Joyce Carol Oates

ARTICOLO n. 84 / 2023

DOVE VAI, DOVE SEI STATA? PER BOB DYLAN

Pubblichiamo un’anticipazione da Storie americane (traduzione di Lucia Fochi e Isabella Zani), da oggi in libreria con Il Saggiatore. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Si chiamava Connie. Aveva quindici anni e il vezzo rapido e nervoso di allungare il collo, con uno scatto e una risatina, per guardarsi allo specchio o per capire dalle facce altrui se la sua era a posto. Sua madre, che notava tutto, sapeva tutto e non aveva più motivo di guardare la propria, di faccia, la rimbrottava sempre per quell’abitudine. «Piantala di guardarti con quell’aria ebete. Chi ti credi di essere? La più bella del mondo?» diceva. A quelle lamentele ormai trite e ritrite Connie alzava gli occhi al cielo e trapassava la madre con lo sguardo, puntandolo su un’indistinta visione di sé in quel preciso istante: sapeva di essere bella, e solo quello contava. Anche sua madre una volta era stata bella, almeno a volersi fidare delle vecchie istantanee nell’album, ma ora la bellezza se n’era andata ed era per questo che dava continuamente addosso a Connie. 

«Perché non tieni in ordine la camera come fa tua sorella? Ma come ti sei conciata i capelli… e cos’è questa puzza? Lacca? Tua sorella non usa queste schifezze». 

Sua sorella June aveva ventiquattro anni e abitava ancora a casa. Faceva la segretaria nel liceo di Connie, e come se averla nello stesso edificio non fosse già abbastanza, era talmente insignificante, tarchiata e giudiziosa che a Connie toccava sentire in continuazione la madre e le zie cantarne le lodi. E June ha fatto questo, e June ha fatto quest’altro; June metteva da parte i soldi e aiutava a pulire in casa e a cucinare mentre Connie non sapeva fare niente, la testa persa dietro inutili sogni a occhi aperti. Il padre era quasi sempre fuori per lavoro e quando tornava a casa voleva cenare e durante la cena leggeva il giornale e dopo cena andava a letto. Non si prendeva il disturbo di parlare con loro, ma al di sopra della sua testa china la moglie continuava a punzecchiare Connie al punto che la ragazza avrebbe voluto vederla morta e morire lei stessa e che tutto finisse. «A volte mi fa venire il vomito» si lamentava con le amiche. Aveva un tono di voce alto, trafelato e divertito che faceva sembrare ogni cosa che diceva vagamente forzata, per sincera o no che fosse.

Un lato buono c’era: June andava di qua e di là con le sue amiche, ragazze insignificanti e giudiziose quanto lei, e quando Connie voleva fare lo stesso la madre non aveva obiezioni. Il padre della migliore amica di Connie accompagnava le ragazze fino in città, a cinque chilometri di distanza, le lasciava in un centro commerciale dove potevano girare per negozi o andare al cinema, e quando tornava a prenderle alle undici non si curava di chiedere cosa avessero fatto. 

Senz’altro erano uno spettacolo abituale, quelle ragazzine in shorts a passeggio per il centro commerciale, le ballerine strascicate sul marciapiede e i braccialetti pieni di ciondoli che tintinnavano ai polsi sottili; si appoggiavano l’una all’altra bisbigliando e ridendo tra loro se passava qualcuno che suscitava il loro interesse o le divertiva. Connie aveva lunghi capelli biondo scuro che si facevano notare e che portava in parte gonfi e cotonati sul davanti e per il resto sciolti sulle spalle; e indossava un golfino di jersey che a casa faceva un certo effetto e fuori un altro. 

Tutto in lei aveva due versioni, una per casa e una per qualunque altro posto tranne casa: l’andatura, che poteva essere infantile e molleggiata oppure languida al punto da far pensare che si sentisse una musica in testa; la bocca, quasi sempre pallida e ghignante, ma vivace e rosea durante le serate fuori; la risata, cinica e strascicata a casa («Ah, ah, ah, molto divertente»), ma acuta e nervosa in qualsiasi altro posto, come il tintinnio dei ciondoli sul suo braccialetto. 

A volte Connie e la sua amica andavano davvero a fare shopping o al cinema, ma altre volte attraversavano svelte la superstrada, a testa bassa sulle corsie trafficate, fino a un ristorante drive‐in dove si ritrovavano i ragazzi più grandi. Il locale era a forma di grossa bottiglia, ma più tozza di una bottiglia vera, e sul tappo c’era la sagoma roteante di un ragazzo che stringeva trionfante un hamburger. Una sera di mezza estate attraversarono, il fiato mozzo per la spavalderia, e quasi subito qualcuno si sporse dal finestrino e le invitò ad avvicinarsi, ma era solo un compagno di scuola che gli stava antipatico. Poterlo ignorare le fece sentire bene. 

Proseguirono nel dedalo di auto parcheggiate e di passaggio fino a raggiungere il ristorante illuminato e infestato di mosche, le facce compiaciute e trepidanti come se stessero per entrare in un edificio sacro apparso d’un tratto nella notte per offrire loro il rifugio e le benedizioni a cui anelavano. Si sedettero al bancone a caviglie incrociate, le spalle scarne tese per l’euforia, ad ascoltare la musica che rendeva tutto così bello: la musica in sottofondo c’era sempre, come durante la funzione in chiesa; ci si poteva contare. 

Un ragazzo di nome Eddie entrò per attaccare discorso con loro. Si sedette con le spalle al bancone, prese a fare mezzi giri di scatto con lo sgabello, fermandosi e poi ricominciando, e dopo un po’ chiese a Connie se le andava di mangiare qualcosa. Lei disse di sì e perciò uscendo diede un buffetto sul braccio all’amica – l’amica fece una faccia ardimentosa e comica – e le disse che si sarebbero riviste alle undici dall’altra parte. «È che mi scoccia mollarla così» disse poi, sincera, ma il ragazzo ribatté che non sarebbe rimasta sola a lungo. Così uscirono per andare alla macchina di lui, e nel tragitto Connie non poté fare a meno di lasciar vagare lo sguardo sui parabrezza e sulle facce che la circondavano, il viso splendente di una gioia che non aveva nulla a che vedere né con Eddie né con quel posto; forse era la musica. Raddrizzò le spalle e inspirò per il puro piacere di essere viva, e proprio in quel momento posò per caso gli occhi su un volto a poca distanza da lei. Era un ragazzo dai capelli neri e arruffati, su una decappottabile sgangherata color oro. Lui la fissò e le labbra si aprirono in un sorriso. Connie socchiuse gli occhi e si girò, ma poi non poté fare a meno di voltarsi indietro ed eccolo lì, che continuava a fissarla. Sventolò un dito e disse, ridendo: «Non mi scappi, piccola» e Connie si girò di nuovo senza che Eddie si accorgesse di nulla. 

Passò tre ore con lui, prima al ristorante dove mangiarono hamburger e bevvero Coca‐Cola in bicchieri di polistirolo sempre umidi di condensa, poi lungo un vicolo a un paio di chilometri di distanza, e quando alle undici meno cinque lui la lasciò al centro commerciale, solo il cinema era ancora aperto. L’amica era là, che parlava con un ragazzo. Alla comparsa di Connie le due si sorrisero e Connie chiese: «Com’era il film?» e l’altra disse: «Dovresti saperlo». Se ne andarono con il padre dell’altra ragazza, assonnate e soddisfatte e Connie non poté fare a meno di voltarsi a guardare il centro commerciale buio con il parcheggio vuoto e le insegne sbiadite e spettrali, e poi il drive‐in dove le macchine giravano ancora in tondo senza sosta. Da quella distanza non sentiva la musica. 

La mattina seguente June le chiese com’era il film e Connie rispose: «Così così». 

Lei, la sua amica e talvolta una terza ragazza uscivano più volte la settimana, e il resto del tempo – erano le vacanze estive – lo passava a casa, a infastidire la madre e a pensare, a fantasticare sui ragazzi che aveva conosciuto. Ma tutti quei ragazzi scomparivano e si confondevano in un unico viso, che non era neppure un viso ma un’idea, una sensazione, mescolata all’insistente, pressante martellio della musica e all’aria umida delle notti di luglio. La madre continuava a riportarla alla luce del giorno trovandole cose da fare o dicendo all’improvviso: «Cos’è questa storia della figlia dei Pettinger?». 

E Connie diceva nervosa: «Uh, quella. Una vera scema». Tracciava sempre confini chiari e netti tra sé e quel genere di ragazze, e la madre era ingenua e buona abbastanza da crederci. Talmente ingenua, pensava Connie, che era crudele ingannarla a quel modo. Si trascinava per casa in un paio di vecchie ciabatte e al telefono con una delle due sorelle si lamentava dell’altra; poi quest’altra la chiamava e insieme si lamentavano della terza. Se veniva fatto il nome di June dal tono della madre traspariva approvazione, se invece si nominava Connie il tono era di rimprovero. Ciò non significava che non la apprezzasse; anzi Connie pensava che la madre preferisse lei a June perché era più carina, ma insieme tenevano in piedi quella farsa di esasperazione, l’idea di una continua contesa per qualcosa che non rivestiva un gran valore per nessuna delle due. A volte, davanti a una tazza di caffè, erano quasi amiche, ma poi saltava fuori qualcosa: un malumore simile a una mosca che all’improvviso ronzava loro sulla testa, e le facce s’irrigidivano nel disprezzo. 

Una domenica Connie si alzò alle undici – nessuno di loro teneva particolarmente ad andare in chiesa – e si lavò i capelli così potevano asciugarsi al sole per tutto il giorno. I genitori e la sorella stavano andando a una grigliata a casa di una zia e Connie disse di no, che non le andava, alzando gli occhi al cielo per far capire alla madre cosa pensava effettivamente. «E allora stai a casa da sola» disse l’altra, secca. Connie si piazzò su una sedia in giardino e li guardò andare via, il padre calvo e silenzioso, che si girava per fare retromarcia, la madre con l’aria ancora arrabbiata e per nulla addolcita dietro il parabrezza, e sul sedile posteriore la povera June, tutta in ghingheri come se non sapesse com’erano le grigliate, con i bambini che corrono ovunque urlando e le mosche. Seduta al sole con gli occhi chiusi, sognante e intorpidita dalla calura come da una specie d’amore, di carezza amorosa, Connie tornò col pensiero al ragazzo con cui era stata la sera prima e a quanto era stato carino, dolce come sempre, non nel modo che poteva immaginarsi una come June, ma dolce e delicato come nei film e nelle promesse delle canzoni… e quando riaprì gli occhi quasi non riconobbe dov’era, il giardino finiva tra erbacce e un filare di alberi che sembrava uno steccato, dietro cui il cielo era perfettamente azzurro e immoto. La casetta in fibrocemento che aveva ormai tre anni la fece sussultare: sembrava piccola. Scosse la testa come per svegliarsi.

Faceva troppo caldo. Connie entrò in casa e accese la radio per sommergere il silenzio. Si sedette sul bordo del letto, scalza, e per un’ora e mezza ascoltò la Sarabanda domenicale di radio Xyz, un disco dopo l’altro di brani duri, veloci e striduli a cui anche lei andava dietro, intervallati dalle dediche di «Bobby King»: «Ed ecco qui, per le ragazze del Napoleon… Son e Charley vi dicono di seguire molto bene il prossimo pezzo!». 

E anche Connie seguiva molto bene, immersa nel bagliore di una gioia rallentata che pareva scaturire misteriosamente dalla musica stessa e drappeggiarsi languida nella stanzetta dall’aria viziata, inspirata ed espirata a ogni palpito del petto.