Belgio, l’ultimo suo. Qui i rimpianti montano come panna ancora oggi. Perché Villeneuve aveva tra le mani una Ferrari da titolo mondiale, perché Didier Pironi con quella macchina ormai solo sua andò a sfracellarsi ad Hockenheim, in prova, le gambe come grissini sbriciolati. Non avrebbe più potuto correre, era ossessionato dai sensi di colpa, sarebbe morto in mare, guidando un motoscafo da offshore, cinque anni dopo. La sua compagna, incinta di due gemelli. Nomi di battesimo: Gilles e Didier, per un doppio finale romantico ad attenuare il dolore. Keke Rosberg, campione 1982. Con una sola corsa vinta, buon per lui.

Ricordiamo Villeneuve, ci dimentichiamo troppo spesso di Riccardo Paletti, un ragazzo dolce e colmo di speranza, ai primi chilometri da Formula 1. Rimase ucciso in Canada il 13 giugno, tamponando con violenza massima proprio la Ferrari di Pironi che non era riuscito a partire. Lui, dal fondo della griglia, non vide, non scartò. Fine. Era nato a Milano il 15 giugno 1958, due giorni e avrebbe compiuto 24 anni.

Come un eco fotografico, circolano stampe in bianco e nero con dentro volti e suoni, sapori ed espressioni. Ogni istante un’intermittenza della memoria che non rispetta alcun ordine, alcuna coerenza tematica. Ancora guerra. Altre stragi.Israeliani e palestinesi, allora come ora. Il vizio: assurdo, inguaribile. Un amico libanese mostra il suo album gonfio di immagini care. Ritraggono la città dove nacque, Beirut, un tempo meravigliosa. Dice: «Tutto distrutto, annientato. Case e vie delicatamente verdi, palazzi e piazze colme di raffinatezze, di allegria. Se racconti di quel tempo, racconta della nostra città massacrata». 

Ecco. Tesori perduti. È sempre così, guardando indietro, come se fossimo, noi tutti, portatori di un’incuria devastante. C’è sempre un nuovo che avanza, come si dice. Dunque, così sia. Pur confinati, come siamo, in un presente che con quegli anni Ottanta mostra qualche affinità inattesa. Ottimismi precari, simili a distrazioni necessarie per “far finta di essere sani”. Incolumi e innocenti.