ARTICOLO n. 13 / 2024

LA STANZA DELLO STUPRO

Raccontare una storia non è semplice: ci sono regole da seguire, percorsi da attraversare e far attraversare, linguaggi precisi e, come ogni narrazione che si rispetti, questa dovrebbe concorrere ad arricchire chi ne fruisce, fornendo chiavi di lettura inedite e che possano veicolare dei messaggi.

Quando si scrive un racconto, per prima cosa si deve tenere presente del destinatario dello stesso: a chi ci rivolgiamo quando decidiamo di condividere il nostro lavoro?

Successivamente, per comprendere il modo migliore per diffondere la nostra narrazione, dovremo trovare un punto di partenza e uno di arrivo: questo significa dare struttura, ovvero iniziare a incastonare gli eventi in una forma che possa portare da un punto A a un punto B, in modo logico e accessibile al nostro target. 

La struttura della narrazione, detta anche architettura, può aiutare infatti chi ascolta o legge a sentirsi partecipe della vicenda e a vivere al meglio le emozioni che accompagnano la crescita connessa alla fruizione del nostro racconto.

Contrariamente a quello che si pensa, quasi tutto ciò che ci circonda e che vediamo si sviluppa in racconti: libri, film, teatro, rappresentazioni, performance, letture, eventi, incontri, articoli di giornale e anche mostre d’arte.

Nella sua primaria e immediata accezione, una mostra d’arte è un’esposizione di opere di uno o più artisti –  in questo caso si chiama “collettiva” – e viene organizzata da enti privati, organizzazioni, fondazioni o enti statali per avvicinare il pubblico alla visione delle opere.

Ma le mostre d’arte non sono una mera esposizione di quadri o statue o installazioni all’interno di uno spazio: anch’esse infatti hanno bisogno di una struttura, una cornice in cui organizzazione e curatori e curatrici possano, tramite le opere, raccontare una storia, collocandola nel tempo e mettendola in dialogo con il presente, con il luogo in cui viene esposta e con il pubblico.

È un vero e proprio lavoro creativo, in cui lavoratori e lavoratrici dell’arte rendono interdisciplinare la materia e l’opera stessa, cercando collegamenti con la storia, la filosofia, la cultura del paese di provenienza di artiste e artisti, la loro vita personale.

Quando però queste regole non vengono rispettate, si va incontro a un cortocircuito in cui ci rimette per primo il pubblico che vorrebbe fruire di una mostra.

In questo senso, un caso emblematico è avvenuto nella costruzione del percorso espositivo e narrativo della mostra “Artemisia Gentileschi: coraggio e passione”, inaugurata in 16 novembre scorso e ancora presente a Palazzo Ducale a Genova.

La mostra, promossa e organizzata da Arthemisia (azienda di produzione, installazione e allestimento di mostre d’arte), Palazzo Ducale fondazione per la cultura, Comune di Genova e Regione Liguria, si prende il difficile compito di trattare la storia di Artemisia Gentileschi e della sua incredibile produzione artistica. Dal sito, si comprende che la mostra si snodi «Tra vicende familiari appassionanti, soluzioni artistiche rivoluzionarie, immagini drammatiche e trionfi femminili».

«La mostra a cura di Costantino D’Orazio», prosegue il sito, «offre un ritratto fedele della complessa personalità di una delle più celebri artiste di tutti i tempi, attraverso oltre 50 dipinti provenienti da tutta Europa».

Dalle parole della cartella stampa sembra dunque che questo percorso espositivo e narrativo vada a elogiare l’opera della pittrice seicentesca, inserendola in un quadro ampio e – cito –  rivoluzionario, in grado di appassionare il pubblico e avvicinarlo alla figura di Gentileschi, di cui la mostra si prefigge di dare un ritratto fedele. 

Attirate non solo dal suggerimento di una docente di corso e dallo studio dell’arte, ma forse anche da queste premesse promozionali, alcune studentesse di Storia dell’arte e valorizzazione del patrimonio artistico dell’Università di Genova sono andate dunque a vedere la mostra a pochissimi giorni dalla sua inaugurazione, e dire che siano rimaste di stucco è forse riduttivo.

Le studentesse si sono infatti trovate davanti un percorso museale e narrativo completamente distorto rispetto alle premesse descritte dal sito.

La mostra è tutta sviluppata intorno alla figura di Gentileschi in relazione agli uomini della sua vita: il padre Orazio, Caravaggio e perfino Agostino Tassi, collega del padre e carnefice della pittrice stessa, della quale abusò nel 1611 e andò per questo a processo nel 1612. 

Le opere in alcune sale dialogano con quelle dei colleghi uomini – per sottolineare che l’artista fosse brava quanto i suoi colleghi maschi – e, in una sala, sono addirittura messe in contrapposizione con quelle del Tassi. 

Ma non finisce qui: la narrazione di Gentileschi che viene fatta durante il percorso è tutta in funzione dello stupro subito e inflitto da Tassi.

Ogni sala permette infatti al pubblico di focalizzarsi solo su quell’evento della vita della pittrice: sono presenti video, filmati, perfino una mappa della Roma del 1600 con i punti di interesse riguardanti l’assalto commesso dal Tassi a Gentileschi. Come in un climax, tra citazioni e documenti originali del tribunale di Roma del processo per stupro del 1612, il pubblico arriva poi in quella che viene rinominata “la sala dello stupro”.

In una stanza buia, videoproiezioni delle opere della pittrice ricoperte però di sangue vengono trasmesse su pannelli verticali. Una voce femminile con tono sommesso legge la testimonianza in tribunale di Gentileschi mentre, al centro della sala, vi è posizionato un letto su cui vengono proiettate le parole che descrivono la violenza sessuale subita dall’artista e, di nuovo, altro sangue. 

Una vera e propria rappresentazione dell’atto, talmente tanto violenta che alcune persone si sono sentite male e hanno dovuto abbandonare la mostra. 

Le studentesse si sono poi trovate davanti altre sale, in cui Gentileschi veniva unicamente descritta come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, impedendole perfino da morta e a distanza di più di 400 anni di potersi separare dal proprio trauma. 

Tassi, che dai pannelli di testo che integrano la visita viene descritto come talentuosissimo «ma inquieto», è una presenza costante durante tutto il percorso e non solo: all’interno del bookshop a fine itinerario espositivo si possono trovare in vendita delle magliette con le sue citazioni durante il processo che lo vedeva prima imputato e poi condannato. 

Insomma, un vero e proprio tour dell’orrore.

Le studentesse hanno quindi contattato Noemi Tarantini, che non solo è content creator e advisor sull’arte, ma lavora nel settore, in cui è laureata e di cui è esperta, per portare alla sua attenzione la infelice narrazione di questa mostra. Oltre a Tarantini (che su Instagram prende il nickname di @etantebellecose), le studentesse hanno contattato anche altre content creator legate al mondo dell’arte, senza però ricevere alcuna risposta.

Tarantini si mobilita immediatamente e va a vedere la mostra, creando dei contenuti (video e post) che in poco tempo diventano virali.

Ne risulta un video pubblicato su Instagram e TikTok, in cui Tarantini fa notare quanto la mostra sia tutta sbilanciata dal punto di vista narrativo: dal titolo (“coraggio e passione”), al colophon tutto maschile, passando per gli elementi già citati in questo testo.

In seguito alla visita, Tarantini contatta Non Una Di Meno Genova e Valentina Crifò, content creator come lei (al secolo digitale è @immagini.narranti) ma soprattutto storica dell’arte ed educatrice museale. 

La richiesta che fanno ad Arthemisia e al curatore Costantino D’Orazio è quella di aprire un dialogo sulle scelte narrative dietro a questa strada espositiva e curatoriale, oltre alla rimozione della sala dello stupro dal percorso espositivo e al ritiro dei gadget a tema Tassi dal bookshop (tra cui il libro di Buttafuoco dal titolo La notte tu mi fai impazzire: gesta erotiche di Agostino Tassi).

D’Orazio ha dunque contattato Non Una Di Meno Genova – che aveva prontamente ricondiviso i contenuti di Tarantini e Crifò – proponendo loro una visita guidata alla mostra, per raccontare e motivare le scelte dietro la disposizione delle sale.

Alla visita guidata con NUDM Genova hanno partecipato anche Tarantini e Crifò, che ho personalmente contattato per sapere come questa visita si sia svolta.

Crifò mi ha raccontato che, in prima battuta, per comprendere lo scopo della visita proposta da D’Orazio si debba pensare al concetto – tutto maschile, aggiungo io – di competenza.

«Se curo una mostra», mi scrive Crifò, «in teoria dovrei saperla raccontare non soltanto in ogni singolo elemento ma, dall’alto della mia professionalità e coinvolgimento nel progetto, saper calibrare la mia narrazione a seconda del pubblico che ho davanti. Su questo aspetto ho una certa esperienza: da anni lavoro nel mondo mostre e musei e ho assistito a fantastiche formazioni da parte di curatorɜ che hanno saputo rispondere a qualsiasi quesito, tecnico, allestitivo, curatoriale eccetera. Sarebbe assurdo doverlo dire, quasi come ci parrebbe assurdo un padrone di cucciolo che non si ricordi il suo nome».

«L’impressione, condivisa», prosegue Crifò, «è stata che Costantino D’Orazio ci avesse accoltɜ pensando di condurre una visita guidata per un gruppo di svagatɜ visitatorɜ e non un gruppo di persone che, in via preliminare, si era documentata e aveva quesiti di tipo specifico. Pertanto, nessunǝ si sarebbe accontentatǝ di sentirlo elogiare la bellezza delle pennellate di Gentileschi. A unǝ curatorǝ più competente sarebbe stato ovvio che lo scopo dell’incontro avrebbe dovuto solo ed esclusivamente approfondire le scelte curatoriali che i veri professionisti attuano con consapevolezza. Queste “scelte”, però, D’Orazio ha cercato di liquidarle come pedissequa adesione alle fonti documentali. Come se l’operazione fosse semplicemente un compito scolastico. Be’, se allora dobbiamo dare un voto a questo compito, possiamo dire che l’allievo non deve aver letto e compreso i documenti processuali. Dice di aver letto tutti i testi ma, per esempio, nessun focus in mostra ricorda le lettere che Gentileschi invia al suo amante Francesco Maria Maringhi. E, soprattutto, una volta interrogato non riesce ad ammettere che in materia di narrazione della violenza ci sono tantissimi errori. Primo su tutti, non aver avuto l’umiltà di demandare il tema a chi dimostra una sacrosanta e comprovata competenza».

Insomma, da questa visita emerge una volontà di difendere le scelte espositive nonostante le palesi declinazioni sessiste in cui la vicenda di Gentileschi e la sua opera vengono raccontate. 

Da questo incontro piuttosto inutile e poco aperto, NUDM Genova, le associazioni About Gender e Mi riconosci, Crifò, Tarantini e le studentesse d’Arte dell’Università di Genova decidono di aprire uno spazio di riflessione collettivo aperto alla cittadinanza. Lo fanno in un’assemblea pubblica partecipatissima al Teatro della Tosse, in cui si ritrovano esperte ed esperti d’arte e soprattutto comuni cittadini e cittadine che hanno visitato la mostra di Palazzo Ducale. Da questo incontro nasce l’idea di una lettera aperta ad Arthemisia e Palazzo Ducale con la richiesta della chiusura della “sala dello stupro”, che nel frattempo continua a far sentire male parecchie persone che vanno in visita al museo, e il ritiro dei gadget e libri problematici dal bookshop. 

La lettera raggiunge le 4.000 firme in pochissimo tempo, e questo porta necessariamente a una presa di posizione da parte di Arthemisia e Palazzo Ducale. Ma non nel verso che ci aspetteremmo a questo punto della storia. 

La presidente di Arthemisia Iole Siena è rimasta irremovibile sulle scelte espositive: ribattendo che l’azienda a cui è a capo sarebbe composta al 90% da donne (come se fosse un elemento utile ai fini della discussione sulla spettacolarizzazione dello stupro), ha vietato l’affissione di un trigger warning all’esterno della sala incriminata e si è fermamente opposta alla chiusura della sala (da parte di Palazzo Ducale, che ha provato invece ad apporre dei teli neri tutto intorno per deviare il passaggio alle persone che non volessero assistere a quella macabra, disturbante, violenta rappresentazione. La chiusura della sala è però stata temporanea: dopo qualche giorno i tendaggi sono infatti stati rimossi e il letto insanguinato è di nuovo aperto a tutto il pubblico del museo.

Nel bookshop sono – anche qui: solo per qualche giorno – sparite le magliette con le frasi di Agostino Tassi, ma sono rimaste delle – perdonatemi il francesismo – cagate a tema pinkwashing che sfruttano l’immagine di Gentileschi e la storia della sua violenza sessuale e il libro sulle “gesta erotiche” (così l’autore decide di chiamare le violenze sessuali) del Tassi.

A questo riguardo, ho chiesto a Tarantini una dichiarazione. E Tarantini usa parole che condivido in pieno e vi allego qui.

«Il caos che regna all’interno della mostra in questi giorni (tra togli e rimetti di gadget, cartelli e tendaggi) dimostra una cosa: il settore storico-artistico pensava che i cambiamenti che stanno investendo la società globalizzata non l’avrebbero mai riguardato. Si sbagliava di grosso. Mostre, musei, mercato dell’arte ed enti di formazione si dovranno sempre più mettere in discussione, pena il fallimento o l’oblio. Il pubblico è vivo e non si accontenta più di avere centralità nei manuali di marketing culturale, la vuole nella realtà. Palazzo Ducale – per sensibilità o per opportunità – pare averlo capito e, stando alle recenti dichiarazioni del Presidente Beppe Costa, la vicenda ha reso necessaria la revisione dei contratti futuri con i produttori di mostre nell’ottica di garantire maggior peso decisionale alla Fondazione. È un grandissimo traguardo e la pratica partecipata con cui l’abbiamo raggiunto è una novità assoluta nel panorama italiano. Vale la pena ricordare ai vari soggetti coinvolti che il patrimonio culturale, la cui fruizione e valorizzazione – almeno sulla carta – rappresentano le finalità del partenariato pubblico-privato che hanno stipulato, è un bene comune. Sembrerebbe dunque il minimo prestare ascolto a chi il senso comune lo produce ogni giorno, ovvero l3 cittadin3. Senza questo non c’è cultura. E senza sviluppo della cultura non c’è democrazia».

Insomma, si è andato a creare uno stallo alla messicana, che vede da un lato le rimostranze della popolazione genovese, delle e degli addetti ai lavori dell’arte e le associazioni femministe, dall’altro Arthemisia e la dirigenza di Palazzo Ducale. In questo impasse permangono solo alcune certezze.

La prima è la pericolosità di un percorso espositivo così brutale privo di trigger warning e avvertimenti per il pubblico, che si ritrova senza preavviso in una stanza capace di riattivare dei traumi non indifferenti in modo a dir poco becero e spettacolarizzante.

La seconda è l’ennesimo voler sacrificare l’opera di Gentileschi a una lettura unilaterale, concentrandola in un “prima e dopo” lo stupro, disegnando la figura dell’artista come dipendente dalle vite degli uomini che l’hanno circondata, rendendoci incapaci di apprezzare appieno la mastodontica tecnica della pittrice che diventa qui solo il suo stesso trauma.

La terza certezza, che forse mi rende ancora più affranta, è l’impossibilità da parte dell’organizzazione della mostra di leggere la contemporaneità, come accennavo nel mio lungo incipit.

Leggere la contemporaneità vuol certo dire comprendere il nuovo modo che il mondo, grazie al transfemminismo e agli studi di genere – che ricordo sempre non essere scienza delle merendine, ma una corrente socioculturale trasversale e fondamentale – ha di parlare di violenza maschile contro le donne e di trattare le voci delle artiste della nostra storia che troppe volte sono state silenziate o piegate a narrazioni becere o maschiocentriche. Ma vuol dire anche permettere a chi visita una mostra come questa di comprendere la condizione della donna nel 1600 in Italia. Gentileschi a Palazzo Ducale viene descritta come una fenice, una donna che si ribella a una condizione di ingiustizia e ne esce vincitrice. Non c’è niente di vero però in questa visione.

Gentileschi fu in grado di andare a processo per un’intercessione del Papa Paolo V, che accettò di aprire un procedimento contro Tassi anche per la violenza sessuale ai danni di Artemisia. Ma il moto principale dell’astio di Orazio Gentileschi verso Tassi fu un debito economico di questo nei suoi confronti. In più, non vi è nulla di glorioso nella vita di Artemisia Gentileschi dopo il processo: fu infatti costretta a scappare da Roma e cambiare il suo nome (firma il suo Giale e Sisara con lo pseudonimo che poi avrebbe definitivamente fatto suo: Artemisia Lomi), dopo pesanti accuse di incesto con il padre e malelingue che ne minarono la credibilità fino al giorno della morte. 

Non siamo davanti a una storia di riscatto, bensì a una storia di soprusi e cancellazione. 

Cancellazione che si ripete in un percorso museale come quello scelto da Arthemisia, D’Orazio e Palazzo Ducale, dove la pittrice viene fagocitata dal suo stesso evento traumatico, a cui si riduce tutta la sua produzione artistica. E questa cancellazione avviene con metodi spettacolarizzanti e poco conformi al vero, metodi che inducono attacchi di panico nelle persone che visitano quella sala e che ci ricordano che qualsiasi cosa tu faccia nella vita, se sei donna e di talento, non sarai mai nessuno senza gli uomini amati o odiati nel tuo percorso.

E in questo non c’è niente di culturale, ma tanto, troppo, forse tutto di patriarcale.

All’inizio di questo mio pezzo mi chiedevo: a chi destiniamo le storie che decidiamo di raccontare?

Ecco, questa storia, con questa architettura, non è destinata a un pubblico sensibile o alle persone che hanno subito quel tipo di violenza, peraltro drammaticamente comune, basterebbe guardare le statistiche ISTAT.

Raccontare una storia significa avere sensibilità e responsabilità, altrimenti è solo mero sensazionalismo. E il sensazionalismo ha poco a che fare con la cultura e molto con la promozione selvaggia.

Attendiamo dunque altre, migliori, pratiche risposte dall’organizzazione di questa mostra, perché nel 2024 ricordare Gentileschi unicamente per il suo stupro è anacronistico e assolutamente non culturale, in ogni senso possibile che questo termine possa assumere.

ARTICOLO n. 33 / 2024