ARTICOLO n. 9 / 2023

SUORE CHE SI COMPORTANO MALE

Sono una grande appassionata di titoli dei libri.
Lo sono da sempre, ma in modo particolare da quando i libri li scrivo anche io.

Durante la stesura in cui sono ancora impegnata, mi sono trovata a invidiare moltissimi titoli del passato, pensando a quanto avrei voluto trovarne io di tanto belli (non perdonerò mai Mario Calabresi per essere stato in grado di battezzare un suo magnifico libro e memoir Spingendo la notte più in là, a mio avviso uno dei titoli più belli mai stati scritti e che con invidia ricordo spesso nelle conversazioni con editor e colleghi: «Perché ci affanniamo? Tanto il titolo più bello della storia se lo è aggiudicato lui»).

Grazie a questa mia passione sovrumana per ciò che cattura l’occhio del lettore frettoloso tra gli scaffali, non è raro che mi imbatta spesso in libri dal nome magnetico; nome che mi porta poi all’acquisto a scatola pressoché chiusa di volumi da me mai presi prima in considerazione.

Qualche settimana fa, questa mia mania ha colpito ancora.

Stavo girando per la mia libreria di fiducia, Todo Modo, qui a Firenze, e all’improvviso ho sperimentato di nuovo questo familiare colpo di fulmine letterario.

Tra gli scaffali, con una copertina rossa e bianca che ricorda la prima pagina dei vecchi tabloid d’oltremanica, un titolo mi stava mandando segnali paragonabili a quelli che le sirene di Ulisse lanciavano ai marinai inermi: 

Suore che si comportano male.
Sottotitolo: “Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali”.
Ho quasi iniziato a sbavare.

L’ho agguantato con velocità in quanto ultima copia in esposizione, mi sono seduta e ho ordinato un bianco mosso per accompagnarmi nella sua prima analisi, quella superficiale, da svolgere comodamente a uno dei tavoli della libreria-bistrot del mio cuore.

La prima cosa che ho notato è che il saggio, scritto da Craig A. Monson e tradotto magistralmente da Luisa Agnese Dalla Fontana, è edito da una mia cara conoscenza, ovvero Il Saggiatore. 

Ho chiamato dunque con prontezza l’editor e curatore editoriale che mi accompagna in questa avventura su The Italian Review, e gli ho comunicato perentoria che, oltre a essere una brutta persona per non avermi mai anticipato nulla su un testo come questo, era mia irremovibile intenzione scriverne un pezzo per la rivista che state or ora leggendo.

Perché le suore?, direte voi.

No, non ho sviluppato un istinto di conversione spirituale, tantomeno desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica (questo per due motivi: sono un’atea anticlericale e sono donna; le donne non vanno fortissimo nella Chiesa Cattolica). Ho avuto bisogno di sfogliare solo per una mezz’ora le pagine per intuire quel che poi avrei confermato con la lettura integrale del saggio: Monson non parla di suore cattive in quanto tali, Monson parla di donne che si ritrovano loro malgrado a essere suore e hanno comportamenti assolutamente normali, ritenuti sbagliati solo dall’imposta clausura.

E questo per me, che sono la Jessica Fletcher degli stereotipi di genere (soprannome coniatomi da Chiara Valerio nel 2021) e che nel mio ultimo memoir (Memoria delle mie puttane allegre, Marsilio, 2022) ho analizzato alcuni legami tra fede, esorcismi e pregiudizi culturali attribuiti al genere femminile, era un piatto troppo ricco per non tuffarmici con entrambe le mani.

Monson, saggista e professore emerito alla Washington University e in precedenza docente con cattedre a Yale e all’Amherst College, ha voluto raccontare una storia tutta italiana del regime di clausura nel periodo compreso tra il 1500 e il 1700. 

Nel 1986, tornando in Italia per un viaggio tra gli archivi fiorentini e soprattutto tra quelli vaticani, Monson ha rintracciato storie di donne e monasteri, di comunità e di vescovi, di famiglie nobiliari e ingenti donazioni. 

Tutta questa mappatura si trasforma in un saggio, a tratti romanzo storico, che racconta alcuni episodi-chiave avvenuti nelle diocesi italiane nel corso dei due secoli presi in analisi, e che ci porta a fare la conoscenza con delle donne ritenute allora cattive, oggi invece da me reputate incredibilmente argute e gelose della loro umanissima natura.

Per comprendere il senso di questa mia ultima affermazione dobbiamo fare il passo indietro che ci permetta di dare una collocazione storica e di costume utile per comprendere i motivi che spingevano le donne, così tante donne, alla vita di clausura.

Per i natanti alla lettura entusiasti nella loro fede, ho delle brutte notizie: sono rarissimi i casi in cui le suore divenivano tali per vocazione.

La clausura era un percorso non interiore, bensì spesso – quasi nella totalità dei casi – imposto.

La scelta di una donna rispettabile – e già qui, il moderno che è in noi sobbalza – non era mai sua. I padri, gli zii, i fratelli sceglievano per lei un destino e la forbice di opzioni non era poi ampia: o il matrimonio, che era a tutti gli effetti una compravendita, o il monachesimo femminile. 

Nel 1200 le suore aumentarono, per questa prassi sociale, in modo smisurato. Nel 1500, soprattutto nella sua seconda metà, i numeri salirono ancora di più. Basti pensare che un motto dell’epoca era “una sola figlia dovrebbe avere marito, le altre dovrebbero avere un muro”, ovvero, in soldoni, la primogenita va in moglie e le altre in convento.

La ragione di questo motto era ben più materiale di quel che si potrebbe pensare: le doti per matrimonio erano ingenti e le famiglie cercavano di risparmiare, dandone in sposa solamente una. Anche i conventi richiedevano beni e denaro per l’ammissione delle novizie, ma la spesa era sicuramente minore rispetto a quella matrimoniale.

La domanda che adesso ci potremmo dunque fare è: ma perché, visto che in ogni caso la famiglia -e per famiglia intendo gli uomini di casa- era costretta a spendere e dividere i propri beni, le donne non maritate non venivano lasciate vivere nelle case paterne?

La risposta ci arriva prontamente da Monson che, raccontando delle abitudini italiane del sedicesimo secolo, ci spiega – a pagina 87 – che il rischio della vita fuori dal convento era troppo alto. No, non stiamo parlando di un pericolo per la vita o la sopravvivenza della donna -ricordiamoci sempre che le novizie venivano da famiglie abbienti – ma di un pericolo morale. Infatti, scrive Monson, «[la donna] per proteggere il proprio onore e quello della famiglia, non usciva mai senza essere accompagnata; i suoi parenti maschi sapevano che era meglio tenerla rinchiusa. In quel modo avrebbe evitato di subire o provocare tentazioni, ma anche di indurre gli altri a pensare che lo stesse facendo, un fatto altrettanto deprecabile».

Gli uomini dunque, per evitare il disonore di una parente violentata o rapita, la chiudevano in convento senza il suo consenso, con la sola colpa di avere un corpo di donna in una società in cui i corpi di donna erano ritenuti oggetti ancor più che oggi.

Questo sistema di leva obbligatoria per la vita monastica vedeva dunque centinaia e centinaia di giovani – usualmente intorno ai 14,15 anni d’età – obbligate a diventare novizie senza però averne la benché minima inclinazione.

E in un regime del terrore e della privazione, della clausura obbligata e della vita cancellata, tra quelle mura sono successi fatti incredibili quanto memorabili, che Monson ci racconta in 300 pagine affascinanti e tragiche. 

Per comprendere infatti la natura delle storie ricostruite e raccontate da Monson, dobbiamo pensare a due elementi fondamentali della natura umana.

Il primo è l’arguzia: le storie delle suore di questo libro sono piene di sagace intelligenza, quel tipo di estro che si sviluppa solo in situazioni di cattività in cui la sopravvivenza è estremamente dura; il secondo è la capacità di creare forme sociali nuove, anche in luoghi in cui spesso le parole sono vietate per lunghissimi periodi (pensiamo alle monache Benedettine e ai lunghi voti del silenzio, per esempio).

In un ambiente ostile perché non voluto e in secoli ricchi di rinnovamento artistico e sociale, vivere dentro a quelle mura diventa per le suore una prova disumana, che le spinge a trovare modi per ribellarsi al limite della genialità e che prevedevano molto spesso la collaborazione delle consorelle, anch’esse vittime di un sistema che non avevano mai scelto. 

Un esempio di questo mio cappello introduttivo ci viene dato dalla vicenda delle canonichesse di San Lorenzo a Bologna, e ricostruito nel primo capitolo del saggio di Monson. Nel 1584 il convento era infatti rinomato per le doti musicali delle suore. Ma l’Inquisizione, in quegli anni, decise di limitare prepotentemente le attività artistiche delle recluse, pensando che il successo delle loro capacità fosse sintomatico di vanità, ergo di peccato.

Le limitazioni – tra cui il divieto assoluto di fare prove o cantare in pubblico, anche durante le funzioni religiose – furono un duro colpo per le giovani donne del San Lorenzo, che provarono in più modi ad arginarle, fallendo sempre e ricevendo più richiami al decoro da parte del vescovato.

Durante l’ottobre di quello stesso anno, la sparizione di una viola dall’aula di musica del convento creò non poco scompiglio. 

Le suore fecero di tutto per ritrovare lo strumento misteriosamente sparito, fino a pregare per ore per avere degli indizi divini.

Dal cielo però tutto tacque. Perciò le sorelle si rivolsero all’unica altra entità soprannaturale capace, secondo loro, di poter risolvere il furto: il Diavolo.

Con una serie di riti satanici – tra cui disegnare grossi cerchi sul pavimento con un coltello e fare divinazione con acqua santa e anelli pagani – le monache provarono a ricevere dei segnali. O forse, come ci suggerisce Monson, a darli a qualcuno di molto terreno.

Infatti non ci volle molto perché la storia uscisse dalle celle e arrivasse alle orecchie dell’arcidiacono. 

Dopo una lunga indagine – durata circa due anni – le sorelle coinvolte nella divinazione satanica vennero scomunicate e quindi rese libere.

Similare fu l’evento incendiario del 1673 al convento San Niccolò di Strozzi. Stavolta non furono scomodate le fiamme dell’inferno, ma quelle del mondo reale.

Il convento era famoso per l’allevamento dei bachi da seta e la produzione dei filamenti grezzi del tessuto pregiato prodotto dalla loro saliva. 

I bachi venivano disposti nel sottotetto del convento, su lunghe stuoie di canneto unte di grasso: un innesto perfetto per uno show quasi pirotecnico. In poche ore il tetto e il convento vennero rasi al suolo dalle fiamme.

Il processo portato avanti dalla Sacra Congregazione mostrò subito come le suore, appena visto del fumo, fossero scappate a gambe levate dalla struttura, non provando neanche per un momento ad arginare l’avanzata demolitrice. 

La fuga fu veloce quanto lunga: le consorelle, infatti, non si fermarono fuori dalla struttura, ma tornarono ognuna nella propria casa natia. 

La cosa puzzò subito di bruciato – perdonatemi, era quasi dovuto – alla Congregazione, che capì che quell’incendio ovviamente doloso fu solo un espediente per la fuga. 

Altre storie di inizio 1500 vedono monache seduttrici (al fine di farsi mettere incinta e quindi svestirsi dai panni della clausura) e travestimenti ingegnosi per fuggire dai conventi per recarsi a teatro o a sentire concerti e canti gregoriani. Insomma, per seguire le sacre – stavolta sì – pulsioni umane, anche le più ingenue, le suore erano disposte a tutto e con incredibile arguzia. 

In quest’ottica di ribellione all’imposizione possiamo dunque rivedere sotto altra luce la storia della monaca più famosa d’Italia, la monaca di Monza, la cui vicenda venne poi romanzata da Manzoni ne I promessi sposi.

Come mi spiegava Marcello Fois a Roma qualche settimana fa, la vicenda monacale ricordataci dal Manzoni era più comune di quel che si pensi. La ribellione era semplicemente manifestazione della imprescindibile natura umana, intrappolata nei corpi delle novizie costrette al voto.

Anche la novella di Boccaccio su Masseto di Lamporecchio, la prima della terza giornata del Decamerone, può essere quindi riletta in ottica differente (Masseto si finge sordomuto per entrare in un convento di monache famose in paese per la loro fame di corpi maschili; la garanzia data dal mutismo del giovane spinge le suore ad accoglierlo tra loro, facendo sesso con lui convinte che il giovane non avrebbe potuto, per la sua condizione, parlarne con nessuno) e sicuramente meno caricaturale.

Gli istinti delle donne, seppur sopiti da una società perfidamente maschilista e controllante, non sono mai stati frenati da regole rigide e prepotenti. 

Certo, la punizione spesso era severa – Monson ci racconta di Cristina Cavazza, monaca del 1700 costretta a 12 anni di isolamento ferreo per essere fuggita dal monastero di santa Cristina a Bologna – e negli anni più duri di psicosi superstiziosa la Chiesa di Roma ha mandato più e più donne al rogo per fatti di natura umana, mai diabolica. 

Eppure, come ci racconta questa raccolta di suore ribelli e geniali, nulla è mai bastato alle donne per arrendersi e smettere di celebrare la propria natura, fosse questa nemica di Dio, dei padri, dei fratelli o della sola, stupida, ignorante superstizione.

Nel riscrivere la storia per dare voce e dignità a vicende come quelle delle monache del sedicesimo e diciassettesimo secolo, i documenti ritrovati e ricomposti da Monson sono preziosi ed emblematici. Uno spaccato brillante di quanto l’estro femminile non sia mai stato sottomesso, neanche dalle mura fredde dei conventi e dal silenzio imposto dagli ordini.

Le suore che si comportano male diventano così delle magnifiche, incendiarie protofemministe disposte a tutto per la dignità di potersi sentire, anche solo per il tempo di una fuga nella notte, libere.

ARTICOLO n. 32 / 2024