Ocean Vuong

ARTICOLO n. 55 / 2021

RIPENSARE LA MASCOLINITÀ

«Niente roba omo», afferma il ragazzo, appena visibile nella luce fioca della stanza, reggendo delicatamente il mio piede tra le mani. Con i suoi 1,88 m di altezza da riserva del basket di seconda divisione, è inginocchiato di fronte a me, che sto seduto sul suo letto, il piede sollevato poco sopra il tappeto. La testa piegata fa risaltare il ghirigoro della rosa tracciata dai capelli, il sudore tra i follicoli che cattura la luce del crepuscolo autunnale attraverso la finestra. Tutto è possibile, pensiamo, con il corpo. Con il linguaggio, però, non è sempre così. «Niente roba omo», ripete, prima di avvolgere la benda elastica una, due, tre volte intorno alla mia caviglia slogata. Lo scopo della frase oggi mi è chiaro: una password, un incantesimo, un salvacondotto per il contatto fisico. Perché due ragazzi potessero stare così vicini in un territorio regolato dalle leggi nebulose ma severe della mascolinità statunitense, serviva una magia.

Niente roba omo. Queste parole lo autorizzavano a reggermi il piede con l’attenzione e la delicatezza di un infermiere, dopo che, mezz’ora prima, mi ero slogato la caviglia giocando a nascondino a squadre nel giardino dei McIntosh. Correvamo, i corpi argentei nell’oscurità che calava veloce, ragazzini che giocavano alla guerra.

Il ragazzo, che chiameremo K, mi aveva aiutato a rialzarmi e mi aveva sostenuto mentre zoppicavo verso casa sua, che stava proprio dall’altra parte del giardino. La battaglia ferveva ancora tutto attorno a noi, con le voci degli altri ragazzi che ci giungevano sconnesse tra i rovi, mentre una battaglia ben più vasta, la guerra in Afghanistan (era il 2005), amplificava ciò che c’era in gioco nel mondo esterno, oltre il labile tramonto dell’infanzia.

Niente roba omo.

Discosto lo sguardo quasi non fosse una caviglia, quella che ha in mano, ma la carcassa di un animale investito. Mi metto a esaminare la stanza, le pareti coperte di trofei di baseball che rilucono alla luce tremolante dei lampioni appena accesi, fuori. Lo trovo attraente? Sì. Importa qualcosa? No.

«Sei molto bravo a nasconderti», dice rivolto al mio piede e, anche se si riferisce al nascondino, potrebbe benissimo parlare dell’essere maschio. In fondo, non è comunque qualcosa in cui e da cui mi sono spesso nascosto?

Non sono mai stato a mio agio come uomo, nell’essere un lui, perché tutta la mia vita da maschio è stata inestricabilmente legata a una mascolinità egemone. Ovunque guardassi, la maschitudine equivaleva a un atto di aggressione che percepivo come a me del tutto estraneo: peggio ancora, nelle città operaie del New England in cui sono cresciuto, la mascolinità autodistruttiva, ossia ciò in cui l’abbiamo trasformata negli Stati Uniti, spesso si realizza tramite la violenza. Qui celebriamo i nostri ragazzi, che a loro volta si incitano tra loro, ricorrendo al lessico della lotta, della conquista:

Spacchi, amico. Stendili. Falli neri. Li hai davvero messi K.O. Hai battuto tutti a quel concorso. Hai fatto una strage. Li hai proprio massacrati. Quel ragazzo è una bestia. È un panzer. Non se ne lascia scappare una. Passa da una conquista all’altra. Te la sei fatta? Gliel’ho sfondata. Quella tipa è una bomba. Una botta gliela darei comunque. Farei furore. Sono serio da morire.

Per certi versi, sono solo metafore, iperboli, figure retoriche, niente di più. Ma, a mio parere, ci sono forti legami tra questi modi di dire e il passato violento del paese. Dai Padri fondatori al Destino manifesto, l’identità degli Stati Uniti è stata plasmata direttamente dal mito del rivoluzionario che si è fatto da solo, trasformatosi in esploratore e in fondatore di un mondo nuovo, puro, terreno di potenziale colonizzazione. La figura del pioniere, del cercatore stoico e coraggioso, ignora e passa sotto silenzio il genocidio dei nativi americani che l’hanno resa tale. Il paradosso della mascolinità egemone americana è anche un paradosso identitario: poiché la vita negli Stati Uniti si fondava sulla morte, bisognava trasformarla in una prassi, celebrarla. E poiché la morte era considerata un progresso, le relative metafore sono diventate metro di riferimento della vita, della crescita dei futuri uomini. Li hai fatti secchi, per la miseria.

Anni più tardi, in un’altra vita, in occasione di una lettura pubblica, gli organizzatori mi chiesero con quale pronome volevo che mi si presentasse. Non sapevo di avere una scelta. «Maschile», dissi dopo un attimo di esitazione, le mie certezze scosse. Sentivo che si era aperta una porta, anche se di poco, a farmi intravedere una strada che non sapevo nemmeno esistesse. Avevo una via d’uscita.

Ma se non volessi lasciare questa stanza, solo renderla più ampia? I pronomi neutri [they/them in inglese] per i miei amici transgender costituiscono un rifugio, una destinazione raggiunta tramite la fuga e l’iniziativa personale. L’uso di questi pronomi consente di relazionarsi con gli altri presentandosi subito come individui non binari, nella speranza di evitarsi il fastidio e il disagio di una spiegazione o la fatica di rendersi comprensibili, quando il solo fatto di esistere può essere sfinente. Cambiando pronomi, avrei forse rischiato di appropriarmi di uno spazio che ad altri serve per sopravvivere?

Da rifugiato di guerra, so quanto anche una sola parola possa diventare un appiglio fondamentale a cui aggrapparsi.  E, dal momento che come maschio dall’aria cis non ho bisogno di rifuggire la mia maschitudine per essere visto per quello che sono, resterò qui. La fortezza della mascolinità, eretta tanto tempo fa tramite opere di morte e di conquista, potrà mai essere violata, abbattuta, rifondata, o addirittura sanata? In altre parole, ho intenzione di sfidare il concetto di maschitudine. Voglio complicarlo, espanderlo e modificarlo restandoci dentro. E rimango qui proprio per lo stesso motivo per cui, nei giorni no, penso che dovrei andarmene: perché non mi riconosco nelle fila degli uomini dominanti, ma penso che possano allargarsi per farmi posto. Forse, un giorno, la mascolinità diventerà così frammentaria, così malleabile, che non avrà più bisogno di rigidi confini per riconoscersi. Potrebbe addirittura non avere più bisogno di riconoscersi del tutto. Varrà anche questa come creazione di uno spazio queer? Mi chiedo se i ragazzi potranno mai fasciarsi i piedi feriti l’un l’altro in amicizia, senza bisogno di parole in codice, con un semplice contatto, senza alcuna vergogna.

Niente roba omo, ribadisce K, tranciando il bendaggio con i denti e accarezzando la mia caviglia gonfia in tutta la sua lunghezza. Mi rimette le Vans bianche, attento ad allentarne i lacci per far posto al gonfiore. Niente roba omo, ha detto. Ma quello che è arrivato a me, allora come oggi, è Niente più uomo. Come facciamo a non pretendere che il concetto di mascolinità cambi, quando rimanere nei suoi confini ci ferisce così tanto?

«Starai bene», mi dice, con una dolcezza così rara che sembra emersa da qualche parte sepolta nel profondo, dentro di lui. Gli prendo la mano.

Mi tira su e si dirige verso la porta della stanza. «Spegni le luci», mi fa, da sopra la spalla.

Le spengo.

Diventa così buio che potremmo essere qualunque cosa, ben più di ciò che viene stabilito per noi alla nascita. Potremmo essere umani.

© 2019 by Ocean Vuong, first published in The Paris Review. Used by permission of the author.