Carlo Pizzati

ARTICOLO n. 55 / 2023

IL NOSTRO BISOGNO OCCIDENTALE DI ORIENTAMENTO

È ora di cambiare le nostre parole se vogliamo adattarci alle nuove realtà. Non siamo consapevoli del fatto che alcuni termini utilizzati per definire concetti specifici o anche vaghi ci imbrigliano in realtà sorpassate, ci portano su antichi binari che ci irrigidiscono la mente, già di per sé organo sempre meno flessibile. 

La parola che vorrei riuscissimo a studiare per comprendere quanto ci porti a concetti sbagliati sulla realtà internazionale è “Oriente.” Tanto quanto la parola Occidente oggi avrebbe bisogno di un sinonimo più preciso.

“Orientarsi” è la parola più usata per indicare la posizione in cui ci trova in un dato istante, sinonimo di raccapezzarsi e ritrovare sé stessi. La forma riflessiva di “orientare” significa capire dov’è l’est, stabilire la propria posizione rispetto al sorgere del sole.

Per vederci più chiaro, soprattutto nelle ore mattutine, greci e romani dell’antichità orientavano i loro templi con affaccio a est. Da questo concetto, in molte lingue si è sviluppata l’idea di “orientamento” come un processo verso la conoscenza di sé.

Nascosto tra le pieghe del nostro linguaggio esiste quindi il bisogno di capire ciò che chiamiamo ancora “l’Oriente.” E oggi ferve un bisogno ancor più pressante, in Europa e in America, di disegnare una mappa per riorientarsi, interrogandosi su come “il vecchio Occidente possa affrontare il nuovo Oriente.”

 È la domanda stessa a essere sbagliata. Non vi è nulla di più disorientante delle parole usate per formulare questa inchiesta. La civiltà nel cosiddetto Oriente non è nuova. È antichissima. 

Il presunto “nuovo Oriente” attinge a quest’antichità per trovare coesione e forza, sia nel collettivismo che deriva dalla filosofia di Confucio, sia nella filosofia induista che nutre la spinta propulsiva del sub-continente inseguendo il suo dharma, e sia nel tradizionalismo familista, dinastico, religioso e culturale che attraversa il Sud come il Nord dell’Asia, dove anche il comunismo cinese si presenta oggi come una forma reazionaria, una propulsione al servizio di un’ideologia antica e che poco ha di innovativo in un mondo basato sul globalismo di Internet, sulle trasformazioni attuali e imminenti dell’Intelligenza artificiale, sulla trasmutazione della società dalla rivoluzione industriale ottocentesca vista in chiave marxista al 2023 cibernetico post-pandemico e inter-connesso del telelavoro. 

La spaccatura dicotomica di “Occidente e Oriente” è una pigrizia storica dell’Europa e delle culture anglo-sassoni, ovvero: le Isole britanniche più il Nord America (Messico escluso) e Australasia. 

Nella terminologia più contemporanea l’aggregazione di questi Paesi viene ora definito come Nord Globale (con l’aggiunta del Giappone). 

Per Asia, Africa e America Latina s’è affermata la definizione di “Sud globale,” a sostituire la gerarchia svilente del termine “Terzo mondo” o quella spiazzante di “Paesi in via di sviluppo,” dove si valuta il cosiddetto sviluppo attraverso una prospettiva europea e anglo-sassone legata a un concetto di progresso non necessariamente condiviso nel resto del mondo. 

Nel contesto bellico iniziato nel 2014, la Russia si identifica in un ponte chiamato “nazione euroasiatica,” il che spiega il suo ruolo di prepotente aggregatore, lanciato a riportare l’Europa alla sua realtà geografica di propaggine estrema di un territorio ininterrotto che inizia ai confini con l’Alaska e termina a Gibilterra.

Tutto ciò per liberarci da una briglia mentale pericolosa, quella costruita sulla parola “Oriente,” pregna di stucchevole esotismo, e dell’aggettivo sostantivato di “orientale,” che oggi nel mondo anglo-sassone viene percepito dalle minoranze asiatiche come un insulto razzista. 

Forse questo ragionamento può servire anche a decostruire l’idea di Occidente, termine che definisce una realtà ancor più magmatica e inafferrabile. 

Definire “gli altri” riesce sempre più facile che definire sé stessi. 

Cos’è l’Occidente oggi? È woke? Odia gli immigrati? È ancora democratico? O ama il leader forte al comando, con pochi limiti? Molti europei sono stati colti di sorpresa dalla Brexit, attoniti di fronte all’isolazionismo anti-atlantista trumpiano, spaccati a est dagli ammiccamenti al putinismo, e in fase di esame di coscienza sulla disumanità tutta occidentale di un colonialismo che ha arricchito il Nord globale negli ultimi cinque secoli. 

Nuovo Oriente e vecchio Occidente. Niente di più sbagliato. 

L’Oriente non è nuovo. Il rafforzamento del ruolo dell’Asia rappresenta un ritorno storico a com’erano gli equilibri internazionali prima della guerra dell’oppio, non è una novità. Una storia interpretata da una vera prospettiva globale ce lo racconterebbe meglio, non questi sussidiari dei vincitori che ci hanno distorto uno sviluppo degli eventi diverso da quanto è accaduto.

Ma, poi, Oriente rispetto a quale punto cardinale? Dov’è collocato il centro di Occidente e Oriente? Nel Medio Oriente di Gerusalemme? Sarebbe una prospettiva giudaico-cristiana che riflette una prospettiva culturale e geografica non condivisa da tutto il mondo. Per Oriente intendiamo spesso l’Asia. Mentre “Oriente” è un termine che colloca l’identità come decentrata da un altrove, “Asia” esprime in modo più neutro sul mappamondo l’ubicazione di una regione specifica dove, si dice, sta germogliando il nostro futuro. Che, come vedremo, è già il presente.

L’Occidente non è vecchio. La cultura europea è più giovane di quella indiana e cinese. Nemmeno antropologicamente siamo i più vecchi, poiché gli esseri umani si sviluppano in Africa, come ci spiega la scienza. I primi esseri umani comparvero in Africa circa 300 mila anni fa. In Asia, 50 mila anni fa. In Europa solo 43 mila anni fa. L’Europa è il continente più giovane, in questo senso. 

Ma anche nel contesto delle civilizzazioni. Le più antiche nacquero in Mesopotamia, in Egitto, nella valle dell’Indus e in Cina. Nessuna in Europa.

I bianchi caucasici non sono altro che il risultato di una tendenza alla depigmentazione cutanea per assorbire vitamina D dai raggi solari, quando per necessità l’eccesso di umanità si è vista costretta a spingersi verso zone dove il sole si nasconde a lungo d’inverno.

La stessa America bianca, quella anglosassone e protestante, quella che comanda, fa le leggi, influisce sull’economia, quella che ha gestito il potere all’interno degli Stati Uniti dalla Rivoluzione americana a oggi, è giovanissima, figlia dell’adolescente Protestantesimo (nel contesto delle antiche religioni) e dell’imberbe Illuminismo (nel contesto delle filosofie globali).

Ciò che chiamiamo Occidente, cioè il Nord globale, non è vecchio. Ma sta invecchiando. Soprattutto, cosa più preoccupante, si sente vecchio. Sempre più vetusta è la sua cultura, poiché noi così la percepiamo.

Il Nord globale è, sì, vecchio, ma in quanto, lasciando da parte gli eufemismi, è pieno di vecchi, torturati da acciacchi e malattie pur rimanendo combattivi. Vecchi nostalgici pieni di vecchie idee, refrattari e inflessibili al cambiamento, all’adattamento, sempre più lenti nell’innovare.

 In questo, l’Occidente è in effetti più vecchio dell’Oriente. Ovvero il Nord globale invecchia demograficamente e sente una stanchezza culturale, aggrappandosi a sani principi di antica democrazia, un rispolverare i diritti civili (dopo aver violato quelli di gran parte del mondo con la colonizzazione), e alla miscela ondivaga di libertà e uguaglianza che si eroga in sede parlamentare, dove gli eletti dovrebbero legiferare per modulare queste due forze plasmanti della società. 

In termini meramente demografici, è giusto parlare di nuova e giovane Asia e di geriatrica e consunta Europa alleata a Nord America-Australasia. 

Giovane Sud e vecchio Nord del globo

Questo di per sé dovrebbe spiegare perché il travaso migratorio conviene a tutti: il Nord globale dovrebbe esportare un po’ di pensionati verso il caldo dei tropici thailandesi, malesi, indiani e indonesiani, e il Sud globale dovrebbe esportare quei giovani in eccedenza che vogliono lavorare nel Nord globale, contribuendo con i loro redditi a finanziare le pensioni del Nord. Bisognerebbe prenderne atto onestamente e organizzare il flusso, evitando gli orrori alle frontiere per i quali saremo ricordati dalla Storia.

Per capire l’Asia come lei vede sé stessa, e liberarci dei nostri offuscati prismi, bisogna iniziare dalle parole. Non parliamo più di Oriente e di Occidente. Parliamo di Asia, di Europa, di America del Nord. Chi gioca ancora con queste parole, nei suoi libri, nelle sue rubriche, manipola una rigidità mentale che è dannosa per tutti. Siamo un po’ più precisi e liberi da divisioni che stanno mutando. E studiamo la storia. Anche quella recente.

Le quattro fasi storiche dello sviluppo asiatico dal Dopoguerra a oggi sono note. Comincia con il miracolo giapponese che risorge dalle ceneri post-atomiche di Hiroshima e Nagasaki e ricostruisce economia e industrie per raggiungere l’acme negli anni Ottanta, inseguita dalla seconda fase, quella delle Tigri asiatiche, guidate dalla Corea del Sud che con la sua ingegneria e duro lavoro si afferma anch’essa creando un contesto regionale attorno al Giappone, aprendo la strada negli anni Novanta alla svolta cinese verso una forma di capitalismo comunista, ossimoro su cui si basa ancora il suo successo (comunisti a casa, capitalisti nel mondo), che apre ora alla quarta fase, quella di un Sud-est asiatico guidato dall’India quinta potenza economica globale, con una crescita dell’economia più veloce del mondo, assieme a Vietnam e Filippine, incalzata dal galoppo dell’Indonesia.

Da più di trent’anni, molti europei e anglo-sassoni tengono gli occhi puntati ossessivamente sulla minaccia cinese. Lì ci sono gli affari, lì c’è una potenza militare che incute timore. E da questo sguardo interessato si forma quindi il timore dello sviluppo del nuovo centro di un nuovo impero. 

Per contro, la Cina predica il desiderio di partecipare, prima inter pares, a un mondo multipolare, dove vige la democrazia tra Paesi, e non il dominio di un super-potere come nel blocco a Ovest, con l’America che fa il poliziotto del mondo e gli altri che si devono accodare. Democrazia nei rapporti tra nazioni che al loro interno hanno ben poca democrazia.

Così, però, ci perdiamo ancora in un paradigma che non è detto si snodi come lo immaginiamo, con la Cina padrona del mondo, una visione in realtà sorpassata. Il futuro prossimo è nel Sud-est asiatico, lì c’è il prossimo mercato. 

La Cina ha già raggiunto un punto di culmine di un arco, non solo demografico, ma anche di espansione economica aggressiva. Difficile vedere crescite esponenziali in Cina come le impennate viste dagli anni Novanta a oggi. Quelle sono previste in India. 

Grazie al contenimento americano, ma anche grazie all’arco stesso dello sviluppo di una nazione, la Cina punta oggi, come tutti coloro che hanno seguito nella tradizione del mercantilismo anche di natura hamiltoniana, al suo mercato interno, a vendere prodotti cinesi ai cinesi, per arricchire la propria economia riducendo la dipendenza dalle esportazioni, dove resta comunque forte. La Belt and Road sembra sempre più un tentativo, molto costoso, di consolidare mercati. E ha avuto risultati poco gloriosi, finora, con investimenti che non hanno generato frutti succulenti. Forse li darà in Africa, ma in Asia, per ora, la scommessa non ha restituito tantissimo. 

Molti temono che il conflitto globale vero non deflagrerà in Ucraina, ma nell’Indo-pacifico. Lì vanno ammassandosi le armi, con l’India che è uno dei massimi importatori e ora vuole diventare un produttore di armi, con grande gioia dei mercanti e produttori europei e anglosassoni di sistemi di difesa. Ma ciò rischia di diventare un ineludibile gioco di détente simile a quello della Guerra Fredda. Un gigantesco affare per tutti i produttori di armi accalcati attorno a Taiwan come fosse il nuovo Muro di Berlino in una nuova Guerra Fredda con, da un lato, il Nord globale guidato dagli Stati Uniti e, dall’altro, il Sud globale che si propone come un riallineamento multipolare dei BRICS (organizzazione intergovernativa di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) cui potrebbero unirsi l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita, Paesi che grazie a Xi Jinping per la prima volta in molti anni si stanno stringendo la mano nonostante siano occupati in una guerra per procura prolungata nello Yemen. Le basi del mondo multipolare potrebbero chiamarsi quindi BRICSIA.

Ma non è così elementare. Sarebbe bello poter semplificare tutto così. La realtà è che i protagonisti sulla scacchiera della geopolitica operano in maniera più complessa. I rapporti all’interno dei BRICS sono triangolati. Cina e India hanno un conflitto militare sull’Himalaya. Mentre la Cina sostiene il Pakistan, altro nemico nucleare dell’India, Mosca pare sostenere Delhi cui vende armi e che sostiene da sempre in sede Onu. 

La Cina tiene la Corea del Nord sotto la sua ala protettiva, provocando il Giappone, colpito dai giochi missilistici di Kim Jong-un. Iran e Arabia Saudita sono ufficialmente in guerra. E mentre in questa rete sempre più complicata la Cina tesse le sue alleanze, la sua flotta navale provoca nazioni filoccidentali come le Filippine di Marcos, spinte sempre più verso nazioni come l’Australia, il Giappone, gli Stati Uniti e l’India alleate nel patto strategico Quadrilaterale, chiamato il Quad. 

L’India, com’è importante notare, fa da perno sia nei BRICS del Sud globale che nel Quad del Nord globale. Riesce a barcamenarsi al centro di questa nuova e presunta Guerra Fredda come Paese centrale, alleato da un lato e dall’altro. Ed è per questo che oltre alla Cina bisogna fare i conti proprio con l’India, che nel 2023 supererà la Cina in popolazione.

Dopo la pandemia è bene rilevare che le nazioni del BRICS contribuiscono di più al Pil globale, in termini di parità di potere d’acquisto (calcolando quindi anche i tassi di cambio), della somma dei Paesi del G7, cioè America, Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, Canada e Italia. Il declino del G7 a scapito dei Paesi oggi facenti parti del BRICS è iniziato nel 1992 (con la crescita cinese), ma con la pandemia le curve si sono incrociate e divergono. Brics su, G7 giù.

Significa che siamo al culmine del decoupling, cioè che il mondo si sta spaccando anche commercialmente in due blocchi? Non è proprio così. In realtà la globalizzazione è viva e lotta insieme a noi. Anche perché è una forza verso la quale ci orientiamo sempre più, dopo i danni del protezionismo del Diciannovesimo secolo. 

Si parla tanto dei disastri della globalizzazione soprattutto perché ha impoverito una parte della classe medio-bassa degli Stati Uniti, gli elettori di Trump, e dell’Europa, gli elettori della destra nazionalista. Ma ciò che non si dice è che il commercio tra Cina e Stati Uniti nel 2022 è cresciuto del 10% in rapporto al 2021. Che la produzione di iPhone si sposta sempre più dalla Cina all’India, ma resta globale. E che con la nuova corsa al riarmo nell’Indo-Pacifico, compresi i nuovi accordi siglati anche dal governo Meloni nella riunione del G20 il mese scorso a Delhi, il flusso commerciale tra Nord e Sud globale non farà che crescere, in entrambi i sensi.

La paura nucleare

C’è quindi da stare tranquilli? Sì, tranne per la minaccia nucleare. Non solo per i missili putiniani e la frontiera Nato in Finlandia, ma proprio in Asia, dove l’India si confronta con il Pakistan e con la Cina, impegnata nei giochi navali a Taiwan. In Asia, dove un consolidamento del dialogo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe creare un patto pericoloso verso lo sviluppo di armi nucleari in entrambi i Paesi. E senza scordare i giochi pericolosi nella Corea del Nord, nonostante sembrino sempre grida di aiuto per ottenere denaro in cambio di tranquillità in Nord Asia, il gioco che fa da sempre la famiglia al potere lassù. 

Per tornare alla domanda iniziale: come “orientarsi” in tutto ciò? Capendo che non c’è dunque un confronto tra il vecchio Occidente e il nuovo Oriente. 

C’è un Nord globale che va ridefinendosi, che nel 2024 con le elezioni presidenziali americane potrebbe cambiare radicalmente (se la guerra in Ucraina non dovesse terminare prima delle elezioni americane, e se dovesse vincere Trump, finirà subito la guerra?), dove la Nato sembra rafforzarsi, ma la Ue che ha perso il Regno Unito vede al suo interno forze che ammiccano alla Russia e nazioni che potrebbero riprendere a flirtare con la Via della Seta. 

E poi c’è un Sud globale in cerca di una coesione, ma il cui futuro non può essere interpretato con la chiave storica utilizzata negli ultimi secoli, poiché potrebbe presentare sorprese, in quanto espressione di mentalità ben diverse da quella che ha trasformato il mondo, dominandolo, per qualche secolo.

ARTICOLO n. 50 / 2022

IL NOTTURNO INDIANO E IL DIURNO OCCIDENTALE

La musica indiana e la classica occidentale

Le mani del direttore d’orchestra svolazzano come due colombe bianche attorno a un nido candido, la testa incanutita di Sir András Schiff. Una tensione estatica sembra infondere elettricità all’aria immobile del Teatro Olimpico di Vicenza nel suo quattordicesimo Omaggio a Palladio. Dietro all’orchestra dei migliori musicisti del mondo radunati dal grande genio ungherese, tra le prospettive delle tre vie di Tebe scompaiono le volute invisibile dei brani di Bach, Brahms, Mendelssohn e Schuman. 

Mi volto a osservare il pubblico, dalla prima fila in platea: sorrisi rapiti dalla gioia, sguardi assorti dall’incredibile tecnica e passionalità dell’esecuzione. Nessuno si annoia, tutti comprendono, con i sensi o con la mente, di essere di fronte a una serata memorabile, travolta da una cascata di applausi che implora i talenti di tornare sul palco, ripetere, bis!

La perfetta macchina musicale di Schiff riprende con un Lieder. Mi lascio accompagnare sulle note della fantasia tra i castelli in aria che la musica classica edifica nell’immaginazione. Sono tornato in Italia dopo molti mesi in India da solo due giorni e non riesco a evitare un continuo paragone tra la musica di quel Paese e queste composizioni classiche a me così familiari.

La prima notte della mia vita che ho dormito in India, nel 2008, fu proprio un brano di musica classica ascoltato in una stanzetta affittata a Mysore, nel Karnataka, a creare la colonna sonora di un trauma culturale sul quale dopo tanti anni ancora mi interrogo. «Tuba mirum spargens sonum/per sepulcra regionum/coget omens ante thronum.» Il solenne Tuba Mirum del Requiem di Mozart dice che la tromba, diffondendo un mirabile suono per i sepolcri del mondo, raduna tutti attorno al trono del giudizio universale. È un testo rappresentativo, un maestoso assolo di trombone che descrive il giorno del giudizio, quando «tutto ciò che è nascosto apparirà e nulla resterà impunito.» Così la voce narrante del Tuba Mirum si chiede: «Che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando neanche il giusto potrà dirsi al sicuro?» 

Non seguivo il senso delle parole, in quella prima notte indiana, eppure era come se una mano invisibile fatta di note mi scavasse nel petto fino allo stomaco per strapparmi lentamente gli organi, fino alla gola, e uscire sotto forma di lacrime. In quelle note profonde, in quel racconto baritonale appoggiato sul suono della tromba, sentivo condensata tutta la profondità e l’autorità della cultura europea che mi pareva dileguarsi nell’oscurità di Mysore. Era come se sentissi che non avrei mai più rivisto nessuno degli amici, parenti e amori lasciati in Occidente. Una specie di morte del passato, di fronte a un futuro davvero indecifrabile in una terra molto aliena per me, quella notte. Un giorno del giudizio, come dicono le parole del Tuba Mirum. Come se la prospettiva su tutto ciò che rappresenta le mie radici, cioè l’Europa e un po’ l’America, il famigerato Occidente, sarebbe cambiata per sempre. L’importante, qui, è che fu proprio questo brano classico così narrativo a operare come simbolo di un’identità razionale ed espressiva, quella europea, appunto.

Anche le note estratte dall’aria dalle mani bianche di Sir András Schiff, mentre osservavo i virtuosismi della sua orchestra, si manifestavano come un codice che rappresenta perfettamente la cultura che le ha espresse. Rotelline di un orologio che oscillano con precisione al momento giusto. La scienza, la tecnologia, l’esecuzione perfetta di viola, violini, violoncello, trombone, corno francese, flauto classico e clarinetto, una sfida tra due pianoforti: tutti ingranaggi di una mentalità che trova il suo fulcro nell’organizzazione appassionata e smaniosa, nella capacità di costruire un congegno, in questo caso musicale, composto da note ben calibrate e dosate, suonate ad arte e all’unisono da esecutori quasi sempre impeccabili. Un sistema assoluto che riflette la razionalità, l’ingegneria e la meccanica su cui l’Occidente ha costruito una superiorità imposta con il colonialismo e di cui va ancora così orgoglioso. Musica classica come algoritmo, quindi, come programma di software.

So che è un errore della nostra era tecnologica tentare di spiegare tutto tramite gli ingranaggi dello strumento che più ha trasformato i nostri tempi, il computer. L’umanità è ben altro che una delle strutture che ha creato. Usare i transistor come uno specchio è la pigrizia dei limiti del contemporaneo. È stata invece la buona e vecchia musica classica, quella sera all’Olimpico di Vicenza, a rappresentare così bene tutto ciò che noi europei siamo stati e ancora siamo (anche se un collegamento tra spartito e software ovviamente c’è).

Come tanti borghesi europei del secolo scorso, sono cresciuto con l’idea che lo studio della musica classica rappresenti il minimo comune denominatore della cultura alta. Per la famiglia di commercianti di mia nonna paterna, emigrati in Italia dall’Impero austro-ungarico, lo studio della pittura a olio e del pianoforte rappresentavano un’evidente emancipazione, un’aspirazione verso un ruolo più rispettabile in un piccolo mondo antico. Nonna Marì, dopo undici anni di conservatorio, mi stiracchiava quindi i polpastrelli di scolaretto delle elementari con quello che all’epoca percepivo come un suo lieve sadismo. Stringendole con dolorosa foga, diceva che le dita dovevano colpire la tastiera del piano «come piccoli martelletti». Proprio come i martelletti che scoprii aprendo il coperchio del pianoforte. L’uomo che si fa strumento per suonarlo. Ecco di nuovo gli ingranaggi di una musica sublime che interpreta un ruolo sociale, per meritarsi il quale bisogna soffrire, indurire le proprie mollezze umanamente organiche, spaccandosi le labbra sul bocchino di una tromba, morsicando l’ancia di un clarinetto, o facendosi il callo alle dita sulle corde di un violino o di un violoncello prima ancora che su una chitarra. Per migliorarsi bisogna soffrire, ecco un altro valore occidentale implicito nella sua musica.

 Sul ruolo della musica classica come strumento di emancipazione sociale ragionava anche il Nobel per la letteratura sudafricano J.M. Coetzee ricordando come fu rapito dal primo ascolto, lui appena 15enne, dei preludi e le fughe di Bach della raccolta Il clavicembalo ben temperato: «Mi chiesi se quella musica mi stava parlando attraverso i secoli o se invece stessi scegliendo simbolicamente l’alta cultura europea, cercando di impadronirmi dei codici di quella cultura come una strada che mi avrebbe emancipato dalla mia classe sociale in Sudafrica, bloccata in un cul-de-sac della Storia.» Musica come affinamento dell’anima, perché insegna a scrutarne i moti.

Nonostante le ambizioni della borghesia europea degli anni Ottanta si siano infrante in una democratizzazione dei gusti che approda oggi alla robotizzazione della voce umana, rappresentata dall’abuso dell’autotune negli hit più popolari del momento, la musica classica rappresenta ancora la spina dorsale di un’identità occidentale proprio grazie a un suo aspetto intensamente rappresentativo. Lo descrive benissimo il personaggio di Helen Schlegel in Casa Howard di Edward Morgan Forster ascoltando la quinta di Beethoven e vedendo «eroi e naufraghi nell’alluvione musicale.» Per lei, il compositore tedesco fa rinascere «le folate di splendore, eroismo, giovinezza e magnificenza della vita e la morte, e, tra grandi ruggiti di gioia sovraumana, porta la quinta sinfonia alla sua conclusione.» Non per niente si chiama la sinfonia del destino, Schicksals-Sinfonie. Che era anche il destino di Beethoven, quello di divenire sordo mentre la componeva, creando una musica i cui «raggi luminosi sparano nella notte profonda di questa regione, e ci rendiamo conto delle gigantesche ombre che ondeggiano avanti e indietro, avvicinandosi…» come scrisse E.T.A. Hoffmann sull’Allegemeine musikalische Zeitung dopo averla ascoltata per la prima volta.

Ammirando quindi il racconto epico di ciò che è l’Occidente, in quella serata memorabile al Teatro Olimpico di Vicenza, pensavo, in giustapposizione alla musica indiana, ai concerti di carnatica nel prestigioso festival di dicembre a Madras, ora nota come Chennai, alla dhrupad indostana dei fratelli Gundecha di Bhopal, amici ascoltati sia in India che a Sydney, in Australia, ad Amsterdam o in un concerto privato a Bassano del Grappa, e consideravo quanto queste interpretazioni siano legate all’improvvisazione, come il jazz o il blues, e al momento del giorno in cui vengono eseguite (i raga sono mattutini o notturni). 

La musica indiana e il canto di un raga, il cui ricordo si sovrapponeva come in una bizzarra sperimentazione fusion all’ascolto di Schumann eseguito alla perfezione, mi sembravano più ispirati all’idealizzazione di un lamento o di un grido di gioia, d’amore o di spontanea devozione per il divino: non rappresentano necessariamente un’emozione, ma usano quel lamento naturale per portare l’ascoltatore su un piano immediatamente astratto e mistico.

L’unica narrazione, anche se sarebbe più corretto parlare di direzione, è quella di un’unione con il Tutto. Lo condensa una lezione del toccante The Disciple, lungometraggio del giovane talento indiano Chaitanya Tamhane, in cui un’insegnante di raga spiega che «c’è un motivo per cui la musica classica indiana è considerata una ricerca eterna. Tramite il raga, scopriamo la strada verso il divino.» 

In un certo senso, la musica classica indiana nasce in modo più naturale, tramite la voce-lamento, ma approda rapidamente a un’astrazione spirituale. La musica indiana appare più legata al corpo umano e ai suoi impulsi, per approdare a un’elevazione ultraterrena. La “nostra” classica sembra invece nascere in modo più astratto, meccanico appunto, come acme di creatività che s’innalza sulla natura umana, rappresentazione sonora di un’idea che si trasforma però in emozione, esaltazione, ribollir di sentimenti, orgia di Sturm und Drang. E ciò accade forse proprio perché la musica classica occidentale si esprime come un ingranaggio astratto che addomestica il corpo agli ordini delle note scritte, melodie e armonie codificate dal software dello spartito dal quale è proibito discostarsi: è quindi più chiaramente matematica, meno impulso sensuale, una colonna sonora della razionalità. È troppo controllata.

Sull’eccessivo controllo della musica occidentale ragiona con maestria lo scrittore e musicista indiano Amit Chaudhuri nel suo illuminante Finding the raga: an improvisation on Indian music (Faber & Faber) ricordando come alcuni indiani reagivano al primo ascolto della musica classica. Sua madre, scrive Chaudhuri, udendo per la prima volta musica classica a Londra negli anni Cinquanta provò solo profonda tristezza. E il poeta Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore nel suo memoriale Jiban Smriti (I miei ricordi) racconta di due anni passati a Londra, tra il 1878 e il 1880 in cui la voce di una soprano gli ricordava quella di un cavallo che nitrisce, mentre il piano gli sembrò uno strumento inferiore perché non in grado di eseguire il glissando, cosa che riesce al violino che è quindi migliore, poiché più duttile alla personalizzazione del suono. Era una critica intrisa di rabbia anticoloniale, ma rifletteva una reazione spontanea alla “meccanicità” della musica classica che a noi riesce difficile percepire poiché ci siamo cresciuti dentro.

È proprio questa natura apertamente rappresentativa della musica classica occidentale a far sì, spiega Chaudhuri, che sia perfetta per il cinema e, successivamente, per l’avvilente abuso nei cartoni animati e nelle pubblicità che hanno trasformato i suoni sublimi di Beethoven, Mozart e Vivaldi nel kitsch, tramite la riproduzione eccessiva e fuori contesto di composizioni altissime, sprofondate oggi nei bassifondi rappresentativi. Suono e narrativa. Felicità e tristezza abilmente riprodotte con una musica che racchiude il trauma della modernità per la mente occidentale, persa nell’indagine della crisi della civiltà e del sé. 

Lo ammetteva anche il grande regista bengalese Satyajit Ray (famoso per la Trilogia di Apu) lamentando «l’assenza di una tradizione di narrativa drammatica nella musica indiana» ed elaborare poi che «le sinfonie di Beethoven parlano di fratellanza universale, la lotta dell’uomo contro il fato o le effusioni passionali di un’anima in pena. La sonata con i suoi soggetti maschili e femminili e il loro progredire intrecciato tramite drammatici cambiamenti chiave arrivano a un culmine… ma un raga è un raga.»

Ray si riferiva a un’inafferrabile alterità della musica indiana, un intrinseco e quasi indicibile misticismo immediato, fin dalle prime note, che indaga nella spiritualità, troppo spesso confusa, anche da generazioni di indiani occidentalizzati, con la religione. Per capire questa profondità bisogna rileggere Tagore che, in una lettera del 1894, racconta di una notte, su una casa galleggiante navigando sul fiume Shilaidaha, passata ad ascoltare il rumore dell’acqua che riempiva il silenzio dell’oscurità. In questa epistola, il poeta bengalese incapsula la dicotomia che mi si è rivelata, di ritorno dall’India, ascoltando la maestria di Sir András Schiff al Teatro Olimpico di Vicenza. 

Tagore riflette sulla ricerca di armonia della musica classica occidentale che vede come una musica diurna, contrapposta al mondo notturno della musica indiana: tenera, seria, pura rāginī, la melodia del raga. Entrambe ci smuovono, eppure sono opposte. Come l’idea della conquista del Paradiso tramite le buone azioni è contrapposta alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il circolo delle reincarnazioni e del gioco tra desiderio e sofferenza. «La nostra è una canzone di solitudine personale, quella dell’Europa canta invece l’accompagnamento sociale. La nostra musica porta l’ascoltatore fuori dai limiti delle vicissitudini quotidiane dell’umanità in quella terra solitaria della rinuncia che è alla radice dell’intero universo, mentre la musica europea danza in diversi modi attorno all’eterno saliscendi delle gioie e dei dolori dell’uomo.»