Armando Punzo

ARTICOLO n. 23 / 2023

IL TEATRO COME POSSIBILITÀ

Intervista di Isabella De Silvestro

La longevità e l’ossessività sono una risorsa immensa. Lo dice Armando Punzo, che nell’agosto del 1988 varca le soglie del carcere di Volterra per un laboratorio teatrale di duecento ore che si trasformerà nella pratica artistica a cui dedica la vita da più di trent’anni. Fra le mura della galera Punzo trova un luogo dove restare, dopo anni di moto insoddisfacente per l’Italia e l’Europa. «Della mia vita fuori dal carcere non ricordo quasi niente». Sembra ricordare invece ogni parola pronunciata nello stanzino di tre metri per nove dove nasce la Compagnia della Fortezza, un gruppo costituto da detenuti attori che lavorano con lui per dare vita, giorno dopo giorno, a un’idea di teatro che valica tanto la tradizione quanto la pretesa rieducativa e assistenziale: una pratica artistica che fa della ricerca la chiave per mettere in scena l’umano e le sue infinite potenzialità. La sofferenza e la fatica, gli ostacoli dell’arte e della vita pratica, le lacrime versate per qualcosa che davvero non amiamo e quelle per qualcosa che amiamo davvero.

Ho conversato con Armando Punzo un venerdì sera. Lui usciva dal carcere, io uscivo da Un’idea più grande di me, il libro edito da Luca Sossella Editore che raccoglie il lungo scambio tra il regista e Rossella Menna, studiosa di teatro e collaboratrice di Punzo. Ne uscivo affaticata e insieme colpita. La luce che l’esperienza della Compagnia della Fortezza è in grado di emanare viene dall’incontro tra un’idea ambiziosa e un lavorio costante e severo, un confronto senza risparmi con ciò che dell’umano confligge con lo stato delle cose. Del lavoro teatrale di Punzo insieme ai detenuti di Volterra colpisce la serietà e il rigore. Non vi è nessun cedimento al “sociale” come categoria che aggiunge valore per il solo fatto di promettere redenzione dalla propria condizione marginale. Vi è invece uno sguardo preciso su come è bene fare arte: senza prendersi un giorno di vacanza, capendo che, di un artista, la vita è ciò che accade mentre disperatamente cerca un linguaggio per dirla. E se non ci riesce, che almeno lo si veda disperatamente cercarla. La nostra conversazione si apre senza convenevoli. E questo credo venga dall’abitudine a non voler perdersi in chiacchiere. Si parli di qualcosa di serio o non si parli affatto. Ricordo una frase del libro: «Non è che non mi piaccia la vita, è che sento che solo se mi assicuro un livello profondo di relazione può esistere anche quello superficiale».

Isabella De Silvestro: Tra le prime cose evidenti a chiunque entri in carcere per la prima volta c’è il fatto che ad abitarlo è il Sud del mondo. Questo suo essere meridionale porta con sé miseria e vitalità, una certa violenza e un alto grado di onestà e introspezione. Ci sono però altri avamposti del Sud del mondo, altri luoghi dolorosi e vitali. Se si trattava di portare il teatro dove nessuno lo aspettava, la tua compagnia avrebbe potuto prendere forma anche altrove?

Armando Punzo: In linea teorica poteva accadere anche altrove. Resta il fatto che io da altre parti non sono andato. Avevo rifiutato il teatro ufficiale, non mi sentivo attratto dalle strade dritte e in verità nemmeno da quello che era allora il teatro di ricerca. Ho alzato gli occhi un giorno e ho visto il carcere: l’ho scelto interiormente. A me interessava la questione dell’essere prigionieri e il carcere era il luogo dove la prigionia di ognuno di noi, uomini e donne liberi, diveniva evidente, senza maschere. Ho iniziato a fare teatro a partire da quest’idea: le prime letture, prima ancora di Grotowski, mi hanno portato a scoprire un punto di vista su di me e sul mondo come di una persona che aveva degli automatismi di cui non era consapevole, che probabilmente non gli appartenevano e finivano per opprimerlo. Non sapevo di non sapere tante cose. Il carcere, dunque, mi è sempre interessato come metafora, mai come cronaca.

I.D. Il carcere è metafora della prigione che viviamo anche fuori e, contemporaneamente, della marginalità e dell’esclusione. Racconti di aver lasciato Napoli, la tua città natale, senza rimpianti e senza nostalgie; dici spesso che il distacco è una condizione auspicabile. Mi sembra una presa di posizione quasi mistica, da anacoreta del terzo secolo. Il carcere è forse il luogo del distacco per definizione, un luogo ermetico dove il flusso delle città è sospeso e la vita in arresto. Questo distacco, tanto dalle proprie origini quanto dalla frenesia e dalle convenzioni, è necessario all’arte?

A.P. Il distacco è la conseguenza dell’incontro con un linguaggio artistico, nel mio caso il teatro. Questo incontro mi ha permesso di negare la realtà in cui ero calato, creandone una a me più affine. Nasciamo in un luogo che non abbiamo scelto e molti lo abitano come una condanna. Praticare un linguaggio artistico permette di dare forma ad un’altra realtà, entrando in relazione con parti di sé che altrimenti rimarrebbero per sempre celate: è una questione di espansione del sé. Io ho desiderato fortemente prendere distanza dal mio luogo di nascita. Il luogo che ho cercato è il teatro, e mi è capitato di crearlo in una prigione, un luogo che sembra impedire ma allo stesso tempo preserva e protegge. La galera è simile a un monastero, un posto dove la riflessione può raggiungere livelli altissimi. Certo, esiste anche lì la vita ordinaria con le proprie regole, le scocciature e gli impedimenti. Sono cose che affronto e vivo ma a cui non do molto peso. Generalmente le persone pensano che scegliere di lavorare in un luogo marginale debba diventare un tema. È il male di questo periodo storico: l’ossessione per i temi. Il valore del mio teatro rischia di essere ridotto al tema della marginalità. Dal punto di vista del linguaggio artistico, quando il tema è più importante di ciò che fai significa che non hai ottenuto un grande risultato. Mi aveva colpito molto Contro l’impegno di Walter Siti, dove in fondo lui dice questo: c’è un’arte che è testimonianza, e dunque tema, e c’è un’arte che è viaggio di conoscenza, dunque processo. È un aspetto, quello della testimonianza, che non mi piace praticare. Il processo artistico è molto più complesso e mette in discussione l’essere umano più del discorso intellettuale o politico.

I.D. Vorrei parlare di questo processo. Quello che colpisce del lavoro della Compagnia della Fortezza è l’adesione tra idea e pratica: l’una si manifesta nell’altra e viceversa. Sembra esserci un grande lavoro corale sui testi, un rimestare e scavare, leggere e rileggere finché il testo non prende forma e consistenza, una ricerca continua di protagonisti sempre nuovi e in comunione intima con i personaggi che interpretano. Cosa accade nel concreto nello stanzino del carcere dove preparate gli spettacoli? 

A.P. Io arrivo con delle proposte. Si tratta di testi che ho letto e per qualche motivo mi interessano. Ma il percorso lo sviluppo sempre insieme ai miei attori, ho bisogno di capire se una ricerca interessa solo a me o se è qualcosa che effettivamente può risuonare anche in loro. È capitato negli anni che io proponessi qualcosa e lo vedessi morire nei loro occhi in un attimo. Quando ci approcciamo ai testi viviamo le parole come se fossero pensieri fondamentali che sono lì da sempre in attesa di incarnarsi in qualcuno. Ecco, rispetto ai protagonisti, normalmente nel teatro sono attori che si sono fatti un nome, hanno una pratica che li caratterizza e vengono scelti proprio in base a questo loro nome: il loro percorso artistico è in qualche modo scritto. Intorno ai nomi si costruiscono i ruoli. Questa è una modalità che io ho deciso di non praticare. Chi è stato protagonista di un mio spettacolo lo è stato perché quel tema, quelle parole, quel preciso momento della sua vita lo hanno portato a impegnarsi in maniera tale da farlo emergere come protagonista, talvolta anche suo malgrado, in maniera dolorosa. Non è una cosa che si può decidere a tavolino, emerge da quanto di sé un uomo impegna. E non è una conquista per tutta la carriera: un anno o due anni dopo, pur avendo delle capacità magari innegabili, la stessa persona può non essere protagonista perché la necessità, l’urgenza profonda, emerge in un altro. Questo destabilizza lo star system, per così dire. A me interessa far emergere le necessità umane delle persone con le quali lavoro, cosa che va molto oltre la questione di mettere in scena un ruolo. Mi interessa far capire che quando uno ha un’urgenza profonda riesce a superare incredibili difficoltà.

I.D. Nel vostro Pinocchio, il burattino di legno vuole tornare a essere albero. Non bambino, come ci si aspetta, ma il legno da cui è venuto “per augurarsi una foresta di alberi”. Come si concilia il protagonismo che richiede la pratica teatrale con l’idea di valicarsi, andando oltre il sé? 

A.P. Sono due livelli separati. Bisogna suddividere tra un io ordinario e un io superiore.

I.D. E il teatro sarebbe il mezzo tra queste due cose?

A.P. È una possibilità. Ma lo è di fatto, non a parole. Un attore, quando è in scena, non sta usando il suo io ordinario. Anche se non è consapevole di questo processo, chi entra in scena si immerge completamente in ciò che sta facendo proprio per prendere distanza dal suo io ordinario, nel quale auspicabilmente non si sente a suo agio: il teatro è una pratica per accedere a delle potenzialità superiori. Se uno legge la letteratura di formazione degli attori, da Stanislavskij a tutto ciò che viene dopo, si accorge che si tratta di una letteratura fortemente utopica. Viene chiesto a un uomo di lasciare se stesso e di mettersi alla prova attraverso un processo di scoperta. Un attore che sta in scena dà il meglio di sé, offre al pubblico la sua parte più luminosa: se abbiamo lavorato bene abbiamo un uomo al massimo delle sue potenzialità. 

I.D. A proposito di dare il meglio di sé, mi interessa il valore della stanchezza. Parli spesso della fatica come risorsa artistica, come se solo spingendosi oltre il sostenibile si raggiungesse il nucleo delle questioni. Mi chiedo se l’altra stanchezza, quella che viene dal contesto in cui tu operi, e cioè dal rapporto con l’istituzione carceraria e i suoi meccanismi, sia altrettanto vitale o sia piuttosto un brutto gioco a cui fare buon viso. 

A.P. Sicuramente la seconda ti mette alla prova. Il carcere è molto particolare in questo, è un sistema che ti affatica enormemente ma va affrontato e trasformato in una motivazione. In tutte le resistenze e le forze contrarie trovi il motivo per affermare il tuo lavoro che ha un segno completamente diverso rispetto alla vita ordinaria del carcere e merita di essere protetto. La fatica artistica invece è quella di una pratica: un danzatore sa cosa significa logorarsi fisicamente per un lavoro. È come uno scioglilingua, una cosa molto semplice, ripetitiva, ma molto complessa. Quando ti spingi oltre una certa soglia abbatti alcune resistenze naturali. L’uomo tende ad adagiarsi e a risparmiare, come gli uccelli. I pretesti degli uccelli migratori sono straordinari: non vorrebbero partire alla ricerca di una cosa che pure riconoscono come importante e necessaria, fanno una grande fatica ma poi si convincono e partono insieme. E arrivano lontanissimo. 

I.D. Cosa spinge le persone a seguirti in questa fatica? 

A.P. Io credo che ognuno trovi la sua motivazione. Alcune inizialmente possono sembrare futili, banali, ma ciò che importa è che la maggior parte delle persone rimangono perché scoprono che c’è molto di più. 

I.D. Il carcere è un’istituzione poco ambiziosa, forse figlia di una società poco ambiziosa. Sembra già miracoloso riuscire a garantire la presenza di una scuola professionale per i detenuti, ma apparirebbe assurdo pensare a un liceo classico. Assurdo e inutile. Come ciò che hai creato tu. La cultura e il teatro non servono che alla cultura e al teatro, e cioè all’uomo. In un luogo di privazioni e punizioni che valore ha porsi obiettivi più grandi di sé e del contesto nel quale si è immersi?

A.P. Io credo che questa tendenza ad accontentarsi del minimo sia lo specchio di ciò che succede anche fuori, dell’umanità di oggi. E sottolineo di oggi. Tutto è fatto per un tornaconto materiale. Sembrano discorsi sentiti e risentiti eppure non è che si sia risolto un granché. In carcere già sembra tanto riuscire ad affermare che serve una scuola, che serve un teatro. Andare più in là è difficilissimo: ci si propone magari di aumentare l’alfabetizzazione, di fare uno spettacolo bello, ma non si pensa a un futuro di uomini migliori con valori diversi da quelli che ci hanno portato dove siamo. È chiedere troppo.

I.D. Mi ha colpito un passo del tuo libro nel quale ti descrivi come una persona molto fragile nel rapporto con gli altri. Ti meravigliano l’ostilità, la malevolenza. Credi ci sia un valore nel porsi disarmati di fronte agli altri? L’illusione e l’ingenuità possono essere risignificate? 

A.P. A me non piace la parola illusione. Però vedi, ciò che faccio da anni dentro il carcere con gli attori della Compagnia della Fortezza non fa male a nessuno. Lo ripeto: non fa male a nessuno, ne sono certo, non ho alcun dubbio. Non può che fare del bene. Quindi, quando trovi qualcuno che ti viene contro, l’unica cosa che puoi fare è accettare che si tratta di persone che si trovano a un grado diverso di evoluzione. Non è permesso loro di capire. Puoi provare rabbia, pietà, dolore, ma resta il fatto che quelle persone, in quel momento, non arrivano a comprendere quanto ciò che fai possa fare del bene.  

A volte siamo dentro al carcere nel nostro stanzino e io chiedo ai miei attori: a quest’ora, alle cinque e mezza del pomeriggio, quante sono le persone che a Volterra stanno affrontando questo tipo di discorsi, si stanno affaticando per cercare delle soluzioni a questo tema, che sembra qualcosa di inutile? Forse nessuna, siamo solo noi. Forse c’è qualcun altro. E in Toscana? E in Italia? E così via allargando la scala. 

Io sono convinto che, se tanti facessero questa fatica, il mondo sarebbe migliore. E non mi sento stupido a dirlo, non mi sento ingenuo. Ne sono convinto. Mi rendo conto che è molto complesso, ci mancano i fondamenti. Dovremmo partire dalla scuola, o da prima ancora, dalla famiglia. Ma ci vorrebbe qualcosa che aiuti la famiglia se la famiglia è carente. Dovremmo crescere in maniera completamente diversa e non credo che stiamo andando in questa direzione. Se prima la scuola era una questione di cultura, ultimamente quasi per niente. L’idea del lavoro sta fagocitando ciò che è rimasto della scuola come opportunità di conoscenza.

I.D. Sembri leggere gli ultimi cinquant’anni sotto il segno della decadenza.

A.P. Questo è il mio difetto. Io sono nato negli Anni Settanta, e forse mi sbaglio. Nato dal punto di vista filosofico, si intende. In quel clima culturale. Mi spiego: io non penso che prima gli uomini fossero migliori. Però nei Settanta non mi sentivo da solo. Oggi sono più solitario e le altre persone che cercano una strada e una possibilità sono anch’esse sole. Non c’è più un clima generale. Mi sembra di vedere persone molto disperate, a partire dai giovani.

I.D. Durante il tuo spettacolo Mercuzio non vuole morire hai chiesto agli spettatori di riporre in una valigia «una lacrima versata per qualcosa che davvero non ami». Lo trovo bellissimo e non ho idea di cosa voglia dire. 

A.P. Quello spettacolo nacque dalla necessità di riscattare Mercuzio dal suo destino di morte. In Romeo e Giulietta Mercuzio è l’amico poeta di Romeo, il sognatore che parla della vana fantasia e muore quasi subito. Nella mia lettura, la morte di Mercuzio è la scaturigine di tutta la tragedia che segue, come se morto lui non ci fosse più niente da fare. Metaforicamente, se uccidi la tua parte sognante non rimane che sfacelo. La lacrima versata per qualcosa che davvero non ami non è propriamente un rammarico, è la lacrima per una mancanza, è la lacrima che versiamo quanto il mondo ci appare come un’aggressione e siamo chiamati a difendere le cose preziose di cui abbiamo parlato finora: questa ricerca, questa idea, questa pratica. È necessario versare una lacrima anche per le idee che non amiamo. Riguarda ciò che dicevamo rispetto alle persone e alle idee ostili al bello, chi non arriva a vedere oltre sé e ciò che gli è noto da sempre. È una lacrima versata per chi crede che non ci sia niente da fare: dentro il carcere, fuori dal carcere, si può sempre fare qualcosa.