ARTICOLO n. 48 / 2023

GOOMAH LO DICI A TUA SORELLA

Around The Table. Una serie americana in italiano

Tra tutte le domande che facevo a mia madre, quella che la irritava di più, che le dava talmente tanto fastidio da poter sentire le vibrazioni dei nervi come delle corde di un pianoforte, era la seguente: “Cosa c’è per cena?”

Adesso che la mamma sono io, condivido il suo fastidio. Non solo: lo capisco. Non è che le mamme stanno tutto il giorno a girarsi i pollici e hanno il tempo di programmare menù da ristoranti. Altrimenti un piatto di pasta, una bottiglietta d’acqua liscia temperatura ambiente e un frutto fanno diciotto euro, coperto compreso, s’intende. Anzi, ringraziare Iddio che qualcuno sia andato a lavorare per permettersi la spesa, che viene cucinata e trasformata in cibo da mettere in tavola! Ma non solo: la domanda potrebbe rappresentare l’inizio di lamentele ingiuste e inutili, non ammesse né mai concesse per nessuna ragione al mondo. Servono solo a far scattare urla di Tarzan. “Quello che passa il convento”, mi sentivo rispondere con quel tono lì ogni volta che ho osato chiedere. 

Invece, mia figlia Vera, impeccabile, me lo chiede tutte le sere. Ma lei va oltre, tasta terreni che io non ho mai azzardato prendere in considerazione: siccome non mi teme, osa lamentarsi. “Non mi piace”,” l’abbiamo già mangiato ieri”, “avrei voglia d’altro”. E io sono addirittura peggio di lei: so bene che questo mio grave errore mi porterà nel girone infernale in cui per punizione si viene sgridati dalle mamme per l’eternità. Io, che non ho polso, le chiedo cosa vorrebbe. Sento mia madre rigirarsi nella tomba ogni volta che pronuncio queste parole. Cedo perché sono pigra, quasi sempre stressata e non ho voglia di litigare, e perché l’importante è che mangi qualcosa. «Posso farmi le fettuccine (feducin) chicken Alfredo? Giuro che lavo tutte le pentole che uso». Me l’ha chiesto anche l’altra sera, storpiando come sempre le parole in italiano. Io, piuttosto di mangiare quella cagata, digiuno. Vera lo sa e infatti ne fa solo una porzione per sé.

Senza litigate, finalmente siamo tutti a tavola: Vera con il suo piatto puzzolente di pasta scotta e insipida con panna e pollo disgraziati, io, Ryan e Andrea con delle bistecche impanate e dell’insalata. C’è anche Martina, che da qualche tempo ha deciso di farsi chiamare Alex, perché è un nome neutro. Va bene: basta che mangi. Sembra che siano tutti contenti, ed è forse anche per questo che decido di rovinare il momento della happy family che mi fa tanto Mulino Bianco: «E comunque, ‘sta roba delle fettuccine (feducin) chicken Alfredo non è italiana. In Italia si mangia il primo, che sarebbe una pasta o una minestra, e il secondo, dove viene servita carne, verdure o pesce. Non si mischiano quasi mai. E si pronunciano FET-TUC-CI-NE e AL-FRE-DO, non come lo dici tu!» In tavola cala il silenzio, seguito da uno sbuffo all’unisono. Qualcuno alza gli occhi al cielo. Io mi verso il terzo bicchiere di vino e fingo di non capire.

È interessante come la cultura americana sia un mosaico che contiene aspetti di civiltà di altri mondi, lontanissimi da qui.Se non fosse per il genocidio dei nativi americani, si potrebbe usare senza sensi di colpa il termine Nuovo Mondo. Transit. È su queste coste che gli antimonarchici inglesi misero piede per primi. I ribelli, insomma. E da allora, con la vastità di terreno e ricchezze che piano piano si vennero a scoprire dall’Est all’Ovest, gli Stati Uniti diventarono e sono tutt’ora una calamita molto potente che attira popolazioni di ogni luogo. Lo so, la violenza, la marginalizzazione, lo schiavismo, il genocidio e altri piccoli particolari fanno parte integrante della storia americana e non bisogna dimenticarselo, ma mi viene da dire a noi europei che chi è senza peccato lanci la prima pietra. Comunque, il fatto di essere così vivamente multiculturale li rende ricchi, affascinanti, unici: tutti gli americani hanno radici da qualche altro angolo del globo.

Le persone provenienti dallo stesso Paese si raccolsero in comunità dove poter mantenere un’identità d’origine: Chinatown, Little Italy sono solo due dei mille esempi. Portarono con sé le proprie credenze, i propri valori, la propria cultura e il proprio cibo.  A differenza della società di provenienza, che negli anni si è evoluta, i connazionali d’oltreoceano hanno sempre mantenuto le usanze e i costumi legati al periodo storico in cui si trasferirono. Non sono mutate, non hanno avuto modo di stare al passo coi tempi. È per questo, per esempio, che qualche tempo fa uscì la notizia riguardo il Grana Padano. Pare che quello fatto negli Stati Uniti sia più simile alla ricetta originale, perché gli italiani che arrivarono allora non sono stati mai influenzati da certi cambiamenti. Sicuramente negli anni, in Italia si sono modificate le ricette o gli strumenti per produrne in grande scala. 

Come in Italia con la lingua inglese, anche qui si usano termini che, seppur molto storpiati o antichi, sono di origine italiana. Liz, una mia amica di origine siciliana, mi aveva raccontato che da piccola, era venuta a vivere con lei la goomahd. Facevo sì con la testa, ma non ho mai avuto la più pallida idea a cosa si riferisse, men che meno che fosse un termine di provenienza italiana. Poi, guardando la serie I Soprano, mi è stato tutto più chiaro: la goomahd è la madrina, mentre la goomah senza la di finale, è l’amante. Che ruolo abbia la comare in famiglia è ancora un mistero, ma basta googlare, come ormai si dice in Italia.  Quando sgrida i suoi figli, Liz finisce sempre con la parola kapeesh. Quando le chiesi cosa significasse e da dove derivasse il termine, si mise a ridere: «Ma come, non è italiano? It means do you understand…», capisci? Non ci sarei mai arrivata. Altre parole usate dagli italoamericani sono: maronn (Madonna), manigot (manicotti), goompà (compare, amico), regoat (Ricotta), mosaré (mozzarella), pastafazool (pasta e fagioli). Molti, come si nota, sono termini legati alla famiglia o al cibo, che sono i perni della comunità italoamericana.

Trovo molto interessante che negli Stati Uniti si possano scoprire ancora piccoli pezzetti di una società antica, di un’Italia che ormai non esiste più. L’immagine che mi balza in testa quando penso a questi residui di un linguaggio tra l’italiano e il dialetto, termini che per due secoli sono rimasti intaccati dalla modernità, è quella di un insetto dentro un pezzo di giada. Preservato con cura, come se il suo valore fosse inestimabile, come se perderlo significasse perdere anche le proprie origini. Eppure, è legato a un’Italia che invece ha subito mille trasformazioni: le due guerre, Mussolini, Hitler, la Democrazia Cristiana, il Milan, Berlinguer, Nilla Pizzi. E poi il sessantotto, il femminismo, le leggi sull’aborto e sul divorzio, gli anni di Piombo, Falcone e Borsellino, settecento governi diversi. Un luogo lontano ormai anni luce dalle goomahd di una volta. Sicuramente anche le culture provenienti da altri luoghi hanno mantenuto stretti e tramandato brandelli di un Paese che ormai non esiste più.  Un momento ben preciso della storia, rimasto intaccato e gelosamente tenuto puro dal tempo. 

Per motivi molto diversi, legati in parte alla tecnologia e in parte a questa cosa che tutti chiamiamo Internet, anche l’italiano si è arricchito di molti termini inglesi, anche fin troppo, a mio parere. In Italia fu Mussolini, la cui personalità non si può descrivere come versatile, elastica e nemmeno poliedrica, a vietare termini anglosassoni nella lingua italiana.

Il Popolo del luglio 1938 pubblicava il seguente commento:

«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento…»

Certamente è un caso che il governo di destra della Presidente Meloni faccia le stesse critiche della “mascella che al cortile parlava” (cit. De Gregori): ci sono troppi termini inglesi nella nostra lingua. Interessante invece che le sia venuta in mente questa proposta dopo aver lanciato la scuola che lei chiama Made in Italy. Se non fosse per i cento euro di multa e per il terrore di passare per quella che sta con i fascisti, una piccola parte di me sarebbe segretamente d’accordo. 

Ogni volta che vengo a Milano, mi stupisco di quante parole inglesi siano ormai entrate a far parte del gergo. Sono sempre di più, tanto che ormai quando ne uso una, chiedo se si dice già anche in Italia. La risposta è sempre positiva. La cosa buffa è che spesso sono usate in modo sbagliato e sempre pronunciate sulla stessa onda di manigot. In poche parole, la pronuncia è talmente lontana da quella corretta, che non si capiscono proprio. Personalmente, poi, faccio sempre figure di merda perché le pronuncio come si dovrebbe o perché faccio fatica a decifrarle: i miei amici dicono che sono snob e che faccio finta di non capire. Ce la metto tutta, ma quando mi chiedono se ho il blutut, io davvero non ho la più pallida idea di cosa mi stiano chiedendo. Ripeto, è esattamente come quando non capisco la parola goomahd

Comunque, il dilemma su come pronunciare le parole inglesi quando si sta parlando un’altra lingua, se farlo in modo corretto o no, esiste eccome. Ne parlava anche David Sedaris, scrittore e genio americano, che per anni ha vissuto in Francia. Raccontava che una sera era a cena con degli amici francesi. Durante la conversazione, gli chiesero dove avesse vissuto prima di trasferirsi a Parigi. La risposta era: New York. Il suo dilemma, invece, era: pronuncio New York come lo pronunciano a Parigi o come si pronuncia veramente? Perché immancabilmente ci si sente un po’ snob, in questo hanno ragione i miei amici italiani, a pronunciare come si dovrebbe, ma allo stesso fa molto da ridere quando ci si impone di imitare il modo sbagliato per non fare brutte figure. Alla fine, per non passare per la saputella, mi sono imposta di dire blututColgatecol (call), o amburgher. Quando venni in Italia con Alex e Vera, mi presero molto per il culo: “Amburgher?!?”

Pronuncia a parte, ci sono parole di provenienza inglese usate solo in Italia. Per esempio, col (call). Non si dice, non si usa né negli Stati Uniti né in Inghilterra: qui, si dice meeting. Poi, che ci si incontri al computer o meno non è un dettaglio che pare interessi. Durante la pandemia, si lavorava in smartworking. Ma solo in Italia. Nei Paesi anglosassoni, di lavorava da casa (work from home). Un’altra: fare footing. Non sono neanche sicura che esista come termine (devo googlare), ma generalmente, quando uno si mette le scarpe da ginnastica, i pantaloni della tuta, una maglietta e gli airPods, va a running, non a jogging

Infine, spesso viene cambiato il significato di certe parole inglese usate nel linguaggio italiano. Questa cosa l’ho scoperta una sera di qualche anno fa. Ero a Bologna con degli amici ed eravamo seduti in un bar, tutti un po’ brilli. Loro continuavano a dire una parola in inglese che non capivo e a ridere come matti. Dopo aver chiesto, ho scoperto che in italiano dire la parola squèrt (squirt) è una roba erotica volgarissima. Qui la si usa quasi esclusivamente quando si sta per addentare un amburgher e ci si vuole mettere del checiap: non ha nessun connotato sessuale, ma piuttosto una parola che descrive un gesto banale, lontano mille miglia dalle luci rosse. Infatti, risposi a voce alta: “Ah squirt!”, perché la pronunciavano male. Ci fu una risata a crepapelle generale, di tutti quelli del bar, amici e non, e quelli seduti ai tavolini fuori. Solo quando i miei amici, con le lacrime agli occhi dal ridere, mi fecero il gesto di abbassare la voce e mi spiegarono, anche per me questa parola ha acquistato un connotato erotico. Quando tornai negli Stati Uniti, spiegai ai miei amici americani in quale contesto viene usato questo termine negli States. Magari mi ero persa qualcosa. Confermarono: mai sentito associato al sesso. 

Comunque sia, da allora aspetto il 4 di luglio manco fosse babbo Natale. Spero sempre che invece delle bandiere a stelle e strisce e birre acquose, venga fuori qualcosa di un po’ più piccante. E non lo dico per il checiap, che tra l’altro tanto bene non fa sicuramente.

ARTICOLO n. 33 / 2024