ARTICOLO n. 86 / 2023

ANTONIO FASAN, UN FORNO GIALLO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Ogni giorno si compiono numerose scelte di selezione e ben poche scelte d’invenzione. Mi sveglio e, tuta o tailleur, decido come vestirmi. Al cafè, premo il dito sulla vetrinetta per segnalare il pasticcino che desidero. Al negozio di arredamento, mi domando se acquistare il cuscino di chintz o quello di lino (compro quello in lino anche se il mio cuore è di chintz). Cuore, cuore… Lui mi scrive di essere nell’atrio, che emoji gli mando? Sì, un cuore, ma di quale colore? Giallo, bianco, marrone, grigio, arancione, azzurro, blu o un disperatissimo rosso?

Quasi ogni movimento della quotidianità presuppone la scelta necessaria o contingente di un colore preselezionato da tendenze, usi, costumi, disponibilità; a noi è chiesto solo di abbinarlo o tuttalpiù di rapportarci a esso accogliendolo o rifiutandolo.

Nelle arti definirsi ‘colorista’ equivale ormai a offrire un Plasmon anziché un chewing gum. Molti artisti hanno solo una vaga idea del perché usino determinati colori; anzi, sempre più spesso il colore trascende l’artista immettendo nell’opera sottotesti che l’ignaro artefice maneggia solo in seconda istanza. 

Chi ha già letto il primo episodio di questa serie dedicata al paesaggismo veneto sa che non scrivo di pigmenti o pruderie tecniche, bensì dei significati morali, economici e politici veicolati dai toni e dalle sfumature. Al rosa shocking basta un niente per divenire il più statalista, se non fascista, e paranoico tra tutti i rosa, ma può essere ammansito con un nero tinto nel marrone e in qualche gocciolina del sangue di Marie Duplessis.

Nella mia città, Padova, che io vedo giallorosa e allegra come una madonna che si è persa tra le villette residenziali, ha abitato, nel secolo scorso, un pittore che faceva il fornaio in Piazza della Frutta e che durante il Ventennio trascorse i suoi twenties and thirties inventandosi colori domenicali, fiduciosi e antifascisti. Aureolini pescati, azzurri lavati caricati di bianco, verdi menta luminosi e saturi.

Antonio Fasan (1902 – 1985), amato e collezionato in vita da spiriti cui non siamo indifferenti quali Giò Ponti e De Pisis, è da tutti descritto come un fanciullo speculativo che appare tra le farine del forno. Il critico e pittore Vincenzo Costantini lo paragona a un «tipo di studente o giovane farmacista che, vestito di un lungo camice bianchissimo ci guarda con occhio immobile dietro i vetri degli occhiali». Anche il mercante Carlo Cardazzo rimarca la bontà di Fasan: «è veramente “un candido”» e «sembra più un allievo della Compagnia di Sant’Ignazio di Loyola che quello che è». Giò Ponti, che lo coinvolge in mirabili progetti, compendia Fasan nella “’impenetrabilità dei temperamenti sensibili”.

Fasan comincia a dipingere nel 1926 e oltre all’ambiente padovano frequenta dapprima quello veneziano, dove grazie alla Biennale scopre Modigliani che lo allontana da Ettore Tito, e si appassiona a Renoir e Degas, per cui tradisce Ciardi e Zandomeneghi. Non si iscrive all’Accademia ma visita gli studi dei pittori di poco più anziani, tra cui Ottone Rosai e Giorgio Morandi. Ammira un coetaneo, lo speciale Giuseppe Viviani. 

Fasan dipinge farfalle, conchiglie, ventaglietti, fichi, viole del pensiero, cachi, l’esterno degli Scrovegni, cavallucci marini, le strade dove passeggio e pasteggio, calicantus e alchechengi.

Nei decenni in cui la casa era amministrazione della donna “custode del focolare”, “madre nuova per figli nuovi”, mater matuta, a mesi alterni gravida o gonfia di minestra littoria (un consommé chiarificato servito con bignè), Fasan ama stare in casa: ritrae la moglie Carmela e impara la lezione da tappezzerie, tovaglie e calzettoni. Il pittore è muliebre: si spegne il truce focolare, risorgono le stanze. Lo stesso giallo saltella da un paio di pantofole agli affreschi di Jacopo da Verona presso l’Oratorio di San Michele alle casette che verranno costruite poco prima del boom.

Poveri i colori, oggidì prigionieri politici tra delinquenti comuni sull’isola dei consumi, allontanati dalle tribune… Eppure, ogni tanto se ne sente parlare. In questo anno 2023 la rozzezza patriarcale della politica italiana ha trovato ulteriore sfogo nelle critiche a Elly Schlein colpevole di essersi rivolta a una esperta di armocromia. Io stessa, che nella vita invento colori e scrivo di colori quotidianamente, mi sono rivolta tempo addietro a una deliziosa armocromista del trevigiano, cui ora affiderei anche la scelta delle mie espressioni facciali. 

Ben prima di suggerire quali colori conviene utilizzare per non sembrare uno zombie (sempre che un aspetto in salute sia desiderato), l’armocromista rivela al cliente di quale tono e sottotono è la sua pelle: freddo, caldo, chiaro, scuro… Probabilmente paghi di sapersi bianchi, gli avversari di Schlein hanno trovato ulteriore modo di declassare l’intelligenza cromatica a suon di risate e sbuffi.

Mi ricompongo e torno a Fasan, con le parole di Giovanni Comisso: «È un placido, sereno e distillato pittore. Egli incomincia come l’ostrica a lavorare lentamente di madreperla un granellino di sabbia, scoperta l’essenza di un oggetto, di un paesaggio o di una figura egli lentamente la elabora, sempre negli elementi strettamente necessari, portandola ad una evidenza preziosa e brillante. Sue doti principali sono: gusto di colore e sommessa, ma armoniosissima fantasia».

‘Fantasia’, parola ancor più tabù che ‘colorista’, soppiantata da ‘creatività’, nozione commercialista-friendly, o da ‘immaginazione’, più gestibile dai pedagoghi. 

Fantasia coloristica è saper accedere a manifestazioni cromatiche che non abbiano senso, ma che creino il senso. Nulla è più difficile del colore. Il disegno si vede, il colore si percepisce. Per associare un messaggio a un colore, per creare un nuovo messaggio, è necessario essere iscritti da anni alla palestra della trascendenza così come è necessario vivere nell’astrazione, ovvero destrutturare ora dopo ora, giorno dopo giorno, lo spirito cromatico dello zerbino del vicino, di un buco nell’asfalto, una vetrina di Tigotà, una tiara, un Pontormo, un pannello di laminato bianco con orribili macchie effetto legno, una teiera, un cappotto di Max Mara, un bubble tea.   

Tutti bravi ad adorare Morandi, che ovatta le anime scosse nei grigi bruniti del suo inimitabile stillicidio; ma sfido il lettore ad amare un altro adepto della madreperla, Fasan pittore fornaio: saturò i colori più pii, puerili e sereni per inventare la pace in tempi di guerra.

ARTICOLO n. 74 / 2024