Melissa Panarello

ARTICOLO n. 44 / 2023

IL CORPO DELL’ATTRICE, IL CORPO DELL’AUTRICE

Un dialogo

Si può chiamare in tanti modi: contenitore, confine, carne e, in definitiva, possiamo affermare che il corpo è uno spazio che occupa spazio. Generatore di amore, di sgomento, di ammirazione, il corpo non è solo un accidente e non è da investigare solo per estetica o scopi medici, ma è un viaggio, una mappa, una fotografia di quel che siamo, rivelatore di futuro e memoria del passato. Erotico nella sua capacità di legarsi e creare ponti fra: persone, cose, luoghi. 

È su questo oggetto insieme terreno e misterioso che Sonia Bergamasco, attrice raffinata, poeta, musicista sempre alla ricerca di domande, più che di risposte, affida il proprio ragionare e le proprie memorie al suo primo libro in prosa dal titolo Un corpo per tutti, Einaudi. È qui che dispiega i motivi per cui per un’attrice il corpo è tutto e che cosa significa, per lei, avere scelto questo mestiere, che di corpo e di voce ha bisogno, non a caso si dice “dare corpo a un personaggio”, che non è solo un prestito, ma un saper plasmare o modificare una materia già viva. La biografia di un mestiere, come recita il sottotitolo, più che di un’attrice, un libro essenziale per chiunque voglia avvicinarsi alla recitazione e per chi di recitazione sa un bel nulla, come me. Non un memoir, ma una testimonianza, scritto con lingua tersa, onesta e diretta su un mestiere che non parla solo di lei, dell’attrice, ma che riesce a parlare di tutti e a tutti. 

Volevo darle del lei, perché sono sempre molto eleganti le interviste dal tono cortese. Alla fine, però, ha vinto la spontaneità, le risate in un giovedì mattina, quando la distanza dei nostri corpi si è accorciata e abbiamo chiacchierato di che cosa è il corpo, di come lo raccontiamo. 

Melissa Panarello: Per parlare del corpo, inizi dalla voce. Nel libro l’hai resa terrena, anzi terrosa, quando da tutti è considerata aerea. 

Sonia Bergamasco: E questo discorso ti è tornato? 

M.P. Molto! Tu fai gli esempi di Marlon Brando, da cui ti aspetteresti una voce densa e sensuale e invece, scrivi, aveva un timbro opaco e strascicato. Oppure di Monica Vitti, il cui timbro definisci rugginoso e gorgogliante, “slacciato” dalla sua figura. Io ho pensato a Pino Daniele, alla sua voce così sottile che proveniva da un corpo massiccio. E anche a me stessa, che sono alta un metro e quarantanove ma ho la voce di chi supera abbondantemente il metro e mezzo. E di te io ricordo più nitidamente la voce che il viso. 

S.B. Sono così felice che tu lo dica perché la voce è sempre stata in primo piano, per me, anche quando era selvaggia e ineducata. Ha camminato passo-passo con me nel mio percorso di consapevolezza. È il segnale di un tutto, fa parte di un tutto e lo rappresenta. Un attore, un’attrice, sono un coro di voci. Poi c’è la voce quotidiana, quella dritta, della lettura quotidiana, e quella con cui ti presenti.

M.P. È una cosa che capisco benissimo perché ha a che fare anche con la letteratura: ciò che si scrive è diverso da ciò che si dice e ovviamente da come lo si fa. Nei libri una cosa a cui presto moltissima attenzione è la voce dell’autore, dell’autrice. Non tanto quello che scrive né come lo fa ma il timbro, la vibrazione che avverto fra le pagine. Tu nel libro ti definisci un’attrice immersiva, e come scrittrice come ti senti? 

S.B. Ci ho poi ripensato, in realtà. Immersiva lo sono nel senso che il desiderio è quello di sciogliermi nell’altro, però rimane sempre un margine di forma che non riesce a essere completamente abbandonata e quindi c’è un’alchimia necessaria. Nella scrittura forse quello che cerco è il desiderio di pulizia, di chiarezza e di ricomporre drammaturgicamente visioni articolandole in un racconto. Ho cominciato poi con la poesia perché è in rapporto strettissimo con quello musicale, che è stata la mia prima strada e quindi immagino che dalle letture e dallo studio e dall’essere sempre a contatto con un linguaggio musicale, il passaggio a una lingua poetica sia stato molto diretto e facile. Se oggi devo dirti quale scrittore o scrittrice si avvicina più alla mia idea di scrittura, ti dico Annie Ernaux. 

M.P. Mi sono chiesta anche io che tipo di scrittrice sono e di certo posso definirmi immersiva. Questo ha molto a che fare con l’eros, se ci pensi, ovvero l’eterno rapporto fra le cose, che poi è anche il rapporto con il pubblico, come scrivi nel libro. Cos’è l’eros nel tuo lavoro? 

S.B. L’energia che scorre e che rende necessario, credibile e potente quello che si sta raccontando e in definitiva si sta vivendo insieme. Un soffio vitale, uno strumento che unisce e passa attraverso, inteso come legame. 

M.P. Per me l’eros non ha a che fare con il sesso o meglio, ha pure a che fare con il sesso quando è legame; è più che altro un filo invisibile che lega il dentro e il fuori, il te e il me.

S.B. Se ci pensi è potentissimo anche nel bambino piccolissimo. 

M.P. A proposito di bambini, un’altra cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo libro è che a un certo punto i neonati, dopo pochi mesi, si rendono conto di avere un corpo. Mi ero dimenticata di questo fatto, ma ora che ho di nuovo una figlia appena nata mi accorgo che lei non è consapevole di avere delle mani. Lo scoprirà fra qualche settimana e in quel momento si definirà nello spazio. Tu quando l’ha scoperto?

S.B. Ero una bambina allo specchio, avrò avuto sette o otto anni. Mi guardavo per capire chi fossi, facevo piccoli movimenti nello spazio per cercare di definirmi attraverso quello strumento magico che è lo specchio, che sembra riflettere il nostro corpo e invece ci porta chissà dove. Non saprei circostanziare i tempi in cui sono venuta a patti con il mio corpo, so solo di averci messo un bel po’ a non essere soltanto l’idea di un corpo. Però c’è stato anche molto gioco, che mi ha aiutato a sciogliere molte tensioni e incomprensioni che partono da lontano. E forse recuperare il gioco perduto dell’infanzia attraverso il lavoro d’attrice non è casuale, è una possibilità di riappropriarmi del mio corpo intero, di viverlo pienamente e consapevolmente attraverso una forma amata, che è appunto quella del gioco. 

M.P. In questo in effetti gli attori sono dei privilegiati, cioè nella scoperta del proprio corpo. Immagino che i turbamenti e gli scoramenti nei confronti del nostro corpo li abbiamo tutti, voi però avete, per mestiere, la possibilità di attraversarlo e di compiere questo viaggio. Uno scrittore no, si dimentica di avere un corpo. 

S.B. Sì, nella scrittura è più complicato. Però se tu affronti il racconto anche in voce, e se dai corpo a questo racconto e cerchi un rapporto con il pubblico, riesci a recuperare una dimensione più erotica. 

M.P. Un mio amico dice di essersi innamorato di sua moglie per il modo in cui occupa lo spazio. Tu come lo occupi? E che valore dai al corpo delle persone che ami e che condividono con te lo spazio?

S.B. Mi piace la dimensione fisica dell’abbraccio. Ho necessità di vicinanza e presenza. Questo perché caratterialmente, per molto tempo e per timidezza, mi sono preclusa tante possibilità. E adesso, riscoprendo una forma più libera di me stessa, ho il desiderio di stare insieme. 

M.P. Questo in realtà ha molto a che fare con la leggerezza, a un certo punto scrivi che è stata per te una conquista. 

S.B. Bisogna arrivarci alla leggerezza, oppure la possiedi di tuo, anche se è rarissimo. Per arrivarci devi passare attraverso quella che è la tua storia, che anche il tuo corpo ti chiede. Poi ognuno ha i propri tempi, e ciascuno ha i propri traguardi. 

M.P. In effetti uno dei consigli più utili che mi hanno dato da ragazzina, quando ero molto appesantita da sovrastrutture e insicurezze, è stato: sii pop. Una cosa che allora mi sembrò un insulto e invece con il tempo ho capito che essere pop è il regalo più grande che puoi fare a te stesso e ha a che fare con la leggerezza. A un certo punto dice una cosa coraggiosissima: l’arte, la cultura, non servono a niente. Che cosa può riscattare la cultura, oggi? 

S.B. Non si può appesantire l’opera o il gesto artistico di qualsiasi tipo con una missione, significato o descrizione. Bisogna affrontare l’opera per quello che è: una voce che ci dovrebbe aprire a ulteriori possibilità, illuminandoci dentro, che ci deve sconvolgere. Nell’arte non può esserci una visione moralistica del fare, altrimenti entriamo nella scuoletta, in qualcosa che ha a che fare con il ministero. 

M.P. Nel tuo libro parli spesso di memoria. Cosa è la memoria del corpo?

S.B. La memoria vive nello spazio interno del corpo e nello spazio esterno della rappresentazione. C’è insomma un disegno complessivo, quelle memorizzate dall’attore non sono parole in orizzontale che vengono assorbite in una zona più o meno nota del cervello. Scivolano nei muscoli, nelle intenzioni più profonde, devono essere dimenticate, sciolte nel corpo per essere rivissute come azione. Altrimenti restano vuote, come tutte le parole che non vengono davvero vissute dal corpo. Tutte le parole che noi stiamo usando adesso, le mie, le tue, sono parole che passano attraverso un’esperienza fisica, una memoria del corpo, un’esperienza emotiva. È questo che l’attore e l’attrice devono sempre replicare per dare vita a quello che dicono, a quello che fanno, altrimenti è tutto morto. 

M.P. Stai compiendo un viaggio alla scoperta del mestiere dell’attore, dell’attrice. Ti vedremo mai nei panni di Eleonora Duse? 

S.B. Nei panni della Duse no, però la voglio raccontare. Il desiderio è quello di parlare del mio mestiere attraverso un’artista assente, perché di lei non abbiamo quasi nulla se non immagini fugaci, fotografiche, e un solo film in bianco e nero che non la rappresenta compiutamente. In questo periodo è quasi un’ossessione, è un momento della vita in cui sento la necessità di guardare attraverso. Non voglio parlare di me, penso solo che questo mestiere sappia parlare di noi. 

M.P. Io ho capito una cosa leggendoti: gli attori sono la nostra casa, quella di tutti noi. Siamo noi che vi abitiamo, allora. 

S.B. E per questo c’è una grossa responsabilità da parte nostra, di essere all’altezza di questo. Il desiderio però è quello e quando ci riesci tutto rimane vivo e ti regala qualcosa che nessuno mai più ti potrà portare via. 

ARTICOLO n. 33 / 2022

IL COGNOME DI MIA MADRE

Un dialogo

M.T. Il cognome di mia madre è piuttosto raro: l’ultima volta che ho controllato era presente soltanto in dieci comuni, nove dei quali in provincia di Cuneo. Dopotutto è da là che vengono, anche se mia nonna materna mi raccontava sempre che il suo, di nonno, parlava di una casata francese a cui sarebbe appartenuto. Non era vero, ovviamente: ho risalito lungo quella linea di sangue fino a fine Seicento, e non ho trovato nessuna traccia di nobiltà. Non se ne trovano quasi mai. Da ragazzino avevo pensato di prenderlo, ma la lungaggine burocratica e i costi mi avevano intimorito. Oggi mi pare che ci siano due verità in quella voglia di appartenenza: volevo farlo perché si tramandasse in me una parte della famiglia di mia madre e perché pensavo che solo nei nomi le cose vivono davvero. Oggi ho capito che non è così importante: forse non lo prenderei perché anche se non ce l’ho nel cognome, quella linea di sangue non è qualcosa che semplicemente fa parte di me, ma letteralmente quello che io sono. Non dovrei fermarmi a quel cognome: dovrei possedere anche quello delle mie nonne, e quello dei loro padri, e quello delle loro ave. La decisione della Corte è senza dubbio una buona notizia: sarà più semplice scegliere, dare alla madre il sacrosanto diritto di perpetuare anche il suo cognome. Ma se il lignaggio è nominale e dunque simbolico, basta questo a conchiudere la complessità di ciò che rimane, delle famiglie?

M.P. Nel cognome di mia madre è annidato un indizio storico, di cui nessuno ha tenuto traccia e nessuno ha mai raccontato e probabilmente appartiene ai mori cacciati dalla Spagna, che hanno trovato accoglienza prima fra le coste sarde e infine fra quelle sicule, da cui provengo. Io, il mio cognome, l’ho spesso dimenticato e anzi, pubblicamente, non l’ho proprio avuto per più di un decennio. Tutto ciò che avrei voluto sapere della mia famiglia riguarda una storia recente, che è quella della mia bisnonna, la nonna di mia madre, che il cognome non lo aveva perché era un’orfana, adottata da bambina da una famiglia di nobili catanesi che l’hanno tenuta in casa come sguattera. La mia grande storia famigliare si ferma ai primi decenni del novecento, quando una bambina è stata abbandonata diventando la numero 0 di una nuova stirpe di donne. È a lei che mi sono sempre sentita appartenere, a quella ragazzina non voluta due volte, di fronte a lei il cognome di mio padre e quello di mia madre non esistono, troppo pallidi, troppo diluiti con il sangue di tutti. È quello il mio cognome: quello che non è mai esistito. E se potessimo scegliere a chi appartenere? Se da adulti potessimo dirci liberi di assumere i cognomi di chi ci assomiglia, che non sempre è una cosa che ha a che vedere con il sangue, non saremmo protagonisti di una storia molto più onesta? 

M.T. Una parte di me ti direbbe: troppo comodo. Noi siamo anche quello che non vogliamo essere, e questo è un fatto che secondo me non può essere messo troppo in discussione in maniera sensata: molto del lavoro che uno può fare nella vita ha a che fare col vedere chiaramente questa distanza da se stesso. Il fatto che siamo generati da qualcuno, il fatto che generiamo. Però è ovvio: non è solo il sangue ciò che lega una famiglia. Nel retaggio patrilineare del cognome c’è l’idea del lascito, di qualcosa che viene tramandato solo da una parte, quando l’unica cosa a essere indubitabile in una nascita è la madre. Mi viene da pensare che il cognome del padre risponda a questo complesso di inferiorità: una certezza simbolica contro una certezza reale. È vero anche che il cognome di quella ragazzina che abbiamo cercato invano dopotutto era il cognome di suo padre e poi di suo nonno, penseresti a loro se un giorno lo trovassimo? Io tendo a considerarmi la somma delle persone che hanno contribuito a generarmi, conosco i loro cognomi e me li rammento spesso, ma oggi non vedo più il fatto di avere un solo cognome, quello di mio padre, un limite: ho imparato che la famiglia è molto più grande di questo. È giusto che oggi le persone venga dato in automatico il cognome di entrambi i genitori, in modo che essi in possano scegliere per i propri figli. Dopotutto aggiungere il cognome del lato materno della famiglia non è mai stato un problema per i grandi casati che si univano: anche nell’araldica, che è la rappresentazione grafica degli stemmi di famiglia (che spesso parlano dei loro cognomi) i quarti sono ben delineati e il cognome stesso prima del 1300 era una cosa diversa da quella che intendiamo oggi. Lo stesso cognome Windsor è una scelta relativamente nuova e in qualche modo eterodossa. Perché dovrebbe essere un problema per noi? Però abbiamo chiamato nostro figlio con un solo cognome, il mio, se avesse un fratello o una sorella come ci comporteremmo? Mi spaventa che due fratelli di sangue possano avere cognomi diversi.

M.P. Il giorno in cui abbiamo deciso di dargli solo un cognome, il tuo, e quando è stato scelto il suo nome, ricordo di aver pensato che il cognome è quello che sei stato, e il nome è quello che sarai. Per questo, per scherzo ma forse no, ti ho proposto che avremmo dato solo il tuo cognome se a me fosse rimasta libera scelta sul nome: se tu determinavi il passato, spettava a me lanciare uno sguardo verso il futuro. Quel che è chiaro è che Cosmo Trevisani sarà quello che deciderà di essere e che noi gli abbiamo dato solo una casa da cui partire. Suo fratello o sua sorella seguiranno lo stesso percorso, che è quello di un figlio o di una figlia frutto della mescolanza dei nostri geni e ai quali daremo il dono del tempo, come abbiamo fatto con il primogenito. Se sarà automatico il doppio cognome, allora chiederemo di rimuovere il mio, al quale non sono legata e non certo per disaffezione nei confronti del mio amato padre, ma proprio perché ho più fiducia in quel che saremo che in quel che siamo stati e perché, certo, due bambini nati con gli stessi genitori non possono avere cognomi diversi, sarebbe come metterli in un campo di battaglia con le nostre mani e invitarli allo scontro. 

M.T. In un ramo della mia famiglia a un certo punto ho trovato un documento di battesimo di inizio Ottocento dove sotto la riga in cui prendeva posto il nome del padre c’era scritto: incerto. Quella bambina, Maddalena, venne riconosciuta soltanto dalla madre e quindi prese il suo cognome: Ragni. Anche questo è un passato sul quale edificare. Tolta finalmente la potestà che partiva dal matrimonio ogni cognome è in realtà sia materno che paterno ed è giusto fare in modo che le trame non si perdano, che le linee di sangue possano essere ricostruite. Nel Concilio di Trento fu dato ordine ai parroci di tenere traccia dei cognomi al fine di evitare le consanguineità e quel cognome fu quello del padre. Una scelta sbagliata ha prodotto una consuetudine così radicata nei secoli che ha permesso ai genealogisti di tracciare con certezza linee antichissime: il compito di chi fa genealogia oggi è quello di tenere in mente la sostanziale patrilinearità dell’approccio tenuto finora e provare a cambiarlo. Ogni albero genealogico dovrebbe essere una tavola per quarti. Col doppio cognome automatico, come nei paesi ispanofoni, se verrà mantenuto un rigore nella scelta in cui essi appaiono (quale che sia), i genealogisti che lavoreranno tra trecento anni avranno vita più facile della mia, che per scovare i cognomi delle madri devo scandagliare sempre più a fondo. Fantasia e stato civile non vanno molto d’accordo, forse giustamente.

M.P. A me pare che le madri abbiano bisogno di vedere riconosciuti i propri sforzi, costruire un essere umano dentro di sé, partorirlo e accudirlo intensamente per i primi mesi e i primi anni, non è qualcosa che può risolversi con un semplice ringraziamento a mo’ di letterina per la festa della mamma. Quello che ricordi tu, ovvero che tenere traccia dei cognomi avrebbe evitato la consanguineità, poteva avere una funzione e un senso fino a non molto tempo fa, ma oggi le cose sono diverse e le leggi si cambiano di pari passo all’evoluzione umana e culturale. Per i primi tempi sarà più difficile tenere il computo degli avi, di chi c’è stato prima di noi. Ma il nostro compito è lavorare sul presente, fare in modo che ci sia equità e riconoscere a entrambi i genitori pari dignità. Il cognome paterno, conferito alla nascita, ha tutta l’aria di essere un premio: se la donna ha il privilegio di dare la vita, l’uomo deve avere il privilegio di apporre un’etichetta a quella vita e di renderla propria, simile a quella dei suoi padri. C’è una forma di appropriazione, in questo, che non credo faccia molto piacere alle donne. Il marchio sul figlio è una cosa ancestrale, che ricorda i clan, le lotte per il fuoco, le divisioni di territori e il tracciamento dei confini. Con la storia che la madre è sempre certa si è tolto di fatto alle madri il diritto a riverberarsi negli anni a venire, un sasso che lanciato nell’acqua non produce piccole onde ma solo un rumore sordo per finire negli abissi. Credo sia importante riaffiorare, ora, da quelle profondità e far sentire che ci siamo state anche, e forse soprattutto, noi.