Olga Tokarczuk

ARTICOLO n. 16 / 2022

LE CONSERVE

TRADUZIONE DI SILVANO DE FANTI

Quando morì, lui le organizzò un funerale decente. Arrivarono in massa le sue amiche, anziane signore tutte storte con berretti e cappottoni a manica larga foderati di pelliccia e odorosi di naftalina, con colli di castorino da cui le teste sporgevano come grosse e pallide protuberanze. Mentre la bara scendeva sottoterra sorretta dalle funi bagnate di pioggia, cominciarono a piagnucolare con discrezione, e poi, raccolte a gruppetti sotto cupole di ombrelli pieghevoli decorati da motivi ornamentali altamente improbabili, si avviarono alle fermate degli autobus.

Quella stessa sera aprì il mobile bar dove lei teneva i documenti e si mise a cercare… non sapeva neanche lui cosa. Soldi. Azioni. Obbligazioni. Una di quelle polizze che garantiscono una vecchiaia serena, quelle della pubblicità in TV con le scene autunnali piene di foglie cadenti.

Trovò soltanto vecchi libretti di risparmio degli anni Sessanta e Settanta e la tessera di partito di suo padre, felicemente defunto nell’ottantuno con la convinzione che il comunismo fosse un ordine metafisico e perenne. C’erano anche i suoi disegni dell’asilo ordinati con cura in una cartellina di cartone chiusa con l’elastico. Questa cosa lo commosse. Mai avrebbe pensato che lei conservasse i suoi disegni. Là dentro c’erano anche i quaderni di lei, zeppi di ricette per sottaceti, marinate e confetture. Ogni ricetta iniziava su una pagina nuova, e ciascun nome era ornato da arditi ghirigori, espressione gastronomica del bisogno di bellezza. «Sottaceti con la senape», «Zucca marinata à la Diana», «Insalata Avignon», «Ceppatello alla creola», A volte comparivano piccole stravaganze: per esempio «Gelatina di bucce di mela», oppure «Canna odorosa zuccherina».

A questo punto gli venne l’idea di scendere in cantina. Non ci andava da anni. Ma lei, sua madre, ci stava spesso e volentieri, ma questo fatto non lo aveva mai stupito. Quando lei considerava troppo alto il volume della partita che lui stava guardando, quando le sue sempre più flebili lagnanze cadevano nel vuoto, lui sentiva lo stridio della chiave nella toppa e poi il tonfo della porta sbattuta, e lei scompariva per parecchio tempo, un tempo che lui aspettava a gloria. Finalmente poteva dedicarsi alla sua attività preferita senza nessun intralcio: svuotare una fila di lattine di birra e seguire le imprese di due gruppi di maschi camuffati con magliette colorate che si spostavano continuamente da una metà campo all’altra alla caccia di un pallone.

La cantina era straordinariamente linda. C’era un tappetino consunto (oh, se lo ricordava dai tempi dell’infanzia), e anche una poltrona imbottita sulla quale scorse un plaid fatto all’uncinetto, ben ripiegato. Inoltre c’era una lampada a piantana con la base e alcuni libri letti e riletti fino all’ultima sillaba. Ma a fare una tremenda impressione erano gli scaffali gremiti di luccicanti vasetti per conserve, ognuno dei quali era provvisto di etichetta autoadesiva su cui, come aveva notato, si ripetevano i nomi dei quaderni delle ricette: «Cetriolini sott’aceto in salamoia della signora Stasia, 1999», «Antipasto di peperoni, 2003», «Strutto della signora Zosia». Alcuni nomi sapevano di mistero, per esempio «Fagiolini appertizzati»: non riusciva assolutamente a ricordare che cosa significasse «appertizzare». La visione dei funghi pallidi, delle verdure multicolori e dei peperoncini sanguigni pressati nei vasetti, ridestò in lui la voglia di vivere. Cercò sbrigativamente fra i palchetti degli scaffali, ma non trovò né titoli di credito né soldi nascosti dietro i vasetti. Pareva proprio che non gli avesse lasciato nulla.

Ampliò il proprio spazio vitale occupando la stanza della madre: ci buttava la roba sporca e vi accumulava i cartoni di birra. Di tanto in tanto portava da giù una scatola piena di conserve, apriva con un unico movimento della mano i vasetti l’uno dopo l’altro e disseppelliva con la forchetta quello che c’era dentro. La birra e le noccioline, oppure i bastoncini salati, uniti al peperone marinato o ai cetriolini delicati come neonati, avevano un sapore grandioso. Se ne stava davanti al televisore a contemplare la sua nuova situazione esistenziale, la libertà da poco conquistata. Si sentiva come se avesse appena preso il diploma di maturità e vedesse il futuro come una terra di conquista; come se stesse iniziando una vita nuova, migliore. Eppure aveva una certa età, l’anno prima aveva superato i cinquanta, e tuttavia si sentiva giovane, come un neo-diplomato, appunto.

Sebbene i soldi dell’ultima pensione della defunta madre si stessero lentamente esaurendo, ritenne di avere ancora il tempo necessario per prendere le giuste decisioni, ovvero: mangiare senza fretta ciò che gli aveva lasciato in eredità e comprare al massimo il pane e il burro. E ovviamente la birra. Poi, forse, avrebbe dato un’occhiata in giro per orientarsi se ci fosse qualche lavoro; su questo punto sua madre gli aveva fatto una testa così per tutti gli ultimi vent’anni. Forse sarebbe andato all’ufficio di collocamento, ci doveva pur essere qualcosa per un cinquantenne munito di maturità. Magari avrebbe anche indossato il completo bianco che lei aveva accuratamente stirato e appeso nell’armadio, assieme alla camicia azzurra, e sarebbe partito deciso verso il centro. A meno che non ci fosse una partita in TV.

Era libero. Però gli mancava un po’ lo strascichio delle ciabatte della madre, era abituato a quel rumore monotono solitamente accompagnato dalla sua flebile voce: «Sarebbe ora che la facessi finita con quella televisione, dovresti frequentare la gente, conoscere una ragazza. Hai intenzione di passare così il resto della vita? Dovresti trovare un alloggio tuo, questo è troppo angusto per due persone. La gente si sposa, fa figli, va in vacanza con la tenda, organizza grigliate. E tu? Non ti vergogni a farti mantenere da una donna vecchia e malata? Prima tuo padre, adesso tu, bisogna lavarvi e stirarvi la roba, portare a casa la spesa. Quella televisione mi disturba, non riesco a dormire, e tu stai lì davanti fino al mattino. Ma che cosa guardi tutta la notte, non ti viene a noia?» E rompeva per ore e ore, perciò si comprò le cuffie. Era una soluzione accettabile, lei non sentiva la televisione e lui non sentiva lei.

Ora però c’era troppo silenzio. La stanza della madre, un tempo tutta lustra e ordinata, piena di tovaglioli di carta e vetrinette, adesso veniva costantemente riempita da cataste di involucri vuoti, vasetti, panni sporchi, e poi anche da un odore strano, come di lenzuola marce, di intonaco toccato dalle lingue della muffa, un odore di spazio chiuso mai mosso da un filo d’aria, uno spazio che cominciava a marcire e a fermentare. Un giorno, mentre cercava degli asciugamani puliti, in fondo a un armadio trovò un’ulteriore batteria di vasetti; erano nascosti sotto pile di lenzuola, affondati tra matasse di lana – partigiani, la quinta colonna delle conserve. Li squadrò attentamente, i coperchi erano diversi da quelli in cantina. La scritta sulle etichette era piuttosto sbiadita, il 1991 e il 1992 si ripetevano, però c’erano anche singoli esemplari risalenti all’83, per esempio, e anche uno del 1978. Quest’ultimo era la causa principale di quello sgradevole odore. Il tappo a vite di metallo si era arrugginito e l’aria era penetrata offrendo in cambio alla zona circostante il tanfo della decomposizione. Qualsiasi cosa ci fosse stata là dentro, si era trasformata in un groviglio grigiastro. Buttò via tutto, disgustato. Sulle etichette ricorrevano scritte simili fra loro, per esempio «Zucca in crema di ribes», oppure «Ribes in crema di zucca». C’erano anche cetriolini sott’aceto completamente incanutiti. Molti contenuti dei vasetti non li avrebbe riconosciuti mai, senza quelle scritte gentili e premurose. I funghi marinati erano diventati un’impenetrabile gelatina cupa, le confetture – un coagulo nero, e il paté si era compattato in un piccolo pugno rinsecchito. Trovò altre conserve nel porta scarpe e nel ripostiglio sotto la vasca da bagno. Altre erano rinchiuse nel comodino del letto della madre. Quella collezione lo lasciò sbalordito. Che volesse nascondergli il cibo? Faceva quelle scorte per sé pensando che il figlio si sarebbe trasferito? O forse le aveva lasciate proprio a lui, si sa che per le leggi di natura le madri vivono meno dei figli… Forse con quei barattoli ermeticamente chiusi aveva voluto garantirgli un futuro? Guardava le conserve l’una dopo l’altra con un misto di commozione e disgusto. E a un tratto s’imbatté in un barattolo (sotto il lavello della cucina) con l’etichetta «Stringhe all’aceto, 2004»: questo avrebbe dovuto dargli da pensare. Guardò a lungo la matassina di stringhe marrone che nuotavano nella salamoia assieme alle palline nere di pepe garofanato. Si sentì a disagio, niente di più.

Gli tornavano in mente i suoi agguati quando lui si toglieva le cuffie e andava in bagno: lei scivolava rapidamente fuori dalla cucina, gli tagliava la strada e gemeva: «Tutti i pulcini lasciano il nido, è questo l’ordine delle cose, i genitori meritano un po’ di riposo. Questa legge è in vigore in tutta la natura. E allora perché vuoi farmi soffrire, avresti dovuto sloggiare e farti una vita tua già molto tempo fa». Poi dopo, quando tentava delicatamente di evitarla, lo afferrava per la manica, la sua voce si faceva più sonora e ancora più stridula: «Mi merito una vecchiaia tranquilla. Lasciami in pace una buona volta, voglio riposare». Ma lui era già in bagno, girava la chiave nella toppa e si abbandonava ai suoi pensieri. Quando usciva, tentava di riacchiapparlo, ma ormai senza troppa convinzione. Poi si dileguava con passo felpato nella sua stanza e di lei spariva ogni traccia fino al mattino successivo, quando sbatteva apposta le pentole perché lui non potesse dormire.

Ma come tutti sanno, le madri amano i propri figli; le madri esistono per questo: per amare e perdonare.

E dunque lui non si preoccupò più di tanto per quelle stringhe, e nemmeno per la spugna in salsa di pomodoro che successivamente trovò in cantina. Del resto c’era scritto in totale franchezza: «Spugna in salsa di pomodoro, 2001». L’aprì per controllare se l’etichetta riportasse fedelmente il contenuto, e buttò tutto nel cestino. Quelle stravaganze non le trattava come malignità postume indirizzate a lui. Anzi, a volte trovava rarità vere e proprie. Uno degli ultimi barattoli del palchetto più alto della cantina conteneva un prelibato stinco di maiale. Gli veniva ancora l’acquolina in bocca al pensiero delle rape rosse speziate scoperte dietro la tenda della stanza. Nel giro di due giorni ingurgitò cinque o sei vasetti. Il dessert se lo mangiava prendendolo direttamente con il dito dalla confettura di mele cotogne.

Per la partita Polonia-Inghilterra si caricò sulle spalle uno scatolone pieno di conserve prese in cantina e lo portò su. Per garantirne l’incolumità lo circondò con una batteria di birre. Infilava la mano a casaccio e s’ingozzava senza badare a cosa stesse mangiando. Un vasetto attirò la sua attenzione perché la madre aveva fatto un buffo errore sull’etichetta: «Frataioli marinati, 2005». Estrasse con la forchetta le delicate cappelle bianche, se le mise in bocca, e quelle, quasi fossero vive, gli scivolarono in gola e nello stomaco. Ci fu il primo gol, poi il secondo, perciò nemmeno si accorse di averle mangiate tutte.

La notte dovette andare in bagno, dove restò sospeso sopra il water, squassato da conati di vomito. Ebbe la netta sensazione che lei fosse lì con le nenie lamentose della sua insopportabile voce stridula, ma era ancora abbastanza lucido da ricordare che era morta. Vomitò fino al mattino, ma non servì a molto. Con le poche forze rimaste riuscì a chiamare il pronto soccorso. In ospedale volevano fargli un trapianto di fegato, ma non trovarono un donatore, perciò morì pochi giorno dopo senza riprendere conoscenza.

Era un bel guaio, perché non si trovava nessuno a cui affidare l’incarico di ritirare il cadavere dall’obitorio e organizzare il funerale. Alla fine, dopo un appello della polizia, si fecero vive le amiche della madre, le anziane signore tutte storte dai berretti fantasiosi. Spalancarono sopra la tomba gli ombrelli decorati da motivi ornamentali altamente improbabili, e celebrarono il loro caritatevole rito funebre.

© Olga Tokarczuk, 2022

Per ulteriori opere di Tokarczuk edite in italiano: “Casa di giorno, casa di notte”, Bompiani, 2021.