Giacomo Giossi

ARTICOLO n. 54 / 2022

MADONNA CHE SILENZIO C’È STASERA

Francesco Nuti quaranta anni dopo

Dopo il successo di Ad Ovest di Paperino, il 1982 è l’anno del primo vero debutto di Francesco Nuti da solista anche se non ancora regista. Non più all’interno del trio de I Giancattivi – che aveva alimentato e fatto germogliare le sue qualità – Nuti dà libero sfogo in Madonna che silenzio c’è stasera a una comicità pervasa dall’ironia cattivissima e tutta toscana unita a un surrealismo delicato e dolce che rappresenterà sempre la sua cifra anche nei momenti più opachi della sua carriera. 

Sono passati quarant’anni da quell’esordio che portò Francesco Nuti al centro del cinema italiano che, seppur con tutte le differenze e varianti, pareva interpretare in maniera finalmente innovativa e compatta gli anni Ottanta con tutto quello che avrebbero preannunciato. Insieme a Nuti, ovviamente Roberto Benigni, Carlo Verdone, ma anche Massimo Troisi e non si può certo escludere Nanni Moretti. 

Ognuno di loro è forte di una vena comica e al tempo stesso di uno sguardo critico e ognuno è fortemente e ossessivamente individualista, nonostante tutto e nonostante le visioni politiche più o meno coerenti che volenti o nolenti rappresentano. Tuttavia Francesco Nuti raffigura forse il caso più estremo: una genialità impura che nasce dalla provincia strapaesana e al tempo stesso industriale toscana. Nell’estate del 1982 va ricordato che Prato è il centro d’Italia e i suoi figli migliori sono Francesco Nuti e Paolo Rossi: sguardi dolci fatti di guizzi rapidi e da furfanti, spalle strette e tanto fiato. 

Allora l’Italia non era ancora solo Milano e Roma o quasi solo Milano come è oggi, ma era un mondo ancora attraversato da guizzanti differenze. Firenze era la capitale della moda, il centro di una New Wave che avrebbe alimentato le menti di una generazione. Erano anni in cui, come ricorda Bruno Casini in New Wave a Firenze Anni in movimento (Zona Music Books), andare a dormire era quasi impossibile. Gli anni dei locali jazz (indimenticabile Luca Flores) e delle notti infinite di una generazione di trentenni che tornava alla vita dopo aver lasciato alle spalle anni fin troppo tetri. Ma era anche il tempo in cui Benigni abbandonava la stalla di Onda libera per esordire alla regia con un David di Donatello come miglior regista esordiente per Tu mi turbi

Non solo tutto era possibile, ma ora era possibile fare tutto da sé, solo che l’autarchico non usciva dai teatri cantina, ma dalla televisione. Stand-up comedian ante litteram come Troisi, Verdone, ma anche i milanesi Abatantuono, Teocoli e Boldi lasciati i locali alla nostalgia della mala che fu, si proiettavano – spesso grazie all’intuito felino di Renzo Arbore che con Il pap’occhio aprì davvero un decennio – dalla TV al cinema con record di incassi che il nostro cinema da allora non ha mai più visto (e anche solo immaginato). 

Francesco Nuti è il punto di equilibrio in una ricerca a tratti ossessiva di un originario comico che sfocia spesso nel burlesco come nella tragedia. Subito campione d’incassi sembra essere quello più in grado di reggere il tempo. I suoi film sono ricchissimi di soluzioni comiche, ma anche la sua regia non sembra mia accontentarsi, provando soluzioni spesso estremamente originali. 

In tal senso Madonna che silenzio c’è stasera sembra addensare nella sua storia l’insieme delle possibili variazioni del cinema di Nuti, non ancora regista, ma già sceneggiatore e interprete totale. Ambientato a Prato, il film è il racconto di una giornata nella vita di Francesco e come spesso accade in chi ha un forte senso del comico è il nulla ad attrarre il riso e a far girare la narrazione: Larry David e Jerry Seinfeld lo hanno palesato al mondo, però c’è da dire, molti anni dopo. 

Nuti interpreta come molti allora, pensiamo a Troisi, Verdone e Moretti su tutti, l’estate come momento massimo di sospensione, ma anche come ritorno inevitabile all’io, a se stessi, a un’individualità che negli anni Ottanta diviene sempre più incontenibile. Le nevrosi diventano chiaramente il centro di tutto, la psicanalisi la soluzione che non dà mai soluzioni, mentre i rapporti con le donne sono sempre più problematici e al tempo stesso stanchi, quasi annoiati. 

Tutto questo tuttavia si paleserà con forza più avanti, a metà degli Ottanta, e solo Carlo Verdone sarà in grado di trattenere più a lungo una forma di leggero disincanto che invece è ancora splendente e vivacissimo in Madonna che silenzio c’è stasera

Il film, oggi un vero e proprio cult, vede sbocciare il talento di Nuti che esce dall’ombra mimetica di Roberto Benigni per palesare, seppur ancora di velluto vestito, la propria assoluta capacità seduttiva. L’intransigenza e la radicalità diviene qui una forma di derisione, la cattiveria un atto di crudele divertimento. Il limite è spinto sempre un poco più in là, ma non per un gusto di rompere gli schemi, o peggio per opporsi ad un presunto conformismo, ma perché è semplicemente nelle cose. E le cose le stabilisce in questo caso l’autore e interprete sulla base di un impulso caratteriale, tanto più efficace se immotivato.

Attorno nel film tutto pare invecchiato, la fabbrica tessile come la Casa del Popolo, ma tutto al tempo stesso è amato con tenerezza. Nuti ha 27 anni e l’infanzia non è ancora una nostalgia, ma un preteso dato di fatto. Del resto non si abbandona mai l’infanzia per davvero fino a quando si sta a casa della mamma o nella città dove si è nati, e allora tanto vale non fingere, non giocare agli adulti e vivere liberamente proprio come dei bambini. 

Oggi si parla molto di competenze, come una qualità e una forma di emancipazione, ma spesso non si considera l’aridità del concetto. Madonna che silenzio c’è stasera ha non a caso la luce dei macchiaioli toscani, ma non aveva certo bisogno di questa competenza il direttore della fotografia Carlo Cerchio per darle forma, bastava la luce di Prato, l’ovvietà di un’origine naturale. Così i movimenti e le espressioni di Francesco Nuti, non sono gesti appresi, ma elementi ricondotti e guidati: qui non è il sapere in sé il centro, qui è ancora la capacità di interpretare la propria epoca – in questo caso gli anni Ottanta – annusando sì l’aria, ma con la consapevolezza della propria storia e della propria infanzia. 

L’infanzia non manca mai in quegli anni, e ancora Verdone e ancora Troisi e ovviamente Nanni Moretti: «Non torneranno più le merendine di quando ero bambino, i pomeriggi di maggio, non torneranno più». Reggere una battuta con uno sguardo e poi rifarlo reggendo un film e poi una carriera, è certamente un segno di narcisismo e anche di egocentrismo, ma come si dice, bisogna saperlo fare. Solo che anche quando si è capaci di farlo, il peso, soprattutto se parliamo di una carriera tanto trionfale come quella di Nuti, può diventare insostenibile, perché l’eccesso di sé ad un certo punto rende irriconoscibile anche lo specchio. 

Inutile ora addentrarsi nelle sfortune di un uomo che ha dato tanto al suo pubblico e al suo mestiere, di certo Nuti in quel 1982 dava contemporaneamente avvio e addio a una carriera, apriva e chiudeva la propria unica giornata con allegria quanto con malinconica ribalderia. 

Chiaro, il vero successo sarebbe arrivato dopo e anche i suoi film migliori, ma in quella ripetuta esclamazione “madonna che silenzio c’è stasera”, come nell’irriverente e azzardata, Puppe a pera, c’è già tutto. Il resto sarà arte, arte pura, non mestiere, della ripetizione. Come un riflesso condizionato dato dall’era della televisione che si stava imponendo anche grazie alle sue infinite repliche, trasformando ancor di più i comici in macchine, spesso ottuse, da tormentone. 

Madonna che silenzio c’è stasera racconta così dell’unica giornata che abbiamo a disposizione per restare bambini e per imparare, per giocare e per amare in assoluta e irrequieta libertà. Francesco Nuti invece ci ha raccontato cosa significa ripetere variando, calibrando ed elaborando quella giornata fino a trasformarla in una vita intera. Ed è ancora più assurdo che proprio in quel replicarsi che avrebbe dovuto essere maieutico si sia scatenata la critica e il rancore, là dove Nuti indicava una possibilità in un tempo stretto sempre e solo al presente, il pubblico lo abbandonava in un reciproco fraintendimento. Invece è proprio nella replica come performance che dovremmo cogliere lo spazio possibile in assenza di futuro come di un passato riconoscibile. Solo la ripetizione concede ancora uno spazio possibile di tempo per pensare e al tempo stesso la clemenza del perdono, fino alla successiva variazione. 

Quarant’anni di carriera sono passati da quel 1982, ma chiamarla carriera fa soltanto ridere rispetto alla forma che più fortemente ed esplicitamente gli anni Ottanta hanno maturato. Ovvero è possibile parlare credibilmente di una carriera fatta quasi ossessivamente solo da se stessi? Quel tempo trascorso, quei 40 anni sono più semplicemente una vita. In quarant’anni si inventa una volta soltanto e poi il resto sono serate più o meno ben pagate, repliche che hanno il senso di un’utopica stagione che resti infinita seppur aperta a ogni possibile variazione. Bisognerebbe sempre credere ai comici proprio perché ci fanno ridere, riconoscere il loro mestiere che può essere quello di attori, registi o scrittori e non abbandonarli mai, pena quella di abbandonare se stessi e la propria giornata migliore. Guarda un c’era mai stato un silenzio come stasera. Zit zit zit…. Muaadonna che silenzio c’è stasera. Io Chiaramonti ‘unnhò mai avuto paura del silenzio, ma stasera c’è un silenzio…

ARTICOLO n. 41 / 2021

GUERRA

ESTATE A VENEZIA

Sei arrivato a Venezia che faceva già caldo, era inizio giugno. Venivi da Milano che non ti rispondeva più al telefono, venivi da quella piatta e desolata città priva di sentimenti dove nulla accade e nulla si muove, ma l’avevi imparato troppo tardi. Milano è ferma, statica, perenne nella sua immobilità, l’unico modo per darle vita è agitarsi, muoversi, avanti e indietro in continuazione, dentro e fuori in continuazione, come un massaggio cardiaco, l’unico modo possibile per darle vita, un cuore. Te l’eri immaginata come Parigi dove è possibile stare fermi e guardare, dove è possibile vedere il mondo che invecchia mentre tu nemmeno te ne rendi conto. I caffè a Parigi servono a quello, a guardare cosa succede, dimenticandosi finalmente di se stessi, ma lasciando se stessi sopra al palco.

Sei venuto a Venezia che l’estate già si palesava nell’umidità ossessiva che non ti abbandona mai, nemmeno quando sembra che una leggera brezza possa salvarti la camicia. Prima, poco prima, venivi da Roma. Caterina ti parlava a voce bassa e sorriso sempre aperto e dolce, avevi amato il suo tono di voce, elegante e accogliente. Quella sera nel trambusto del Perù lei parlava con quel movimento tranquillo delle labbra e tu invece ti domandavi se i suoi genitori l’avevano chiamata così per quella canzone, quella di De Gregori, l’età dei suoi corrispondeva, pensavi e intanto non l’ascoltavi più.

A Venezia è impossibile mettere a fuoco, ma è obbligatorio guardare, mai come lì osservare e capire corrispondono, mai come a Venezia nulla è mai del tutto comprensibile, tutto è sempre aperto e passibile di correzione e cambio di rotta. Dipende dal tempo, dalla marea, dal fatto che qui tutto si muove, tutto è vivo e in mutazione. Faceva caldo e tu avevi trovato un posto dove stare, una casa dove vivere. La città verso sera tornava vuota e il bacino di San Marco all’imbrunire ti ricordava una natura morta di Giorgio Morandi, nessun contorno definito, solo oggetti sospesi. Pensavi di sentirti libero, ma sapevi di aver scelto un posto dove terraferma e campagna, Mirano e New York sono sinonimi. Per sentirti libero quell’estate avevi scelto di essere esterno e altro, solo con gli occhi.

A Venezia non ci si perde, anzi ci si ritrova sempre al punto di partenza. Lo avevi capito dopo pochi giorni, giravi e giravi, ma giravi troppo, tanto che sempre in quelle quattro calli finivi, ma senza mai capirne il senso. E così stremato dal caldo che da sempre ti ammazza, tu uomo di montagna (negato per la montagna) ti sei seduto e sei tornato da dove eri partito, lontano da chiese e da musei, lontano dalle persone se possibile. Già perché non capivi nulla di quello che ti dicevano. A Venezia il dialetto è lingua, è corpo puro. E prima di arrivare alla lingua la strada è lunga e passa quasi sempre per le mani.

Ti sei seduto in un posto perché era vuoto, non che i turisti non ci fossero, ma se inizi ad abitare a Venezia scompaiono come umani e restano come ingombri, fastidiosi come i piccioni. Elementi di una guerra in corso che non lascia tregua. D’estate Venezia diventa una città in perenne resistenza, non che i turisti siano gli invasori, ma ricordano molto i sacchi di sabbia alla finestra, il segnale più evidente di una lotta che vada come vada farà più male che bene.

Ti sei seduto e non hai capito più niente, hai smesso per una volta nella vita di lottare contro i mulini a vento che girano come pazzi in vestaglia nella tua mente. Pensavi di bere acqua e hai bevuto vino, pensavi di mangiare insalata e hai mangiato pesce, pensavi di non prendere nessun dolce e lo hai preso. Ti sei imposto per avere il caffè e hanno riso come fosse uno scoppio e te lo hanno offerto. Ma sei restato, hai provato a non badare a tutta questa confusione a non confondere l’accoglienza con l’ostilità. E hai imparato a guardare le mani che a Venezia sono legni grossi, di quelli che si trovano alla deriva sulle spiagge, legni contorti, ma buoni per fare barche. Erano mani grosse che avevano movimenti leggeri, buone per accarezzare, per cucinare e offrire, per darti improvvisamente – non richiesto, ma ben compreso – rifugio, che sia per mezz’ora che sia per la notte.

Sei stato fermo e hai iniziato a capire che dovevi mettere distanza per mettere un po’ a fuoco prima che il movimento ti sorprendesse nuovamente e ti lasciasse ancora una volta perduto. Avevi capito che non dovevi inseguire che dovevi lasciar scorrere perché a fissare le cose, a dargli un nome e una casella rischiavi solo di costruirti schemi e pregiudizi, e a Venezia in calle chi ha pregiudizi poi cammina solo.

Poi un giorno è arrivata Eleonora, non la vedevi da mesi, ti è sempre piaciuto il suo sorriso. Non tanto quando ride e subito chiunque capisce che è di Roma, ma quando sta come sul tram e la linea della sua bocca diventa irregolare come quella che Schulz disegna come bocca ai suoi Peanuts. Di solito quando Eleonora è così o si è dimenticata qualcosa o qualcosa la sorprende. Subito ti ha fatto l’elenco delle cose che avevi visto in oltre un anno che eri lì, ma tu non avevi visto nulla e giusto per non incorrere nella classica domanda, «Ma allora cosa hai fatto?», hai finto e anche se lei probabilmente se ne è accorta ha fatto finta di niente e ti ha trascinato alla Scuola Grande di San Rocco.

Era passato un anno dal tuo arrivo, e ora la pandemia iniziava a mollare un poco la presa, ma la città restava straordinariamente deserta e i piccioni con cui avevi ingaggiato – secondo te – una relazione emotiva e sensoriale erano sempre più affamati e aggressivi. La Scuola Grande era vuota, ci eravate solo tu, Eleonora e pochi altri. Tu vagavi, lei sembrava più sistematica, a te piacevano le sedie rosse.

Vi siete trovati entrambi a fissare il pavimento e avreste voluto attraversarlo a quattro zampe, almeno tu avresti voluto, come quando d’estate a casa giocavi sul pavimento di marmo freddo e liscio al giro d’Italia con dei piccoli ciclisti in plastica e un paio di dadi. Attraversavi dalla sala alla cucina, dalla camera da letto alla lavanderia e sudavi fino a scivolare e a restare stremato a «fine tappa» con il caldo addosso e tutto madido di sudore.

Siete usciti, lei ti ha parlato e tu l’hai ascoltata, ma fino a quando non siete entrati in una vecchia bottega di carte marmorizzate non è che hai capito molto, tuo solito. Di fronte alle carte ebru Eleonora ha iniziato a perdere la testa, il signore, l’artigiano che le faceva era elegante e affilato, le parlava con un tono di voce lento e accarezzava con delicatezza i fogli. Le ha mostrato dei quaderni rilegati e anche delle cornici. Non le diceva più di quanto fosse necessario e lei sembrava essere in apnea, mentre tu iniziavi a capire cosa lei ti aveva tentato di dire per tutto il giorno, ma hai deciso comunque di tacere. Eleonora ha comprato due quaderni e una piccola cornice, era felice come una bambina e si vedeva. «Mi chiamo Alberto», ha detto il signore, tu gli hai stretto la mano, Eleonora ha detto «Mi chiamo Eleonora» e gli ha baciato la guancia come fosse in un tempo eterno.

I nomi a Venezia sono sempre i nomi propri così che anche i cognomi, se proprio servono diventano nomi propri. I nomi a Venezia resistono e pesano, si riconoscono subito e si sa subito a chi appartengono. Non ci possono essere dubbi. E non perché siano nomi strani o particolarmente originali, ma perché in mezzo alla laguna il suono di un nome diventa subito anima. Anche qui ci è voluto tempo, ma poi hai capito.

Hai capito con il tuo passo lento che inciampa comunque, con la tua espressione ottusa che concede sempre così poco all’allegria. E allora Agnese che è Agnesetta, Alberto, Alberta e poi Albertina, Gigi e Toni, Giorgio e Carlo e poi certo Franca e Franco e poi ancora una volta come se non ti fosse bastato Enrica ed Enrico. Hai lasciato a santa marghe Eleonora che partiva. La stazione non ti piace, in stazione non ci vai, Venezia è in mezzo alla laguna e di vie di fuga non ne vuoi più sapere.

I nomi quindi, quelli che ti hanno fatto ridere come quando eri bambino: Aldo Strasse, Denti d’oro. Bisogna stare attenti con il passato a Venezia perché è ineluttabile quanto il futuro, qui tutto è in equilibrio non si parteggia per una parte o per l’altra se no si finisce in acqua. E il passato è numeroso a Venezia e procura quel sottile e irresistibile piacere che non è altro che annegamento, il piacere sottile che arriva poco prima del soffocamento totale.

E tu che sei venuto a Venezia per non farti corrodere dall’euforia di futuri fatti di parole e di corpi vecchi, hai iniziato a giocare pericolosamente con il passato, fino ad innamorarti delle schiene: un uomo alto che ti precedeva tutte le mattine a comprare i giornali e che seguivi lungo le calli, un ponte e poi un altro.

Lo riconoscevi dall’odore del fumo della sua sigaretta, lo sentivi arrivare fino a te e stranamente non ti infastidiva. Non hai mai avuto la curiosità di guardarlo in faccia, ma ti piacevano le sue camicie ampie e a scacchi e il rumore dei suoi passi: un giorno siete andati a tempo con i piedi e hai temuto che si voltasse, non l’ha fatto e hai avuto l’impressione che anche lui fosse del gioco.

E poi la schiena di bambino che avevi visto neonato e poi crescere inseguendolo per farlo ridere, prima i suoi passi incerti poi sempre più veloce. E poi hai smesso, non sai perché, ma hai smesso. 

Se hai mai abbandonato qualcuno, quelli sono stati sempre i figli non tuoi: li hai visti crescere o in alcuni casi li hai fatti crescere con pazienza e parole inusuali per il tuo carattere, ma poi arriva sempre un punto che diventi estraneo e li lasci. Lo hai già fatto troppe volte e lo hai fatto anche a Venezia dove ti salva giusto la luce, dove è sempre possibile coltivare una distanza ottica accettabile, sai che non lo perderai di vista anche se hai perso il suo affetto. Chiedi di lui in continuazione come fosse un parente lontano mentre corre a qualche centinaia di metri da te lungo le Zattere, esagitato ed euforico come ricordi di essere stato tu alla sua età. E questo ti fa nuovamente paura.

Altro che Parigi, Venezia sì che non finisce mai e hai imparato cosa è il Lido, cosa sono le isole e cosa è quel lungo viaggio lento che è stare in barca in mezzo alla laguna. Hai imparato come impari tu: addormentandoti mentre altri remano, coprendoti quando c’è il sole e scoprendoti quando tutti sanno che pioverà. Hai capito, hai capito male, ma qualcosa in testa ha iniziato a suturare e poi piano piano le cicatrici si sono levigate fino a lasciarti solo un’ombra sul corpo. Quando hai iniziato a comprendere che non è sempre necessario ferirsi per capire qualcosa, sei arrivato in piazza San Marco, avevi bisogno dello stupore, avevi bisogno di vederla come per caso. L’hai lasciata per ultima pur sapendo che ci sarà sempre altro ancora, ma intanto sei arrivato come si arriva al desiderio, con concitata noncuranza. Ci sei arrivato e per te è stato come tornare a casa, senza bisogno di ribadire a te stesso chi sei perché tutto è lì da vedere. Che è anche l’unico modo possibile per stare in mezzo ad una piazza senza occuparne lo spazio, diventando tu stesso quella pietra o quel coppo, quella porta o quella maniglia. Eccola lì piazza San Marco con la sua bottiglia dal collo lungo, con la brocca panciuta e l’anfora con le curve sinuose, la tazzina senza manico davanti a tutto. Ecco la linea del mare su cui si stagliano tutti questi oggetti, slegati da te, dalla tua storia e dalle tue ridicole noie quotidiane. Vorresti un kipferl come ti ha spiegato in un vecchio documentario Goffredo Parise che forse in maniera un po’ troppo compiaciuta, ma divertente se ne mangia più d’uno tra i piccioni e l’orchestrina in una giornata di fine anni Settanta. Vorresti capire come si fa a restare senza ingombrare, ad amare senza opprimere, a domandare senza pretendere una risposta. Guardi l’orizzonte, ascolti i rumori e tutto riconduce all’acqua, anche il caldo che proprio ora sembra darti un po’ di tregua. Chiudi gli occhi e li riapri, sei a Venezia e non hai visto nulla, puoi esserne felice.