ARTICOLO n. 45 / 2024

IL MESSICO COME TRAUMA

intervista di Fabio bozzato

Cosa succede quando due mondi alieni si incontrano? Quando un evento si può considerare così importante da cambiare il corso della Storia? E cos’è la Storia quando incontra la letteratura? Per provare a orientarci, ci è di aiuto Álvaro Enrigue, lo scrittore messicano che su questo materiale scivoloso si è cimentato in quattro romanzi e due raccolte di racconti. Lo incontriamo in occasione di Incroci di Civiltà, il festival letterario promosso a Venezia dall’Università Ca’ Foscari. Classe 1969, premio Elena Poniatowska 2014, Álvaro Enrigue ha lavorato a lungo come giornalista per poi approdare a New York, dove insegna alla Hofstra University. In Italia, Feltrinelli ha pubblicato Morte improvvisa (2015), Adesso mi arrendo e questo è tutto (2021), mentre di recente uscita è Il sogno (2024, tradotto da Pino Cacucci). Qui Enrigue mette in scena il famoso incontro fra l’imperatore Montezuma e Hernán Cortés, avvenuto l’8 novembre 1519 nella città flottante di Tenochtitlán, la capitale dell’Impero mexica, da cui è nata Città del Messico.

Fabio Bozzato: Il sogno è un testo di fiction, però lei ha lavorato su una grande quantità di archivi storici. Dunque, di quali parti o dettagli di questa storia possiamo fidarci, nel momento in cui slitta continuamente tra verità e finzione? E di cosa possiamo fidarci invece della storiografia?

Álvaro Enrigue: È una domanda che sembra una trappola [ride]. Sì, è un romanzo basato su un archivio enorme e una quantità di persone che ho interpellato. Dunque, di cosa può fidarsi il lettore? Potrei dire innanzitutto dei dettagli della vita quotidiana, il cibo, gli odori, la forma della città e delle costruzioni. Tutto questo è dettagliato grazie alle conoscenze in nostro possesso. Bisogna ricordare che la capitale dell’Impero venne distrutta nel 1521 e poi ricostruita e ci siamo abituati a pensare che d’improvviso l’antica Tenochtitlán sia diventata l’attuale Città del Messico come per miracolo. In realtà è stato un processo lento. Il grande lago dove sorgeva, per esempio, è rimasto in vita fino al Novecento e a distruggerlo non sono stati gli spagnoli, ma la Repubblica. È vero che gli spagnoli hanno compiuto uno dei più grandi genocidi della Storia, ma nei primi cento anni che si insediarono qui hanno fatto convivere le autorità e le tradizioni native con le nuove, perché di fronte avevano una cultura e una struttura statale troppo grandi e potenti e sapevano di dover avere pazienza e non irritare troppo le autorità locali. Così, nei primi cento anni, un’autorità locale governava i popoli indigeni e un viceré governava gli spagnoli, che peraltro erano pochissimi, almeno per un secolo. Tenochtitlán rimase una città sull’acqua per due-trecento anni. Ma il problema è che a tutt’oggi restano molte domande aperte e le stesse ricostruzioni storiche si fondano sì su ricerche rigorose, ma vanno a tentoni e immaginano, a loro modo, delle storie. 

F.B. Potremmo dire che la stessa forma del romanzo è una prova della conoscenza precaria della Storia.

A.E. In qualche modo sì. È curioso che, da quando ho cominciato a scrivere il romanzo a quando l’ho finito, ho dovuto cambiare molte pagine, perché si susseguono sempre nuove scoperte archeologiche. Prima di chiudere il libro l’ho mandato in lettura a un famoso archeologo. E mi ha fatto riscrivere intere parti, anzi mi ha dato appuntamento un giorno allo Zócalo, il cuore della capitale, e da un palazzo mi ha fatto scendere nel sottosuolo, dove hanno portato alla luce templi, costruzioni e camminamenti: è impressionante. Gli storici e gli archeologici stanno ridisegnando le mappe e riposizionando pezzi di città. 

F.B. In un’ntervista alla rivista Letras Libres, lei ha detto: «La Storia in realtà non esiste. Esistono degli archivi che noi interpretiamo secondo le nostre convenienze». Dunque, cos’è la grande Storia? Come si collega a quello che intendiamo per reale?

A.E. Io credo che la Storia si costruisca, come il linguaggio, attraverso un processo continuo di messa in discussione e di cambiamento. È interpretazione, scrittura. È la messa a fuoco di una narrazione partendo dai frammenti che abbiamo: rovine, reperti, documenti. E questi ultimi sono ulteriormente vulnerabili e appartengono a una sfera del discorso politico. Perché la scrittura è sempre politica: se mi mostrassi la tua lista per il supermercato, ti potrei dire per chi voti [ride]. E quello che facciamo è di articolare una narrazione attorno a ogni cosa. Per questo penso che il lavoro di un romanziere e quello di uno storico siano molto simili, salvo per una cosa: lo storico è chiamato a dimostrare ciò che scrive e il romanziere no. Ma sono convinto che un romanziere abbia molto da dire sul passato, anche se lo fa come un racconto di fantasia.

F.B. Lei descrive l’incontro fra Montezuma e Cortés con grande maestria psicologica: sono due uomini onnipotenti, ma di cui lei tira fuori paure e dubbi; ciascuno osserva il mondo dell’altro con meraviglia e incomprensione e ognuno ritiene l’altro un barbaro.

A.E. Nessuno sa veramente cosa sia successo in quell’incontro, eppure sappiamo che è stato un fatto epocale, perché si può dire ormai con certezza che è stato uno dei detonatori della modernità. Per la prima volta una lingua europea esce dall’Europa e si radica in un altro continente; per la prima volta il sistema economico europeo concepisce e pratica una economia estrattiva su larga scala; per la prima volta quella diventerà la prima città non europea ad avere un aspetto europeo ed essere popolata per la maggior parte da europei e africani. E ancora, per la prima volta gli europei capiscono che da là possono proiettarsi nel Pacifico, che era la vera ragione per cui erano arrivati: nel 1565 sbarca per la prima volta al porto di Barra de Navidad una nave piena di mercanzie proveniente dalla Cina che poi torna in patria carica di argento, di cui aveva fame per coniare monete.

Da quell’incontro inizia un flusso umano senza precedenti, forzato o meno: schiavi e migranti, non solo dall’Africa ma anche dall’Oriente. Il mondo, insomma, comincia a girare attorno a una nuova modernità globale. Ma cosa sia successo davvero in quell’incontro nessuno lo sa. In mano abbiamo solo due testimonianze, uno dello stesso Hernán Cortés e uno di un semplice soldato, Bernal Díaz del Castillo, ma ormai sappiamo che ci servono a poco, non hanno raccontato la verità, ma hanno manipolato la storia per giustificare quello che poi hanno tragicamente fatto. Peraltro, raccontano solo i primi quattro giorni degli otto lunghi mesi che vissero a Tenochtitlán. Perché? Forse perché se la facevano addosso dalla paura ed erano sbalorditi dalla bellezza e dalla potenza di quella città e di quella civiltà. Gli spagnoli erano solo duecentosessanta con venti cavalli e un piccolo cannoncino. È stato dopo, quando arrivano in tremila ben armati, che non hanno più paura e non abbattono l’Impero da soli, ma con tutte le nazioni indigene che si sono alleate a loro. Ma a questo punto so bene che quel racconto sulle paure di Cortés e del suo manipolo di uomini lo può scrivere solo un romanziere, non uno storico.

F.B. Possiamo dire che è anche il trauma originale da cui è nato il Messico attuale?

A.E. Metaforicamente sì, ma è stato un lungo percorso, lento, complicato, brutale e meraviglioso, ricco di molte più storie. Ma è vero che il Messico nasce da un mondo perduto, certo. E da una violenza incalcolabile, inimmaginabile. Però non mi spaventa il fatto che un paese abbia un trauma con cui fa i conti continuamente; magari mi spaventa di più chi crede di non avere un trauma da affrontare, come potrebbero essere gli Stati Uniti o l’Argentina. Mi impressiona che gli Stati Uniti comincino a raccontare la loro storia dal 1700 come se prima non ci sia stato niente. Noi messicani abbiamo la memoria di quegli eventi traumatici e in qualche modo continuiamo a rigurgitare il verbo di quello che è successo, in un processo storico di digestione tutt’ora in corso. So anche che non esisterebbe la pasta alla bolognese senza quel trauma: per inventarla e metterla sui piatti degli italiani c’è stato bisogno del mais, della carne quando le mucche qui scarseggiavano, dei pomodori, tutte cose messicane; e per fare quella pasta c’è stato bisogno di appropriarsi degli spaghetti cinesi, che arrivarono in Messico e poi in Spagna e infine in Italia. Come si vede la Storia è complicata, ma anche sorprendentemente familiare.

F.B. Il presidente del Messico, Andrés Manuel Lopez Obrador, ha fatto scalpore per una lettera inviata al Re di Spagna e al Pontefice invitandoli a chiedere perdono per la Conquista. Come è possibile per l’Europa contemporanea affrontare a così lunga distanza una matassa storica? Come è possibile che un gesto simile possa risolvere la questione?

A.E. Abbiamo un presidente che usa toni, parole e gesti molto populisti, nazionalisti, rudi. Questo è certo. E la sua lettera, peraltro filtrata dalla stampa, suona grottesca. Ma poi pensi: ogni dieci persone che vivevano nelle Americhe prima della Conquista, nove sono scomparse, uccise, falciate via. Abbiamo sofferto un genocidio senza precedenti, cui si è aggiunta una colossale tratta di esseri umani come mai si era visto. Allora ti dici che un gesto è necessario. Il Papa è riuscito a farlo, perché non ci riesce la famiglia reale di Spagna? Di cosa ha paura l’Europa?

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