Tiziana Lo Porto

ARTICOLO n. 100 / 2023

ESSERE PAUL NEWMAN E JOANNE WOODWARD

Note a margine di un’asta da Sotheby’s

Di recente ho passato diversi mesi a New York. Abitavo nell’Upper East Side, in un appartamento all’angolo tra la Settantaquattro e First Avenue. In quei mesi traducevo e scrivevo, trascorrevo molte ore seduta al computer in casa, al bar o in biblioteca, e nelle pause camminavo nei dintorni, spingendomi più o meno lontano, facendo soste nelle gallerie del quartiere o nelle caffetterie dei grandi musei di Fifth Avenue. Una delle tappe più ricorrenti erano le stanze espositive di Sotheby’s, a un paio di strade da casa, dove, nelle due settimane che precedono un’asta, parte della collezione viene esposta a beneficio di potenziali acquirenti e di tutti, prima di disperdersi nelle case di chi si aggiudicherà i singoli pezzi, dipinto, gioiello o mobile che sia. Una delle ultime aste e relative esposizioni allestite mentre ero a New York è stata quella di mobili, oggetti e dipinti posseduti da Joanne Woodward e Paul Newman.

Dopo mesi di frequentazione delle stanze di Sotheby’s, sono arrivata alla conclusione che guardare gli oggetti presi dalla casa di qualcuno ed esposti nelle sale algide di una casa d’aste è un’esperienza al tempo stesso deprimente e rassicurante. Ti deprime il pensiero che chi ha ereditato quegli oggetti abbia deciso di venderli (anche se spesso, come è successo lo scorso anno con l’asta degli oggetti appartenuti a Joan Didion, il ricavato va in beneficienza). Ma sei anche rassicurato al pensiero, fortemente animista e quasi certamente illusorio, che, lasciate quelle stanze, gli oggetti inizieranno una nuova vita, dentro case nuove, posseduti da brave persone che avendoli scelti e acquistati a cifre quasi sempre superiori rispetto al loro valore effettivo dovrà quasi certamente amarli. 

Gli oggetti di casa Woodward-Newman esposti e poi venduti da Sotheby’s non erano tanti, né particolarmente belli o di valore (se non sentimentale): alcune sedie e altri mobili anonimi, qualche abito di scena, molte affiche dei film interpretati da uno dei due o da entrambi contemporaneamente, qualche fotografia, dipinti inglesi o americani del XIX e XX secolo (molti raffiguranti bambini paffuti e vestiti a festa), un set di valige d’altri tempi e poco utilizzabile, caschi e altri cimeli legati alla passione di Newman per le auto da corsa, diversi orologi, qualche gioiello e poche altre cose disposte in ordine arbitrario nella stanze espositive della casa d’aste. L’insieme in sé non era affascinante né emozionante, eppure tornata a casa mi sono subito messa a guardare la serie documentaria su Woodward e Newman diretta da Ethan Hawke, animata da un vago senso di colpa per avere violato una sorta di privacy o intimità nel curiosare tra oggetti che non comprerò mai.

La serie si chiama The Last Movie Stars, le ultime star del cinema, e la definizione è dello scrittore Gore Vidal, evidenziando come Woodward e Newman siano stati per un lungo momento gli ultimi sopravvissuti di una generazione di attori per certi versi inarrivabili. È una serie in sei episodi (negli Stati Uniti è in streaming su Prime, in Italia sulla piattaforma Now di Sky) e si basa su uno straordinario repertorio di immagini e centinaia di interviste, incluse quelle realizzate dallo stesso Newman insieme allo sceneggiatore e attore Stewart Stern (è quello che ha scritto Gioventù bruciata di Nicholas Ray e The Last Movie di Dennis Hopper) ad attori amici e parenti della coppia per un memoir che Newman era intenzionato a scrivere. Poi però Newman distrusse i nastri con le interviste, di cui oggi resta solo la trascrizione fatta da Stern. La serie nasce da un’idea di una delle figlie di Woodward e Newman, Melissa Newman, che poco prima dei lunghi mesi di lockdown da Covid ha contattato Ethan Hawke chiedendogli di dirigerlo. Hawke ha detto immediatamente di sì, e ha girato gran parte delle interviste su Zoom, chiedendo anche a vari attori di prestare la loro voce per potere utilizzare le trascrizioni di Stern. Capifila dell’operazione sono diventati così Laura Linney, che dà la voce a Woodward, e George Clooney, che interpreta Newman. La serie è magnifica, e restituisce con esattezza la dimensione pubblica e privata della coppia, così come quella sorta di sacralità e rispetto che li ammanta, e che palesemente onora, emoziona e impegna al loro massimo gli attori coinvolti nel progetto. Tra loro ci sono Vincent D’Onofrio che diventa John Huston, Bobby Cannavale che è Elia Kazan, Tom McCarthy è Sydney Lumet, e Zoe Kazan è Jackie McDonald, la prima moglie di Newman. Alle interviste trascritte e reinterpretate si aggiungono quelle originali condotte da Hawke a una ventina di attori e registi, da Martin Scorsese a Ewan McGregor, da James Ivory a Richard Linklater, e ancora Sam Rockwell, un’altra delle tre figlie di Woodward e Newman, Nell Newman, e la figlia Maya Hawke.

Sempre nei miei mesi newyorchesi, mi è capitato di vedere Ethan Hawke a una proiezione di Hamlet 2000 in 35 mm organizzata al cinema Paris, su Central Park, seguita da un incontro con lo stesso Hawke (Amleto nel film) e il regista Michael Almereyda. La proiezione in pellicola è stata interrotta per un problema tecnico che si è rivelato impossibile da risolvere se non sostituendo il digitale alla pellicola per un lungo momento, per poi tornare alla pellicola per l’ultima mezz’ora di film. A un certo punto, nei lunghi minuti di attesa, nella sala buia, si è sentita la voce di Hawke dire: “so ancora tutte le battute, se volete nel frattempo vado avanti io con la storia”. In sala abbiamo riso, e tollerato forse con maggiore pazienza la visione interrotta, il tempo dilatato, il lungo momento in digitale, grati per avere azzerato in pochi istanti la distanza tra noi e il cinema, facendoci entrare in una dimensione che non era del tutto reale ma nemmeno del tutto immaginaria. A fine film, insieme al regista, Hawke ha parlato di Hamlet 2000, del set, di quegli anni, di Shakespeare, del cinema indipendente, del cinema in generale, con quell’entusiasmo un po’ ingenuo ma autentico che lo ha trasformato per un frangente nel ragazzino grunge con il cappello di lana che nei panni di Amleto, appunto nel 2000, abbiamo amato tanto quanto amavamo Kurt Cobain o Eddie Vedder. 

Anni fa, durante una conversazione telefonica, Bret Easton Ellis mi disse che ultimamente non riusciva ad amare nessuna star del cinema, e che “sono semplicemente troppe, non saprei chi scegliere”. Il che non è vero. Nel riguardare vecchi film con Woodward e Newman, o la serie di Hawke su di loro, o Ethan Hawke parlare di Shakespeare a New York, ho ragionato sul fatto che non è vero che gli attori sono tutti uguali, e che a volte basta una scena o una battuta in un film o una frase detta in un’intervista a farceli preferire ad altri. Scegliamo Paul Newman, o Ethan Hawke, così come potremmo scegliere Amleto, oppure Ofelia, o un paio di fotografie in bianco e nero di Woodward tra le decine di oggetti in vendita da Sotheby’s, che anche se, lo sappiamo, non compreremo mai, per un frangente desideriamo diventino nostre. Sappiamo perfettamente che nessuno di loro né nessuno dei loro oggetti sarà mai nostro, ma li scegliamo comunque. Sappiamo anche che non appartengono del tutto alla realtà ma che non sono nemmeno interamente frutto della nostra immaginazione. Un po’ come Amleto, che non è mai esistito davvero, senza che questo lo renda meno reale. E nello scegliere lui, o Newman, o una foto di Woodward, ci prendiamo temporaneamente una pausa dalle nostre vite e abitiamo le loro, immaginiamo di essere loro, giochiamo a essere loro. Che in inglese è to play, e vuol dire giocare, ma vuol dire anche recitare. La cosa bella della recitazione, è che non c’è mai niente di definitivo.Quando a scuola di recitazione a Joanne Woodward venne chiesto perché volesse fare l’attrice, rispose: è l’unica cosa che so fare. Nelle due foto in bianco e nero vendute da Sotheby’s, della coppia Woodward-Newman c’è solo Woodward. È molto giovane, è a lezione di danza, in una delle due foto è in schiera insieme ad altre ragazze appoggiate a una parete, nell’altra fa un esercizio alla sbarra. Così, sì: sapeva anche ballare.

ARTICOLO n. 68 / 2022

VIOLETANTE VIOLETA

Le canzoni dipinte di Violeta Parra alla Biennale di Venezia

Per cantare all’improvviso
si richiede buon talento
memoria e intelligenza,
forza di gallo di razza.
Come una grandinata
devono fiorire i vocaboli
da spaventare anche i diavoli
con molte belle ragioni
come nelle conversazioni
fra San Pietro e San Paolo.

Della musicista e artista cilena Violeta Parra, l’amico Patricio Manns racconta di una sera in cui andò a cantare in un teatro di Punta Arenas, capitale della regione di Magellano e dell’Antartide Cilena, nella Finis Terrae australe. Faceva freddo, molto freddo, e a un certo punto una ragazzina le portò uno scialle per coprirsi. «Il freddo di qui, il vostro freddo», disse Violeta al suo pubblico, «mi aveva un po’ colpito, ma poco fa una ragazzina è venuta a offrirmi, a nome del comitato delle madri, uno scialle di lana molto grossa. È una grandissima gioia per me avere ricevuto un regalo da un centro di madri in questa estremità del Cile. Sono venuta un po’ timorosa qui a Punta Arenas, perché non ero mai venuta e non sapevo se mi conoscevate e mi amavate. Ma ora riparto molto contenta, non solo per il regalo che ho ricevuto ma per un’altra cosa molto commovente che mi è stata portata ieri sera». «Che cosa?» domandò il pubblico. Violeta rispose: «Potete vedere qui che i miei piedi non toccano terra, sono in aria, perché tutte le sedie sono troppo grandi per me. Sono una donna molto “corta”. Ma ieri è venuto al mio albergo un uomo, uno di qui, di Punta Arenas, e mi ha offerto una sedia fatta per le mie dimensioni. E porterò anche questa a Santiago, e mai più canterò in punta di piedi».

E anche signori ascoltatori,
occorrono gli strumenti,
moltissimi elementi
e un compagno eloquente.
Dev’essere un buon contendente,
esperto della storia;
vorrei avere memoria
per avviare una sfida,
ma non mi sento capace
di concluderla in gloria.

Arturo Prat è uno degli eroi cileni della Guerra del Pacifico, conosciuta anche come guerra del salnitro, con il Cile da una parte e la Bolivia e il Perù dall’altra (si battevano per il salnitro che abbondava nel deserto di Atacama, a sud del Perù e a nord del Cile). Combatté a lungo e valorosamente, per poi morire in battaglia a bordo della sua nave, la Esmeralda, il 21 maggio del 1879, poco più che trentenne. La Esmeralda era una vecchia corvetta di legno che pesava 850 tonnellate, armata con quattordici cannoni. La battaglia avvenne al largo dell’allora porto peruviano di Iquique, dove Prat e il suo equipaggio si scontrarono con una corazzata peruviana al comando di Miguel Grau Seminario. Dopo la battaglia, l’ammiraglio Grau ordinò che gli oggetti personali di Prat (tra cui il diario, l’uniforme e la spada) venissero consegnati alla vedova, Carmela Carvajal, insieme a una lettera in cui Grau elogiava la nobiltà e il valore del rivale, che fu così chiamato “El Caballero de los Mares”. Prat e la sua Esmeralda li vediamo bellamente raffigurati in questi giorni all’Arsenale di Venezia, in una delle tre opere di Violeta Parra scelte da Cecilia Alemani per la Biennale. Le opere sono tre arazzi, o arpieceras, ovvero quadri composti con lana e pezzi di tessuto di vari colori, o ancora canciones que se pintan, come amava chiamarle la stessa Violeta: canzoni dipinte. Gli altri due arazzi sono El circo Arbol de la vida, il circo e l’albero della vita, rispettivamente del 1961 e del 1963. L’arazzo con Arturo Prat si chiama Combate naval I ed è del 1964, anno in cui Violeta venne invitata a esporre le sue opere al Louvre, a Parigi. Fu la prima artista sudamericana ad avere una personale lì, e insieme agli arazzi espose tele e sculture, ricomponendo la parte visuale della sua eclettica produzione artistica a beneficio di un pubblico che, come le madri e le figlie di Punta Arenas, forse non sapeva niente di lei ma che la amò a prima vista. Era la sua prima personale al Louvre, ma non era la prima volta che esponeva i suoi lavori. Prima del Louvre c’erano stati il Museo de Arte Moderno in Brasile, le Ferias de Artes Plásticas a Santiago, la Galería Teatro I.F.T di Buenos Aires, il Kulttuuritalo a Helsinki, la R.D.A. Gallery di Berlino, l’Università di Ginevra, in Svizzera. Esponeva soprattutto opere ricamate. In un’intervista televisiva con Yvonne Brunhammer, Parra spiegò che la scelta del mezzo era dettata semplicemente dal fatto che non sapeva disegnare. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla creazione di uno spazio culturale che fosse allo stesso tempo creativo ed espositivo. Lo chiamò la Carpa de la Reina. La tenda della regina.

Quando parlo di strumento
penso al chitarrone,
col suo filo e il bordone:
il suo suono è un portento.
Cinque “ordinanze” vi conto,
tre di cinque, due di tre,
la “chiave” ai vostri piedi,
l’impugnatura elegante.
Quattro diavoletti cantanti
la sua cassa deve avere.

Quando Violeta venne invitata a esporre al Louvre, conosceva già il posto perché verso la metà degli Anni Cinquanta aveva registrato lì alcune delle sue canzoni per gli archivi della BBC. A invitarla non fu il Musée National d’Art Moderne ma il Musée des Arts Décoratifs, che avendo già esposto i lavori di Picasso e Chagall (l’artista preferito da Violeta) si muoveva con disinvoltura tra belle arti e folk art, schivando la rigidità di confini e considerando tutto Arte con la a maiuscola. Il manifesto della mostra era di stoffa e ricamato, e mostrava un grande occhio, oggetto surrealista per alcuni, talismano sacro per altri. O anche entrambe le cose. Ricamate erano anche tutte le informazioni relative alla mostra: la data (dall’8 di aprile all’11 di maggio), il nome e l’indirizzo della galleria, il proprio nome e la scritta “sculture”, rendendo ambigua e vasta la definizione di cosa sia una scultura. Su quella mostra Violeta scrisse una canzone dal titolo Una cilena a Parigi. E fa così: “Ho portato dei dipinti / nella bella città di Parigi, / con un gran tristezza / per il mio Cile. // Finalmente sono a Parigi /cammino sulla riva della Senna / e sul ponte del Louvre / sono già in ufficio / faccia a faccia con la segretaria / quando sento un campanello / che mi chiama. // Poi vedo davanti a me / il capitano del Museo / è stato gentilissimo / il signor Faré”. Il signor Faré era Michel Faré, all’epoca curatore al Louvre del Musée des Arts Décoratifs, e insieme a Yvonne Brunhammer curatore della mostra. Nella canzone Violeta lo chiama capitano, come Arturo Prat.

E per cantare a contrasto
si dev’essere suonatrice,
e la cantante arrogante
per seguire la melodia,
garantire l’allegria
finché dura il contrappunto,
formare una bella armonia,
rispondere con destrezza:
vedo che la mia testa
non è fatta per questa storia.

E adesso veniamo a Violeta Parra, meravigliosa cantante e artista folk cilena, sorella del poeta Nicanor Parra. Alcuni fatti biografici: nacque a San Carlo, nella provincia di Punilla e nella regione di Ñuble, il 4 ottobre del 1918, e morì a Santiago, suicida a quarantanove anni, il 5 febbraio del 1967. La sua canzone più famosa è Gracias a la vida, di cui esiste una lista interminabile di cover, delle quali forse la più celebre è quella di Joan Baez. Ebbe due mariti, quattro figli e un grande amore, il musicologo e antropologo svizzero Gilbert Favre, che a un certo punto la lasciò. Violeta amava cantare e ricamare (e anche scolpire, dipingere, in tutte le forme creare), ma amava anche e soprattutto andarsene in giro per il Cile a registrare le canzoni del repertorio popolare del paese, avviando così insieme a Victor Jara il movimento culturale e musicale della Nueva Canción Chilena che negli anni sessanta si dedicò al recupero e alla rielaborazione del folklore sudamericano e all’uso della canzone come strumento di lotta sociale e impegno politico. A un certo punto disse: «Il Cile è il miglior libro di folklore che sia mai stato scritto». In una canzone descrive se stessa come un chirigüe, uno degli uccelli comuni del Cile. Nella canzone l’uccello perde le piume e la capacità di cantare per trasmettere la tristezza che prova per la difficile situazione dei minatori nel nord del Cile. E diventa uccello anche in uno dei suoi dipinti più autobiografici, El Pájaro y la Recorder, l’uccello e il registratore. 

Infine gentili signori,
che mi prestate attenzione,
che avete trovato ragione
di sfuggire a questo incanto
non voglio che si faccia
contro di me alcun commento: 
per le chiacchiere sui giornali
è già tanto il condimento.
Non deve mancare il momento
di imparare a gorgheggiare.

In ultimo c’è il verbo violetare che ho usato nel titolo. È un’invenzione poetica di Pablo Neruda, amico e ammiratore di Violeta, che in versi la descrisse il giorno del suo cinquantesimo compleanno: Estás Violeta Parrón / violeteando la guitarra / guitarreando el guittarón / entró la Violeta Parra. (Ecco Violeta Parrón, violetando la chitarra, schitarrando il chitarrone, è entrata Violeta Parra). E poi nel 1970, tre anni dopo che Violeta era già morta, scrisse per lei un’elegia che a un certo punto fa: “E di notte nel cielo il tuo splendore / è la costellazione di una chitarra”. Così grazie all’amico Neruda Violeta non suona ma violeta, non canta ma violeta, non ricama ma violeta. Violetear è il verbo del suo creato. Violetando lei crea. E adesso chiudo con una breve nota sulle fonti usate per scrivere questo pezzo: la poesia Talento per cantare è nel bel volume Violeta Parra, Canzoni (cura e traduzione di Ignazio Delogu, Newton Compton 1979), che contiene anche il racconto biografico dell’amico, scrittore e musicista Patricio Manns e un’utile cronologia. Per il lavoro di Violeta come artista è stato prezioso l’accurato volume di Lorna Dillon Violeta Parra’s Visual Art Painted Songs (Springer International 2020). Altre informazioni vengono dalla rete, in particolare dal sito del Museo Violeta Parra aperto a Santiago del Cile nel 2015 (museovioletaparra.cl) e da YouTube, che oltre al suono della voce di Violeta e alle sue canzoni, custodisce piccoli frammenti di film che la riprendono a colori, intenta a mostrare al mondo il suo creato.

ARTICOLO n. 37 / 2022

A PROPOSITO DI THE DROPOUT

Fortuna e menzogna nella Silicon Valley

Nel 2003 una prodigiosa diciannovenne americana lascia i suoi studi a Stanford e fonda una startup biomedica nella Silicon Valley che ha come ambiziosa missione quella di produrre analizzatori di sangue portatili che con una singola goccia di sangue permettano di diagnosticare precocemente numerose malattie, salvando molte vite e abbattendo drasticamente i costi delle spese sanitarie. L’azienda si chiama Theranos, dall’unione delle due parole therapy e diagnosis, l’analizzatore portatile viene battezzato Edison, e la ragazza è Elizabeth Holmes. In una dozzina di anni la sua fondatrice finisce sulla copertina della rivista Forbes che la nomina la più giovane miliardaria self-made del paese, fa raggiungere alla Theranos un valore di mercato di 9 miliardi di dollari e un capitale stimato di circa 4,5 miliardi di dollari, conquista una impeccabile galleria di nomi tra sostenitori, dipendenti, investitori e membri del consiglio di amministrazione della startup che includono gli ex segretari di Stato Henry Kissinger e George P. Shultz, e strappa un accordo con la catena di farmacie Walgreens e uno con la catena di supermercati Safeway per aprire nei loro punti vendita postazioni Theranos dove effettuare analisi del sangue a soli 2 dollari e 99 centesimi (di fatto ne verranno attivate una quarantina nelle farmacie Walgreens). Poi nell’ottobre del 2015 entra in scena John Carreyrou, ottimo giornalista investigativo del Wall Street Journal, che con un articolo fa crollare il castello di carte rivelando al mondo quello che molti ex dipendenti della Theranos sanno già: gli esami effettuati dalla Theranos vengono per la più parte fatti utilizzando macchine Siemens, una singola goccia di sangue non è sufficiente e dunque il sangue viene diluito con acqua compromettendo i risultati, la macchina Edison sembra il progetto di scienze di uno studente di terza media e soprattutto: non funziona. I laboratori della Theranos vengono ispezionati, le accuse di Carreyrou vengono confermate, l’azienda viene messa sotto indagine, Holmes e il suo socio e compagno di vita, Ramesh “Sunny” Balwani (anche ex direttore generale e operativo della Theranos), finiscono sotto processo. 

Sulla vicenda John Carreyrou scrive e pubblica un libro (Una sola goccia di sangue. Segreti e bugie di una startup nella Silicon Valley, Mondadori 2019) i cui diritti vengono opzionati per farne un film prodotto da Apple TV, diretto da Adam McKay  (il regista di Don’t Look Up) e interpretato da Jennifer Lawrence (il film si chiamerà Bad Blood e attualmente è in preproduzione), il regista Alex Gibney realizza un documentario per HBO (The Inventor: Out for Blood in Silicon Valley), ABC produce il podcast creato e diretto dalla giornalista Rebecca Jarvis The Dropout, da cui viene tratta l’omonima miniserie creata da Elizabeth Meriwether e interpreta da Amanda Seyfried. La miniserie è in otto episodi ed è in streaming in Italia su Disney+ dallo scorso 20 aprile, quasi in contemporanea con la chiusura del processo a Elizabeth Holmes che a marzo l’ha condannata per quattro degli undici capi di imputazione (in sostanza è stata condannata per i reati di frode nei confronti degli investitori, mentre è stata assolta per quelli di frode nei confronti dei pazienti). 

Nel frattempo, fuori e dentro la Silicon Valley, c’è chi continua ad attaccarla (alcune imprenditrici della Silicon Valley hanno dichiarato recentemente di avere cambiato colore di capelli passando dal biondo a qualunque altra cosa per prendere distanza da Elizabeth Holmes), c’è chi la difende a oltranza (tra questi c’è il regista Errol Morris, che nel 2015 su propria iniziativa e affascinato da Holmes e dalla sua impresa ha girato alcuni spot promozionali della Theranos – sono visionabili su YouTube – e da allora non ha mai cambiato idea), e c’è chi semplicemente non capisce come una vicenda del genere sia potuta succedere. 

La cosa più immediata che verrebbe da dire è che dopo avere avviato la sua startup a diciannove anni,Holmes è rimasta in qualche modo intrappolata in quell’età, in quella post-adolescenza in cui non si è ancora persa l’abitudine di mentire agli adulti, genitori o insegnanti che siano. In cui le probabilità di farla franca con una menzogna sono così alte che vale sempre e comunque la pena di correre il rischio.In cui mentire in sé è eccitante, ti fa sentire potente, forse migliore degli altri, sicuramente speciale perché, anche se omologato in tutto, hai un segreto che gli altri non sanno. In cui non possiamo darle torto quando dice che, considerato il costo delle università in America (e la prassi delle stesse università di fare indebitare i propri studenti in cambio di una carriera scolastica che non garantisce un lavoro sicuro), preferisce investire quei soldi in una start-up e fare qualcosa per il bene dell’umanità. Non è un caso che uno dei momenti più riusciti dell’interpretazione che fa Amanda Seyfried di Elizabeth Holmes nella miniserie The Dropout è un remake di un’intervista video fatta da Errol Morris a Elizabeth Holmes in cui le viene domandato se può rivelarci un segreto. Holmes (e Seyfried dopo di lei) guarda dritto in camera, gli occhi spalancati e di un azzurro quasi marziano, il dolcevita nero indossato come una divisa per imitare il suo eroe inarrivabile Steve Jobs, ci pensa un po’ e alla fine dice: non ho molti segreti. Va da sé che non sapremo mai cosa le passa in quel momento per la testa. 

Nel frattempo Holmes si è sposata con un certo Billy Evans, di una decina di anni più giovane di lei ed erede del gruppo Evans Hotel (una catena di alberghi nella California del Sud), i due hanno avuto un figlio (è nato nel luglio del 2021 e si chiama William come il padre), abitano tutti nella Silicon Valley, in una tenuta di una trentina di ettari e del valore di 135 milioni di dollari a Woodside, in California. Concluso il processo aspetta la sentenza definitiva e la conseguente pena, che arriverà il prossimo 26 settembre e che prevede un massimo di vent’anni di prigione. 

Una teoria interessante che, seppur non giustificando, spiegherebbe almeno in parte le azioni di Holmes, ce la fornisce Dan Ariely, psicologo ed economista comportamentale israeliano-americano (insegna alla Duke University) che Alex Gibney ha intervistato nel suo documentario. Autore del libro The (Honest) Truth About Dishonesty: How We Lie To Everyone – Especially Ourselves (Harper 2012), a un certo punto del documentario Ariely cita un esperimento condotto da lui e dai suoi colleghi con un dado. Ai partecipanti veniva chiesto di scegliere mentalmente tra il lato basso e quello alto del dado, tirare il dado e a quel punto dichiarare la scelta ottenendo una ricompensa in denaro corrispondente al numero corrispondente al lato scelto (alto o basso). Per esempio: se il dado cadeva con il 4 in alto e il partecipante dichiarava di avere scelto l’alto, riceveva 4 dollari. A fine esperimento quasi tutti partecipanti risultavano avere scelto il lato più remunerativo. Fortuna o menzogna: impossibile a dirsi. Ripetendo lo stesso esperimento con l’aggiunta di una macchina della verità, si era capito che mentivano. Ripetendo una terza volta lo stesso esperimento con la macchina della verità e informando i partecipanti che la somma ricevuta sarebbe andata in beneficenza, la macchina della verità non era più in grado di intercettare quell’esitazione che di solito accompagna la bugia. Di fatto quanto succedeva era questo: i partecipanti erano talmente convinti che il fine giustificasse il mezzo da mentire con più determinazione, impedendo così alla macchina della verità di funzionare. A detta di Ariely qualcosa del genere deve essere scattato nella mente di Holmes, facendo scomparire del tutto il mezzo a beneficio del fine. E oltre che nella sua testa, deve essere successo anche in quella di dipendenti, investitori, membri del consiglio, e varia umanità coinvolta nella startup a un certo punto dei suoi dodici anni di vita. 

Un’altra teoria vuole Holmes tra le fila degli inventori che nei secoli hanno fallito, e anche mentito, prima di arrivare alla scoperta che avrebbe cambiato non solo la vita ma anche il futuro dell’umanità. Facendo proprio lo slogan «Fake it until you make it» (fingi fino a quando non ci riesci), Holmes avrebbe semplicemente continuato a sperare che la magica macchina in grado di fare le analisi del sangue a partire da una sola goccia di sangue funzionasse. E insieme a lei dipendenti, finanziatori, membri del consiglio di amministrazione, tutti uniti in una sorta di tacito patto dal quale ci si poteva sottrarre dimettendosi previa firma di un accordo di non divulgazione. Se le ragioni dei quindici anni di menzogne di Holmes si fermano allo stato di ipotesi, le decide e decine di accordi di non divulgazione firmati da ex dipendenti licenziati o andati via di propria volontà è sicuramente il motivo per cui il sistema non sia imploso prima: nessuno ha parlato perché legalmente nessuno era nelle condizioni di farlo. 

Uno degli aspetti più interessanti della vicenda è che la popolarità di Holmes sembra non essere stata minimamente scalfita dalle vicende giudiziarie, al punto che fan e seguaci dell’imprenditrice acquistano su eBay pezzi dell’azienda come fosse merchandising di una qualunque celebrità. Il valore di mercato degli oggetti va dai 150 dollari per un set di cinque penne con marchio Theranos ai 1500 dollari per una bottiglia d’acqua sempre con marchio Theranos (di quelle di plastica distribuite durante le conferenze per pubblicizzare l’azienda) agli 11mila dollari per un camice da laboratorio Theranos autentico e mai indossato. A venderli sono gli stessi ex dipendenti (per arrotondare si presume) che nel crollo dell’azienda hanno perso il lavoro e i guadagni generati dalle stock options. «La ragazza dal dolcevita nero che ha mollato il college e ha ingannato Henry Kissinger è diventata un’ossessione culturale», dice uno di loro. Ed è vero.

Ma ecco cosa succede a questo punto: sei lì che continui a digitare su Google Elizabeth Holmes, in cerca di qualcosa che non sai, culturalmente ossessionata anche tu. Ed ecco che prima uno, poi due, poi una discreta serie di articoli su giornali autorevoli ti spingono a guardare Inventing Anna, la miniserie sulla falsa ereditiera Anna Delvey Sorokin che ha ingannato dirigenti di banca, investitori e quant’altro, e WeCrashed, l’altra miniserie su ascesa e caduta della startup WeWork e l’improbabile coppia che l’ha inventata, e Bad Vegan, e così via fino all’unica conclusione possibile: nessuno è un caso isolato.