Matteo Trevisani

ARTICOLO n. 33 / 2022

IL COGNOME DI MIA MADRE

Un dialogo

M.T. Il cognome di mia madre è piuttosto raro: l’ultima volta che ho controllato era presente soltanto in dieci comuni, nove dei quali in provincia di Cuneo. Dopotutto è da là che vengono, anche se mia nonna materna mi raccontava sempre che il suo, di nonno, parlava di una casata francese a cui sarebbe appartenuto. Non era vero, ovviamente: ho risalito lungo quella linea di sangue fino a fine Seicento, e non ho trovato nessuna traccia di nobiltà. Non se ne trovano quasi mai. Da ragazzino avevo pensato di prenderlo, ma la lungaggine burocratica e i costi mi avevano intimorito. Oggi mi pare che ci siano due verità in quella voglia di appartenenza: volevo farlo perché si tramandasse in me una parte della famiglia di mia madre e perché pensavo che solo nei nomi le cose vivono davvero. Oggi ho capito che non è così importante: forse non lo prenderei perché anche se non ce l’ho nel cognome, quella linea di sangue non è qualcosa che semplicemente fa parte di me, ma letteralmente quello che io sono. Non dovrei fermarmi a quel cognome: dovrei possedere anche quello delle mie nonne, e quello dei loro padri, e quello delle loro ave. La decisione della Corte è senza dubbio una buona notizia: sarà più semplice scegliere, dare alla madre il sacrosanto diritto di perpetuare anche il suo cognome. Ma se il lignaggio è nominale e dunque simbolico, basta questo a conchiudere la complessità di ciò che rimane, delle famiglie?

M.P. Nel cognome di mia madre è annidato un indizio storico, di cui nessuno ha tenuto traccia e nessuno ha mai raccontato e probabilmente appartiene ai mori cacciati dalla Spagna, che hanno trovato accoglienza prima fra le coste sarde e infine fra quelle sicule, da cui provengo. Io, il mio cognome, l’ho spesso dimenticato e anzi, pubblicamente, non l’ho proprio avuto per più di un decennio. Tutto ciò che avrei voluto sapere della mia famiglia riguarda una storia recente, che è quella della mia bisnonna, la nonna di mia madre, che il cognome non lo aveva perché era un’orfana, adottata da bambina da una famiglia di nobili catanesi che l’hanno tenuta in casa come sguattera. La mia grande storia famigliare si ferma ai primi decenni del novecento, quando una bambina è stata abbandonata diventando la numero 0 di una nuova stirpe di donne. È a lei che mi sono sempre sentita appartenere, a quella ragazzina non voluta due volte, di fronte a lei il cognome di mio padre e quello di mia madre non esistono, troppo pallidi, troppo diluiti con il sangue di tutti. È quello il mio cognome: quello che non è mai esistito. E se potessimo scegliere a chi appartenere? Se da adulti potessimo dirci liberi di assumere i cognomi di chi ci assomiglia, che non sempre è una cosa che ha a che vedere con il sangue, non saremmo protagonisti di una storia molto più onesta? 

M.T. Una parte di me ti direbbe: troppo comodo. Noi siamo anche quello che non vogliamo essere, e questo è un fatto che secondo me non può essere messo troppo in discussione in maniera sensata: molto del lavoro che uno può fare nella vita ha a che fare col vedere chiaramente questa distanza da se stesso. Il fatto che siamo generati da qualcuno, il fatto che generiamo. Però è ovvio: non è solo il sangue ciò che lega una famiglia. Nel retaggio patrilineare del cognome c’è l’idea del lascito, di qualcosa che viene tramandato solo da una parte, quando l’unica cosa a essere indubitabile in una nascita è la madre. Mi viene da pensare che il cognome del padre risponda a questo complesso di inferiorità: una certezza simbolica contro una certezza reale. È vero anche che il cognome di quella ragazzina che abbiamo cercato invano dopotutto era il cognome di suo padre e poi di suo nonno, penseresti a loro se un giorno lo trovassimo? Io tendo a considerarmi la somma delle persone che hanno contribuito a generarmi, conosco i loro cognomi e me li rammento spesso, ma oggi non vedo più il fatto di avere un solo cognome, quello di mio padre, un limite: ho imparato che la famiglia è molto più grande di questo. È giusto che oggi le persone venga dato in automatico il cognome di entrambi i genitori, in modo che essi in possano scegliere per i propri figli. Dopotutto aggiungere il cognome del lato materno della famiglia non è mai stato un problema per i grandi casati che si univano: anche nell’araldica, che è la rappresentazione grafica degli stemmi di famiglia (che spesso parlano dei loro cognomi) i quarti sono ben delineati e il cognome stesso prima del 1300 era una cosa diversa da quella che intendiamo oggi. Lo stesso cognome Windsor è una scelta relativamente nuova e in qualche modo eterodossa. Perché dovrebbe essere un problema per noi? Però abbiamo chiamato nostro figlio con un solo cognome, il mio, se avesse un fratello o una sorella come ci comporteremmo? Mi spaventa che due fratelli di sangue possano avere cognomi diversi.

M.P. Il giorno in cui abbiamo deciso di dargli solo un cognome, il tuo, e quando è stato scelto il suo nome, ricordo di aver pensato che il cognome è quello che sei stato, e il nome è quello che sarai. Per questo, per scherzo ma forse no, ti ho proposto che avremmo dato solo il tuo cognome se a me fosse rimasta libera scelta sul nome: se tu determinavi il passato, spettava a me lanciare uno sguardo verso il futuro. Quel che è chiaro è che Cosmo Trevisani sarà quello che deciderà di essere e che noi gli abbiamo dato solo una casa da cui partire. Suo fratello o sua sorella seguiranno lo stesso percorso, che è quello di un figlio o di una figlia frutto della mescolanza dei nostri geni e ai quali daremo il dono del tempo, come abbiamo fatto con il primogenito. Se sarà automatico il doppio cognome, allora chiederemo di rimuovere il mio, al quale non sono legata e non certo per disaffezione nei confronti del mio amato padre, ma proprio perché ho più fiducia in quel che saremo che in quel che siamo stati e perché, certo, due bambini nati con gli stessi genitori non possono avere cognomi diversi, sarebbe come metterli in un campo di battaglia con le nostre mani e invitarli allo scontro. 

M.T. In un ramo della mia famiglia a un certo punto ho trovato un documento di battesimo di inizio Ottocento dove sotto la riga in cui prendeva posto il nome del padre c’era scritto: incerto. Quella bambina, Maddalena, venne riconosciuta soltanto dalla madre e quindi prese il suo cognome: Ragni. Anche questo è un passato sul quale edificare. Tolta finalmente la potestà che partiva dal matrimonio ogni cognome è in realtà sia materno che paterno ed è giusto fare in modo che le trame non si perdano, che le linee di sangue possano essere ricostruite. Nel Concilio di Trento fu dato ordine ai parroci di tenere traccia dei cognomi al fine di evitare le consanguineità e quel cognome fu quello del padre. Una scelta sbagliata ha prodotto una consuetudine così radicata nei secoli che ha permesso ai genealogisti di tracciare con certezza linee antichissime: il compito di chi fa genealogia oggi è quello di tenere in mente la sostanziale patrilinearità dell’approccio tenuto finora e provare a cambiarlo. Ogni albero genealogico dovrebbe essere una tavola per quarti. Col doppio cognome automatico, come nei paesi ispanofoni, se verrà mantenuto un rigore nella scelta in cui essi appaiono (quale che sia), i genealogisti che lavoreranno tra trecento anni avranno vita più facile della mia, che per scovare i cognomi delle madri devo scandagliare sempre più a fondo. Fantasia e stato civile non vanno molto d’accordo, forse giustamente.

M.P. A me pare che le madri abbiano bisogno di vedere riconosciuti i propri sforzi, costruire un essere umano dentro di sé, partorirlo e accudirlo intensamente per i primi mesi e i primi anni, non è qualcosa che può risolversi con un semplice ringraziamento a mo’ di letterina per la festa della mamma. Quello che ricordi tu, ovvero che tenere traccia dei cognomi avrebbe evitato la consanguineità, poteva avere una funzione e un senso fino a non molto tempo fa, ma oggi le cose sono diverse e le leggi si cambiano di pari passo all’evoluzione umana e culturale. Per i primi tempi sarà più difficile tenere il computo degli avi, di chi c’è stato prima di noi. Ma il nostro compito è lavorare sul presente, fare in modo che ci sia equità e riconoscere a entrambi i genitori pari dignità. Il cognome paterno, conferito alla nascita, ha tutta l’aria di essere un premio: se la donna ha il privilegio di dare la vita, l’uomo deve avere il privilegio di apporre un’etichetta a quella vita e di renderla propria, simile a quella dei suoi padri. C’è una forma di appropriazione, in questo, che non credo faccia molto piacere alle donne. Il marchio sul figlio è una cosa ancestrale, che ricorda i clan, le lotte per il fuoco, le divisioni di territori e il tracciamento dei confini. Con la storia che la madre è sempre certa si è tolto di fatto alle madri il diritto a riverberarsi negli anni a venire, un sasso che lanciato nell’acqua non produce piccole onde ma solo un rumore sordo per finire negli abissi. Credo sia importante riaffiorare, ora, da quelle profondità e far sentire che ci siamo state anche, e forse soprattutto, noi.